IL
MONTE SARACENO
Il
Santuario Maria SS.ma del Monte Saraceno!, sorge a circa 1320 mt. s.l.m.,
appollaiato sulla cima di uno sperone roccioso a ridosso del Volturino.
La sua collocazione è quanto mai suggestiva. Il Tempio domina tutta la
vallata, che, dal monte di Viggiano si allarga e si stende fino a
Caperrino, in un mare di verde interrotto da larghe radure, e
attraversato dal fiume “Piesco”.
Il silenzio profondo, e la quiete dolce e riposante, sono allietati
piacevolmente dai trilli, gorgheggi e cinquettii delle molteplici
varietà di volatili che lassù trovano sicurezza, libertà e possibilità
di sviluppo. L’aria calma e ossigenata dà un senso di benessere, mentre
la mente si rischiara e l’animo si apre e si eleva a pensieri di
ottimismo e distacco dalle umane miserie.
Il tempio, dall’alto del roccione bianco, occhieggia candido tra il verde,
come un faro di luce abbagliante. E! un punto di riferimento per quanti
attraversano la valle, o si dedicano alla coltura dei campi, o
custodiscono mandrie e greggi.
La denominazione di “Monte Saraceno!!, alternata all’altra di “Castel
Saraceno!!, riportata in vari documenti, è di origine ignota. Con ogni
probabilità, da alcune tracce che tuttora si intravedono, si può pensare
che lassù sorgesse una postazione militare, prima Longobarda poi
Saracena.
I Monaci Benedettini vi edificarono, poco distante dai ruderi della
presunta postazione militare, l’attuale tempietto. La sua forma
architettonica estremamente semplice, è caratteristica ed unica nel suo
genere. E’ una struttura a botte ,le cui doghe sono costituite dalle
robuste muraglie a strapiombo sui dirupi che la circondano.
Quando ancora non era affiancata dalla costruzione posta al lato sud, il
tempio, visto dagli ultimi orizzonti, sembrava un guscio, con al vertice
un piccolo arco, ospitante una campanella dal suono squillante, che
spandeva onde argentine all’infinito.
Si accede al Santuario per una stradella breve che si inerpica ripida e
difficile su uno fondo ghiaioso e sdrucciolevole, e che sbocca
improvvisa di fronte al Tempio. E’ tradizione, rigidamente osservata,
che non si entri nel luogo sacro senza aver prima percorso per tre volte
il suo perimetro, salmodiando e cantando nenie, che si rifanno ai primi
tempi dei padri Benedettini.
Dopo un viaggio, fatto a piedi, lungo e faticoso, sudato e stanco, con
l’appendice dell’ultimo tratto erto e scabroso, il pellegrino varca la
soglia del Santuario, e si trova dinanzi la Sacra Effige della Gran
Madre di Dio.
La povertà e la semplicità del Tempio sono estreme. Sulle pareti tinte a
calce, non una linea, non un segno: sono assolutamente nude! Eppure la
luce chiarissima che inonda l’aula, attraverso il largo vano del
portone, crea riflessi d’oro in ogni angolo e spande raggi luminosi che
i cristalli dell’urna riflettono tinti d’azzurro, sul volto dolcissimo
della Vergine.
L’altare in muratura di calce e gesso, di nessuno interesse artistico, ha
al sommo, in un riquadro di luci al neon, l’invocazione che è su tutti i
labbri frementi e pii: “REGINA DEL MONTE SARACENO, PREGA PER NOI”.
La commozione nei fedeli è intensa; tutti pregano, tutti espongono i loro
bisogni, tutti invocano l’intercessione della Madre Celeste.
L’attuale statua è una ricostruzione fatta con i resti dell’antica copia
del simulacro ligneo, dorato, bizantino della Madonna detta “de Plano”,
che i Benedettini apprestarono per il Monte Saraceno. La copia rovinò,
in uno alla chiesa parrocchiale, nella quale era custodita, in seguito
al terremoto del 16 dicembre 1857.
L’artista napoletano che ne ricompose i pezzi, recuperati tra le macerie,
legandoli con cartapesta, diede all’effige una espressione dolcissima ed
intensa.
Nella mano sinistra ha una rosa d’oro, mentre la destra è in atto di
mostrare il Figlio. E’ seduta con il Bambino in piedi, tra le ginocchia.
L’urna che la custodisce, detta comunemente “Caggia”, dal latino
“capsula”, è un’opera finissima di prestigiosi artigiani locali, ricchi
di fantasia e dalle mani esperte. E’ di legno durissimo e pesante, è
scolpita a mano, le lesene delle colonne, i capitelli, le basi e la
cimasa sono perfettamente legate in una armonia di linee e di
proporzioni, nobile e classica.
E’ certamente una riproduzione fedele dell’antica “Caggia”, creata molti
secoli prima, e che i padri ci hanno tramandato. Essa resta nei ricordi
più cari di quanti hanno, anche una sola volta visitato il Santuario.
Intorno ad essa si addensano ben 8 secoli di storia cittadina, di pietà,
di speranze, di grazie ricevute. Ancor oggi, come ieri, e come sempre,
si contende, talora anche troppo vivacemente, l’onore di portarla sulle
spalle.
I Marsicoveteresi, per secolare tradizione, mai interrotta, la prendono là
dove svettava, alto ed imponente l’indimenticato “FAGGIO A SEI”, e se la
trasportano, con pietà e devozione, fino alla “Piana”, ove i calvellesi,
senza concedere neppure un metro in più, la riprendono formando la
famosa “catena”, non solo per facilitarne l’ascesa, ma per esprimere un
significato profondo: l’unione dei cuori, stretti nell’amore alla Regina
dei Cieli.
Il Glorioso simulacro è stato incoronato dal Rev.mo Cap. Vaticano, il 9
settembre 1947, in una apoteosi di innumeri pellegrini, accorsi da ogni
parte.
E’ questa una data memorabile nella pur gloriosa storia del Santuario. Da
allora i pellegrinaggi si sono moltiplicati, e la devozione è cresciuta
notevolmente. L’oro occorrente per le corone della Vergine e del
Bambino, fu offerto in una entusiastica gara, da tutte le famiglie
calvellesi e dai numerosissimi devoti dei paesi limitrofi. Se ne
raccolse a sufficienza: circa 2 Kg. Si ottennero due diademi,
confezionati e cesellati da un ottimo orafo di Napoli. Vi furono
incastonate numerose pietre preziose di grande valore e bellezza.
Il dì della incoronazione, le corone, sistemate su due cuscini rossi di
porpora, sorretti dai padrini, spandevano lampi di luce e riflessi di
cielo, non tanto per la preziosità del nobile metallo, quanto per la
fede e l’amore di tutto un popolo, che viveva il suo giorno più bello. I
festeggiamenti, arricchiti da usanze, e da un folclore contenuto e
distinto, si celebrano la seconda domenica di maggio, quando la statua
viene trasportata dalla chiesa parrocchiale al santuario, e l'8 e 9
settembre, quando vi fa ritorno. Per le circostanze si crea un atmosfera
di gioiosa letizia. Tutti sentono l’impellente bisogno di accompagnare,
a piedi o con altri mezzi di locomozione, la statua racchiusa nella
“Caggia”, o di andarla ad “affrontare” alla “cerza del miglio”, o alla
“Potentissima”, o ai “cern Falconi”.
I calvellesi sparsi per il mondo, ritornano al paese natio, e partecipano
attivamente ai festeggiamenti. L’azione pastorale che si svolge nel
santuario è intensa e proficua. Moltissime anime ritrovano ai piedi
della Vergine SS.ma la tranquillità e la pace. Dal Sacro Monte si
riparte, con impresso nel cuore il dolcissimo sorriso della Madre e la
ricchezza del suo amore.
Intorno al Santuario, alla Sacra Effige, alla “Caggia” e al territorio
circostante, sono fiorite, lungo il corso dei secoli, molte credenze,
nate dalla fantasia popolare, che, se denotano il fervore che animava le
passate generazioni, e la grande devozione alla Vergine, non resistono
ad una severa indagine, e ad una serena critica storica. Così la
cosiddetta “Grotta dell’Eremita”, non ha mai ospitato nessuno.
E’ un incavo nella roccia poco sottostante al Santuario, affatto profonda.
S’affaccia su un dirupo a strapiombo di un baratro quasi inaccessibile. La
credenza, nata non si sa quando, la vuole sede di un religioso
solitario, che vi avrebbe trascorso la vita nella solitudine,
macerandosi le carni, e in contemplazione da mane a sera. Ma
l’ubicazione, la strettura e i dintorni lo escludono del tutto. Essa non
sarebbe stata scelta neppure da uno “Stilita”, che è tutto dire;
figuriamoci da un eremita, che pur nella povertà e nelle privazioni, non
può fare a meno di alcune esigenze estreme, pena la vita stessa.
Altrettanto si dica del “ritrovamento miracoloso” della statua, in seguito
ad un sogno; e l’ubicazione della prima chiesetta, che dall’acqua delle
bocche” o da altri siti più o meno lontani, sarebbe stata trasferita
nell’attuale sede. Le notizie che si hanno della collocazione da sempre
là ove si trova, sono così certe che non lasciano spazio ad alcun
dubbio.
E’ pure credenza, tuttora viva e attentamente seguita, che dal viso della
statua, quando a settembre torna in paese, si può pronosticare il
proprio futuro e quello della comunità, in senso positivo o negativo, a
seconda di come ognuno crede di vederla atteggiata a benevolenza o a
tristezza.
E’ spenta, invece, la credenza , durata moltissimi anni, e fino alla
costruzione del ponte nei pressi del mulino, che il Simulacro resistesse
a farsi trasferire dal paese al tempio sul Monte Saraceno, imprimendo ai
portatori, al momento dell’attraversamento del fiume “La Terra”,
movimenti avanti e indietro e quasi inchiodandoli nelle acque. Ma quando
un Arcivescovo, volendo vederci chiaro, obbligò i sacerdoti a prestare
le proprie spalle per l’attraversamento del fiume, i misteriosi, alterni
movimenti cessarono, e l’altra riva fu raggiunta facilmente. Tuttavia la
credenza rimase, e chi subì apprezzamenti non del tutto positivi, con
furbeschi ammiccamenti, fu il Clero!... come sempre.
Il folclore della Sagra si accentua dopo i riti religiosi, giù sotto il
roccione, con al sommo il Santuario.
Nella “piana” brulica una folla variopinta di gente d’ogni età e
condizione, venuta da ogni parte. E’ una festa di colori e di canti, gli
innumeri organetti, pifferi e cornamuse spandono nel cielo,
profondamente azzurro, armonie di gioia, e i fedeli intrecciano nenie e
“capitoli” in onore di Maria. I venditori di alimentari di ogni genere,
sono letteralmente presi d’assalto: è l’ora dei bivacchi.
L’atmosfera è pregna degli odori stuzzicanti delle salsicce, dei polli,
delle “porchette” e di ogni altra carne: capretti e agnelli messi al
fuoco sui girarrosti improvvisati con forche e spiedi, ricavati dai rami
di faggio.Allegri capannelli di commensali, per lo più formati da
familiari, si stendono sui prati in fiore, all’ombra di faggi alti e
schietti, o si accampano all’acqua di “Colantonio”, tanto generosamente
provvida a dar la giusta freschezza alle “iasche”, “iaschette”,
“iasconi” e “iascuncieddi” immersi nelle acque gorgoglianti, limpide e
chiare.
Quando poi il vino, abbondantemente tracannato, sulle richieste delle
frittate, peperoni, salsicce e soppressate così piccanti da far tirare
il fiato, comincerà a dare i primi segni di vita, ecco le tarantelle e i
balli campestri impazzire fino a sera, investendo tutti: vecchi e
giovani.
Si ritorna poi a casa stanchi, ma soddisfatti per una giornata di gioia
serena e di sana letizia.
La grande affluenza di gente, che come sopra detto, da ogni parte, e non
solo in occasione della sagra, spinta dal fervore religioso si reca
lassù, dovrebbe poter trovare le infrastrutture indispensabili per una
permanenza piacevole e distensiva quali: posti di ristoro, campi di
giochi, distrazioni varie, tavoli disposti nel bosco circostante,
energia elettrica,canalizzazione dell’acqua, servizi igienici. Purtroppo
ciò manca del tutto.
Per far decollare la località, dotata di tante ricchezze, che la natura ha
sparso largamente: panorami vasti e stupendi, aria pura e salubre,
profumata per gli olezzi di tante erbe e fiori, baschi e faggeti,
sorgenti copiose di acque purissime, prati e radure, declivi dolcissimi,
flora e fauna, occorrono sensibilità e chiaroveggenza per lo studio e la
soluzione dei vari problemi connessi col territorio, nonché larghezze di
idee e iniziative, che spesso difettano! Ed è una vera iettatura! In
quanto lo sviluppo turistico della zona, concorrerebbe ad alleviare la
disoccupazione, arrestando la forte emorragia di forze giovanili,
costrette ad emigrare, ed ad imprimere alla cittadina un volto nuovo.
da: "Calvello -
storia, arte, tradizioni"
di Luigi De Bonis
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