CIVILTA' BIZANTINA IN BASILICATA
III. MONACHESIMO E VITA RELIGIOSA
Più che i sacerdoti diocesani, quasi tutti, come si è già notato, sposati
e con famiglia, ebbero autorità, sulle popolazioni dell'Italia
meridionale, i tanti monaci che, prima in Sicilia e poi in Calabria, in
Lucania e nel Cilento, trovarono come una nuova Tebaide che ricoprirono
di un'infinità di cappelle, di chiese e di monasteri (1). I monaci
bizantini sono abitualmente chiamati "Monaci basiliani", ma la
denominazione è inesatta e,- certamente, di origine occidentale. Anche
più inesatta è l'espressione di "Ordine basiliano", in quanto S. Basilio
non pensò mai a fondare un ordine religioso, nel senso moderno del
termine, e nemmeno una congregazione, nel senso di raggruppamento di
vari monasteri (2). In origine ogni monastero era indipendente, retto
dal suo igumeno e governato dalla regola che il suo fondatore aveva dato
al monastero stesso. Solo più tardi si ebbero delle "Congregazioni" cioè
dei raggruppamenti di molti monasteri intorno ad uno più celebre ed
importante retto da un archimandrita.
Il monachesimo bizantino passa attraverso tre stadi di sviluppo: è, in
origine, eremitico; il monaco è veramente tale, vive, cioè, nella più
completa solitudine. Diventa, quindi, lauritico: il monaco vive solo,
per lo più in una grotta, ma in altre grotte vicine vivono altri monaci,
e in alcune occasioni particolari, come feste, uffici e preghiere
speciali, tutti si riuniscono insieme. Il terzo stadio consiste nel
cenobitismo: si ha, cioè, come dice il nome stesso, una vita in comune
in un cenobio propriamente detto; nel cenobio si ha un superiore, e
tutto vi è in comune, persino gli indumenti.
Questi tre stadi del monachesimo si incontrano in ogni regione. In una
regione si può avere un tipo di monachesimo meglio organizzato in senso
moderno e in un'altra uno più primitivo.
Il monachesimo non nasce a Bisanzio, bensì in Egitto ove, già nel IV
secolo, si ha, con S. Pacomio, un'organizzazione perfetta di tipo
cenobitico. Ma, certamente, in Egitto, anche dopo S. Pacomio, continuano
a vivere monaci che cercano la perfezione nella vita eremitica e
lauritica.
I monaci dell'Italia meridionale furono, all'inizio, eremiti. Giunsero in
Calabria già nel secolo VII (3). Provenivano dalla Siria, dalla Libia,
dall'Egitto: lasciavano i loro paesi devastati dalle prime invasioni
arabe (636-638). Questi monaci attraversavano il mare con mezzi di
fortuna e giungevano in Sicilia donde, poi, molti passavano in Calabria.
L'emigrazione continuò nel secolo VIII, anche in seguito alla
persecuzione iconoclasta scatenata, nel 726, dall'imperatore Leone III
Isaurico. E, a questo proposito, bisogna notare che i monaci che
venivano in Italia per sfuggire all'ira iconoclasta (e non furono in
numero stragrande, come si era pensato da alcuni (4)) dovettero
dirigersi verso le zone dell'Italia meridionale longobarda (Calabria
settentrionale, Lucania, Campania) essendo le regioni italiane
direttamente dominate dai Bizantini tenute all'osservanza delle stesse
leggi vigenti nelle zone orientali dell'Impero: se in Oriente era
proibito il culto delle immagini, questo era proibito ugualmente nelle
regioni bizantine italiane. Si ha, del resto, qualche prova di
persecuzione iconoclasta anche nell'Italia meridionale (5). Nacquero
allora, certamente, i primi stanziamenti monastici del monte Bulgheria,
a sud di Salerno, e del Mercurion, al confine calabro-lucano.
L'importanza di queste sedi monastiche, poste sui monti ai confini
calabro-lucano-campani, crebbe in seguito all'invasione araba della
Sicilia, regione che nel 902 (caduta di Taormina) era già totalmente
sotto il dominio musulmano. Quasi tutti i monaci che vivevano in Sicilia
passarono, allora, lo stretto, ma, naturalmente, non si fermarono né
all'estrema punta meridionale della penisola calabrese, né sulle coste,
ove tanto frequenti erano le scorrerie saracene; andarono, invece, più a
nord e cercavano luoghi montani che, sebbene, anch'essi, soggetti a
qualche assalto dei Musulmani, erano, pur sempre, luoghi abbastanza
riparati.
Nel secolo IX, quando la Sicilia cadde sotto il dominio degli Arabi, il
monachesimo greco dell'Italia meridionale è ancora di tipo eremitico e
lauritico. Solo nel secolo seguente sorgeranno i primi veri monasteri,
anche se molti asceti continueranno, anche in seguito, a cercare la
perfezione in una vita di perfetta solitudine.
I santi monaci italo-greci, fondatori dei più antichi e più celebri
monasteri dell'Italia meridionale e maestri di santità per tanti uomini
desiderosi di perfezione, ci sono noti attraverso le "Vite" giunte fino
a noi. Queste narrazioni, sebbene seguano uno schema comune e, per così
dire, ufficiale, sono del massimo interesse, sia perché ci fanno
conoscere la spiritualità degli eroi di cui trattano, sia per le tante
notizie storiche che ci forniscono.
Il più antico bios (vita) a noi giunto è quello di S. Elia, detto "il
Giovane", di Castrogiovanni (Enna) (6). S. Elia il Giovane, dopo molte
peregrinazioni, si fermò in Calabria ove fondò il celebre monastero di
Saline (7).
In relazione di amicizia con questo Elia di Castrogiovanni fu Elia di
Reggio, detto "Lo Speleota" il quale prima visse nella solitudine, ma,
alla morte di Elia il Giovane, ebbe, da questo, il monastero di Saline,
per ritornare, poi, alla vita eremitica (8). Nella Calabria meridionale
vissero anche S. Filareto (9), nato nella Siria nel 1020, e S. Nicodemo
(10) che, nato a Saline, non se ne allontanò mai molto, cosa veramente
rara per quei monaci che avevano come principale caratteristica quella
di passare, per quasi tutta la vita, da un luogo all'altro.
Molti monaci, provenienti dalla Sicilia e dalla Calabria, salirono verso
le zone settentrionali, fino a oltrepassare i confini dell'Impero,
fermandosi in territori longobardi. Ai confini calabro-lucani sorsero,
così, alcuni dei principali centri monastici bizantini. Il centro forse
più famoso del monachesimo bizantino nell'Italia meridionale, il
territorio che fu detto "Nuova Tebaide", paragonato, per il numero dei
monaci che vi abitarono e per la quantità di eremi, laure e cenobi,
all'Olimpo e al monte Athos, fu quello detto Mercurion. Questa celebre
regione monastica è stata variamente ubicata dagli storici (11); ma
sembra ormai sicura la sua identificazione con la media valle del fiume
Lao detto, in questa zona, Mercure, fra Laino, il castello di Mercurio e
Avena. Qualche anno fa, il Saletta (12) ha ripreso l'antica ipotesi già
sostenuta da Lenormant (13), Schlumberger (14), Amari (15), Rocchi (16)
e altri, secondo i quali la regione mercuriana sarebbe da ricercare
nella Calabria meridionale fra Tauriana, Palmi e Seminara; l'ipotesi,
però, sembra che, ormai, non si possa più sostenere in alcun modo (17).
Un attento esame delle notizie contenute nelle "Vite" dei Santi vissuti
al Mercurion, della toponomastica e di tanti altri piccoli dati ci dice
che il Mercurion è da collocarsi ai confini calabro-lucani. Questa
opinione, seguita, oggi, dal Cappelli, da P. Giovanelli e da altri, era
già stata sostenuta dal Gay (18) e dall'Orsi (19).
Il Mercurion non era una regione monastica isolata. Vicino e in relazione
con essa vi erano altre zone popolate da monaci, fra cui, più importante
di tutte, il Latiniano, da identificarsi, con ogni probabilità, con la
regione bagnata dal medio corso del fiume Sinni e con la zona del
lagonegrese (20). In questa regione si fermarono, per qualche tempo, i
santi Cristoforo, Saba e Macario di Collesano, i quali, provenienti
dalla Sicilia, prima passarono al Mercurion e poi nella zona del
Latiniano ove si fermarono presso un castello cui aggiunsero un cenobio
con una chiesa dedicata a S. Lorenzo (21). Di questi santi appartenenti
a una stessa famiglia (Saba e Macario sono figli di Cristoforo) il più
celebre è Saba che, fra l'altro, fondò un monastero a Lagonegro (22). La
sua "Vita" è interessante anche perché ci rivela l'organizzazione dei
monaci nell'Italia meridionale.
Della stessa generazione di S. Saba è un altro grande santo di origine
siciliana: S. Luca di Demenna (23), che, dopo un primo periodo passato
nel monastero di S. Filippo di Argiro, sull'Etna, andò in Calabria ove
s'incontrò con S. Elia di Reggio, lo Speleota, che viveva in una grotta
presso Melicuccà; di qui, poi, in seguito all'invasione della Calabria
dell'emiro Hasan, Luca risalì tutta la Calabria e si fermò presso Noia
(l'attuale Noepoli) in Basilicata. Fondò, poi, il monastero di S.
Giuliano, nell'alta Val d'Agri, e, quindi, quello dedicato alla Madre di
Dio e a S. Pietro, presso Armento ove morì, assistito da S. Saba, nel
984.
Probabilmente a causa dell'omonimia, si è confuso questo santo, di origine
siciliana e morto in Basilicata, con l'altro S. Luca, nato ad Armento e
fondatore, in seguito, del celeberrimo monastero dei Santi Elia e
Anastasio presso Carbone. Pare che questo santo di Armento, che
ricevette l'abito monastico dallo stesso S. Saba, fosse, dopo la morte
di S. Macario, a capo dei numerosi monasteri che fiorivano sui confini
calabro-lucani e che erano, in certo modo, uniti fra loro (24).
Altri santi monaci, in questo periodo, fondarono monasteri più o meno
celebri. Così S. Vitale, detto di Castronuovo (25), che, anche lui
proveniente dalla Sicilia, dopo essersi fermato prima a S. Severina, in
Calabria, e poi a Petra Roseti (forse l'attuale Roseto Capo Spulico),
passa il Pollino e giunge in Lucania dirigendosi verso S. Chirico
Raparo. Alle falde di questo monte vive per qualche tempo in una grotta
solitaria che poi abbandona per fermarsi nelle vicinanze di Missanello.
Dopo essere passato, nuovamente, presso il Raparo, ove costruisce un
monastero, Vitale, allorché anche in Lucania irruppero le bande
saracene, riparò più a nord arrivando fino al Vulture. Si i fermò,
infine, a Rapolla ove fondò un altro monastero.
S. Leoluca di Corleone (26) si fermò, invece, nella regione mercuriense.
Qui vissero anche molti altri santi di origine calabrese, fra i quali S.
Fantino (27) e, il più noto di tutti, S. Nilo di Rossano (28).
Con i monaci, già per se stessi molto numerosi, si muovevano molte altre
persone. "Cristoforo e la sua famiglia trascinano con sé in Calabria
numerosi compagni, frati o laici... I frati originari della stessa
città, sono abbastanza numerosi per formare una comunità distinta: Saba,
percorrendo i monasteri del Mercurion, visita un giorno quello dei
Siracusani, un'altra volta quello delle genti di Taormina. È molto
probabile che, dopo il 920 o 930 vi sia stata una corrente d'emigrazione
quasi continua dalla Sicilia alla Calabria e in Lucania... Molti
fuggiaschi, che non abbracciano la vita monastica, seguono i frati e
contribuiscono come essi a fortificare l'elemento bizantino... I
villaggi sorgono a lato dei monasteri..." (29). Questi villaggi chorìa,
sorti presso i monasteri, ebbero un'importanza enorme nello sviluppo
della vita civile, economica e religiosa dell'Italia meridionale, e
soprattutto della Basilicata, in questo periodo. Quando i santi
Cristoforo, Saba e Macario, provenienti dalla Sicilia, si fermarono
sulle verdi rive del fiume Sinni, nei pressi dell'attuale cittadina di
Episcopia ove fondarono il già ricordato monastero di S. Lorenzo, si
riunì, intorno a loro, un gran numero di contadini, i quali coltivavano
le terre nei dintorni della chiesa (30). È facile, quindi, immaginare i
monaci come maestri di agricoltura per i rozzi contadini delle zone in
cui si fermavano, e come cointeressati con loro nella coltivazione e
nell'amministrazione di quelle terre non ancora ridotte sotto il regime
feudale, che nel Meridione si avrà solo con l'arrivo dei Normanni. Ed è
facile capire perché, ancora oggi, tanti nomi di luoghi, nelle campagne
lucane, ricordino i Santi bizantini (S. Elia, S. Teodoro, S. Nicola, S.
Nilo ecc.) e perché tante parole, riguardanti l'agricoltura, siano di
chiara origine greca. Tutto questo ci aiuta a capire la grande
importanza che i monaci greci ebbero in mezzo alle popolazioni presso
cui vivevano, soprattutto se si tiene conto dello stato di arretratezza
degli uomini, in quei tempi, e, al contrario, della cultura, per
quell'epoca certamente notevole, che fioriva nei monasteri basiliani.
Anche se non tutti i monaci si dedicavano allo studio, per
lo meno il canto sacro era conosciuto da tutti: e per questo era già
necessaria una certa preparazione culturale. Alcuni, poi, furono uomini
veramente dotti, come S. Nilo, che prima di darsi alla vita religiosa
aveva frequentato le scuole a Rossano (31) e, dopo, divenne esperto
calligrafo ancora oggi ammirato per i preziosissimi manoscritti
conservati nella Badia greca di Grottaferrata; come il Beato Proclo di
Bisignano (32) che fu detto "vivum scientiae emporium" (33), e come il
venerato S. Fantino che, prevedendo un'invasione saracena, andava
piangendo nei boschi del Mercurion sulla rovina dei monasteri e sulla
perdita dei libri che vi erano conservati (34).
Sebbene asceti, i monaci greci, come si è già notato, restavano a contatto
diretto con le popolazioni, sia perché intervenivano negli affari
civili, quando il loro senso di carità li spingeva a ciò (35), sia
perché, dato anche l'alto numero dei monasteri e dei monaci, questi non
potevano non esercitare sui villaggi, che sorgevano, spesso, intorno ai
monasteri stessi, un'efficace opera di incivilimento e di propaganda
religiosa. L'influenza di questi monasteri sulle popolazioni in mezzo a
cui sorgevano, fu dovuta anche alla riforma operata, nell'ambiente
monastico bizantino, da S. Teodoro Studita (36), il quale non solo
organizzò i monasteri in cenobi dipendenti da un monastero principale,
ma volle che i monasteri stessi sorgessero vicino ai paesi, anzi negli
stessi centri abitati. Ecco perché, ad esempio, il già più volte
ricordato monastero di S. Lorenzo, nella media valle del Sinni, sorgeva
presso l'abitato di Episcopia, ed ecco perché, durante la sua permanenza
in questo monastero, S. Saba divenne quasi il capo di molti cenobi in
qualche modo confederati fra loro. Il Santo, infatti, apprendiamo dalla
"Vita" (37), si allontanava spesso dalle rive del Sinni per visitare e
consigliare gli igumeni dei vari monasteri sparsi nelle varie zone
monastiche del Latinianon, di Lagonegro e del Mercurion. Tale funzione,
alla morte di S. Saba, passò al fratello Macario e, dopo, a S. Luca di
Armento che l'esercitò sino alla fine della sua vita.
Ovviamente l'azione dei monaci bizantini non poteva rispecchiare se non la
mentalità, il gusto, la civiltà, la lingua, la liturgia dei Greci. Così
quando, nel 1054, si operò nella Chiesa quello che fu detto lo "Scisma
d'Oriente", i paesi dell'Italia meridionale, che seguivano il rito
greco, vennero a trovarsi, automaticamente e, si può dire, senza che se
ne accorgessero, staccati dall'ubbidienza del Papa e uniti al Patriarca
di Costantinopoli. Un documento molto interessante, in proposito, anche
se riguardante direttamente solo la Calabria, è la "Vita" di S. Luca
vescovo di Isola Capo Rizzuto, presso Crotone (38). Luca, nato verso il
1035-1040 (39), divenne vescovo di Isola quando lo scisma era già
avvenuto da alcuni anni; per lui, però, come per i suoi fedeli, non
esistevano problemi a questo riguardo: essi continuarono a comportarsi
come i loro padri si erano comportati. Separarsi dall'antica liturgia
sarebbe stato, per loro, lasciare le tradizioni dei padri e indebolirsi
nella fede stessa tramandata dagli antichi concili e dai tanti maestri
di vita spirituale, illustri per dottrina e per santità di costumi. Per
S. Luca, quindi, doveva essere una cosa naturale la sua adesione a
Bisanzio (40). L'autore della "Vita", però, scritta, ovviamente, qualche
anno dopo la morte di Luca, doveva avere un astio particolare contro i
Latini. Parlando dei Greci, infatti, li dice, semplicemente, pistoi
(fedeli), parlando, invece, dei Latini, li chiama cacódoxoi (empi) e
persino átheoi echtrói (atei stranieri).
Il solco si andava sempre più approfondendo con il passare del tempo; ecco
perché i Normanni cercarono, in ogni modo, di mortificare l'elemento
greco, sostituendo, man mano che si rendeva possibile, i vescovi greci,
e indebolendo la forza dei monasteri basiliani che, a poco a poco,
morivano o venivano sottoposti alla giurisdizione dei monasteri
benedettini, primo fra tutti quello di Cava. Tuttavia l'atteggiamento
dei Normanni verso il monachesimo greco fu molto prudente. Lo stesso
Roberto, che più degli altri desiderava una rapida rilatinizzazione
dell'Italia meridionale, non assunse "atteggiamenti odiosi verso un
ordine che costellava la Calabria con i suoi cenobi e godeva di tanto
prestigio presso le popolazioni soprattutto greche" (41). Cercò,
tuttavia, di togliere importanza all'Ordine, sia, come già si è detto,
affiliando i monasteri greci, soprattutto quelli meno importanti, a
monasteri latini, sia fondando nuovi monasteri che colmava di beni e di
privilegi.
Del Gran Conte Ruggero si è detto, invece, che fu il protettore dei
monasteri bizantini; ma se questo può essere vero per i monasteri di
Sicilia, regione ove il Conte aveva interesse a ridimensionare
l'autorità degli Arabi musulmani, e a questo scopo poteva servire
l'autorità che sulle popolazioni avevano i numerosissimi monaci greci,
non è vero per i monasteri della Calabria. Di una certa simpatia verso i
monasteri di rito greco si può parlare, invece per quanto riguarda la
vedova del Gran Conte, Adelasia, e suo figlio Ruggero Il. Anzi è proprio
in questo periodo che si diffonde nell'Italia meridionale, per opera di
S. Bartolomeo di Simeri, la riforma studitana di cui è frutto insigne il
"SS. Salvatore" di Messina al quale furono sottoposti ben quarantanove
monasteri in Sicilia e in Calabria e al cui igumeno fu dato il titolo di
"archimandrita". Nel 1160 Margherita di Navarra, reggente per il figlio
Guglielmo II il Buono, fondò un altro archimandritato, dando questo
titolo al vecchio monastero di Carbone, nel territorio della diocesi di
Tursi, in Basilicata, retto, allora, dall'igumeno Bartolomeo (42).
Questo nuovo centro monastico ebbe trentasei monasteri dipendenti.
Nonostante tutto questo, però, l'opera dei Normanni fu, come già si è
detto, opera di rilatinizzazione del Meridione d'Italia, anche se non
attuata tutta in una volta, ma a poco a poco, gradualmente. Finiva,
così, giorno per giorno, quella "secolare grecità" in cui alcuni
"colgono gli unici momenti positivi della storia sociale e religiosa in
Lucania" (43). Ma l'azione di tanti religiosi non poteva finire con
l'abolizione delle diocesi di rito greco e con la chiusura dei monasteri
bizantini. E la religiosità stessa del popolo lucano ha conservato
sempre, almeno sotto certi aspetti particolari, l'impronta della
spiritualità orientale. La concezione stessa della santità, legata, nel
popolo, all'idea di una vita severa ed eremitica, all'attesa del
miracolo e, in genere, del soprannaturale, all'eroismo della carità,
sono di tipica impronta bizantina. Come della spiritualità bizantina
(severa e povera, in questa zona, non ricca d'oro e fulgida di pietre,
come a Bisanzio e a Ravenna) resta il ricordo nelle tante piccole
chiese, spesso rupestri (come nel Materano, nella Calabria (44) e nella
Puglia (45)) sopravvissute nella Regione: dal Vulture al Raparo, alla
valle dell'Agri. E resta il ricordo nelle immagini sacre che in queste
chiese si conservano, immagini severe e del tutto spirituali, con il
corpo quasi annullato fra le pieghe delle lunghissime vesti, il volto
scarno per i lunghi digiuni, e i grandi occhi, troppo grandi, perché
specchi della grandezza dell'anima tesa continuamente, nella
meditazione, verso l'infinita grandezza di Dio.
NOTE:
1 Secondo il Rodotà, nell'Italia meridionale ci sarebbero stati circa 1500
monasteri di rito greco!
2 C. KOROLEWSKIY,, Basiliens italo-grecs et espagnols, in "Dictionnaire
d'histoire et géographie écclesiastiques", vol. VI, col. 1180 sg.
3 Forse qualche monaco dovette venire già con le armate di Belisario e di
Narsete. Cfr., a questo proposito, B. CAPPELLI, Il monachesimo basiliano
e la grecità medievale, nel volume "Il monachesimo basiliano ai confini
calabro-lucani", Napoli, 1963, pg. 15.
4 P. P. RODOTÀ, op. cit., vol. II, pp. 60 seg.; F. LENORMANT, La Grande
Grèce, Paris, 1881, vol. II, pp. 391 sg.
5 B. CAPPELLI, Il monachesimo basiliano..., cit., pg. 16.
6 La "Vita di S. Elia il Giovane" fu pubblicata la prima volta, in
traduzione latina, da O. GAETANI nella sua opera "Vitae Sanctorum
siculorum", edita a Palermo nel 1657. La vita in questione si trova nel
tomo II alle pp. 63-79. In traduzione latina fu pure pubblicata negli
"Acta Sanctorum" dei Bollandisti, Aug. III, pp. 489-509. Finalmente, nel
1962 è stata pubblicata nel testo greco originale: Vita di S. Elia il
Giovane, ed. e trad. da G. Rossi-Taibbi, Palermo (Istituto siciliano di
Studi bizantini e neoellenici).
7 Circa l ubicazione di Saline cfr. G. Rossi-Taibbi, op. cit., pg. 155 e
pp. 187 sg.; D. MINUTO, Ricordi basiliani tra Reggio e Locri, Reggio C.,
1964, pp. 29-41.
8 La "Vita" di Elia lo Speleota fu pubblicata in "Acta Sanctorum" dei
Bollandisti, Sept. III, pp. 848-877. Su Elia lo Speleota scrisse G.
MINASI "Lo Speleota ovvero S. Elia di Reggio Calabria, monaco basiliano
del IX-X secolo con annotazioni storiche", Napoli, 1893.
9 La "Vita" di S. Filareto fu edita, in trad. latina, in "Acta Sanctorum",
cit. Apr. I, pp. 606 618. Il testo greco è ancora inedito, eccettuati
alcuni brani pubblicati dal Rossi-Taibbi in un excursus alla "Vita di S.
Elia il Giovane", cit., pp. 189-194.
10 La "Vita" di S. Nicodemo è ancora inedita, eccettuati alcuni brani
pubblicati dal Rossi-Taibbi in appendice all'op. cit., pp. 191-193, e
altri pubblicati da S. BORSARI nel suo libro "Il monachesimo bizantino
nella Sicilia e nell'Italia meridionale prenormanne", Napoli, 1963, pp.
127-131.
11 Discute le varie opinioni, circa l'ubicazione del Mercurion e circa
l'origine del nome, B. CAPPELLI, op. cit., pp. 230-231.
12 V. SALETTA, Il Mercurio e il Mercuriano, in "Bollettino della Badia
greca di Grottaferrata" XIV (1960), pp. 109-144, e XV (1961), pp. 31-63.
13 F. LENORMANT, La Magna Grecia (trad. italiana di A. LUCIFERO), Crotone
1931, vol. 1, pg. 519.
14 G. SCHLUMRERGER, L'Epopée byzantine à la fine di dixième siecle, Paris,
1925, pp. 411-412.
15 M. AMARI, Storia dei Musulmani di Sicilia, II ed., Catania, 1933-1939,
pg. 322.
16 A. ROCCHI, Vita di S. Nilo abate, Roma, 1904, pg. 6, n. 2
17 G. GIOVANELLI, L'Eparchia monastica del Mercurion, in "Bollettino della
Badia greca di Grottaferrata" XV (1961), pp. 121-143.
18 G. GAY, op. cit., pp. 246-248.
19 P ORSI, Le Chiese basiliane della Calabria, Firenze, 1929, pg. 262.
20 B. CAPPELLI, Alla,ricerca di Latinianon, in "Il monachesimo...", cit.,
pp. 255-274.
21 Il monastero di S. Lorenzo è da situare, secondo il CAPPELLI (op. cit.,
PP. 264.sg.) presso l'attuale cittadina di Episcopia, in Basilicata.
Cfr. anche, nella stessa opera, pg. 237 e pp. 285-286.
Le "Vite" dei santi Saba e Macario furono scritte da Oreste, patriarca di
Gerusalemme, "Historia et laudes SS. Sabae et Macarii, auctore Oreste
patriarca Hierosolimitani (...edidit et adnotationibus illustravit I.
Cozza-Luzi)", Romae, MDCCCXCIII.
22 G. GAY, op. cit., pg. 248.
23 La "Vita" di S. Luca di Demenna (confuso, però, con S. Luca di Armento)
è, in latino, nelle "Vitae Sanctorum siculorum" già cit. del GAETANI,
tomo II, pp. 96-99.
24 B. CAPPELLI, I Basiliani del Mercurion e di Latinianon, in "Il
monachesimo basiliano...", cit., pp. 288-291.
25 La "Vita" di S. Vitale è in "Acta Sanctorum" dei Bollandisti, Mart. II,
pp. 26-34, e in "Vitae Sanctorum siculorum" del GAETANI già cit., pp.
86-93.
26 La "Vita" di S. Leoluca (il suo nome di battesimo era Leone, mutato in
Luca nella vestizione monastica) è in "Acta Sanctorum" cit., Mart. I,
pp. 98-102.
27 B. CAPPELLI, S. Fantino, S. Nilo, S. Nicodemo, in "Il monachesimo
basiliano...", cit., pp. 186-188.
28 La "Vita" di S. Nilo fu edita dal MIGNE, P. G., 120, coll. 16-165. E'
stata, in seguito, volgarizzata dal P. Rocchi "Vita di S. Nilo abbate"
cit. e, nel 1966, da G. GIOVANELLI "Vita di S. Nilo, fondatore e patrono
di Grottaferrata. Versione e note a cura dello jeromonaco GERMANO
GIOVANELLI", Badia di Grottaferrata, 1966. Nel 1972, lo stesso P.
GIOVANELLI ha pubblicato, con un lungo studio introduttivo, il testo
originale greco , Badia di Grottaferrata, 1972.
La "Vita" di S. Nilo (con ogni probabilità scritta dal suo stesso
discepolo S. Bartolomeo) è considerata da tutti il capolavoro delle
"vite" dei Santi italo-greci dell'Italia meridionale. È del massimo
interesse non solo per conoscere la spiritualità del grande santo
rossanese, ma anche per le tante notizie che ci dà circa l'ambiente
sociale in cui vivevano i monaci, circa il loro tenore di vita e circa
l'organizzazione dei monasteri.
29 G GAY, op. cit., pp. 250-251.
30 I. COZZA-LUZI, op. cit., PP. 17-18
31 Vita di S. Nilo (trad. GIOVANELLI), cit., pp. 14-15.
32 Su questo grande discepolo e compagno di S. Nilo è uscito, qualche anno
fa un accurato lavoro di R. D'ALESSANDRO: Il B. Proclo e Bisignano
durante la dominazione bizantina, Grottaferrata, 1970.
33 A. ROCCHI, De coenobio cryptoferratensi eiusque bibliotheca et
codicibus, Tusculi, MDCCCXCIII, pg. 11.
34 MIGNE, P. G., vol. CXX, coll. 21 sg.; e B. CAPPELLI, op. cit., pg.
187.
35 S. Nilo intervenne direttamente per salvare i suoi concittadini di
Rossano dall'ira del "magistro" Niceforo. Cfr. G. GIOVANELLI, op. cit.,
pp. 75-76. Vedi anche, per quanto riguarda la carità del Santo verso i
sofferenti, pp. 79 sg.
36 Il MIGNE, P. G., ci dà due recensioni della "Vita" di S. Teodoro: la A,
nel vol. 99, coll. 113-232, e la B, nello stesso volume, coll. 233-328.
37 L Cozza-Luzl, Historia et laudes..., cit., pg. 42.
38 G SCHIRÒ, Vita di S. Luca vescovo di Isola Capo Rizzuto, testo e
traduzione a cura di G. SCHIRÒ, Palermo, 1954.
39 G. SCHIRÒ, op. cit., pg. 13.
40 G SCHIRÒ, op. cit., pg. 13.
41 E. PONTIERI, op. cit., pg. 188.
42 Il documento è stato edito da G. ROBINSON, History and cartulary of the
greek monastery of St. Elias and St. Anastasius of Carbone, Roma, 1930,
t. II, II parte, Cartulary, doc. 46. (Orientalia christiana, t. XXIX, 1,
pp. 71-72). Il diploma fu confermato dalla regina Costanza nel 1196, l.
cit., doc. 66, pp. 142-143.
43 N. CILENTO, op. cit., pg. 566
44 P. ORSI, op. cit.; D. MINUTO, Ricordi basiliani tra Reggio e Locri,
Reggio C., 1964.
45 C. D. FONSECA, Civiltà rupestre in terra jonica, Milano-Roma, 1970. |