III° TURBAMENTI POLITICI E RELIGIOSI
Sulle vicende dell'antica chiesa di S. Maria non esistono altri documenti,
oltre quelli conservati a Cava, se non uno solo che porta la data del 12
novembre 1305, scritto, dunque, diciannove anni dopo la donazione di
Guglielmo Greco. Il documento è molto interessante, e merita di essere
citato per intero. Ecco il testo (1): "Rex mandat iustitiario Basilicatae ut
restituendam curet Episcopo Anglonensi Ecclesiam Sanctae Mariae de Ursuleone
et alia bona iniuste occupata.
Terrae Sancti Archangeli Dominus mittere ausus erat quosdam armatos homines,
qui hac ecclesia suo nomine potirentur; cum ipsam non ad Episcopum
Anglonensem spectare, sed sui iuris esse autumaret. Illuc vero melesana
cohors cum accessisset, monacho cuidam ecclesiae curam gerenti abstulit
quidquid ipsi erat, et effractis ecclesiae ianuis, hanc quoque nefandum in
modum expoliavit. Carolus secundus, cuius pietatem in Deum testantur non
paucae sacrae aedes tum Neapoli, tum in aliis huiusce Regni urbibus
singulari magnificentia extructae, vix de eo impio scelere factus certior,
non modo qui illud admiserant, plectendos, verum et Episcopo ecclesiam
vindicatam curavit".
Dunque il Re di Napoli (che era Carlo II lo Zoppo, figlio e successore di
Carlo I d'Angiò) comanda al giustiziere di Basilicata di far restituire al
Vescovo di Anglona (2) la chiesa di S. Maria di Orsoleo e altri beni
ingiustamente occupati. Il Signore della terra di Sant'Arcangelo (3) aveva
osato mandare alcuni armati per impossessarsi, a suo nome, di questa chiesa,
sostenendo che la stessa fosse di suo diritto e non del Vescovo di Anglona.
Essendo, dunque, colà andata quella schiera di malvagi, tolse ad un monaco
che si occupava della chiesa tutto ciò che aveva e, infrante le porte,
saccheggiò, in modo nefando, la chiesa stessa. Carlo II, la cui pietà verso
Dio è attestata da non pochi edifici sacri costruiti con singolare
magnificenza sia in Napoli che nelle altre città del Regno, appena seppe di
quest'empio misfatto, si preoccupò non solo di punire quelli che lo avevano
commesso, ma di far restituire al Vescovo la chiesa che rivendicava.
Come si nota subito, molte cose sono cambiate, in pochi anni,
nell'amministrazione della chiesa di Orsoleo; la quale non risulta più
proprietà privata, come era stata sotto Zaccaria, Daniele e Bonicio, ma
viene contesa dalle due autorità pubbliche del tempo: il Feudatario e il
Vescovo. Forse Bonicio, morendo, non volle o non potè eleggere un
successore, e i beni furono pretesi sia dal Vescovo, essendo legati a un
luogo sacro, sia dal feudatario, essendo beni privati, senza un legittimo
proprietario. O, come sembra confermato da fatti posteriori, la chiesa era
"patronato" del feudatario? Inoltre, nel documento si parla di "un monaco
che aveva cura della chiesa": a che titolo? Forse è lecito pensare che la
cappella di S. Maria fosse ritornata, come nei primi tempi, prima del prete
Zaccaria, ad essere curata da un eremita di rito greco e che fosse, ormai,
considerata come una delle tante chiese dell'Ordine monastico detto,
impropriamente, "Basiliano" e dipendesse, quindi, in qualche modo, da
qualche monastero di rito greco: da Carbone (e così si spiegherebbero i
legami, più o meno leggendari, fra questo monastero e Orsoleo) o da S. Maria
di Cersosimo, che dipendeva, a sua volta, sebbene di rito greco, dal
monastero latino della SS. Trinità di Cava; e ciò spiegherebbe il fatto,
altrimenti incomprensibile, che i documenti riguardanti Orsoleo si trovino
in un archivio, quello, appunto, di Cava, tanto lontano dai luoghi cui si
riferiscono.
Non si hanno altri documenti che ci possano illuminare circa la condizione,
piuttosto confusa, in cui Orsoleo venne a trovarsi in questo periodo. Ma
sembra un po' strana la pretesa del Vescovo di Anglona circa i beni della
chiesa di S. Maria, in quanto questa, pur avendo acquistato ricchezze e pur
essendo molto conosciuta nei dintorni, non divenne mai un beneficio
ecclesiastico; infatti non è nominata nei pur minutissimi elenchi dei luoghi
sacri che erano obbligati a pagare le decime alla S. Sede. Ma, come già si è
detto, doveva essere, ormai un santuario molto conosciuto e frequentato,
perché, pur non risultando nell'elenco dei beni ecclesiastici dell'Apulia,
Lucania e Calabria come obbligato al pagamento della tassa, risulta segnato
nella carta geografica annessa.
Nasce, forse, in questo periodo di confusione una delle leggende più note
che riguardano Orsoleo e l'origine di quello che sarà, poi, il convento vero
e proprio. La leggenda, come tutte le leggende, si tinge di una cornice
storica. Dice, dunque, il Pennetti "traducendo liberamente dal libro del
Gonzaga scritto in latino (6): Quando nel paese di Carbone incominciò a
farsi strada e poscia a propagarsi l'eresia dei Fraticelli (7), la
devotissima e gloriosa immagine della Vergine, che da moltissimi anni si
venerava nella chiesa matrice del paese, per pena di tante nefandezze,
lasciati gli abitanti, si portò in un sito tra S. Arcangelo e Roccanova, ove
da poco tempo si erano stabiliti per fare penitenza due pellegrini Francesi
chiamati Orso e Leo. Ritrovata l'immagine da que' di Carbone, dopo premurose
richieste, fu ricondotta nella chiesa da essa abbandonata, ma, nella notte
seguente, ritornò ne' predetti confini. Nè con reiterati tentativi poterono
que' di Carbone rimuoverla; ed addebitando ciò a propria colpa, edificarono
una chiesetta nella quale riposero l'immagine che affidarono ad Orso e Leo.
Da questi la Madonna si disse di Orsoleo ..." (8).
Mancando altri documenti, non è possibile dire che cosa veramente sia
successo in questo periodo di turbamenti e di agitazioni. È facile,
tuttavia, pensare che Orsoleo, come, del resto, ogni altro luogo di
particolare importanza, soprattutto se dedicato al culto, dovette subire
traversie di ogni genere sia sotto l'aspetto politico e amministrativo che
sotto quello religioso: ne è prova il conflitto tra il Signore del paese e
il Vescovo della diocesi. Tuttavia, per quanto riguarda il culto mariano, si
può senz'altro dire che non venne mai meno in questo periodo agitato, ma,
anzi, si rafforzò é si specificò meglio facendo preludere già alla
fondazione del grande santuario futuro.
Forse fu proprio in questo periodo (inizio del sec. XIV) che ad Orsoleo si
cominciò a venerare l'antica statua di legno, che ancora, fortunatamente, si
conserva: la statua, infatti, che, secondo alcuni esperti, risalirebbe al
sec. XIII, ma che, forse, è anche più antica, potrebbe essere venuta a
Orsoleo proprio da Carbone: i lineamenti, infatti, sembrano di chiara
origine bizantina; e a Carbone, già dal sec. X, fioriva il monastero greco
dei Santi Elia e Anastasio, che nel 1160 era arrivato a tale importanza che
Margherita di Navarra, reggente per il figlio Guglielmo II il Buono, gli
riconobbe il titolo di "archimandritato" mettendo sotto la sua giurisdizione
ben trentasei monasteri della Calabria e della Basilicata (9). Era naturale,
perciò, che in questi luoghi fiorisse il rito e lo stile bizantino non solo
nei monasteri ma anche nelle altre chiese: la leggenda surriferita, infatti,
fa venire l'immagine della Madonna non dal monastero di Carbone ma dalla
Chiesa matrice.
Quanto ai "due pellegrini francesi chiamati Orso e Leo" che in queste zone
si erano stabiliti "per far penitenza" e a cui, secondo la leggenda
riportata dal Gonzaga, fu affidata la custodia dell'immagine della Madonna,
si può pensare (a prescindere, ovviamente, dai nomi chiaramente inventati
per spiegare il titolo di "Orsoleo") che siano veramente esistiti. Dovevano
essere, con ogni probabilità, due Francesi che, o dopo un pellegrinaggio a
Roma, o di ritorno dalla Terra Santa, ove, come tanti altri in quei tempi,
si erano recati per devozione, si erano fermati a vivere vita eremitica
nella zona di Orsoleo (10), ormai non più retta dai vecchi amministratori e
molto adatta alla vita solitaria e contemplativa, perché occupata, allora,
in gran parte, da una fitta e selvaggia foresta. Data la stima grande che le
popolazioni avevano, in quei tempi, per tutti quelli che vivevano nella
solitudine e nella penitenza, si dovette pensare che fosse cosa buona
affidare a quei due santi eremiti la statua della Madonna, per non far
cadere in mano di eretici esplicitamente condannati dalla Chiesa,
un'immagine sacra già da tutti venerata con devozione, e un luogo che già da
secoli era stato consacrato alla Madonna.
lll
NOTE DEL CAPITOLO 3
1) Syllabus graecarum membranarum... - del Grande Archivio di Napoli, fase.
35, n. 5.
2) Nel 1305 il vescovo di Anglona, sede cui allora era unita Tursi, si
chiamava Marco, e doveva essere un tipo molto autoritario; sostenne, fra
l'altro, una lunga lite con il grande monastero di Carbone. Cfr. F. Ughelli,
- Italia sacra -Venezia, 1721, Tomo VII, col. 85 sg. - P. E. Santoro e M.
Spena, - Storia del monastero di Carbone, - Napoli, 1831, pp. 70-71.
3) Signore di Sant'Arcangelo era, allora, Guglielmo della Marra, che aveva
avuto il feudo di Stigliano (cui Sant'Arcangelo apparteneva) da Carlo II nel
1289; visse fino al 1320 circa (cfr. G. Pennetti, op. cit. pp. 15-16);
4) L. Mattei-Cerasoli - La Badia di Cava e i monasteri greci della Calabria
superiore... cit.
5) D. Vendola, - Rationes decimarum Italiae... Apulia, Lucania, Calabria,
Città del Vaticano, 1939, pg. 177, ove è segnata la tassa del clero di
Sant'Arcangelo (10 tareni per l'anno 1310) ma non si trova S. Maria di
Orsoleo.
6) G. Pennetti, - Stigliano. - cit., p. 19. Il testo del Gonzaga, da cui il
Pennetti traduce, è il già ricordato De origine Seraphicae Religionis
Franciscanae..., a p. 503.
7) Movimento sorto in seno all'Ordine francescano all'inizio del '300 e
durato fino alla seconda metà del '400. La setta derivava da Francescani
detti "Spirituali", che, impegnati nell'osservanza severa della regola di S.
Francesco, soprattutto in relazione alla povertà, approvati dal papa
Celestino V nel 1294, si erano, praticamente, separati dalla grande famiglia
francescana dando vita a una propria congregazione detta degli "Eremitae
pauperes" chiamati dal popolo "Fraticelli". Il termine, che, di per sé, era
solo un diminutivo della parola "frati", prese un significato eterodosso con
la bolla "Sancta Romana" con cui il 30 dicembre 1317 Giovanni XXII (J.
Duèse, secondo papa di Avignone, dal 1316 al 1334) condannava gli Spirituali
che non si erano sottomessi alle decisioni pontificie.
Forse i Fraticelli di cui parla il Gonzaga, in relazione al santuario di
Orsoleo, sono gli Spirituali della Toscana, i quali all'inizio del '300 (e
questo sarebbe il lato storico della leggenda) fuggirono in Sicilia,
fermandosi, forse, anche in Basilicata. Essi furono condannati dallo stesso
papa Giovanni XXII il 23 gennaio 1318 con la bolla "Gloriosam ecclesiam" che
li annoverava tra i Fraticelli e rinfacciava loro vari errori soprattutto
circa l'organizzazione della Chiesa e circa il valore dei Sacramenti.
D'allora in poi i Fraticelli furono sempre considerati scismatici ed
eretici.
Per quanto riguarda la presenza dei Fraticelli in Carbone, cfr. P.E. Santoro
e M. Spena, op. cit., pp. 85-86, nota 2.
8) Questi fatti sarebbero avvenuti all'inizio del '300; si sa, invece, con
assoluta certezza che il nome Orsoleo, come ampiamente già si è detto, è
molto più antico, trovandosi esplicitamente citato nel secondo documento di
Cava, che è del 1198.
9) La Storia del monastero di Carbone fu scritta in latino da P.E. Santoro
nel 1601, e continuata e tradotta in italiano da M. Spera; Napoli, 1831.
Essenziale, per la conoscenza del Monastero, è il lavoro di G. Robinson -
History and cartulary of the greek monastery of St. Elias and St. Anastasius
of Carbone, - in "Orientalia christiana", Roma 1928-1930, fase. 44, 53, 62.
10) Non era cosa rara che alcuni pellegrini non ritornassero nella patria da
cui erano partiti, o vi ritornassero solo dopo molti anni, fermandosi, o per
qualche tempo o per tutta la vita, in luoghi solitari per vivervi nella
penitenza e nella meditazione. Nella media valle del Sinni è ricordato il
Beato Giovanni da Caramola, che, in realtà, era un pellegrino francese, il
quale, venuto a Roma per il giubileo del 1300, non era più tornato in
patria, ma si era fermato a vivere in solitudine nei boschi del monte
Caramola. Cfr., F. Bastanzio, Senise nella luce della storia, Palo del Colle
- Bari, 1950, p. 8. |