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PARTE X
(continuazione 4)

Vico San Giuseppe

Vico San Giuseppe

Largo San Giuseppe

Quando non era il tempo di gelati, in genere, vestiva da musicante, passava con facilità dalla tromba al trombone, dal bombardino alla cornetta, dal clarinetto al sassofono, supplendo alle deficienze dei compagni di banda, non molti (sei-sette elementi), che lui stesso reclutava e organizzava per suonare nelle processioni rionali, nelle ricorrenze familiari, nei matrimoni e, particolarmente, affogato di lavoro era durante il periodo di Carnevale.
Dal 16 dicembre prendeva la sua ciaramella, da solo o con un compagno, e svolazzava, non proprio come una farfalla, magari come una farfalla sgraziata, per via delle sue deformità, di vico in vico, di porta in porta per il « Tu scendi dalle stelle... o Re del cielo... », cantato e suonato.
Era sempre pronto e sempre a disposizione di tutti e tutto-fare e sapeva, veramente, fare tutto, per la sua ottima intelligenza, il suo buon senso, le sue mani d'oro.
A guardarlo veniva rabbia a pensare che la natura si fosse così perfidamente divertita a creare quello sgorbietto nano, in cui testa e pancia sembrava si incastrassero in un piccolo ellissi, costituito dagli arti inferiori. Ma egli non se ne doleva, non imprecava, non bestemmiava, perché, sicuramente, non sapeva bestemmiare, non era complessato né si creava complessi, preso come era da quella specie di smania di lavorare e di fare qualsiasi lavoro.

Vico Sant' Rocchitiedd' e Rivezzi

La Torre della Gallina dalle Uova d'Oro

Vico Giordano Bruno

Non conobbe la disoccupazione perché aveva volontà di lavorare, gli piaceva lavorare, si realizzava nel lavoro e in qualsiasi lavoro perché il « lavoro nobilita », non avrebbe avuto la forza di vivere da « cassintegrato », ammuffendo nell'ozio, e, tantomeno, avrebbe sopportato la mortificazione della « mano tesa », era troppo intelligente e troppo dignitoso. Non pretese la poltrona dietro la scrivania, aspettando con la lagna, non la spinta o la raccomandazione, facendo su e giù per determinate scale, bussando a determinate porte, ma si fece lustrascarpe, gelataio, musicante, zampognaro, servitore per vivere decorosamente, come visse, con la sua famiglia, in due povere, ma pulite stanzette del vico Giordano Bruno, a fianco al forno, oggi, diventato « Pasticceria ».
Questo era Camillo Mancuso, detto Mancusiedde, ma senza cattiveria, nessuno sarebbe stato capace di fargliene, ma solo perché era piccolino. Avrei potuto farne anche a meno di nominarlo perché è nel ricordo e nel cuore di tutti, dai miei coetanei a quelli più anziani di me a quelli più giovani, l'ho nominato per rendergli omaggio, lo merita, e per farlo conoscere ai giovanissimi, che, per fortuna, mostrano interesse per il passato della città, negli uomini e nelle cose. Sono contento che vi siano questi giovani, che io abbia conosciuto questi giovani perché se non rinnegano il passato significa che sono essi sicuramente il presente e saranno il futuro della nostra città.
Il povero Camillo si spense, non molto vecchio, fra sofferenze strazianti per un tumore malignissimo, che, in breve tempo, gli invase faccia, collo, cranio, un vero disastro ed una morte che, certamente, non meritava. Ricordo con raccapriccio le sue strazianti implorazioni, quando mi vedeva passare « Duttore mie... fallo p' carità... damme 'ncarch' cosa p' stù uaie e p' stì dulori ».
Di ciò che ruotava intorno all'abitazione del povero Camillo non ho antichi ricordi ma c'è sempre Michelino Pergola, che mi viene in aiuto « La vivacità del Mercato straripava fino al Largo San Michele, occupato da venditori di meloni e fichidindia, e s'arrestava al limite della cosiddetta porta di Mosca. Al di là un minaccioso silenzio proteggeva i traffici misteriosi dei coboldi che affollavano le mille cantine dell'extramurale. In una di esse avevamo il covo. Nell'alito gelido di mostruose botti la fantasia scatenata della droga — fave, cìceri e lupini — ci sospingeva a conquiste esaltanti di pirateschi tesori e di smancerose sartine ».
Continuando per la via Pretoria si incontravano ancora negozi, il bar dei genitori del nostro caro poeta dialettale Mario Albano, la farmacia Dente, i tessuti di Raffaele Laturca, all'anagrafe Marino, Ferramenta Santoro, la sala da barba di don Carluccio Viggiani, Nase Scazzare salumeria, i giocattoli Vinciguerra, la ditta Meuzone per scisce e bottoni. E sono, così, giunto al confine tra la via Pretoria e Portasalza, che era presidiato da un avveniristico bar automatico. Introducendo scisce e bottoni in apposite fessure facevamo sortire da argentee asettiche nicchie caldissime birre gelate.
Dirimpetto, una frequentata bottega nella quale flatulenze di petrolio e candidina corrompevano il respiro di tortani e filoni. Venivano allora dai paesi vicini a comprar minutaglia di pasta e pane del municipio per gli ammalati gravi. (E' sempre Michelino Pergola).
Ma il confine era anche segnato da un vicolo, come tanti, come tutti, e che sarebbe entrato nel mucchio dimenticato se non fosse stato reso celebre da un verbale di una signora guardia di città, ligio al dovere, nel rispetto dei suoi superiori, dei suoi concittadini, della sua città: Quintana Grande.
Si lesse nel verbale, riferisco per sommi capi perché non ho il testo originale né so se esista ancora fra i documenti municipali, « Verbale d'imperlustrazione - Ieri sera nel ciro d'imperlustrazione per le vie dela cità m'imbattei, in località Quintana Grande, in un catafro quasi morto interocatolo quale non rispose né declinò le sue ceneralità. Chiamato aiuto ca il cielo si scurava s'affacciò una feminella e cacciata una scanatora adaciato lo quale non si mosse ».
Non ho ricordi della Portasalza ma ho ricordi precisi di via Pisacane, del forno, del Larghetto Pisacane, della fontana. In un basso di fronte proprio alla fontana, in una torrida notte di luglio, resa ancora più penosa dall'ambiente, tra rivoli di sudore, che mi scendevano da tutte le parti e finivano dovunque, assistetti al parto podalico di due gemelle. A cose fatte, un po' perché ai mariti era proibito assistere e un po' per assoluta mancanza di spazio, già eravamo in troppi, mamma, suocera, mammana, io e cummara, entrò il marito, che, con l'espressione più incazzata che preoccupata, si rivolse alla moglie così: « E che cazzo... nunn' t' n' bastava una n'hai fatte doie.. hamma solo arbe lu cunvento... ». E pensare che, proprio di fronte abitava un sarto con tanti figli e quasi tutte femmine, ma non si lamentava, anzi, continuava imperterrito a procrearne altri, tanto è vero che, parlando della moglie, la gente diceva: « Nunn' fà a tempe a sfrattà ca già s' enchie n'ata vota ».

Via Pisacane

Quintana Grande

Ricordo il vico Pisacane per aver visto nascere tanti bambini e per essermi consolato a vederne altrettanti sgattaiolare fra le mie gambe o arrampicarsi con manine e piedini lungo le « appese » scalette per raggiungere la loro abitazione, ricordo, così, frugoletto vivace, il buon Tanino Fierro, attuale Sindaco della Città, come i suoi cugini e le sue cugine, le sue zie, mie clienti affezionate. E vi è anche il ricordo triste. Era stato rinviato a casa il mio compagno di scuola Rocchino Ricotta, maresciallo pilota, in condizioni di grave e irreversibile scompenso cardiaco. Andavo a trovarlo anche due volte al giorno, per un aiuto psicologico perché altro non vi era da fare, ed egli mi riceveva sempre con un sorriso speranzoso, che mi rattristava ancora di più. Lo vedevo sempre più peggiorare e mi auguravo che non morisse proprio durante una mia visita, non volevo rimanere con l'immagine del compagno morente e, ero sicuro, di non avere troppa forza per poter assistere al suo trapasso. E invece... lo lasciai la sera tardi che respirava appena, con la convinzione che morisse durante la notte, comunicai ai familiari la mia impressione... il mattino seguente, come al solito, prima delle otto, mi presentai ma Rocchino era ancora vivo, mi vide, per un attimo si illuminarono gli occhi e, mentre sussurrava, con l'ultimo fil di voce che gli era rimasto, « ah!... sì venù... meno male... » li richiuse per sempre. Mi aveva atteso per l'ultima volta e per l'ultima volta mi aveva salutato ma io non ebbi la forza di ricambiargli la sua cortesia perché scoppiai a piangere e scappai, quasi mi fosse caduta una tegola sulla testa.
Attraverso una manciata di gradini dal vico Pisacane si andava al sottostante vico Umberto I, chiuso a monte, aperto a valle sul Corso Umberto I. Ricordo di essere passato sempre distrattamente e di fretta, non era mio feudo professionale, gli abitanti erano tutti affidati alle cure premurose di don Umberto Petruccelli, prima, del figlio Alberto, dopo.
Il vico si vendicò con me, per averlo snobbato, facendomi cadere nel laccio d'amore di una sua creatura, che aveva visto la luce al suo n. 38, che l'aveva rallegrato con i suoi giochi infantili, le grida gioiose di ragazza e che non vide, forse per naturale e non certo voluta ritorsione di cortesia, né sposa e né mamma, perché, dopo un breve soggiorno a Montereale, stabilimmo la nostra dimora alla via Beato Bonaventura.
Fu una vendetta dolce per quel che mi ha donato come moglie e per quel pizzico di amore in più, che mi ha iniettato per la vecchia Potenza, immolando il mio celibato, anche troppo lungo, in un vico del cuore antico della città e con una potentina.
Scendendo da Portasalza sulla sinistra, attraverso il vico Orazio Fiacco, ci si immetteva in un insieme di casette e vicoletti della via Generale Gabet, che, verso la valle, formavano il Rione Ciunnella. Era la zona per la Fiera, più famosa era quella di autunno, detta « dei zanghi », forse perché capitava sempre con la pioggia.
Si vendeva di tutto, dagli alimentari, al vestiario, alle calzature, agli attrezzi casalinghi e per i mestieri o per i contadini, alle cose futili, ma si commerciavano, innanzitutto, animali, cavalli, muli, asini come vacche, capre, pecore e maiali. Non le ho frequentate perché non avevo da vendere e tantomeno da comprare ma so che le fiere costituivano i momenti degli affari e della circolazione di un po' di soldi. Vi erano degli artigiani che lavoravano solo per le fiere, nelle quali riponevano le loro speranze e le loro ansie.

Slargo a Portasalza
Muli a Portasalza

E da Ciunnella si saliva a Montereale, che era una zona periferica e rurale, dove era avvenuto qualche fatto di sangue, qualche suicidio vero, qualche suicidio fasullo per amore incompreso o respinto, ma dove i giovani volentieri andavano a fare un po' di sport, dove si menava « la padda abbadd' e 'mmont' », dove si conobbero le prime glorie del Potenza F.C..
Dalla strada a destra di Portasalza, dopo la chiesetta di Santa Lucia, che secondo Michelino Pergola « terrorizzava i bambini per quel suo tegamino in cui due occhi spaventosi tremolavano come tuorli pronti per la friggitura » o attraversando le casette del Rione Santa Lucia, fra botteghe artigiane e muli e mulattieri, si imboccava la via Mazzini, che direttamente portava a Santa Maria.
E' il mio ricordo va subito alla via Angilla Vecchia, che mi vide in fasce, che conobbe la forgia di mio padre, i suoi sacrifici, i sacrifici di mia madre, di noi tutti, in quella povera, piccola strada di campagna, che costeggiando la villa comunale, attraversava Verderuolo per inerpicarsi faticosamente verso la contrada Sicilia, qua e là rallegrata da qualche casetta.
Presentava, proprio davanti alla forgia di mio padre, con un certo orgoglio, una lunga vasca, che serviva da abbeveratoio agli animali che tornavano dai pascoli o dalle fatiche dei campi, rifornita, continuamente di acqua da sei o sette faccioni scolpiti nella pietra.
Ma anche l'Angilla Vecchia è, ormai, un ricordo, ha seguito l'evoluzione dei tempi, ed è diventata una strada cittadina, con il tennis, là dove era la fontana-abbeveratoio, fiancheggiata da palazzi alti, continuamente strisciata dalle gomme di numerosi, vari e variopinti automezzi, carezzata dalle suole sottili di moderne calzature, eleganti, dalle forme più strane, trascinata a vivere la sua nuova vita con i suoi nuovi clienti, grandi e piccini, più ben vestiti.
Ha perduto le sue caratteristiche di strada di campagna povera ma ha perduto anche la sua bellezza semplice e poetica; da quando non è più lacerata dai ferri e dagli zoccoli dei vari animali ha perduto la sua schiettezza e naturalezza e si è sofisticata così come si sono sofisticati i tempi e gli uomini; da quando ha perduto i suoi vecchi clienti, bimbi ingenui, rivestiti di stracci e uomini semplici dai loro caratteristici « scarponi » ha perduto chi la amava e chi la considerava.
Non c'è più la forgia, non ci sono gli animali che aspettavano di essere curati, ferrati, non più i contadini che aspettavano i loro strumenti di lavoro ma non vi è più la campagna, il profumo dell'orto, il verde, l'aria pulita e non c'è più, purtroppo, il respiro di quegli uomini, che, prima che facesse giorno, erano già al lavoro o nella via per andare al lavoro, che non vedevano una lira perché vivevano dei prodotti della terra o dei loro animali e pagavano in natura, anche mio padre riceveva « lo staglio », grano ed altro, ma sempre dopo il raccolto.