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LUIGI BRANCO - Memorie di S. Maria di Orsoleo
 

IV°  ELIGIO DELLA MARRA E LA FONDAZIONE DEL CONVENTO

II passo del Gonzaga già citato continua, nella libera traduzione del Pennetti (1), con queste parole: "Manifestando la Vergine molti miracoli, grande fu il concorso dei popoli circonvicini ed allora fu che Eligio della Marra, conte di Aliano, e possessore di S. Arcangelo, uomo devotissimo, pensò di edificarvi un convento, ed ottenuto dal Pontefice Sisto IV il Breve, edificò un convento, per gli Osservanti, capace di contenere 23 frati". Poi lo stesso Pennetti riferisce la leggenda più popolare di Orsoleo, conosciuta da tutti nella zona, sebbene narrata, dall'uno o dall'altro, in modo diverso. Scrive, dunque, il Pennetti: "Nella chiesa vi è un quadro nel quale è dipinta l'effigie di Eligio, vestito da guerriero, nell'atto di uccidere un gran drago. A questo quadro (4) si collega la leggenda, cioè Eligio avere ucciso un gran drago, che infestava le campagne di Gannano, e nell'ora del pericolo, corso per combatterlo, aver invocato la Vergine di Orsoleo, in onore della quale poi eresse il monastero. Certa cosa è che presso l'altare della Madonna, che è l'altare della primitiva cappella, sono sospese due grosse mascelle, che appartennero ad una testa di forma triangolare, munita di aguzzi denti e due lunghi corni diritti, che non appartengono a nessuna delle specie di animali esistenti nelle nostre parti".
La stessa leggenda è riportata da Carlo Levi (6), il quale, certamente, l'aveva sentita dalla sua Giulia, detta la Santarcangiolese, che, ovviamente, la diceva così come, chissà quante volte, l'aveva udita narrare, da bambina, nel suo paese di origine, soprattutto alla vigilia della festa della Madonna, come allora si usava a Sant'Arcangelo e nei paesi vicini. Il Levi, dunque, rifacendosi alla narrazione popolare, dice protagonista del fatto non Eligio della Marra, fondatore del convento, ma un non meglio specificato "Principe Colonna", perché il popolo che continuava a narrare l'episodio l'attribuiva, genericamente, ai suoi feudatari, e gli unici che conosceva erano gli ultimi, appunto i Colonna di Stigliano.
Dalla sua abitazione di Aliano lo scrittore vedeva Sant'Arcangelo e (sebbene, nel suo racconto, collocata in modo piuttosto incerto nel paesaggio) la chiesa di Orsoleo. "Di là dall'Agri su una prima fila di colline grige, sorgeva bianco Sant'Arcangelo, il paese di Giulia, e dietro, più azzurre, si levavano altre colline ed altre ancora, schierate più indietro, con dei paesi vaghi nella distanza, e più là ancora i borghi degli albanesi sulle prime pendici del Pollino, e dei monti di Calabria che chiudevano l'orizzonte. Un po' a sinistra, appariva a mezza costa di un'altura, il biancore di una chiesa. Qui usavano convenire in pellegrinaggio le genti della valle: era un luogo di molta devozione, sede di una Madonna miracolosa. In questa chiesa erano conservate le corna di un drago che infestava, nei tempi antichi, la regione. Tutti, a Gagliano (7), le avevano vedute. Io purtroppo non potei mai andarci come avrei desiderato. Il drago, a quello che mi raccontarono, abitava in una grotta vicino al fiume, e divorava i contadini, riempiva le terre del suo fiato pestilenziale, rapiva le fanciulle, distruggeva i raccolti. Non si poteva più vivere, in quel tempo, a Sant'Arcangelo. I contadini avevano cercato di difendersi, ma non potevano far nulla contro quella bestiale potenza mostruosa. Ridotti alla disperazione, costretti a disperdersi come animali su per i monti, pensarono infine di rivolgersi per soccorso al più potente signore dei luoghi, al principe Colonna di Stigliano. Il principe venne, tutto armato, sul suo cavallo, andò alla grotta del drago e lo sfidò a battaglia. Ma la forza del mostro, dalla bocca che lanciava fuoco e dalle enormi ali di pipistrello, era immensa e la spada del principe pareva impotente di fronte a lui. A un certo momento, quel valoroso si sentì tremare il cuore, e stava per darsi quasi alla fuga o per cadere fra gli artigli del drago, quando gli apparve, vestita di azzurro, la Madonna, che gli disse con un sorriso: - Coraggio, principe Colonna! E rimase da una parte, appoggiata alla parete di terra della caverna, a guardare la lotta. A questa visione, a queste parole, l'ardimento del principe si centuplicò, e tanto fece che il dragone cadde morto ai suoi piedi. Il principe gli tagliò la testa, ne staccò le corna, e fece edificare la chiesa perché vi fossero per sempre conservate".
Ancora oggi si vedono, appena all'ingresso della chiesa, due lunghe "corna" bianche e una grande mascella triangolare, che il popolo diceva essere le corna e la mascella del drago ucciso dal principe. Erano l'attrattiva più grande di piccoli e di adulti, che, meravigliati, guardavano quei resti antichissimi, segni del noto prodigio e della devozione dei padri alla Madonna miracolosa. Si tratta, forse, di resti fossili (zanne di elefante e mascella di un coccodrillo o di qualche altro grosso rettile) arrivati fin qui chissà come e da dove; ma davano, nei tempi passati, emozioni intense, e ricordavano tempi lontani, e risvegliavano morti sentimenti in chi, una volta all'anno, l'otto di settembre, giorno della festa di Orsoleo, quasi per un rito obbligatorio andava ad osservarli commosso.
Se si volesse tentare una qualche spiegazione della leggenda del drago ucciso dal principe con l'aiuto della Madonna, si potrebbe pensare (oltre alla comune inclinazione alla credenza in fatti soprannaturali da parte di tutti i popoli di cultura semplice e primitiva) a un signore particolarmente buono e generoso verso il suo popolo (Eligio della Marra) e a qualche opera di bonifica di terreni paludosi e malarici da parte dello stesso feudatario (8) o, prima di lui, da parte dei monaci o dei ministri del culto che avevano avuto in cura la chiesa di Orsoleo. "Il drago abitava nel fiume, era una bestia dell'acqua", fa dire Carlo Levi (9) agli abitanti di Sant'Arcangelo liberati dal flagello, "il principe si prenda dunque il fiume, diventi il signore della corrente ..." . D'altra parte si sa che gli antichi monasteri, piccoli o grandi che fossero, furono, spesso, centri di bonifica delle terre incolte presso cui sorgevano, e centri di aggregazione e di istruzione per i contadini della zona (10). E, inoltre, si sa che il fiume Agri, che ora è ridotto a un rigagnolo insignificante (in attesa che scompaia del tutto) era, una volta, un fiume regale, bello, placido e nobile nei tempi sereni, e grande e terribile nei periodi di pioggia e di tempeste, quando si sentiva fin dal paese il suo rumore pauroso, e i contadini osservavano con apprensione dai muretti della Piazza Piccola (che allora, quando non c'era il grande edificio delle scuole elementari né alcun'altra costruzione verso oriente, si apriva libera sul vasto panorama della valle) la sua corrente turbinosa che trascinava fango e sassi e rami e tronchi d'alberi; e si chiedevano se avrebbe risparmiato la vigna o l'orto dell'uno o dell'altro, o se, invece, nel suo vortice irrefrenabile, avrebbe travolto ogni cosa, come aveva già fatto tante volte nel passato, allargando oltre ogni limite il suo letto già largo fino all'inverosimile.
E' facile, dunque, pensare alle tante fatiche, alle tante lotte che s'erano sostenute per strappare alla corrente le terre vitali; ed era naturale che nascessero credenze e leggende di fatti strani e miracolosi legati al grande fiume apportatore di ricchezza e di miseria, di gioia e di dolore, di vita e di morte.
Queste le leggende; storicamente è certo che il convento di Orsoleo fu fondato per volere del conte Eligio della Marra.
La famiglia della Marra, una delle più nobili del Regno di Napoli era originaria della Puglia. Il primo membro di questa famiglia che ebbe il feudo cui apparteneva Sant'Arcangelo fu Guglielmo, figlio di Risone della Marra signore di Barletta. Guglielmo, che fin dal 1283 risulta padrone del feudo di Roccanova avuto in dote dalla prima moglie, Adelisia (11), ebbe le terre di Stigliano, Aliano, Sant'Arcangelo e altre da parte di re Carlo II lo Zoppo, figlio di Carlo I d'Angiò (12). Per quanto riguarda il ramo lucano dei della Marra, la discendenza è la seguente: a Guglielmo successe il figlio Niccolò (che ebbe a lottare con i Gattini di Barletta) a Niccolò successe Eligio, quindi Jacopo (detto Iacobello), a Jacopo, Guglielmo (II) che ebbe il titolo di conte di Aliano. Guglielmo sposò Polissena Sanseverino, appartenente alla famiglia più importante, allora, nel Regno di Napoli. Da questo matrimonio nacquero Eligio (II), Berardina (13) e Luigi che morì ancora giovane. Eligio, alla morte del padre (1480) dovette pagare la somma di 20.000 ducati "per avere l'intestazione dei feudi" (14), ma forse già prima aveva il titolo di "conte di Aliano", come è indicato nella bolla papale (1474) della fondazione del convento di Orsoleo.
Eligio fu celebre, ai suoi tempi, per ricchezze e magnificenza, ma all'inizio sembra che abbia dovuto molto lottare per venire in possesso dei suoi beni. "Il conte Eligio che visse sotto Re Ferrante il Vecchio e i susseguenti Re (15) in sino all'anno 1517 nel quale morì, hebbe per alcun tempo travaglio nel possessio del suo stato occupatogli dal re, perciò che non s'havea voluto lasciar egli condurre à prendere una donna per moglie di nobilissimo sangue, con cui s'havea opinione, che il re havesse havuto non molto onesta pratica, prese per moglie Ciancia Caraciola". (16) Eligio non ebbe figli. Secondo l'Ammirato, dunque, fu per questo atto ammirevole di rispetto verso se stesso che Eligio ebbe contrasto con il Re, non per aver negato il suo contributo di vassallo ad Alfonso il Magnanimo in tempo di guerra (17).
Eligio fu grande e magnifico signore, e molto ricco e potente. Solo in Basilicata possedeva Aliano, Accettura, Stigliano, Gorgoglione, Alianello, Guardia, Sant'Arcangelo, Roccanova e feudi minori, per i quali pagava ogni anno contributi abbastanza elevati (18). Con tanti feudi e con le proprietà che aveva ereditato in Napoli dalla madre Polissena Sanseverino, Eligio poteva vivere da vero principe e spostarsi a piacere nei vari palazzi dei suoi feudi e dei suoi possedimenti fra la Basilicata e Napoli, la capitale del Regno, ove tutti i nobili avevano palazzi sontuosi. Abitò, certamente, anche a Sant'Arcangelo, ma non tanto, forse, nel centro abitato (anche se qui pure dovette esserci un castello, com'è testimoniato dal fatto che, ancora oggi, la contrada più alta del paese è chiamata, appunto, "Castello") quanto in un suo palazzo che, a differenza dei castelli e, in genere, delle dimore nobiliari di quel tempo, non sorgeva sopra un'altura, bensì in basso, nella verde pianura dell'Agri, fra orti, uliveti e vigneti e vastissimi boschi di querce. Di questo palazzo, fondato, probabilmente, nel sec. XIV dai primi signori della Marra, restano ancora suggestive e imponenti rovine dette, dal popolo, "Mura dei giardini" . Doveva essere enorme: un'antica tradizione" lo diceva fornito di tante stanze quanti sono i giorni dell'anno. Qui, con ogni probabilità, doveva trovarsi la grande "Cavallerizza" che diverrà celebre in tutto il Regno e oltre, soprattutto con i successori di Eligio: Antonio e Luigi Carafa della Marra (20). Forse a questo amore di Eligio per i cavalli si riferisce il bel dipinto di Orsoleo sulla lunetta volta a occidente in un locale a piano terra nel corpo avanzato a sinistra della facciata della chiesa: l'unico, con il corrispettivo sulla lunetta di fronte, di soggetto non sacro. In questo affresco si vedono due grandi cavalli monocromi che dominano il bel paesaggio con fiume, a destra del quale si vedono vari edifici fra cui si può, forse, individuare il convento stesso ancora in costruzione. Del resto si narra che Egidio, morendo, "...lasciò allo stato una ricca e ampia facoltà di bestiame...", fra cui, certamente, avevano il primo posto i cavalli. La leggenda stessa del principe che, a cavallo, combatte e uccide il drago, non potrebbe essere nata anche da questa passione per i cavalli di cui sempre i della Marra e i Carafa avevano fatto mostra nei loro feudi e altrove?
Il palazzo della "Cavallerizza", oltre che molto grande, dovette essere anche molto importante e molto noto, infatti si trova segnato, con il nome "Il Palazzo", in varie carte geografiche delineate dalla fine del '500 a tutto il `700: si trova nell'atlante disegnato da G. A. Magini alla fine del '500 e stampato, postumo, a Bologna dal figlio Fabio nel 1620; in una carta secentesca di Terra di Bari e Basilicata tratta dall'Hondius; in un altra del Blaeu, stampata ad Amsterdam nel 1635; e, finalmente, in una carta della provincia di Basilicata e Terra di Bari di Domenico De Rossi stampata a Roma nel 1714. In tutte queste carte "il Palazzo" viene indicato sempre con molta chiarezza e precisione (22), non solo presso l'Agri ma tutto circondato dalle acque del fiume, deviato, in quel punto, in modo da formare una vera isoletta di una certa estensione; il che ci fa pensare alla bellezza e alla suggestione dell'edificio lambito dalla corrente, in mezzo ad orti e giardini di inusitata ricchezza, in una terra ancora pura e intatta, tutta verde di querce e di canneti e ricchissima di animali di ogni tipo e dei più svariati uccelli.
Non lontano di qui, dunque, sulla verde collina che vedeva elevarsi in dolce pendio sulla riva destra dell'Agri, Eligio della Marra, famoso, ai suoi tempi, non solo per ricchezza e magnificenza, ma anche per la pietà e il sentimento religioso, volle edificare il nuovo convento per i Padri Francescani, e rinnovare l'antico culto e la devozione alla Madonna. E si rivolse, per questo al Vescovo di Anglona-Tursi, diocesi da cui ancora oggi dipende Sant'Arcangelo (23), per avere l'assenso della legittima autorità ecclesiastica.
Sulla fondazione del convento di Orsoleo e sulla storia e sullo sviluppo della comunità religiosa che vi ebbe sede, non si hanno, purtroppo, documenti originali (24): caso, forse, più unico che raro per un'istituzione di tale importanza e di tale grandezza, soprattutto perché il convento, "sedes provincialis per anticum decretum", si sa che era "ornato" di biblioteca ed era "residentia archivii, et quia, in necessariis abundat iuxta temporis exigentiam philosophiae, quandoque theologiae opera datur" (25); era, cioè, sede di archivio, ed essendo ben fornito del necessario, vi si insegnava, secondo il bisogno, filosofia e teologia. E' strano, perciò, che di un istituto così importante non sia rimasto né un libro né una pagina di archivio; ed è naturale che si pensi ad una distruzione violenta di tutti i libri e di tutti i documenti di Orsoleo; tanto più che di questi (tolti i documenti più antichi conservati a Cava, che, come già si è detto, non riguardano il convento, ma la primitiva chiesa di S. Maria) non è rimasto niente nemmeno negli archivi centrali dei Francescani sia a Napoli che a Roma. E si narra (26), a questo proposito, un fatto che ha tutto il sapore della leggenda, ma che viene riferito a un personaggio storico: Antonio Graziano, di Sant'Arcangelo, che fu Vescovo di Boiano dal 1666 al 1684 (27). Si narra, dunque, che questo Antonio Graziano, uomo molto stimato per intelligenza e dottrina, ma di costumi poco lodevoli, frate a Orsoleo, nominato vescovo, per evitare che a Roma e a Napoli fossero inviate notizie che non gli facevano onore, una notte avrebbe incendiato l'archivio e, con l'archivio, la biblioteca del convento. Vero o inventato che sia l'episodio, il fatto è che circa l'origine e la vita del convento si hanno solo pochissime notizie, e quasi mai di prima mano. Si sa, però, che il convento nacque, per volere di Eligio della Marra, nel 1474 (28).
Il documento III di quelli che il P. Primaldo Coco pubblica nella prima parte della sua opera sui Francescani di Basilicata (29), dopo aver accennato ai Fraticelli e al miracolo della statua della Madonna che volle abbandonare Carbone per stabilirsi nella selva di Orsoleo, tra Sant'Arcangelo e Roccanova, continua: "Propterea piissimus Eligius de Marra princeps Hostiliani et Aliani comes (30), isto et aliis, quibus Virginis Immago corruscabat miraculis, motus, adimplens adhuc Patris pium desiderium, authoritate Iacobi de Capua, episcopi diocaesani, amplum Monasterium a dictis oppidis a duo miliaria distantem ex proprio erario Observantibus aedificavit anno 1474 in cappella dictae Mariae de Ursoleo, Anglonensis Diocesis...". Il conte Eligio, dunque, spinto dal miracolo della statua della Madonna che volle passare da Carbone a Orsoleo, e da altri miracoli che rendevano insigne l'immagine della Vergine, adempiendo anche un pio desiderio del padre, con il permesso del Vescovo diocesano Giacomo da Capua (31), nell'anno 1474, edificò a proprie spese, a circa due miglia dai già nominati paesi Sant'Arcangelo e Roccanova, un vasto monastero per i frati osservanti (32).
Queste stesse notizie, circa l'origine del convento di Orsoleo, sono esposte con più ampiezza, anzi con inutile prolissità, nell'"Assensus episcopalis pro conventu Ursolei" (33) in cui il Vescovo Giacomo da Capua, il giorno 20 del mese di giugno 1474, nel terzo anno del pontificato di Papa Sisto IV, da Senise, ove allora si trovava (34), dà il suo benestare al conte Eligio per la costruzione di una chiesa o di un monastero dell'ordine di S. Francesco o di, un altro ordine religioso. Egli, continua il documento, chiese a noi, come ordinario del luogo (35), di costruire "ex novo", cioè dalle fondamenta, un monastero "in ecclesia S. Mariae de Ursoleo, in qua ipse suique praedecessores hattenus obitinuerunt, et obtinet Ius patronatus...". Il nuovo monastero, dunque, secondo la richiesta di Eligio, doveva essere costruito sulla vecchia cappella di S. Maria, sulla quale egli stesso, come già i suoi predecessori, aveva il diritto di "giuspatronato" (36). Dunque i feudatari di Sant'Arcangelo avevano il diritto di patronato già sull'antica cappella di S. Maria; ma quando e come l'avevano ottenuto? Il patronato, infatti, nasceva se si fondava una chiesa o se si istituiva un beneficio; ma la cappella di S. Maria non era stata fondata dai feudatari bensì da privati; perché, dunque, i feudatari avevano accampato questi diritti? Purtroppo mancano documenti in proposito e, perciò, non è possibile dare una risposta. Ma è facile pensare che, nel periodo oscuro e turbolento seguito alla morte dell'ultimo custode e rettore, il prete Bonicio, i feudatari dovettero intromettersi, in qualche modo, nell'amministrazione della cappella, per poi accampare diritti che, certamente, a loro non pertenevano, a meno che non avessero comprato la proprietà della cappella con i diritti annessi. Questo diritto di patronato (giusto o ingiusto che fosse) ci spiega, forse, l'atto di violenza perpetrato all'inizio del `300, dal feudatario di Sant'Arcangelo ai danni della chiesa di Orsoleo "sostenendo che questa fosse di suo diritto e non appartenesse al Vescovo di Anglona" (37).
Il Vescovo, dunque, dopo aver detto della richiesta del Conte, vista l'utilità della nuova istituzione per il bene delle anime, permette che Eligio possa "concessione, assensu atque consensu" dello stesso Vescovo "convertere in ecclesiam et monasterium eiusdem ordinis S. Francisci... ecclesiam S. Mariae de Ursoleo de pertinentiis dictae terrae S. Arcangeli et Roccae Novae eiusdem Anglonensis Diocesis". Cioè che possa trasformare in una chiesa e un monastero dell'Ordine di S. Francesco quella che era la vecchia cappella di S. Maria di Orsoleo nel territorio di Sant'Arcangelo e di Roccanova nella diocesi di Anglona. Il vescovo concede, inoltre, al Conte, la facoltà di vendere e di alienare tutti i beni sia mobili che immobili, purché tutto si faccia "ad aedificationem et constructionem iam dictae ecclesiae, cum campana, campanili, atque dicti monasterii, seu pii loci omnibus aliis singulis officinis..." ossia purché tutto serva per la costruzione della chiesa fornita di campana e di campanile, e per tutte le altre cose (officine) necessarie alla vita del monastero o luogo pio "iure, tamen ecclesiarum parochialium semper salvo", sempre, cioè, salvaguardando i diritti delle vicine parrocchie di Sant'Arcangelo e di Roccanova. Il documento episcopale era sigillato e firmato dal cancelliere Roberto Riziense.

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NOTE DEL CAPITOLO 4

1) G. Pennetti, op. cit., p. 20.

2) Sisto IV (Francesco della Rovere, francescano) fu papa dal 1471 al 1484. Il "breve" è un documento papale meno solenne della bolla e redatto a richiesta del destinatario. Era sigillato con cera rossa, mentre la bolla aveva il sigillo di piombo.

3) G. Pennetti, op. cit., p. 20.

4) Si tratta del grande quadro che è scomparso nel marzo del 1969 e che poteva ammirarsi sulla parete prospiciente l'altare maggiore, in alto, a destra della cantoria. Il quadro era opera ammiratissima di Michelangelo Scardaccione, nato a Sant'Arcangelo da Giuseppe Matteo e da Maria Ferrarese il 15 aprile 1838. Fu a Napoli discepolo del De Vivo e, nella giovinezza e nella maturità, fu noto e onorato specialmente in Sicilia e nel Meridione d'Italia. Viaggiò in Italia e in Europa lasciando, in molti luoghi, segni del suo talento. Di lui si cita "II suicidicio di Caronda", nel municipio di Catania, e si ammiravano molte opere (sviluppate, spesso, a cicli) in Sicilia, in Calabria e a Roma. In Basilicata lasciò quadri presso varie famiglie: Viggiani, di Potenza, Fortunato, di Roccanova, Ferrarese, Scardaccione e Castronuovo, di Sant'Arcangelo, Magaldi e Simonetti di S. Chirico Raparo. Dopo molte peregrinazioni, ritornò, nel 1873, a Sant'Arcangelo, ove, colpito da cecità, perse la ragione. Rinchiuso nel manicomio di Aversa, vi morì il 13 luglio 1902. Fu pittore di gusto romantico, di molta piacevolezza, di ammirevole maestria; ingiustamente è stato quasi dimenticato: meriterebbe ben altra lode. (Cfr. A. Giocoli, op. cit., pp. 94-95).

5) Lo spazio antistante l'altare della Madonna è, forse, ciò che costituiva l'antica cappella di S. Maria e la chiesa del primo convento, come sembrerebbe dimostrare qualche frammento di pittura e qualche ornamento in mattoni che, già coperti da sovrastrutture posteriori, stanno venendo alla luce nei lavori di restauro attualmente (1990) in corso.

6) C. Levi, - Cristo si è fermato a Eboli, - Torino, Einaudi, 4` ediz., (Struzzi) 1977, pp. 96-97.

7) E' il nome con cui il Levi indica, nel suo libro, Aliano.

8) Un'opera di bonifica di particolare impegno potrebbe essere stata quella necessaria per la costruzione, sulla riva destra dell'Agri, del grande palazzo detto della Cavallerizza.

9) C. Levi, op. cit., pg. 97.

10) Cfr. J. Gay, - L'Italia meridionale e l'impero bizantino, - (traduz. italiana), Firenze, 1917, pp. 250-251.

11) G. Pennetti, op. cit., pg. 15

12) Le notizie sulla famiglia della Marra si trovano soprattutto nel II volume (pp. 314 sg.) della grande opera (Firenze, 1651) di Scipione Ammirato, - Delle famiglie nobili napoletane, - scritta nel 1580, ma stampata più tardi, e nelle memorie delle famiglie nobili delle province meridionali d'Italia raccolte dal Conte Bernardo Candida Gonzaga, Napoli, 1878, vol. IV, p. 139. Cfr. G. Giocoli, op. cit., pp. 27 sg.; G. Pennetti, op. cit., pp. sg. V. De Filippo, op. cit., pp. 46-47.

13) Non Isabella, come dice il Pennetti (op. cit., pp. 18-22) ma Berardina, come può dedursi dal lungo documento (ASN, attuari diversi, n. 29) pubblicato da V. De Filippo, op. cit., p. 53 segg.

14) G. Pennetti, op. cit., pg. 19.

15) Ferrante il Vecchio era il nome con cui abitualmente dagli storici antichi veniva indicato Ferrante (Ferdinando I) d'Aragona (su di lui vedi: E. Pontieri, - Per la storia del regno di Ferrante l d'Aragona re di Napoli, - Napoli, [1946]. Suoi successori furono: Alfonso I, Ferdinando II (Ferrandino), Federico; quindi il Regno fu sottoposto alla Spagna da Ferdinando il Cattolico, e retto da un viceré; a Ferdinando successe il nipote, l'imperatore Carlo V.

16) S. Ammirato, op. cit., vol. II, pp. 316-317; riportato da V. De Filippo, op. cit., pg. 47.

17) Così dicono i Giocoli: Gerardo (op. cit. p. 31) e Antonio (op. cit., pg. 22) i quali sembra che, stranamente, abbiamo confuso Alfonso I d'Aragona, detto il Magnanimo, con Alfonso II, figlio e successore di Ferrante il Vecchio. Parlano, infatti, dell'anno 1481 (ma il Magnanimo era già morto nel 1458) e di Michele Paleologo "ultimo imperatore d'Oriente" (ma l'ultimo imperatore d'Oriente fu, in realtà, Costantino XI che morì alla caduta di Costantinopoli nel 1453; mentre l'ultimo imperatore Paleologo, di nome Michele IX, era già morto nel 1320). Sembra, dunque, che si sia confuso Alfonso il Magnanimo con l'altro Alfonso (figlio di Ferrante il Vecchio) il quale regnerà, alla morte del padre, con il nome di Alfonso II. Questi, come principe ereditario, aveva guidato le truppe arruolate per la liberazione di Otranto, che era caduta sotto il potere dei Turchi, guidati da Ahmed Pascià, il giorno 11 agosto del 1490.
Né, d'altra parte, sembra possibile pensare (per l'epoca in cui visse Eligio, che morì nel 1517) alle guerre contro i Turchi da parte di Alfonso il Magnanimo, come è accennato nel libro: - Sant'Arcangelo e un suo poeta popolare - Orazio Spani, già citato, di cui si prende qui occasione per correggere, circa i feudatari di Sant'Arcangelo, varie incertezze.

18) G. Pennetti, op. cit., p. 58, ov'è riportata (doc.. III) una nota del "Grande Archivio Cedolari Antichi, vol. 4°, fol. 80 ", che qui si trascrive: Anno 1496. Comitis Aliani.
Acceptula CI - Stigliano CCCCXV - Gurguglioni CCXX - Alianello CXXX - Guardia CLXXX - Aliano CCCLX - Santo Arcangiolo CCLXXX - Roccanova CLXXX - Lo feudo di Gannano inhabitato - Lo feudo di Perticano inhabitato - Lo feudo di Rocca de Acino inhabitato - Lo feudo de rasa inhabitato.

19) G. Giocoli, op. cit., pg. 30; A. Giocoli, op. cit., pg. 21, che si rifanno a un non meglio specificato "manoscritto Satriani".

20) Di Antono Carafa, che sarà il primo principe di Stigliano, B. Aldimari (- Historia genealogica della famiglia Carafa - Napoli, 1691, 3 vol.) dice (Vol. II, pp. 362): "... si gloriava vivendo sontuosamente, facendo particolarmente professione di tenere gran quantità di cavalli onde non solo la sua stalla ma la sua razza fu giudicata la maggiore di tutte nel regno". E del figlio Luigi, lo stesso autore, parlando (ib. pg. 382) dell'incoronazione di Carlo V a Bologna, cui il Principe aveva partecipato, dice che Luigi " ... con tanto splendore comparve che superò, particolarmente di cavalleria, quanti signori e soggetti, e liberi che ivi in gran numero concorsero di tutte le nationi: perché recò egli seco la stalla tutta, che le fu dal padre lasciata e come che molto si dilettava di cavalcare, egli maneggiò con tanta bravura, e leggiadria... che si acquistò... una gran generale invidia..."; e più in là lo stesso scrittore nota che il principe Luigi "si mantenne con una magnificenza grande, e presso che Reale, mantenendo una cavalerizza di 100 cavalli e tanti falconi che mangiavano 40 galline il giorno...". Riportato da V. De Filippo, op. cit., pp. 66-67.

21) S. Ammirato, op. cit., p. 317, riportato da G. Pennetti, op. cit., p. 22; G. Giocoli, op. cit., p. 39; A. Giocoli, op. cit. p. 37.

22) Questo nome "Il Palazzo", ripetuto allo stesso modo e con la lettera maiuscola in tutte le carte, è una prova sicura che l'edificio della cavallerizza non solo fu abitato dai feudatari, ma fu un centro importante nell'amministrazione del feudo, forse, in qualche periodo, il centro più importante nelle terre dei della Marra e dei Carafa. Del resto, alcuni dei "capitoli" che verranno rilasciati dai principi di Stigliano sono chiusi con la formula "datum in Viridario nostro Sancti Arcangeli", cioé "dato nel nostro Giardino di Sant'Arcangelo; segno sicuro che lì abitava il Feudatario. A questo proposito il Pennetti (op. cit., p. 132) annota: "Il documento è datato da' giardini di S. Arcangelo. Ivi, nel sito detto la Cavallerizza, esisteva un fabbricato, del quale ancora veggonsi i grandiosi ruderi. In questo palazzo passavano parte dell'anno i Feudatari".

23) Ma oggi la diocesi, profondamente ristrutturata, per decreto della Sacra Congregazione dei Vescovi del giorno 8 settembre 1976, è denominata di Tursi-Lagonegro. Lo stesso decreto stabiliva che l'antichissimo titolo di Anglona fosse inserito nell'indice delle sedi titolari "da conferire ai Vescovi che sono chiamati titolari".

24) Anche il "Breve" di Sisto IV, di cui parla F. Gonzaga (Cfr. G. Pennetti, op. cit., p. 20) non si conosce direttamente. Ma ci fu, poi, veramente, questo "breve"? Perché il papa Sisto IV, di cui si parla, con la bolla "Ex suprema dispositione" del 23 novembre 1473 (e l'anno di fondazione di Orsoleo, è, ufficialmente, il 1474) aveva dato ai Frati Osservanti di Basilicata la facoltà di costruire, nella Regione, cinque conventi con tutto ciò che fosse necessario al culto e alla vita dei Padri.

25) Cfr. G. N. Molfese, - Memorie storiche di Basilicata, Roma, 1980, pg. 92; il quale riporta i documenti che il P. A. Primaldo Coco pubblicò in - I Francescani in Basilicata (estratto da "Studi francescani", luglio-agosto 1925), Firenze, 1925.
L'opera del Coco è la pubblicazione, con qualche lieve aggiunta, di un manoscritto della seconda metà del 1600, che l'autore trovò a Colobraro presso il parroco D. V. Gulfo, che era un ex frate francescano. Il manoscritto originale, ora conservato presso l'Archivio dei Frati Minori di Salerno, è diviso in due parti: I. Registrum bullarum Provinciae Observantis Basilicatae; II. Notitia Provinciae Observantis Basilicatae. Nella sua pubblicazione il Coco ha invertito l'ordine del manoscritto, così che la prima parte diventa seconda e la seconda prima. (Cfr. Società e Religione in Basilicata, - Roma, 1977; atti del Convegno di Potenza-Matera, 25-29 sett. 1975; vol. II, p. 72).
Il Molfese, che qui si segue, pubblica il testo del Coco. Nei documenti pubblicati si notano molti ed evidenti errori, che, non solo nelle parole ma anche nella punteggiatura, verranno, per quanto possibile, man mano corretti nel corso delle citazioni. Per quanto riguarda Orsoleo, i documenti più importanti sono il terzo della I parte e il secondo della II parte.

26) G. Giocoli, op. cit., pp. 64-65; A. Giocoli, op. cit., p. 40.

27) La diocesi di Boiano corrisponde all'attuale diocesi di Campobasso, qui, infatti, l'antica sede vescovile fu trasferita il 29 giugno 1927. Su A. Graziano cfr. F. Ughelli, op. cit., vol. VIII, col. 247, e N. Toppio - Biblioteca Napolitana, Napoli, 1678,; p. 327, ove sono elencate le opere scritte dal Graziano.

28) A. Primaldo Coco, op. cit. "De numero conventuum, punctum quartum .....", ", 3: "Conventus S. Mariae Usolei fundatus 1474". G. N. Molfese, op. cit., p. 86.

29) G. Nicola Molfese, op. cit., p. 91

30) C'è da notare che Eligio non era, come dice il testo, "principe di Stigliano", ma solo conte di Aliano e signore delle altre terre legate a questo feudo. Il titolo di "principe di Stigliano" sarà dato al feudatario di questi luoghi molto più tardi, nel 1522, quando Carlo V conferirà questo appellativo ad Antonio Carafa della Marra, nipote di Eligio.

31) Ma F. Ughelli (op. cit., vol. VII, col. 98-100) dice che nel 1474 vescovo di Anglona era Giacomo Chiasconio (dal 1472 al 1500) non Giacomo da Capua che avrebbe occupato la sede vescovile dal 1500 al 1508.

32) Si chiamavano "Frati dell'Osservanza" o anche "Frati devoti" i Francescani che si proponevano, secondo l'espressione di papa Clemente VI "Regulam simpliciter in primaeva puritate observare" cioè di osservare la regola di S. Francesco "semplicemente e nella purezza originaria". I primi tentativi di questo movimento religioso si ebbero con Giovanni della Valle (1334) e Gentile da Spoleto (1851) ma il vero promotore fu un fratello laico, Paolo (detto Paoluccio) di Vagnozzo Trinci, un nobile originario di Foligno che, nel 1368, con alcuni compagni, senza staccarsi dall'Ordine, ma con il permesso del P. Generale T. Frignano, si ritirò nel convento di Brugliano, tra Foligno e Camerino, con il proposito di osservare la regola di S. Francesco nell'antico spirito di rigore. Ma l'"Osservanza" ebbe il massimo sviluppo per opera di S. Bernardino da Siena e di tre suoi discepoli: S. Giovanni da Capestrano, S. Giacomo della Marca, B. Alberto da Sarteano (le quattro colonne dell'Osservanza).
Gli osservanti furono ufficialmente riconosciuti e messi al primo posto tra i frati francescani con la bolla di Leone X "Ite vos" del 29 maggio 1517. (Cfr. Enciclopedia cattolica, vol. V, col. 1727-1728). In Basilicata (ove si hanno già i primi conventi francescani nella seconda metà del sec. XIII) gli Osservanti fondarono i primi conventi intorno al 1440.
In seguito (già nella prima metà del sec. XVI) dagli Osservanti si staccarono i "Frati di più stretta osservanza", che furono poi detti "Riformati". Il convento che nel 1618 sorgerà a Sant'Arcangelo, nella zona settentrionale del paese, sarà dei "Riformati"; perciò la contrada che oggi è detta "Convento", nelle vecchie carte del paese era detta "presso la Croce dei Riformati", perché dinanzi all'attuale Chiesa del Convento si trovava, allora, la croce di pietra che poi fu messa dinanzi al cancello del cimitero.

33) E' il documento terzo della II. parte dell'opera di P. Coco, già cit. pp. 57-59 (G. N. Molfese, op. cit., pp. 141-144). Anche questo documento, come tutti gli altri, non è di facile comprensione, perché inficiato da molti errori: uno è già nell'intestazione: Assensus episcopali anziché episcopalis.

34) Non si sa come, perché e da quanto tempo questo vescovo (che, secondo l'Ughelli - cfr. preced. nota 30) - non sarebbe Giacomo da Capua, ma Giacomo Chiasconio) si trovasse a Senise, perché solo due vescovi si sa con sicurezza che ebbero la residenza a Senise, là morirono e là furono sepolti: Giovanni Paolo Amanio, di Cremona (vescovo dal 1560 al 1580) e Nicola Grano, di Ferrara (vescovo dal 1580 al 1595). Cfr. F. Ughelli (op. cit., vol. VII, col. 102-103) che riporta anche la lapide che il vescovo Amanio aveva preparato per la sua tomba nella cappella di S. Paolo, nella Chiesa Madre. F. Bastanzio (op. cit., pg. 50) dice: "Il primo vescovo... si chiamava Giovanni Paolo Amanio" E' strano, perciò, che a chiusura dell'assenso per la fondazione del Convento di Orsoleo, che è del 1474, si legga "Datum Sinisii in domo nostrae ipiscopalis residentiae...", parole che fanno intendere che prima dell'Amanio ci sarebbe stato a Senise questo Vescovo Giacomo, e non per un semplice passaggio, ma con stabile dimora; dice, infatti, il documento: nella casa della nostra residenza episcopale.

35) E' detto "Ordinario", nel diritto canonico, colui che, come, appunto, il vescovo, ha in sé la giurisdizione ecclesiastica ordinaria di una determinata zona, come, ad esempio, una diocesi.

36) II "giuspatronato", cioé il "diritto di patronato", dal vecchio Codice di diritto canonico era definito (can. 1448) "un privilegio, con annessi oneri, spettante, per concessione dell'autorità ecclesiastica, ai fedeli che abbiano fondato una chiesa, una cappella o un beneficio ed ai loro aventi causa".
II "patrono" aveva vari diritti e doveri. Fra i primi il più importante era quello di poter presentare all'autorità ecclesiastica un proprio candidato per l'amministrazione della chiesa. Vi era, inoltre, il diritto di porre nella chiesa lo stemma della famiglia e di avere la precedenza nelle processioni e un posto distinto durante le funzioni sacre. Il patrono aveva anche il diritto di potersi servire dei beni della chiesa se, senza sua colpa, fosse caduto in miseria, e tanti altri. Fra i doveri, il più importante consisteva nel riedificare la chiesa distrutta o nel ripararla quando fosse stato necessario.

37) Cfr. pag. 19.

 

 

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