IV°
ELIGIO DELLA MARRA E LA FONDAZIONE DEL CONVENTO
II passo del Gonzaga già citato continua, nella libera traduzione del
Pennetti (1), con queste parole: "Manifestando la Vergine molti miracoli,
grande fu il concorso dei popoli circonvicini ed allora fu che Eligio della
Marra, conte di Aliano, e possessore di S. Arcangelo, uomo devotissimo,
pensò di edificarvi un convento, ed ottenuto dal Pontefice Sisto IV il
Breve, edificò un convento, per gli Osservanti, capace di contenere 23
frati". Poi lo stesso Pennetti riferisce la leggenda più popolare di
Orsoleo, conosciuta da tutti nella zona, sebbene narrata, dall'uno o
dall'altro, in modo diverso. Scrive, dunque, il Pennetti: "Nella chiesa vi è
un quadro nel quale è dipinta l'effigie di Eligio, vestito da guerriero,
nell'atto di uccidere un gran drago. A questo quadro (4) si collega la
leggenda, cioè Eligio avere ucciso un gran drago, che infestava le campagne
di Gannano, e nell'ora del pericolo, corso per combatterlo, aver invocato la
Vergine di Orsoleo, in onore della quale poi eresse il monastero. Certa cosa
è che presso l'altare della Madonna, che è l'altare della primitiva
cappella, sono sospese due grosse mascelle, che appartennero ad una testa di
forma triangolare, munita di aguzzi denti e due lunghi corni diritti, che
non appartengono a nessuna delle specie di animali esistenti nelle nostre
parti".
La stessa leggenda è riportata da Carlo Levi (6), il quale, certamente,
l'aveva sentita dalla sua Giulia, detta la Santarcangiolese, che,
ovviamente, la diceva così come, chissà quante volte, l'aveva udita narrare,
da bambina, nel suo paese di origine, soprattutto alla vigilia della festa
della Madonna, come allora si usava a Sant'Arcangelo e nei paesi vicini. Il
Levi, dunque, rifacendosi alla narrazione popolare, dice protagonista del
fatto non Eligio della Marra, fondatore del convento, ma un non meglio
specificato "Principe Colonna", perché il popolo che continuava a narrare
l'episodio l'attribuiva, genericamente, ai suoi feudatari, e gli unici che
conosceva erano gli ultimi, appunto i Colonna di Stigliano.
Dalla sua abitazione di Aliano lo scrittore vedeva Sant'Arcangelo e
(sebbene, nel suo racconto, collocata in modo piuttosto incerto nel
paesaggio) la chiesa di Orsoleo. "Di là dall'Agri su una prima fila di
colline grige, sorgeva bianco Sant'Arcangelo, il paese di Giulia, e dietro,
più azzurre, si levavano altre colline ed altre ancora, schierate più
indietro, con dei paesi vaghi nella distanza, e più là ancora i borghi degli
albanesi sulle prime pendici del Pollino, e dei monti di Calabria che
chiudevano l'orizzonte. Un po' a sinistra, appariva a mezza costa di
un'altura, il biancore di una chiesa. Qui usavano convenire in
pellegrinaggio le genti della valle: era un luogo di molta devozione, sede
di una Madonna miracolosa. In questa chiesa erano conservate le corna di un
drago che infestava, nei tempi antichi, la regione. Tutti, a Gagliano (7),
le avevano vedute. Io purtroppo non potei mai andarci come avrei desiderato.
Il drago, a quello che mi raccontarono, abitava in una grotta vicino al
fiume, e divorava i contadini, riempiva le terre del suo fiato
pestilenziale, rapiva le fanciulle, distruggeva i raccolti. Non si poteva
più vivere, in quel tempo, a Sant'Arcangelo. I contadini avevano cercato di
difendersi, ma non potevano far nulla contro quella bestiale potenza
mostruosa. Ridotti alla disperazione, costretti a disperdersi come animali
su per i monti, pensarono infine di rivolgersi per soccorso al più potente
signore dei luoghi, al principe Colonna di Stigliano. Il principe venne,
tutto armato, sul suo cavallo, andò alla grotta del drago e lo sfidò a
battaglia. Ma la forza del mostro, dalla bocca che lanciava fuoco e dalle
enormi ali di pipistrello, era immensa e la spada del principe pareva
impotente di fronte a lui. A un certo momento, quel valoroso si sentì
tremare il cuore, e stava per darsi quasi alla fuga o per cadere fra gli
artigli del drago, quando gli apparve, vestita di azzurro, la Madonna, che
gli disse con un sorriso: - Coraggio, principe Colonna! E rimase da una
parte, appoggiata alla parete di terra della caverna, a guardare la lotta. A
questa visione, a queste parole, l'ardimento del principe si centuplicò, e
tanto fece che il dragone cadde morto ai suoi piedi. Il principe gli tagliò
la testa, ne staccò le corna, e fece edificare la chiesa perché vi fossero
per sempre conservate".
Ancora oggi si vedono, appena all'ingresso della chiesa, due lunghe "corna"
bianche e una grande mascella triangolare, che il popolo diceva essere le
corna e la mascella del drago ucciso dal principe. Erano l'attrattiva più
grande di piccoli e di adulti, che, meravigliati, guardavano quei resti
antichissimi, segni del noto prodigio e della devozione dei padri alla
Madonna miracolosa. Si tratta, forse, di resti fossili (zanne di elefante e
mascella di un coccodrillo o di qualche altro grosso rettile) arrivati fin
qui chissà come e da dove; ma davano, nei tempi passati, emozioni intense, e
ricordavano tempi lontani, e risvegliavano morti sentimenti in chi, una
volta all'anno, l'otto di settembre, giorno della festa di Orsoleo, quasi
per un rito obbligatorio andava ad osservarli commosso.
Se si volesse tentare una qualche spiegazione della leggenda del drago
ucciso dal principe con l'aiuto della Madonna, si potrebbe pensare (oltre
alla comune inclinazione alla credenza in fatti soprannaturali da parte di
tutti i popoli di cultura semplice e primitiva) a un signore particolarmente
buono e generoso verso il suo popolo (Eligio della Marra) e a qualche opera
di bonifica di terreni paludosi e malarici da parte dello stesso feudatario
(8) o, prima di lui, da parte dei monaci o dei ministri del culto che
avevano avuto in cura la chiesa di Orsoleo. "Il drago abitava nel fiume, era
una bestia dell'acqua", fa dire Carlo Levi (9) agli abitanti di
Sant'Arcangelo liberati dal flagello, "il principe si prenda dunque il
fiume, diventi il signore della corrente ..." . D'altra parte si sa che gli
antichi monasteri, piccoli o grandi che fossero, furono, spesso, centri di
bonifica delle terre incolte presso cui sorgevano, e centri di aggregazione
e di istruzione per i contadini della zona (10). E, inoltre, si sa che il
fiume Agri, che ora è ridotto a un rigagnolo insignificante (in attesa che
scompaia del tutto) era, una volta, un fiume regale, bello, placido e nobile
nei tempi sereni, e grande e terribile nei periodi di pioggia e di tempeste,
quando si sentiva fin dal paese il suo rumore pauroso, e i contadini
osservavano con apprensione dai muretti della Piazza Piccola (che allora,
quando non c'era il grande edificio delle scuole elementari né alcun'altra
costruzione verso oriente, si apriva libera sul vasto panorama della valle)
la sua corrente turbinosa che trascinava fango e sassi e rami e tronchi
d'alberi; e si chiedevano se avrebbe risparmiato la vigna o l'orto dell'uno
o dell'altro, o se, invece, nel suo vortice irrefrenabile, avrebbe travolto
ogni cosa, come aveva già fatto tante volte nel passato, allargando oltre
ogni limite il suo letto già largo fino all'inverosimile.
E' facile, dunque, pensare alle tante fatiche, alle tante lotte che s'erano
sostenute per strappare alla corrente le terre vitali; ed era naturale che
nascessero credenze e leggende di fatti strani e miracolosi legati al grande
fiume apportatore di ricchezza e di miseria, di gioia e di dolore, di vita e
di morte.
Queste le leggende; storicamente è certo che il convento di Orsoleo fu
fondato per volere del conte Eligio della Marra.
La famiglia della Marra, una delle più nobili del Regno di Napoli era
originaria della Puglia. Il primo membro di questa famiglia che ebbe il
feudo cui apparteneva Sant'Arcangelo fu Guglielmo, figlio di Risone della
Marra signore di Barletta. Guglielmo, che fin dal 1283 risulta padrone del
feudo di Roccanova avuto in dote dalla prima moglie, Adelisia (11), ebbe le
terre di Stigliano, Aliano, Sant'Arcangelo e altre da parte di re Carlo II
lo Zoppo, figlio di Carlo I d'Angiò (12). Per quanto riguarda il ramo lucano
dei della Marra, la discendenza è la seguente: a Guglielmo successe il
figlio Niccolò (che ebbe a lottare con i Gattini di Barletta) a Niccolò
successe Eligio, quindi Jacopo (detto Iacobello), a Jacopo, Guglielmo (II)
che ebbe il titolo di conte di Aliano. Guglielmo sposò Polissena
Sanseverino, appartenente alla famiglia più importante, allora, nel Regno di
Napoli. Da questo matrimonio nacquero Eligio (II), Berardina (13) e Luigi
che morì ancora giovane. Eligio, alla morte del padre (1480) dovette pagare
la somma di 20.000 ducati "per avere l'intestazione dei feudi" (14), ma
forse già prima aveva il titolo di "conte di Aliano", come è indicato nella
bolla papale (1474) della fondazione del convento di Orsoleo.
Eligio fu celebre, ai suoi tempi, per ricchezze e magnificenza, ma
all'inizio sembra che abbia dovuto molto lottare per venire in possesso dei
suoi beni. "Il conte Eligio che visse sotto Re Ferrante il Vecchio e i
susseguenti Re (15) in sino all'anno 1517 nel quale morì, hebbe per alcun
tempo travaglio nel possessio del suo stato occupatogli dal re, perciò che
non s'havea voluto lasciar egli condurre à prendere una donna per moglie di
nobilissimo sangue, con cui s'havea opinione, che il re havesse havuto non
molto onesta pratica, prese per moglie Ciancia Caraciola". (16) Eligio non
ebbe figli. Secondo l'Ammirato, dunque, fu per questo atto ammirevole di
rispetto verso se stesso che Eligio ebbe contrasto con il Re, non per aver
negato il suo contributo di vassallo ad Alfonso il Magnanimo in tempo di
guerra (17).
Eligio fu grande e magnifico signore, e molto ricco e potente. Solo in
Basilicata possedeva Aliano, Accettura, Stigliano, Gorgoglione, Alianello,
Guardia, Sant'Arcangelo, Roccanova e feudi minori, per i quali pagava ogni
anno contributi abbastanza elevati (18). Con tanti feudi e con le proprietà
che aveva ereditato in Napoli dalla madre Polissena Sanseverino, Eligio
poteva vivere da vero principe e spostarsi a piacere nei vari palazzi dei
suoi feudi e dei suoi possedimenti fra la Basilicata e Napoli, la capitale
del Regno, ove tutti i nobili avevano palazzi sontuosi. Abitò, certamente,
anche a Sant'Arcangelo, ma non tanto, forse, nel centro abitato (anche se
qui pure dovette esserci un castello, com'è testimoniato dal fatto che,
ancora oggi, la contrada più alta del paese è chiamata, appunto, "Castello")
quanto in un suo palazzo che, a differenza dei castelli e, in genere, delle
dimore nobiliari di quel tempo, non sorgeva sopra un'altura, bensì in basso,
nella verde pianura dell'Agri, fra orti, uliveti e vigneti e vastissimi
boschi di querce. Di questo palazzo, fondato, probabilmente, nel sec. XIV
dai primi signori della Marra, restano ancora suggestive e imponenti rovine
dette, dal popolo, "Mura dei giardini" . Doveva essere enorme: un'antica
tradizione" lo diceva fornito di tante stanze quanti sono i giorni
dell'anno. Qui, con ogni probabilità, doveva trovarsi la grande
"Cavallerizza" che diverrà celebre in tutto il Regno e oltre, soprattutto
con i successori di Eligio: Antonio e Luigi Carafa della Marra (20). Forse a
questo amore di Eligio per i cavalli si riferisce il bel dipinto di Orsoleo
sulla lunetta volta a occidente in un locale a piano terra nel corpo
avanzato a sinistra della facciata della chiesa: l'unico, con il
corrispettivo sulla lunetta di fronte, di soggetto non sacro. In questo
affresco si vedono due grandi cavalli monocromi che dominano il bel
paesaggio con fiume, a destra del quale si vedono vari edifici fra cui si
può, forse, individuare il convento stesso ancora in costruzione. Del resto
si narra che Egidio, morendo, "...lasciò allo stato una ricca e ampia
facoltà di bestiame...", fra cui, certamente, avevano il primo posto i
cavalli. La leggenda stessa del principe che, a cavallo, combatte e uccide
il drago, non potrebbe essere nata anche da questa passione per i cavalli di
cui sempre i della Marra e i Carafa avevano fatto mostra nei loro feudi e
altrove?
Il palazzo della "Cavallerizza", oltre che molto grande, dovette essere
anche molto importante e molto noto, infatti si trova segnato, con il nome
"Il Palazzo", in varie carte geografiche delineate dalla fine del '500 a
tutto il `700: si trova nell'atlante disegnato da G. A. Magini alla fine del
'500 e stampato, postumo, a Bologna dal figlio Fabio nel 1620; in una carta
secentesca di Terra di Bari e Basilicata tratta dall'Hondius; in un altra
del Blaeu, stampata ad Amsterdam nel 1635; e, finalmente, in una carta della
provincia di Basilicata e Terra di Bari di Domenico De Rossi stampata a Roma
nel 1714. In tutte queste carte "il Palazzo" viene indicato sempre con molta
chiarezza e precisione (22), non solo presso l'Agri ma tutto circondato
dalle acque del fiume, deviato, in quel punto, in modo da formare una vera
isoletta di una certa estensione; il che ci fa pensare alla bellezza e alla
suggestione dell'edificio lambito dalla corrente, in mezzo ad orti e
giardini di inusitata ricchezza, in una terra ancora pura e intatta, tutta
verde di querce e di canneti e ricchissima di animali di ogni tipo e dei più
svariati uccelli.
Non lontano di qui, dunque, sulla verde collina che vedeva elevarsi in dolce
pendio sulla riva destra dell'Agri, Eligio della Marra, famoso, ai suoi
tempi, non solo per ricchezza e magnificenza, ma anche per la pietà e il
sentimento religioso, volle edificare il nuovo convento per i Padri
Francescani, e rinnovare l'antico culto e la devozione alla Madonna. E si
rivolse, per questo al Vescovo di Anglona-Tursi, diocesi da cui ancora oggi
dipende Sant'Arcangelo (23), per avere l'assenso della legittima autorità
ecclesiastica.
Sulla fondazione del convento di Orsoleo e sulla storia e sullo sviluppo
della comunità religiosa che vi ebbe sede, non si hanno, purtroppo,
documenti originali (24): caso, forse, più unico che raro per un'istituzione
di tale importanza e di tale grandezza, soprattutto perché il convento,
"sedes provincialis per anticum decretum", si sa che era "ornato" di
biblioteca ed era "residentia archivii, et quia, in necessariis abundat
iuxta temporis exigentiam philosophiae, quandoque theologiae opera datur"
(25); era, cioè, sede di archivio, ed essendo ben fornito del necessario, vi
si insegnava, secondo il bisogno, filosofia e teologia. E' strano, perciò,
che di un istituto così importante non sia rimasto né un libro né una pagina
di archivio; ed è naturale che si pensi ad una distruzione violenta di tutti
i libri e di tutti i documenti di Orsoleo; tanto più che di questi (tolti i
documenti più antichi conservati a Cava, che, come già si è detto, non
riguardano il convento, ma la primitiva chiesa di S. Maria) non è rimasto
niente nemmeno negli archivi centrali dei Francescani sia a Napoli che a
Roma. E si narra (26), a questo proposito, un fatto che ha tutto il sapore
della leggenda, ma che viene riferito a un personaggio storico: Antonio
Graziano, di Sant'Arcangelo, che fu Vescovo di Boiano dal 1666 al 1684 (27).
Si narra, dunque, che questo Antonio Graziano, uomo molto stimato per
intelligenza e dottrina, ma di costumi poco lodevoli, frate a Orsoleo,
nominato vescovo, per evitare che a Roma e a Napoli fossero inviate notizie
che non gli facevano onore, una notte avrebbe incendiato l'archivio e, con
l'archivio, la biblioteca del convento. Vero o inventato che sia l'episodio,
il fatto è che circa l'origine e la vita del convento si hanno solo
pochissime notizie, e quasi mai di prima mano. Si sa, però, che il convento
nacque, per volere di Eligio della Marra, nel 1474 (28).
Il documento III di quelli che il P. Primaldo Coco pubblica nella prima
parte della sua opera sui Francescani di Basilicata (29), dopo aver
accennato ai Fraticelli e al miracolo della statua della Madonna che volle
abbandonare Carbone per stabilirsi nella selva di Orsoleo, tra
Sant'Arcangelo e Roccanova, continua: "Propterea piissimus Eligius de Marra
princeps Hostiliani et Aliani comes (30), isto et aliis, quibus Virginis
Immago corruscabat miraculis, motus, adimplens adhuc Patris pium desiderium,
authoritate Iacobi de Capua, episcopi diocaesani, amplum Monasterium a
dictis oppidis a duo miliaria distantem ex proprio erario Observantibus
aedificavit anno 1474 in cappella dictae Mariae de Ursoleo, Anglonensis
Diocesis...". Il conte Eligio, dunque, spinto dal miracolo della statua
della Madonna che volle passare da Carbone a Orsoleo, e da altri miracoli
che rendevano insigne l'immagine della Vergine, adempiendo anche un pio
desiderio del padre, con il permesso del Vescovo diocesano Giacomo da Capua
(31), nell'anno 1474, edificò a proprie spese, a circa due miglia dai già
nominati paesi Sant'Arcangelo e Roccanova, un vasto monastero per i frati
osservanti (32).
Queste stesse notizie, circa l'origine del convento di Orsoleo, sono esposte
con più ampiezza, anzi con inutile prolissità, nell'"Assensus episcopalis
pro conventu Ursolei" (33) in cui il Vescovo Giacomo da Capua, il giorno 20
del mese di giugno 1474, nel terzo anno del pontificato di Papa Sisto IV, da
Senise, ove allora si trovava (34), dà il suo benestare al conte Eligio per
la costruzione di una chiesa o di un monastero dell'ordine di S. Francesco o
di, un altro ordine religioso. Egli, continua il documento, chiese a noi,
come ordinario del luogo (35), di costruire "ex novo", cioè dalle
fondamenta, un monastero "in ecclesia S. Mariae de Ursoleo, in qua ipse
suique praedecessores hattenus obitinuerunt, et obtinet Ius patronatus...".
Il nuovo monastero, dunque, secondo la richiesta di Eligio, doveva essere
costruito sulla vecchia cappella di S. Maria, sulla quale egli stesso, come
già i suoi predecessori, aveva il diritto di "giuspatronato" (36). Dunque i
feudatari di Sant'Arcangelo avevano il diritto di patronato già sull'antica
cappella di S. Maria; ma quando e come l'avevano ottenuto? Il patronato,
infatti, nasceva se si fondava una chiesa o se si istituiva un beneficio; ma
la cappella di S. Maria non era stata fondata dai feudatari bensì da
privati; perché, dunque, i feudatari avevano accampato questi diritti?
Purtroppo mancano documenti in proposito e, perciò, non è possibile dare una
risposta. Ma è facile pensare che, nel periodo oscuro e turbolento seguito
alla morte dell'ultimo custode e rettore, il prete Bonicio, i feudatari
dovettero intromettersi, in qualche modo, nell'amministrazione della
cappella, per poi accampare diritti che, certamente, a loro non pertenevano,
a meno che non avessero comprato la proprietà della cappella con i diritti
annessi. Questo diritto di patronato (giusto o ingiusto che fosse) ci
spiega, forse, l'atto di violenza perpetrato all'inizio del `300, dal
feudatario di Sant'Arcangelo ai danni della chiesa di Orsoleo "sostenendo
che questa fosse di suo diritto e non appartenesse al Vescovo di Anglona"
(37).
Il Vescovo, dunque, dopo aver detto della richiesta del Conte, vista
l'utilità della nuova istituzione per il bene delle anime, permette che
Eligio possa "concessione, assensu atque consensu" dello stesso Vescovo
"convertere in ecclesiam et monasterium eiusdem ordinis S. Francisci...
ecclesiam S. Mariae de Ursoleo de pertinentiis dictae terrae S. Arcangeli et
Roccae Novae eiusdem Anglonensis Diocesis". Cioè che possa trasformare in
una chiesa e un monastero dell'Ordine di S. Francesco quella che era la
vecchia cappella di S. Maria di Orsoleo nel territorio di Sant'Arcangelo e
di Roccanova nella diocesi di Anglona. Il vescovo concede, inoltre, al
Conte, la facoltà di vendere e di alienare tutti i beni sia mobili che
immobili, purché tutto si faccia "ad aedificationem et constructionem iam
dictae ecclesiae, cum campana, campanili, atque dicti monasterii, seu pii
loci omnibus aliis singulis officinis..." ossia purché tutto serva per la
costruzione della chiesa fornita di campana e di campanile, e per tutte le
altre cose (officine) necessarie alla vita del monastero o luogo pio "iure,
tamen ecclesiarum parochialium semper salvo", sempre, cioè, salvaguardando i
diritti delle vicine parrocchie di Sant'Arcangelo e di Roccanova. Il
documento episcopale era sigillato e firmato dal cancelliere Roberto
Riziense.
lll
NOTE DEL CAPITOLO 4
1) G. Pennetti, op. cit., p. 20.
2) Sisto IV (Francesco della Rovere, francescano) fu papa dal 1471 al 1484.
Il "breve" è un documento papale meno solenne della bolla e redatto a
richiesta del destinatario. Era sigillato con cera rossa, mentre la bolla
aveva il sigillo di piombo.
3) G. Pennetti, op. cit., p. 20.
4) Si tratta del grande quadro che è scomparso nel marzo del 1969 e che
poteva ammirarsi sulla parete prospiciente l'altare maggiore, in alto, a
destra della cantoria. Il quadro era opera ammiratissima di Michelangelo
Scardaccione, nato a Sant'Arcangelo da Giuseppe Matteo e da Maria Ferrarese
il 15 aprile 1838. Fu a Napoli discepolo del De Vivo e, nella giovinezza e
nella maturità, fu noto e onorato specialmente in Sicilia e nel Meridione
d'Italia. Viaggiò in Italia e in Europa lasciando, in molti luoghi, segni
del suo talento. Di lui si cita "II suicidicio di Caronda", nel municipio di
Catania, e si ammiravano molte opere (sviluppate, spesso, a cicli) in
Sicilia, in Calabria e a Roma. In Basilicata lasciò quadri presso varie
famiglie: Viggiani, di Potenza, Fortunato, di Roccanova, Ferrarese,
Scardaccione e Castronuovo, di Sant'Arcangelo, Magaldi e Simonetti di S.
Chirico Raparo. Dopo molte peregrinazioni, ritornò, nel 1873, a
Sant'Arcangelo, ove, colpito da cecità, perse la ragione. Rinchiuso nel
manicomio di Aversa, vi morì il 13 luglio 1902. Fu pittore di gusto
romantico, di molta piacevolezza, di ammirevole maestria; ingiustamente è
stato quasi dimenticato: meriterebbe ben altra lode. (Cfr. A. Giocoli, op.
cit., pp. 94-95).
5) Lo spazio antistante l'altare della Madonna è, forse, ciò che costituiva
l'antica cappella di S. Maria e la chiesa del primo convento, come
sembrerebbe dimostrare qualche frammento di pittura e qualche ornamento in
mattoni che, già coperti da sovrastrutture posteriori, stanno venendo alla
luce nei lavori di restauro attualmente (1990) in corso.
6) C. Levi, - Cristo si è fermato a Eboli, - Torino, Einaudi, 4` ediz.,
(Struzzi) 1977, pp. 96-97.
7) E' il nome con cui il Levi indica, nel suo libro, Aliano.
8) Un'opera di bonifica di particolare impegno potrebbe essere stata quella
necessaria per la costruzione, sulla riva destra dell'Agri, del grande
palazzo detto della Cavallerizza.
9) C. Levi, op. cit., pg. 97.
10) Cfr. J. Gay, - L'Italia meridionale e l'impero bizantino, - (traduz.
italiana), Firenze, 1917, pp. 250-251.
11) G. Pennetti, op. cit., pg. 15
12) Le notizie sulla famiglia della Marra si trovano soprattutto nel II
volume (pp. 314 sg.) della grande opera (Firenze, 1651) di Scipione
Ammirato, - Delle famiglie nobili napoletane, - scritta nel 1580, ma
stampata più tardi, e nelle memorie delle famiglie nobili delle province
meridionali d'Italia raccolte dal Conte Bernardo Candida Gonzaga, Napoli,
1878, vol. IV, p. 139. Cfr. G. Giocoli, op. cit., pp. 27 sg.; G. Pennetti,
op. cit., pp. sg. V. De Filippo, op. cit., pp. 46-47.
13) Non Isabella, come dice il Pennetti (op. cit., pp. 18-22) ma Berardina,
come può dedursi dal lungo documento (ASN, attuari diversi, n. 29)
pubblicato da V. De Filippo, op. cit., p. 53 segg.
14) G. Pennetti, op. cit., pg. 19.
15) Ferrante il Vecchio era il nome con cui abitualmente dagli storici
antichi veniva indicato Ferrante (Ferdinando I) d'Aragona (su di lui vedi:
E. Pontieri, - Per la storia del regno di Ferrante l d'Aragona re di Napoli,
- Napoli, [1946]. Suoi successori furono: Alfonso I, Ferdinando II
(Ferrandino), Federico; quindi il Regno fu sottoposto alla Spagna da
Ferdinando il Cattolico, e retto da un viceré; a Ferdinando successe il
nipote, l'imperatore Carlo V.
16) S. Ammirato, op. cit., vol. II, pp. 316-317; riportato da V. De Filippo,
op. cit., pg. 47.
17) Così dicono i Giocoli: Gerardo (op. cit. p. 31) e Antonio (op. cit., pg.
22) i quali sembra che, stranamente, abbiamo confuso Alfonso I d'Aragona,
detto il Magnanimo, con Alfonso II, figlio e successore di Ferrante il
Vecchio. Parlano, infatti, dell'anno 1481 (ma il Magnanimo era già morto nel
1458) e di Michele Paleologo "ultimo imperatore d'Oriente" (ma l'ultimo
imperatore d'Oriente fu, in realtà, Costantino XI che morì alla caduta di
Costantinopoli nel 1453; mentre l'ultimo imperatore Paleologo, di nome
Michele IX, era già morto nel 1320). Sembra, dunque, che si sia confuso
Alfonso il Magnanimo con l'altro Alfonso (figlio di Ferrante il Vecchio) il
quale regnerà, alla morte del padre, con il nome di Alfonso II. Questi, come
principe ereditario, aveva guidato le truppe arruolate per la liberazione di
Otranto, che era caduta sotto il potere dei Turchi, guidati da Ahmed Pascià,
il giorno 11 agosto del 1490.
Né, d'altra parte, sembra possibile pensare (per l'epoca in cui visse
Eligio, che morì nel 1517) alle guerre contro i Turchi da parte di Alfonso
il Magnanimo, come è accennato nel libro: - Sant'Arcangelo e un suo poeta
popolare - Orazio Spani, già citato, di cui si prende qui occasione per
correggere, circa i feudatari di Sant'Arcangelo, varie incertezze.
18) G. Pennetti, op. cit., p. 58, ov'è riportata (doc.. III) una nota del
"Grande Archivio Cedolari Antichi, vol. 4°, fol. 80 ", che qui si trascrive:
Anno 1496. Comitis Aliani.
Acceptula CI - Stigliano CCCCXV - Gurguglioni CCXX - Alianello CXXX -
Guardia CLXXX - Aliano CCCLX - Santo Arcangiolo CCLXXX - Roccanova CLXXX -
Lo feudo di Gannano inhabitato - Lo feudo di Perticano inhabitato - Lo feudo
di Rocca de Acino inhabitato - Lo feudo de rasa inhabitato.
19) G. Giocoli, op. cit., pg. 30; A. Giocoli, op. cit., pg. 21, che si
rifanno a un non meglio specificato "manoscritto Satriani".
20) Di Antono Carafa, che sarà il primo principe di Stigliano, B. Aldimari
(- Historia genealogica della famiglia Carafa - Napoli, 1691, 3 vol.) dice
(Vol. II, pp. 362): "... si gloriava vivendo sontuosamente, facendo
particolarmente professione di tenere gran quantità di cavalli onde non solo
la sua stalla ma la sua razza fu giudicata la maggiore di tutte nel regno".
E del figlio Luigi, lo stesso autore, parlando (ib. pg. 382)
dell'incoronazione di Carlo V a Bologna, cui il Principe aveva partecipato,
dice che Luigi " ... con tanto splendore comparve che superò,
particolarmente di cavalleria, quanti signori e soggetti, e liberi che ivi
in gran numero concorsero di tutte le nationi: perché recò egli seco la
stalla tutta, che le fu dal padre lasciata e come che molto si dilettava di
cavalcare, egli maneggiò con tanta bravura, e leggiadria... che si
acquistò... una gran generale invidia..."; e più in là lo stesso scrittore
nota che il principe Luigi "si mantenne con una magnificenza grande, e
presso che Reale, mantenendo una cavalerizza di 100 cavalli e tanti falconi
che mangiavano 40 galline il giorno...". Riportato da V. De Filippo, op.
cit., pp. 66-67.
21) S. Ammirato, op. cit., p. 317, riportato da G. Pennetti, op. cit., p.
22; G. Giocoli, op. cit., p. 39; A. Giocoli, op. cit. p. 37.
22) Questo nome "Il Palazzo", ripetuto allo stesso modo e con la lettera
maiuscola in tutte le carte, è una prova sicura che l'edificio della
cavallerizza non solo fu abitato dai feudatari, ma fu un centro importante
nell'amministrazione del feudo, forse, in qualche periodo, il centro più
importante nelle terre dei della Marra e dei Carafa. Del resto, alcuni dei
"capitoli" che verranno rilasciati dai principi di Stigliano sono chiusi con
la formula "datum in Viridario nostro Sancti Arcangeli", cioé "dato nel
nostro Giardino di Sant'Arcangelo; segno sicuro che lì abitava il
Feudatario. A questo proposito il Pennetti (op. cit., p. 132) annota: "Il
documento è datato da' giardini di S. Arcangelo. Ivi, nel sito detto la
Cavallerizza, esisteva un fabbricato, del quale ancora veggonsi i grandiosi
ruderi. In questo palazzo passavano parte dell'anno i Feudatari".
23) Ma oggi la diocesi, profondamente ristrutturata, per decreto della Sacra
Congregazione dei Vescovi del giorno 8 settembre 1976, è denominata di
Tursi-Lagonegro. Lo stesso decreto stabiliva che l'antichissimo titolo di
Anglona fosse inserito nell'indice delle sedi titolari "da conferire ai
Vescovi che sono chiamati titolari".
24) Anche il "Breve" di Sisto IV, di cui parla F. Gonzaga (Cfr. G. Pennetti,
op. cit., p. 20) non si conosce direttamente. Ma ci fu, poi, veramente,
questo "breve"? Perché il papa Sisto IV, di cui si parla, con la bolla "Ex
suprema dispositione" del 23 novembre 1473 (e l'anno di fondazione di
Orsoleo, è, ufficialmente, il 1474) aveva dato ai Frati Osservanti di
Basilicata la facoltà di costruire, nella Regione, cinque conventi con tutto
ciò che fosse necessario al culto e alla vita dei Padri.
25) Cfr. G. N. Molfese, - Memorie storiche di Basilicata, Roma, 1980, pg.
92; il quale riporta i documenti che il P. A. Primaldo Coco pubblicò in - I
Francescani in Basilicata (estratto da "Studi francescani", luglio-agosto
1925), Firenze, 1925.
L'opera del Coco è la pubblicazione, con qualche lieve aggiunta, di un
manoscritto della seconda metà del 1600, che l'autore trovò a Colobraro
presso il parroco D. V. Gulfo, che era un ex frate francescano. Il
manoscritto originale, ora conservato presso l'Archivio dei Frati Minori di
Salerno, è diviso in due parti: I. Registrum bullarum Provinciae Observantis
Basilicatae; II. Notitia Provinciae Observantis Basilicatae. Nella sua
pubblicazione il Coco ha invertito l'ordine del manoscritto, così che la
prima parte diventa seconda e la seconda prima. (Cfr. Società e Religione in
Basilicata, - Roma, 1977; atti del Convegno di Potenza-Matera, 25-29 sett.
1975; vol. II, p. 72).
Il Molfese, che qui si segue, pubblica il testo del Coco. Nei documenti
pubblicati si notano molti ed evidenti errori, che, non solo nelle parole ma
anche nella punteggiatura, verranno, per quanto possibile, man mano corretti
nel corso delle citazioni. Per quanto riguarda Orsoleo, i documenti più
importanti sono il terzo della I parte e il secondo della II parte.
26) G. Giocoli, op. cit., pp. 64-65; A. Giocoli, op. cit., p. 40.
27) La diocesi di Boiano corrisponde all'attuale diocesi di Campobasso, qui,
infatti, l'antica sede vescovile fu trasferita il 29 giugno 1927. Su A.
Graziano cfr. F. Ughelli, op. cit., vol. VIII, col. 247, e N. Toppio -
Biblioteca Napolitana, Napoli, 1678,; p. 327, ove sono elencate le opere
scritte dal Graziano.
28) A. Primaldo Coco, op. cit. "De numero conventuum, punctum quartum
.....", ", 3: "Conventus S. Mariae Usolei fundatus 1474". G. N. Molfese, op.
cit., p. 86.
29) G. Nicola Molfese, op. cit., p. 91
30) C'è da notare che Eligio non era, come dice il testo, "principe di
Stigliano", ma solo conte di Aliano e signore delle altre terre legate a
questo feudo. Il titolo di "principe di Stigliano" sarà dato al feudatario
di questi luoghi molto più tardi, nel 1522, quando Carlo V conferirà questo
appellativo ad Antonio Carafa della Marra, nipote di Eligio.
31) Ma F. Ughelli (op. cit., vol. VII, col. 98-100) dice che nel 1474
vescovo di Anglona era Giacomo Chiasconio (dal 1472 al 1500) non Giacomo da
Capua che avrebbe occupato la sede vescovile dal 1500 al 1508.
32) Si chiamavano "Frati dell'Osservanza" o anche "Frati devoti" i
Francescani che si proponevano, secondo l'espressione di papa Clemente VI
"Regulam simpliciter in primaeva puritate observare" cioè di osservare la
regola di S. Francesco "semplicemente e nella purezza originaria". I primi
tentativi di questo movimento religioso si ebbero con Giovanni della Valle
(1334) e Gentile da Spoleto (1851) ma il vero promotore fu un fratello
laico, Paolo (detto Paoluccio) di Vagnozzo Trinci, un nobile originario di
Foligno che, nel 1368, con alcuni compagni, senza staccarsi dall'Ordine, ma
con il permesso del P. Generale T. Frignano, si ritirò nel convento di
Brugliano, tra Foligno e Camerino, con il proposito di osservare la regola
di S. Francesco nell'antico spirito di rigore. Ma l'"Osservanza" ebbe il
massimo sviluppo per opera di S. Bernardino da Siena e di tre suoi
discepoli: S. Giovanni da Capestrano, S. Giacomo della Marca, B. Alberto da
Sarteano (le quattro colonne dell'Osservanza).
Gli osservanti furono ufficialmente riconosciuti e messi al primo posto tra
i frati francescani con la bolla di Leone X "Ite vos" del 29 maggio 1517.
(Cfr. Enciclopedia cattolica, vol. V, col. 1727-1728). In Basilicata (ove si
hanno già i primi conventi francescani nella seconda metà del sec. XIII) gli
Osservanti fondarono i primi conventi intorno al 1440.
In seguito (già nella prima metà del sec. XVI) dagli Osservanti si
staccarono i "Frati di più stretta osservanza", che furono poi detti
"Riformati". Il convento che nel 1618 sorgerà a Sant'Arcangelo, nella zona
settentrionale del paese, sarà dei "Riformati"; perciò la contrada che oggi
è detta "Convento", nelle vecchie carte del paese era detta "presso la Croce
dei Riformati", perché dinanzi all'attuale Chiesa del Convento si trovava,
allora, la croce di pietra che poi fu messa dinanzi al cancello del
cimitero.
33) E' il documento terzo della II. parte dell'opera di P. Coco, già cit.
pp. 57-59 (G. N. Molfese, op. cit., pp. 141-144). Anche questo documento,
come tutti gli altri, non è di facile comprensione, perché inficiato da
molti errori: uno è già nell'intestazione: Assensus episcopali anziché
episcopalis.
34) Non si sa come, perché e da quanto tempo questo vescovo (che, secondo
l'Ughelli - cfr. preced. nota 30) - non sarebbe Giacomo da Capua, ma Giacomo
Chiasconio) si trovasse a Senise, perché solo due vescovi si sa con
sicurezza che ebbero la residenza a Senise, là morirono e là furono sepolti:
Giovanni Paolo Amanio, di Cremona (vescovo dal 1560 al 1580) e Nicola Grano,
di Ferrara (vescovo dal 1580 al 1595). Cfr. F. Ughelli (op. cit., vol. VII,
col. 102-103) che riporta anche la lapide che il vescovo Amanio aveva
preparato per la sua tomba nella cappella di S. Paolo, nella Chiesa Madre.
F. Bastanzio (op. cit., pg. 50) dice: "Il primo vescovo... si chiamava
Giovanni Paolo Amanio" E' strano, perciò, che a chiusura dell'assenso per la
fondazione del Convento di Orsoleo, che è del 1474, si legga "Datum Sinisii
in domo nostrae ipiscopalis residentiae...", parole che fanno intendere che
prima dell'Amanio ci sarebbe stato a Senise questo Vescovo Giacomo, e non
per un semplice passaggio, ma con stabile dimora; dice, infatti, il
documento: nella casa della nostra residenza episcopale.
35) E' detto "Ordinario", nel diritto canonico, colui che, come, appunto, il
vescovo, ha in sé la giurisdizione ecclesiastica ordinaria di una
determinata zona, come, ad esempio, una diocesi.
36) II "giuspatronato", cioé il "diritto di patronato", dal vecchio Codice
di diritto canonico era definito (can. 1448) "un privilegio, con annessi
oneri, spettante, per concessione dell'autorità ecclesiastica, ai fedeli che
abbiano fondato una chiesa, una cappella o un beneficio ed ai loro aventi
causa".
II "patrono" aveva vari diritti e doveri. Fra i primi il più importante era
quello di poter presentare all'autorità ecclesiastica un proprio candidato
per l'amministrazione della chiesa. Vi era, inoltre, il diritto di porre
nella chiesa lo stemma della famiglia e di avere la precedenza nelle
processioni e un posto distinto durante le funzioni sacre. Il patrono aveva
anche il diritto di potersi servire dei beni della chiesa se, senza sua
colpa, fosse caduto in miseria, e tanti altri. Fra i doveri, il più
importante consisteva nel riedificare la chiesa distrutta o nel ripararla
quando fosse stato necessario.
37) Cfr. pag. 19.
|