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LUIGI BRANCO - Memorie di S. Maria di Orsoleo
 

V°  SVILUPPO DEL CONVENTO

Il convento francescano di Orsoleo, voluto dalla pietà e dalla generosità di Egidio della Marra, poteva ospitare ventitré frati. Eligio stesso, ricco com'era e padrone di buona parte del territorio circostante, dotò la nuova istituzione di ogni bene e donò ai frati il grande bosco, che, fittissimo di querce, di olmi e di lentischi, copriva buona parte della collina, dolcemente degradando da sud-est in direzione nord-ovest verso le acque della Fiumarella di Roccanova: "In Virginis ac loci reverentiam silvam circularis magnitudinis trium miliarium fratribus donavit" (1) Questo bosco, del perimetro di tre miglia, ricchissimo di vegetazione spontanea e di animali di ogni tipo, era stato sempre chiamato, dagli abitanti della zona, "la Foresta": esisteva da sempre; fu distrutto, in pochissimo tempo, all'inizio degli anni '40.
Non è possibile sapere come fosse l'edificio voluto da Eligio, né quanto fosse grande. Con ogni probabilità, la chiesa di questa prima costruzione doveva essere più piccola di quella attuale e doveva essere disposta da sud a nord, non da ovest ad est, com'è l'attuale: questo si può desumere soprattutto da qualche traccia di pittura che si è scoperta sotto archi che erano stati chiusi con murature posteriori. Del resto, è lecito supporre che, nella costruzione originaria, l'altare della Madonna, che ora si trova a sinistra dell'ingresso principale, coincidesse con l'altare maggiore della chiesa. Per quanto riguarda il convento, certamente il complesso primitivo doveva svilupparsi intorno al chiostro interno, quadrangolare, con al centro l'antico pozzo ottagonale. Il chiostro esterno, ad est, molto più grande, di forma trapezoidale, più aperto, e con un altro pozzo, ma in posizione asimmetrica e di fattura molto più semplice e rozza, è certamente posteriore; come posteriore a Eligio è da ritenersi (almeno nel piano superiore e nella forma attuale) il corpo volto a nord, che si presenta come facciata nobile ed elegante, caratterizzata dalla lunga fila dei balconi, a chi appena arrivi ad Orsoleo; e posteriori sono, certamente, i bastioni esagonali agli angoli dell'edificio principale.
Il convento, specialmente la chiesa, ha avuto molti rimaneggiamenti nel corso dei secoli, perciò è impossibile sapere con certezza come fosse, nei particolari, quello voluto da Eligio. Il quale, nel 1475, perciò solo un anno dopo l'inizio ufficiale dei lavori ad Orsoleo, fondò un altro convento francescano, sotto il titolo di S. Antonio di Padova nell'abitato di Stigliano. E nella chiesa di questo monastero, Eligio fu sepolto, nel 1517, insieme con la moglie Sancia Caracciolo: i loro sarcofaghi erano uno di fronte all'altro, a destra e a sinistra della porta d'ingresso. Ma il convento di Stigliano fu anche più sfortunato di quello di Orsoleo: andò, infatti, in rovina nella prima metà dell'Ottocento; e nelle rovine furono dispersi anche i corpi del conte Eligio e della moglie Sancia. Il Conte, morendo, aveva lasciato tante rendite ai preti di Stigliano che questi, ogni anno, celebravano, in suffragio della sua anima, ben seicento messe: il lunedì il mercoledì e il venerdì di ogni settimana (2).
Alla morte di Eligio, ereditò i suoi beni la sorella Berardina (3), che aveva sposato Luigi Carafa, discendente di quel Malizia da cui era derivato anche il ramo dei Carafa di Maddaloni. Dal matrimonio tra Luigi Carafa e Berardina della Marra nacque Antonio, che, dice l'Ammirato (4), alla morte della madre "ereditò con i fratelli (5) tale somma di danari, che si divise con misure" Antonio tenne i feudi dal 1517 al 1531; nel 1522 ebbe da Carlo V il titolo di "Principe di Stigliano", che rimase poi sempre ai feudatari del luogo. I Carafa, già nobilissimi patrizi napoletani, uniti ai della Marra, ne furono orgogliosi, e si chiamarono, in questo ramo, "Carafa-della Marra"; da allora "...hanno soluto sempre con le proprie, inquartare l'arme della famiglia della Marra" (6). Dovette, dunque, essere proprio questo primo principe di Stigliano, Antonio, a far costruire, nel chiostro interno di Orsoleo, il bel pozzo di pietra che ancora oggi conserva, sull'architrave, lo stemma dei Carafa "inquartato" con quello dei della Marra; ma, nota il Pennetti (7), nel Convento "gli stemmi di queste due famiglie sono appiccicati un po' da per tutto".
Per quanto riguarda i frati di Orsoleo, Antonio Carafa della Marra mostrò il suo interesse per loro con uno dei famosi "Capitoli" promulgati per Sant'Arcangelo e per gli altri paesi dei suoi feudi (8). Il "capitolo" 42 dice, infatti: "Contribuzione al vestiario de' Frati di S. M. Orsoleo". Item che lo Sindico et eletti di S. Arcangelo siano tenuti da anno in anno dare ogn'anno docati dieci; lo Sindico et eletti di Roccanova docati sei; Lo Sindico et eletti di Alianello docati quattro (9) per lo vestir delli frati di Santa Maria Orsoleo, da pagarnose a S.to Luca (10), e se mancano ogni Sindico, et Eletti delle sopradette Terre (11), che mancassero per ogni Terra pagano dieci omze di pena per Sindico, et Eletti in solidum delli denari loro, e non dell'università, qual pena per l'huomo deputato per lo III. Sig. Duca (12) se debbia espendere per la fabrica, o altri bisogni di detta Chiesa de Santa Maria d'Orsoleo (13).
Questo Antonio Carafa della Marra, fra gli altri "capitoli" ne emise due (28 e 29) che, guardando al tempo in cui vennero promulgati, gli fanno veramente onore, perché in essi si trova, forse, la prima legge di obbligo scolastico che si sia avuta in Italia.
Ad Antonio Carafa, che aveva sposato Ippolita di Capua, successe il figlio Luigi, nato nel 1511, che tenne i feudi per ben quarantasei anni, dal 1531 al 1577 (14).
In questo periodo Orsoleo si abbellì di alcune fra le sue cose più belle. Della vecchia chiesa di S. Maria si era salvata solo (e, per fortuna, è arrivata fino a noi) l'antica statua lignea della Madonna, che, risalendo, come pare sicuro, fino al Duecento, è, certamente, una delle statue più antiche venerate nel Meridione d'Italia. Nel Cinquecento, così raffinato e così ricco, l'antica immagine di Orsoleo, anche se di fattura rozza e primitiva, dovette incutere un senso di rispetto: fu, perciò, salvata e, in mezzo alle nuove immagini belle e alle tante cose di pregio, che, man mano, venivano adornando la chiesa, ebbe il posto d'onore sul vecchio altare dipinto, ove da secoli erano andati a pregarla gli abitanti sparsi per i villaggi e i paesi della Valle.
Ma ora vengono dalla stessa capitale del Regno stuccatori e pittori, intagliatori e doratori, per creare, a poco a poco, quello che sarebbe diventato, sebbene sperduto tra le foreste dell'Agri, uno dei centri più suggestivi e più belli dell'arte e della cultura nel Mezzogiorno d'Italia. Il Convento si faceva, di giorno in giorno, sempre più grande e più ricco, tanto che sembrava più un'abbazia benedettina che un convento di frati francescani, e forse si cominciò a mormorare, da parte di alcuni; e i frati stessi dovevano chiedersi se fosse lecito, a loro, che si dicevano "mendicanti", possedere tante ricchezze e tanti beni. E fu allora che Pio V (15) il 23 gennaio (16) del 1567, emise una "bolla" con cui si permetteva ai frati di Orsoleo, sebbene appartenenti a un ordine mendicante, di possedere beni temporali e, in particolare, la grande foresta che al Convento era stata, a suo tempo, donata da Eligio della Marra: "...nec non possessionem monasterii, et silvae huius modi, apostolica auctoritate tenore praesentium, approbamus, et confirmamus, ac illius firmitatis rebus adicimus; et insuper quod liceat vobis tute, et absque aliquo conscientiae scrupulo, dictam silvam habere, retinere et possidere auctoritate et tenore praesentium declaramus, inhibentes quibuscumque aliis personis ne Tigna in eadem silva incidere, pascere, aut quidquid aliud, citra aut voluntatem vestram, facere valeant..." (17). Il Papa, dunque, con la sua autorità apostolica, mediante la bolla, approvava e confermava il possesso del Monastero e della selva, e, inoltre, diceva ai frati che potevano, con tranquillità e senza scrupolo di coscienza, avere, ritenere e possedere il bosco, proibendo a chiunque di tagliarvi legna, senza il loro permesso, o di pascolarvi animali.
Da parte loro, i Principi Carafa non mancavano di dare, secondo i casi e le opportunità, aiuti vari al Convento. Fra l'altro si sa che concessero al convento di S. Antonio di Stigliano e a S. Maria di Orsoleo tutti gli animali perduti, che errassero senza pastore per i territori di Stigliano, Aliano, Alianello, Sant'Arcangelo e Roccanova, se, passati tre giorni, non si fosse trovato il padrone. "Conventibus Hostiliani et Sanctae Mariae de Ursoleo concesserunt omnia animalia perdita, et sine pastore errantia in territoriis et feudis Hostiliani, Aliani, Alianelli, S. Arcangeli et Roccae Novae, de quibus veri domini ignorantur, decursis diebus tribus" (18).
Avevano, dunque, molti beni i Frati di Orsoleo, ma, ovviamente, non possedevano come persone, bensì come comunità. I beni, però, più veri e più autentici, che, un po' per volta, venivano accumulandosi nel convento, non erano le terre e i boschi e gli animali, ma soprattutto statue, quadri, paramenti liturgici e oggetti preziosi destinati al culto, e libri e pergamene. E, in questo arricchimento di opere d'arte, è lecito pensare che di qualche aiuto dovette essere il Principe di Stigliano, se non altro per i tanti artisti e le tante persone importanti che conosceva e con cui trattava in Napoli, ove, nel grande palazzo di Chiaia, viveva veramente da principe e da mecenate (19). Ma Luigi Carafa si fermava, spesso, anche nel suo palazzo di Sant'Arcangelo, la "Cavallerizza" sulla sponda dell'Agri, che egli, amante dei giardini (20), chiamava, semplicemente, "Viridarium". E di qui è lecito pensare che, spesso, salisse sulla collina di Orsoleo, per osservare i lavori di abbellimento della chiesa e dei vari locali che servivano alle varie attività dei frati. Proprio in questo periodo, infatti, il convento e la chiesa si arricchirono di alcune fra le più pregiate opere d'arte.
Del 1545 sono gli affreschi che, fino al 1973 (quando furono staccati per restauro) decoravano le pareti del chiostro antico e la loggia sovrastante. Queste pitture, anche se non di grande finezza, sono del massimo interesse, perché costituiscono uno dei pochi esempi di pittura rinascimentale in Basilicata. Sono opera di Giovanni Todisco di Abriola, il quale, per fortuna, ha firmato il suo lavoro nella grande scena dell'"Adorazione dei Magi" sulla parete meridionale a pianterreno: In nomine D.ni nostri Iesu - Christi amen. Magister - Joannes de - Briola pinxit omnes istas - picturas A.D. 1545.
E' l'unico lavoro del Todisco che sia stato firmato, e ciò ha reso possibile, agli studiosi l'attribuzione allo stesso artista di vari lavori in diverse chiese della Regione: gli affreschi della cripta nella cattedrale di Acerenza, del 1524; quelli di S. Michele di Potenza; gli affreschi del convento di Oppido Lucano, del 1558, e quelli della chiesa di S. Maria ad Anzi, del 1559 (21).
I vasti affreschi di Orsoleo raffigurano fatti della vita di Cristo, scene allegoriche, fatti della Vita di S. Francesco. A piano terra (quando gli affreschi erano ancora in situ) colpivano immediatamente il visitatore il grandioso "Trionfo della morte" e il "Trionfo della fede" dalle vaste proporzioni, tanto che occupavano più campate della parete. Altre scene importanti erano la già citata "Adorazione dei Magi", ov'è la firma dell'autore, l'"Annunciazione", la "Cattura di Cristo", l'"Adorazione dei pastori". Sulla loggia sovrastante erano raffigurate una "Pietà" con molte figure di Santi disposti su due ordini, "Mosè che fa scaturire l'acqua dalla roccia" e la "Caduta della manna".
Questi lavori che, a prima vista, danno un'impressione di rude forza popolare, mentre fanno pensare ad un'arte ancora di gusto gotico, collocano, d'altra parte, l'artista in un ambiente che già è di sicuro indirizzo nuovo: si nota, infatti uno sforzo evidente di ordinare le figure in un armonioso equilibrio prospettico, che è di sicura linea rinascimentale.
Il gusto della nuova arte, già diffuso a Napoli tra il 1490 e il 1510 per l'arrivo in città di grandi artisti dell'Italia settentrionale, come Cristoforo Scacco da Verona, Agostino di Bramantino, Cesare da Sesto, era penetrato in Basilicata soprattutto per opera di Andrea Sabatini (detto Andrea da Salerno) che, probabilmente, era stato allievo di Raffaello, e del discepolo Giovanni Filippo Criscuolo.
Ma oltre che per questi influssi diretti, il gusto della nuova pittura dovette diffondersi, nella Regione, anche per le incisioni a stampa che riproducevano opere di artisti famosi e che non potevano mancare in ambienti importanti com'erano i monasteri e i centri di studio. E il convento di Orsoleo, che divenne sede del Ministro Provinciale dei Frati Osservanti, e che era un vivace centro di studi filosofici e teologici, doveva, certamente, possedere un gran numero di volumi in cui trovare spunti per le opere di abbellimento della chiesa, del chiostro, delle sale. Così sembra che il tanto ammirato "Trionfo della morte", dipinto dal Todisco al piano terra del chiostro, sia stato ispirato da una xilografia del Tiziano, incisa, secondo il Vasari, nel 1508. Altri motivi di ispirazione potevano essere, per i pittori, le illustrazioni delle Vite dei Santi ed i testi usati per il culto e per la liturgia. Allo stesso secolo XVI risalgono due bellissime sculture in legno dorato: "Cristo alla colonna" e "S. Michele Arcangelo". Sempre di questo periodo sono due tele del Ferri e la pala dell'altare maggiore attribuita allo pseudo Francesco Romano, un altro pittore lucano del Cinquecento.
Non molto potè fare, per Orsoleo, il figlio di Luigi, Antonio, terzo principe di Stigliano, che mori poco tempo dopo che aveva preso il potere. Se fosse vissuto più a lungo, forse avrebbe fatto molto per i luoghi pii, perché era generoso e devoto: aveva preso parte alla battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571) e concorse a fondare, a Napoli, il convento di Sant'Orsola, di fronte al suo palazzo di Chiaia (22).
Molto più fortunato fu il figlio, un altro Luigi, che, sposando Isabella Gonzaga, figlia di Vespasiano duca di Sabbioneta, accrebbe di molto la potenza della sua casa. Era nato intorno al 1570, e subito si rivelò più portato agli studi che alla vita militare e alla vita politica. Dell'amministrazione dei suoi beni si interessò la moglie, "la più sagace e nobile donna che fosse allora in Napoli: ottima amministratrice, avida e ambiziosa" (23). II Principe, invece, si dedicò tutto allo studio: fu tra i fondatori dell'Accademia degli Oziosi, in Napoli, e, poeta lui stesso, ebbe amici i più grandi poeti che allora vivevano a Napoli: G. B. Marino e G. B. Basile, che gli dedicò la favola delle "Avventurose disavventure". Preso da questi interessi, il Principe non poteva, certamente, trovar piacere a vivere nei suoi feudi di Basilicata, e dimorò quasi sempre nel fasto della villa di Chiaia, ove si era formato come una piccola corte, che spesso era allietata da rappresentazioni teatrali (più volte si esibì, a Chiaia, la più celebrata cantante - attrice di quei tempi, la bella Adriana, sorella di Giambattista Basile, alla quale furono dedicate un'infinità di poesie celebrative, e una da parte dello stesso principe Luigi) e da feste sfarzose. Quando, nel 1606, Luigi ricevette le insegne del "Toson d'oro" (24), diede una festa così ricca che ne fu rimproverato dal suo confessore S. Andrea Avellino, il quale gli scrisse che quei soldi meglio sarebbero stati spesi "per amor di Dio" (25).
In questo periodo fu scolpito, per la chiesa di Orsoleo, una delle sue cose più ammirate: lo stupendo coro ligneo del 1614. E' un lavoro che rivela una pazienza veramente monastica e un gusto che, insieme, appare severo e ironico. Sono severamente scolpiti i santi delle varie formelle; la mano dello scultore è dura e, forse, non molto abile: sembrano figure fatte con l'ascia e con il coltello, ma proprio per questo, anche se non perfette tecnicamente nei particolari, danno un'impressione di forza e di robustezza, specialmente nelle immagini sedute: così la figura centrale del Cristo "Salvator mundi" così la grande formella della "Madonna di Orsoleo" raffigurata seduta sulla cima frondosa di una quercia, con ai piedi l'orso e il leone poggiati sulle zampe posteriori, e con quelle anteriori fisse, in posizione simmetrica, sul grosso tronco dell'albero: immagine che era diventata lo stemma del Convento. Questo senso figurativo di forza primordiale si muta in ingenua poesia in alcuni particolari delle immagini: la cruda muscolatura di S. Bartolomeo scorticato e l'ingenuità della pelle rigida (con il particolare del volto) che il Santo si porta sulle spalle; la predica di S. Francesco agli uccelli, e tanti altri semplici quadretti. Forse il coro non è opera di un solo artista, infatti in netto contrasto con la severità delle figure dei Santi è la ricchissima ornamentazione: figure mostruose e grottesche, cornici stupende. Le figure grottesche sono, forse, la cosa più originale dell'intero lavoro: sotto questo aspetto il coro di Orsoleo è, forse, unico nel suo genere.

Dal principe Luigi e dalla moglie Isabella Gonzaga era nato un altro Antonio, che accrebbe ancor più l'importanza della famiglia sposando Elena Aldobrandini, nipote di Clemente VIII (26). Da questo matrimonio nacquero due maschi: Luigi e Giuseppe, e una femmina, Anna. Ma in pochi mesi morivano prima i due figli maschi di Antonio, poi lui stesso; infine, il 13 gennaio del 1631, il vecchio principe Luigi, che, così fortunato e felice nella sua giovinezza e maturità, era stato affranto, anziano, da tante sventure e da tanti dolori. Rimaneva, dunque, solo la vecchia principessa Isabella con la sua giovanissima nipote Anna "E per costei, erede di molti feudi e di ricchezze che salivano a un milione e mezzo di ducati, senza calcolare settecentomila ducati di mobili, si accesero le brame dei signori napoletani e spagnoli. Per qualche tempo era nominata come la prima dote d'Europa" (27). La sposò, nel 1636, Don Ramiro Guzmàn, duca di Medina Las Torres, il quale fu vicerè di Napoli dal 1637 al 1645. Donn'Anna (o, alla spagnola, Dogn'Anna) come abitualmente era chiamata Anna Carafa, già grande per le tante ricchezze, fu ancora più superba del titolo di viceregina. Si fece costruire da Cosimo Fanzago il celebre palazzo "Donn'Anna" a Posillipo e visse, nello sfarzo più grande, nei suoi palazzi di Napoli, di Posillipo, di Portici. Non solo non fece niente di utile nei suoi molti feudi, ma lasciò dappertutto un triste ricordo di malversazioni e di violenza "Nè mai, scrive il Croce (28), feudatario inventò tanti sottili mezzi per succhiare il sangue ai suoi vassalli quanti ne seppe escogitare la ricchissima viceregina. Inventò il diritto di non far macellare animali quante volte il barone ne avesse dei suoi morti o morbosi; il diritto del quarto della caccia; il diritto dei filetti e dei filettelli; il diritto di prendere per forza e d'ammazzare le galline (29) e tanti altri che dettero un bel da fare alla Commissione feudale del 1811 quando dovè procedere a liquidarli. La sua morte in giovine età, abbandonata dal marito e dagli altri familiari, e per effetto di una malattia ripugnante, parve castigo divino".
Anna Carafa morì il 24 ottobre 1644. Aveva avuto parecchi figli, ma uno solo le sopravvisse, Nicola Guzmàn Carafa della Marra, che, nato il 7 marzo 1639, alla morte della madre aveva solo cinque anni; perciò il feudo, fino a quando il fanciullo non raggiunse l'età in cui potè prendere il titolo di "Principe di Stigliano", fu amministrato dalla nonna Elena Aldobrandini.

In questo periodo la chiesa di Orsoleo si arricchì di altre opere d'arte: sono, infatti, certamente del Seicento le sculture in legno di S. Antonio, di S. Pasquale e di S. Teresa.
Nel 1743, cioè poco prima che morisse Donn'Anna, dovette essere completato il rifacimento della chiesa e del convento, infatti sull'architrave della porta è incisa la data insieme con dieci lettere maiuscole; ecco l'iscrizione: E - A -P - E - F - D - C - P - D - S DIE PRIMO OCTOBR 1643 (30). Le lettere potrebbero avere questa interpretazione: Ecclesiam a planta erigi fecit dominus comes pro divino servitio (Il Signor Conte per il divino servizio fece costruire la chiesa dalle fondamenta) oppure: Ecclesia a Principe erecta fuit dicata consacrataque pro divino servitio (La chiesa costruita dal Principe fu dedicata e consacrata per il divino servizio il primo di ottobre del 1643) (31). Il principe Nicola Guzmàn Carafa tenne il potere fino al 1689. Durante il suo dominio si ebbe una delle più terribili pestilenze che si ricordino in queste contrade. L'epidemia scoppiò a Napoli all'inizio del 1656, portata, secondo il Giannone (32), da una nave proveniente dalla Sardegna. Il massimo della violenza fu raggiunto, nella capitale, tra maggio e luglio. Poi il contagio, con i calori estivi, si propagò anche nell'interno del Regno, colpendo città paesi e villaggi con una violenza che fu poi paragonata a quella dell'ormai lontana "peste nera" del sec. XIV (33).
Dopo la consacrazione della nuova chiesa, non si ha notizia di altri lavori specifici fatti in Orsoleo. Del resto, erano tempi molto difficili, e la vita era misera e triste. Oltre alla terribile pestilenza di cui già si è detto, molti altri mali (in parte dovuti alla spaventosa epidemia, in parte all'ignoranza, in parte al disinteresse delle autorità) si abbatterono su queste terre nella seconda metà del Seicento: per la maggior parte della popolazione, si era, in quei tempi, alla pura sussistenza. Tuttavia, anche in questo periodo si fece qualcosa per Orsoleo: il 28 maggio del 1673, Orazio Fortunato, nativo di Sant'Arcangelo e vescovo di S. Severo, in Puglia, consacrò solennemente la chiesa del monastero in cui, però, già da trent'anni si officiava regolarmente. Ci fu un grande concorso di gente non solo da Sant'Arcangelo ma anche dai paesi vicini. Il fatto è ricordato da un'iscrizione presso l'altare maggiore della chiesa. E' facile immaginare, per l'avvenimento straordinario, il brulichio di persone e di animali, che, tra i fitti alberi del bosco, salivano verso la chiesa, nuova di fabbrica ma tanto antica per secolare tradizione di fede; ed è lecito anche immaginare il clima di gioia festosa, che, per quanto lo permetteva la tristezza dei tempi, dovette spontaneamente instaurarsi, per l'affluenza di tante persone in un luogo fra i più importanti e fra i più suggestivi della Provincia, e per un'occasione così solenne.

Niccolò (come lo chiamavano) Carafa morì nel 1689, e non lasciò figli, così che l'immenso patrimonio dei suoi antenati fu incamerato dalla Regia Corte, che lo mise in vendita. Tutti i beni, messi all'asta, furono comprati, per 122.100 ducati, da Donna Olinda Piccolomini, marchesa di Castelnuovo (34). Olinda Piccolomini mori il 1° ottobre del 1708. Aveva sposato un nobile olandese, Ferdinando Wandheneinden, da cui aveva avuto solo una figlia, Giovanna, che, dunque, alla morte della madre, rimase unica erede di tutti i suoi beni. Ebbe l'intestazione dei feudi nell'anno 1710 (35); prima aveva il titolo di "Principessa di Gàlatro" . Questa Donna Giovanna, nel 1688, aveva sposato Giuliano Colonna, da cui aveva avuto quattro figli: Ferdinando, Geronimo, Lorenzo, Virginia. Quando, il 25 aprile 1716, Giovanna di Wandheneinden mori, ereditò i suoi beni il figlio primogenito, Don Ferdinando Colonna, il quale ebbe il titolo di "Principe di Stigliano" da Carlo VI imperatore d'Austria, sotto il cui dominio era allora il Regno di Napoli. Nel 1735 il Regno di Napoli ritornò indipendente con Carlo di Borbone, figlio di Filippo V re li Spagna e di Elisabetta Farnese. Per quanto riguarda il convento di Orsoleo, c'è da notare che nell'anno 1738 fu restaurata e ornata, con una gaia decorazione di stucchi dipinti, la cappella della Madonna. La data è ancora chiaramente leggibile sulla parete di destra guardando l'altare.
Per questo periodo, è del massimo interesse notare i beni che il Convento stesso allora possedeva, come risulta dalla minuta descrizione che si trova nel "Catasto onciario" (36) e che si riferisce all'anno 1742. Il Convento possedeva, allora, oltre ai vari fabbricati ove si svolgeva la vita della comunità, e oltre ai "legati" per la celebrazione di Messe, i seguenti redditi (37): "un luogo boscoso di stoppelli quattro alla Bisacciti (38) ... una vigna ibidem (di) circa mezzo tomolo... un luogo (39) al Molino circa tomoli tre e mezzo con querci... un pezzo di terra alla Laudanna con tomola cinque confine la madre Chiesa... una casa a S. Giovanni per commodo d'ospizio dei Padri (40)... un tenimento di terreni boscosi chiamata la Foresta adiacente al Monastero che si tiene per commodo di legna di detti Padri più centinaia di tomola con querce..." oltre a vari censi annuali così ripartiti: "carlini dieci da Giuseppe Gugliotta per il capitale di docati dieci...; carlini ventidue da Antonio Chiorazzo per il capitale di docati ventidue...; carlini trentasette dal Magnifico (41) G. B. Ferrara per il capitale di docati trentasette...; carlini diecinove e mezzo di Lionardo Zitarosa per il capitale di docati diecinove e mezzo...; carlini dieci di Francesco Laviola per il capitale di docati dieci...; carlini otto dal massaro Nicola Zitarosa per il capitale di docati otto...; carlini venti da Antonio La Ragione ed eredi di Nicola La Ragione per il capitale di docati venti...; carlini quattro da Antonio Donnadio per il luogo sotto il pozzo di S. Maria...; carlina cinqua (sic) da Giuseppe Donnadio per il capitale di docati cinque...; carlini quindici da Domenico Simeone per il capitale di docati quindici...; carlini dieci dalli eredi di Simeone per il capitale di docati dieci...; carlini dieci da Andrea di Giuseppe Simeone per censo enfiteutico...; carlini venti da Nicola Matella per il capitale di docati venti...; carlini quattro da Felice Matella per il censo enfiteutico...; carlini dieci dal Magnifico Antonio La Ragione...; carlini venti da Nicola Latrecchiana per il capitale di docati venti...; carlini ventidue e mezzo da Donato Ciaramella per il capitale di docati ventidue e mezzo...".
Questi erano i beni che, ufficialmente, nell'anno 1742, possedeva il monastero di Orsoleo; ma c'erano anche altre entrate, come la "Contribuzione al vestiario de' Frati di S. Maria Orsoleo" già ricordata.
Del resto, fra le "uscite", nel bilancio di Sant'Arcangelo, c'è sempre "la solita elemosina" per i Frati di Orsoleo. Nel bilancio dell'anno 1638-39 si trova: "e più si fa essito di ducati 60 pagati al convento di Ursoleo..." e, più in là: "e più si fa essito di ducati 30 pagati al suddetto convento di Ursoleo in (mano) del procuratore D. Antonio Venice per la solita elemosina dell'anno" (42). Al convento di Orsoleo, inoltre, arrivavano, da parte del comune (Università) di Sant'Arcangelo, altri contributi, oltre alla già citata "contribuzione al vestiario" e alla "solita elemosina", com'è notato, sotto la voce "Pesi dell'Università", nel "Catasto onciario" di cui già si è detto: "Alli Padri di S. Maria di Orsoleo per la solita pietanza e solite processioni pubbliche doc. 20" (43). Del resto, già nel secolo precedente, nel "Bilancio del conto del Magnifico dottore Mario Giocoli erario del 1678-79", troviamo: "Alli P.P. di S. Maria di Ursoleo per il vestiario di detto (convento) doc. 30" (44).
C'erano, poi, le tante offerte e i "legati", che, nei testamenti, venivano fatti dai fedeli in suffragio della propria anima o per l'anima dei propri cari. Eccone qualche esempio: in una nota senza data, in un registro della Chiesa madre di Sant'Arcangelo (45), si parla del "testamento fatto dal Suddiacono Matteo Missanello scritto dal suo confessore che si conserva nell'Archivio della Matrice Chiesa". Con questo testamento, che dovette essere stipulato intorno al 1715, il suddetto Matteo Missanello "lasciò che di tutta la sua robba si trovava dopo la morte di Felice Lerra sua matre si fusse divisa dalle tre chiese cioè di S. Nicola Chiesa Matrice, S.ta Maria Ursoleo e S. Michele Arcangelo (46) in questa terra e dalli sacerdoti di dette tre Chiese se ne fossero celebrate pro una vice trenta Messe per l'anima, e secondo l'intenzione del detto testatore...". "Addi 20 di luglio 1727. Laura Pantanella have donato alla Matrice Chiesa, al Convento di Orsoleo e Convento de Reformati tutti li suoi beni, dopo la sua morte si ne voglia celebrare Messe per l'anima sua, eccetto però che la casa nella contrada di S. Giovanni..." (47).

Verso la metà del sec. XVIII, il Convento (come, più o meno, tutti i luoghi sacri del Reame) dovette subire un freno nel suo sviluppo, sia per il disinteresse dei Principi del luogo, sia per le particolari disposizioni statali circa le persone e i luoghi del culto. Anche se i principi di Stigliano avevano il diritto di patronato su Orsoleo, il loro impegno per il Convento doveva essere, in questo periodo, scarso o nullo, anche perché essi, come ormai tutti i feudatari del Regno, vivevano quasi sempre a Napoli, e venivano raramente nei loro feudi lontani. D'altra parte, il re Carlo di Borbone, sebbene religiosissimo e pio, preoccupato del numero veramente abnorme di sacerdoti e religiosi, e della ricchezza delle chiese e dei conventi, incoraggiato in questa politica del ministro Tanucci, volle regolare il moltiplicarsi dei luoghi sacri, e impose che si chiedesse l'assenso regio per ogni nuova costruzione; perciò i frati di Orsoleo, per aver voluto ampliare, senza permesso, il loro convento, "dovettero disfarsi dell'edificio costruito e fittarlo a privati" (48).

Il dominio di Ferdinando Colonna durò una cinquantina d'anni: il Principe morì il 24 febbraio del 1775. Gli successe il figlio primogenito, Marcantonio, nato dal matrimonio di Ferdinando con Donna Luisa Caracciolo, figlia del principe di Santobuono. Ecco come il "Cedolario di Basilicata" riporta la sua successione: "D. Ferdinando Colonna morì 24 Febbraio 1775. Si intesta in Basilicata i seguenti feudi il figlio D. Marcantonio con le seguenti tasse: pro Hostiliano D. 117.3.04 - Aliano D. 86.10 - S Arcangelo D. 99.2.2. - Roccanova D. 65.3.7. - Alianello D. 56.3.7. Et aliis feudis inhabitatis D. 40.2.1. (49). Marcantonio Colonna fu, tra l'altro, vecerè di Sicilia. Anche lui, come tutti gli altri feudatari, viveva, per lo più, a Napoli. Appassionato di cavalli, ne faceva allevare razze pregiate a Roccanova e a Stigliano.
In questo periodo la chiesa di Orsoleo si abbellì di una delle sue opere più pregiate: lo stupendo altare maggiore che (collocato con perfetta armonia nella ricchissima decorazione di stucchi bianchi e dorati che adornano, con la nobile pala d'altare e il coro degli angeli che sbucano fra le nubi, l'intera parete) si presenta come un'opera fantasiosa e geniale, fantasmagorica, unica, nel suo genere, nell'intera Regione.
L'altare fu scolpito nel 1777 (come si legge sul pilastrino laterale di sinistra) ma la messa in opera dovette durare a lungo, infatti la solenne consacrazione si ebbe solo il 27 aprile del 1779, con l'intervento di Mons. Vecchione, vescovo di Tursi. Ce ne informa un'iscrizione sulla parete a destra dell'altare stesso: D.O.M. - Principem templi aram - ex opere prius albario aurea crusta - obtectam in marmoream - dein elegantiori forma - mutatam Salvator Vecchionius - episcopus Anglonensis et Tursien - repositis reliquiis SS. Laurentii, Lucidi et Venerandi - V Kal. Maias MDCCLXXIX solemni consecrationis ritu dedicavit. Dunque l'altare maggiore della chiesa, che prima era fatto di legno ricoperto di foglia d'oro, ricostruito in marmo e in forma più bella, fu dedicato, dopo che vi erano state deposte le reliquie dei Santi Lorenzo, Lucido e Venerando (50), con il rito solenne della consacrazione, da Mons. Salvatore Vecchione, vescovo di Anglona e Tursi, il giorno 27 aprile del 1779.
Forse a questo stesso periodo, o a qualche decennio prima, risalgono altre due elegantissime opere della chiesa: la cantoria, dalle finissime dorature, e il soffitto ligneo, che unisce alla vivacità dei colori e all'eleganza (che è la nota caratteristica di tutta la decorazione della chiesa) la severità delle più pure linee geometriche. Con ogni probabilità è del `700 anche il nobile campanile, che si innalza sulla volta a crociera della cappella, a sinistra dell'entrata. E' alto più di trenta metri ed è suddiviso in tre piani da robuste cornici, l'ultima delle quali è ingentilita da mattoni messi di taglio, che formano delle piccole mensole: motivo comune a molte costruzioni dell'epoca a Sant'Arcangelo e nei paesi vicini. Il campanile termina con un tiburio ottagonale e con una cuspide ricoperta di tegole. Delle sottili cornici e una striscia di mattonelle colorate ingentiliscono la cuspide, sotto la quale, ai quattro angoli del tiburio, si trovano, quasi a sostegno e ad evitare il passaggio brusco dalla forma quadrata del corpo alla sfumatura terminale, quattro piccoli pilastri a volute su cui una volta poggiavano quattro enormi cocomeri in ceramica verde che, da tempo, non esistono più, ma che ancora, a Sant'Arcangelo e nei dintorni, tutte le persone di una certa età ricordano bene come il motivo ornamentale più strano, più originale, più estroso e più bizzarro del vecchio campanile.
Marcantonio Colonna morì il 15 agosto del 1796. Gli successe il figlio primogenito, Andrea, che fu l'ultimo feudatario di Stigliano; infatti, con la legge del 2 agosto 1806, Giuseppe Bonaparte, nuovo re di Napoli, abolì definitivamente la feudalità con tutte sue attribuzioni. In questo periodo di profonde trasformazioni in tutto il vecchio Reame, come in tutta l'Europa, anche Orsoleo dovette subire disordini e violenze; anche se mancano documenti espliciti in proposito.
I primi segni dei tempi nuovi, con scosse che avevano fatto tremare dalle fondamenta le vecchie istituzioni, si erano già avuti durante la breve vita della Repubblica Partenopea (23 gennaio - 22 giugno 1799) che, fra l'altro, anticipando la legge di Giuseppe Bonaparte, aveva già abolito, per conto suo, i vecchi privilegi feudali.
A Sant'Arcangelo le istituzioni repubblicane erano state accolte subito: segno di una certa vivacità intellettuale e politica, e motivo di speranza per i tanti contadini sempre miseri e sfruttati; i quali, spinti, forse, da giovani particolarmente ardimentosi e audaci, pretesero dai signori, (che, avendo aderito al nuovo governo, reggevano le sorti del Comune) che fossero divise, come già si era fatto a Tursi, le terre demaniali. Al rifiuto degli amministratori, il 24 febbraio del 1799, insorsero in maniera violenta. Fu saccheggiata la casa dei fratelli Giuseppe e Carlo Pastore e quella del notaio Michele Torraca, ove furono perpetrati due delitti: fu ucciso il cognato del notaio, Nicola M. Ferrara, e un figlia, Cherubina, di appena sedici anni. Fu minacciata di saccheggio anche la casa dell'arciprete Francesco Satriani. Dopo di che, anche quelli che avevano aderito alla causa repubblicana (lo stesso arciprete Satriani, Francesco Scardaccione, Giovanni Andrea Giocoli e altri signori del paese) impauriti, e incoraggiati da Simone Izzo, agente del principe di Stigliano, ritornarono all'idea monarchica. Il 5 marzo non solo ripresero il potere, in paese, i vecchi borbonici, ma si costituì anche una piccola schiera di trentadue uomini armati, che, al comando di Vito Michele Bianchi e di Vito Guarino, si diressero ad Altamura per unirsi alle truppe che Fabrizio Ruffo guidava alla riconquista di Napoli (51).
Tutti questi fatti non potevano non turbare, in qualche modo, la pace e il raccoglimento dei frati di Orsoleo. Ma ormai gli avvenimenti precipitavano: nel mese di giugno cadeva la Repubblica e ritornava il governo borbonico; nel 1801 alcune località del Regno erano occupate dai Francesi; nel 1806 Napoleone nominava re di Napoli il fratello Giuseppe costringendo Ferdinando I Borbone e la regina Carolina a rifugiarsi in Sicilia sotto la protezione degli Inglesi; nel 1808 il Regno passava a Gioacchino Murat, il quale vi introduceva leggi e "pratiche reggitrici" già in vigore in Francia: abolizione della feudalità, introduzione del Codice napoleonico. Fu un periodo di agitazioni e di violenze continue in tutto il Meridione; ed era ovvio che queste si sentissero anche ad Orsoleo, sebbene nascosto fra i monti e i boschi della Basilicata. "La tradizione dice essere il monastero spogliato dai Francesi", riferisce G. Giocoli (52), il quale riporta, come tramandato dal popolo, il fatto di un soldato, che, volendo prendere gli oggetti d'oro che ornavano l'altare della Madonna, ne ebbe il braccio paralizzato. Certamente, anche se fatti come questo sono leggende popolari, la vita del Convento, come sempre avviene in periodi di profonde trasformazioni politiche e amministrative, non doveva essere facile, in quel tempo. Furono chiusi, allora, dal nuovo governo, gli antichi monasteri di origine benedettina (eccettuati Cava, Montecassino e Montevergine che "abolite come case religiose" furono "derlati come archivi del Regno") si lasciarono in vita quelli degli Ordini mendicanti (53). Tuttavia si chiuse anche qualche convento francescano, come quello degli Osservanti a Tursi, che fu abbandonato dai frati all'inizio del 1807 e, per qualche anno, occupato dai soldati francesi (54).
Anche quando, dopo la parentesi di Giuseppe Bonaparte (18061808) e di Giacchino Murat (1808-1815) i Borboni, con Ferdinando I, ritornarono sul trono di Napoli, molte delle riforme del periodo francese furono mantenute: le idee, ormai, erano mutate e ci si avviava verso tempi nuovi; tuttavia la vita delle comunità, almeno nelle forme esterne, riprese, sotto molti aspetti, anche se solo per poco, il ritmo di prima.
Ad Orsoleo, tra il 1829 e il 1837, ci furono, nella chiesa, molte cose nuove, com'è attestato, fra l'altro, da diverse iscrizioni incise sugli altari. Fu in questo periodo che la chiesa, dopo i vari rimaneggiamenti avuti nel corso dei secoli, prese l'aspetto definitivo, caratterizzato da un senso di serena, gioiosa atmosfera, che poi le è rimasto.
È una costruzione a una sola navata, preceduta da uno spazio rettangolare che comunica con il luminoso vano centrale mediante tre poderose arcate, su una delle quali è collocata la cantoria. A sinistra c'è una robusta volta a croce su cui si innalza il poderoso campanile.
Superato questa specie di atrio interno, subito, a sinistra, c'è la cappella (certamente la parte più antica della chiesa) dedicata alla Madonna. Le pareti della chiesa sono ornate di ricchissimi stucchi e illuminate da grandi finestre. Dietro l'altare maggiore c'è la grande aula del coro, chiusa da una vasta cupola che si eleva da un tamburo circolare. Tutto l'interno della cupola è affrescato con numerosissime immagini di Angeli e Santi con al centro la Vergine nella gloria del Paradiso.
Sono lavori di gusto barocco, certamente meno pregiati degli affreschi del chiostro, ma più ammirati dal popolo, che, quando la chiesa era ancora aperta al culto, li guardava con sempre nuova meraviglia e stupore, e li chiamava, con semplicità contadina, "Il Paradiso".
Il coro è pieno di luce per la grande finestra che s'apre dietro l'altare maggiore e per quelle che, dal tamburo, si aprono verso l'esterno. La cupola è chiusa, esternamente, da anelli di tegole, che, chiudendosi a curve rastremate verso l'alto, danno all'insieme, pur essendo le linee piuttosto incerte e imprecise, una forma semplice ed elegante. Prima di entrare nel coro, a sinistra, c'è la porta della sagrestia: ampio locale rettangolare piuttosto ascuro, una volta ricco di mobili e di quadri, ora totalmente spoglio.
L'interno della chiesa, oltre allo stupendo altare maggiore, ha diversi altari laterali: il più importante dedicato, ovviamente, alla Madonna, gli altri a vari Santi. L'altare della Madonna fu ricostruito in marmo nel 1829. La lunga iscrizione latina incisa sulla base è di non facile lettura e di non facile interpretazione, sia per alcune incomprensibili lettere (A. M. A.) sia perché l'iscrizione è divisa in tre parti: le due laterali in posizione simmetrica, quella, centrale più alta.
Oltre alla certezza della data di costruzione dell'altare (1829) e al richiamo all'anno 1474 (ante an. CCCLV) in cui, come si sa, Eligio della Marra fondò il Convento, si legge, con chiarezza, il nome di Fra Adeodato da Sant'Arcangelo, che prima di entrare fra gli Osservanti, doveva, forse, chiamarsi Fortunato Scardaccione di Michele. Fu questo Fra Adeodato che, forse per ringraziare la Madonna dell'onore che aveva avuto di essere stato custode provinciale degli Osservanti, dopo aver fatto abbattere il vecchio altare in fabbrica (caementitio deleto) lo fece ornare di marmi e lo dedicò con gioia (libens) a Dio (D.O.M.) e alla Madonna di Orsoleo (Sanctae Dei Genetrici Mariae sub titulo Ursolei). Nel 1833, per volere di P. Raffaele Maiorana di Aliano, si costruì in marmo il primo altare a destra dopo l'ingresso, e si rifece il pavimento della chiesa.
Un'altra iscrizione, malandata e poco chiara, sul piedistallo di uno degli altari della parete di destra, ci informa che l'altare dell'Addolorata e quella di S. Rosa, ambedue di marmo, furono costruiti nel 1837 "tempore quo crassabatur colerae morbus", cioè al tempo in cui infuriava il colera (55).
Dopo di questa data non si ha menzione di altre opere o di altri fatti nella chiesa e nel convento di Orsoleo, prima di quello, tristissimo, della fine della vita religiosa e della comunità francescana.

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NOTE DEL CAPITOLO 5

1) P. A. Primaldo Coco, op. cit., doc. III, pg. 23, in Molfese, op. cit. , pg. 91.
2) G. Pennetti, op. cit., p. 22
3) G. Pennetti, op. cit., pp. 18 e 22 chiama la sorella di Eligio non Berardina, ma Isabella. Secondo altri (B. Croce, Aneddoti di varia letteratura, - Bari, 1953, vol. II, p. 375). Isabella non era sorella, ma figlia di Eligio.
4) S. Ammirato, op. cit., p. 317
5) Uno dei fratelli di Antonio era Giovan Francesco Carafa, abate di Sant'Angelo di Atella, il quale costruì "come casa di campagna" uno dei più celebri edifici della Napoli cinquecentesca: il palazzo Carafa di Chiaia, che poi fu detto "Cellamare"; cfr. B. Croce, op. cit., vol. Il, pp. 374-375.
6) B. Aldimari, op. cit., vol. Il, p. 359, cit. da V. De Filippo, op. cit., p. 66.
7) G. Pennetti, op. cit., pg. 20
8) Lo studio dei "capitoli" e delle "concessioni" che i feudatari promulgavano per le comunità (università) delle loro terre è del massimo interesse, per conoscere i costumi e gli ordinamenti civili dei vari paesi. L'importante documento riguardante le terre dei Carafa - della Marra, in modo particolare Sant'Arcangelo, fu pubblicato la prima volta da G. Pennetti, op. cit., pp. 91-100; 124-143, il quale dice di averlo avuto dalla "cortesia del Sig. Gerardo Giocoli di S. Arcangelo... Egli [continua il Pennetti] possiede il documento in parola, scritto su carta bambagina e che porta per titolo: Copia capitulorum Universitatis Terrae Sancti Arcangeli, et gratiarum concessarum eidem Universitari, ab Ex.mo Principe Hostiliani, et sunt... (op. cit., pg. 91, n. 1).
G. Giocoli pubblica (op. cit., pp. 42-44) i "capitoli" 27, 28, 29, 35, 36, 42; e le "suppliche" di Sant'Arcangelo al Feudatario alle pp. 45-47. A. Giocoli, op. cit., pp. 23-26 pubblica, più o meno, gli stessi documenti. Tutti i capitoli sono stati pubblicati da A. Molfese nel Bollettino stor. della Basilicata, n. 7 - 1991; pp. 161-220.
9) Si noti come al contributo siano obbligati non tutti i paesi del Feudatario, ma solo quelli più vicini a Orsoleo.
10) S. Luca ricorre il 18 ottobre. A. Giocoli, op. cit., p. 25 scrive "S. Lucia"
11) "Terra" significa "paese". Fino a pochi anni fa, quando i contadini di Sant'Arcangelo andavano a vendere i loro prodotti nei paesi vicini dicevano che si recavano "fuori terra".
12) Antonio Carafa era, fra l'altro, duca di Mondragone.
13) Il Pennetti (op. cit., p. 99) a questo punto dice testualmente: "Manca la data, ma Antonio ebbe i feudi dal 1517 al 1531". A. Giocoli, invece, alla fine del "capitolo" aggiunge (op. cit., pg. 25 "Datum in Virsidario nostro S.ti Arcangeli 28 novembre 1519. El principe di Stigliano Antonius Carafa de Marra". Aggiunta che deve ritenersi non autentica, in quanto, come si sa, Antonio Carafa ebbe il titolo di "Principe di Stigliano" solo nel 1522.
14) Forse a questo Luigi era figlia la Serva di Dio Suor Maria Maddalena Carafa, nata, comunque, a Sant'Arcangelo nel 1566. A 14 anni sposò Fabrizio Carafa duca d'Andria, e ne ebbe cinque figli, di cui il più noto fu Vincenzo, che divenne Generale della Compagnia di Gesù. Maria Maddalena Carafa restò vedova a soli ventiquattro anni. A 42 anni entrò nel monastero domenicano della Sapienza, in Napoli, ove morì, in concetto di santità, il 28 dicembre 1615. Una Vita di Suor Maria Maddalena Carrafa Duchessa d'Andria e Contessa di Ruvo... , fu scritta dal gesuita Scipione Sgambati, Roma, 1653.
15) Antonio Michele Ghisleri (1504-1572) domenicano, papa dal 1566. Fu canonizzato da Clemente XI nel 1712.
16) A. Giocoli, op. cit., dice 27 gennaio.
17) Della bolla, di cui non si ha l'originale, un brano (con molti evidenti errori) è riportato da A. Giocoli (op. cit., p. 33) il quale, rifacendosi all'opera di G. Giocoli (op. cit. p. 34) dice che una copia dell'importante documento era conservata, a Sant'Arcangelo, nel vecchio Ufficio del Registro, che fu soppresso nel 1923.
18) P. A. Primaldo Coco, op, cit., doc. IV; cit. da G. N. Molfese, op. cit., p. 93
19) Forse nel palazzo di Chiaia si fermò, giovanissimo, anche il Tasso, che nel suo dialogo "Il Gonzaga ovvero del piacere onesto" ricorda il palazzo del Principe di Stigliano. Cfr. B. Croce, - Aneddoti... - cit. vol. II, pp. 375 sg.
20) Non contento del bel giardino del palazzo di Chiaia, il Principe aveva comprato, dalla famiglia Bonifacio, quello che si affacciava su uno degli angoli più suggestivi del golfo di Napoli, sullo scoglio chiamato, allora, la "Sirena", a Posillipo, dove più tardi sorgerà il famoso palazzo Donn'Anna. Cfr. B. Croce, op. cit., vol. II, pg. 379.
21) Società e Religione in Basilicata - cit., vol. I, pg. 555.
22) Cfr. B. Croce, op. cit., vol. II, pg. 379.
23) Ibidem.
24) Era uno dei più ambiti titoli cavallereschi, e veniva conferito solo a sovrani, a principi di case regnanti, a pochi nobili delle famiglie più in vista e a grandi dignitari. Era stato istituito nel 1429 da Filippo il Buono, duca di Borgogna, ma poi era passato agli Asburgo d'Austria e di Spagna.
25) B. Croce, op. cit., vol. II, pg. 379.
26) Ippolito Aldobrandini, di Fano. Fu papa dal 1535 al 1605.
27) B. Croce, - Aneddoti..., cit., vol. II; p. 382
28) Idem, p. 383
29) Il Croce cita dall'opera di D. Winspeare, Storia degli abusi feudali, - pubblicata a Napoli nel 1811, rifacendosi soprattutto alle note 153, 154. D. Winspeare trattando (p. 28 dell'edizione napoletana del 1883) degli "infiniti mali che il governo viceregnale fece al regno", parla dello "spirito di venalità e di corruzione" e dice: "Fra i tanti esempi che potrebbero allegarsene, il più memorando è quello del Viceré duca di Medina e della Viceregina di lui moglie, i quali fecero un tale traffico di tutte le cariche di magistratura del regno, che il duca d'Arcos loro successore diede con una pubblicità inaudita l'esempio di destituire tutti quelli creati dal suo predecessore e dalla moglie per la sola presunzione della loro parzialità. La memoria di questi coniugi è macchiata da una doppia taccia, poiché, essendo possessori di grandi feudi nel regno, impiegarono tutta la loro autorità per accrescere il catalogo delle gravezze baronali e per moltiplicare gli esempi delle più gravi estorsioni su i comuni che erano loro soggetti...". Da notare che con il viceré Ramiro de Guzmàn, Stigliano divenne capoluogo della Regione.
30) A. Giocoli, op. cit., p. 34, dice 1646. L'ultima cifra dell'iscrizione, in verità non è del tutto chiara, ma non sembra possa leggersi "6" bensì " 3" o, tutt'al più, "8".
31) Le interpretazioni (in un latino non proprio perfetto) sono riportate da G. Giocoli op. cit., pg. 36, il quale, nella seconda interpretazione, legge la quarta lettera "Bruta", che, significando "scavata, distrutta", sembra poco attendibile; perciò si suggerisce "erecta", a meno che, nel caso si voglia leggere "Bruta", non si voglia intendere che il Principe fece consacrare la Chiesa che era "caduta, distrutta".
32) Il Giannone parla dell'epidemia del 1656 nel libro XXVII, cap. VII della sua Istoria civile del Regno di Napoli, Napoli, 1723. (L'opera ha avuto varie edizioni). Sulla peste l'opera più importante è "Napoli nell'anno 1656" per Salv. de Renzi, Napoli, 1968.
33) A. Filangieri, Territorio e popolazione nell'Italia meridionale, Milano, 1980, p. 194 e sg.
34) A.S.N. Ced di Basilicata, vol. 39 dal 1696 al 1731, fol. 44 a t., cit. da G. Pennetti, op. cit., p. 28.
35) A.S.N., Ced. di Basilicata, vol. 39, fol. 161, cit. da G. Pennetti, op. cit., p. 29.
36) Per quanto riguarda il "Catasto onciario" di Sant'Arcangelo, cfr. V. De Filippo, op. cit., pp. 91 sg.
37) V. De Filippo, op. cit., pp. 107-108.
38) Una contrada della campagna di Sant'Arcangelo. Lo "stoppello" indicava, in genere, un ottavo di tomolo. Ancora oggi il "tomolo" è la principale unità di misura nel linguaggio del popolo: un tomolo di grano si seminava su un tomolo di terra. Le misure variavano da paese a paese, perciò può darsi che a Sant'Arcangelo il tomolo e, di conseguenza, il "quarto", lo "stoppello", la "scodella" avessero un valore diverso che altrove. Cfr. in proposito, - Il disegno del territorio - Istituzioni e cartografia in Basilicata. 1500-1800 - Roma-Bari, 1988, pp. 7-8.
39) Ancora oggi si dicono "luoghi" dai contadini più anziani di Sant'Arcangelo, gli orti irrigui sulla destra dell'Agri, detti anche "giardini".
40) E' la casa n. 1 di Via Purgatorio, ove si fermavano i frati quando venivano in paese. Fino a qualche anno fa, si poteva ancora ammirare, sull'arco in cima alla lunga scala esterna di accesso all'abitazione, una bellissima ceramica (ora scomparsa) con l'immagine emblematica della Madonna seduta su una quercia con, ai piedi, l'orso e il leone.
41) Questo titolo era proprio delle famiglie più ricche.
42) A.S.N., Dip. Somm., n. 559; cit. da V. De Filippo, op. cit., pg. 71
43) V. De Filippo, op. cit., p. 116
44) A.S.N., Dip. Somm. vol. 573; cit. da V. De Filippo, op. cit. pp. 120-121
45) Racordo giornale... cit, p. 18 recto.
46) E il già ricordato convento dei Riformati, la cui chiesa, attualmente parrocchia di S. Rocco, è dedicata a S. Michele.
47) Racordo giornale..., - cit. p. 19 verso.
48) A. Placanica, Chiesa e società nel Settecento meridionale: clero, istituti e patrimonio nel quadro delle riforme, in Società e Religione in Basilicata... - cit., pp. 252-253.
49) A.S.N. - Cedolario di Basilicata dall'anno 1767 al 1806. - Il documento era nel vol. 42 del Grande Archivio, fol. 137. Riportato da G. Pennetti, op. cit., p. 71.
50) Oltre a queste reliquie, riposte nell'altare maggiore, ad Orsoleo ve n'erano altre, conservate nel bel reliquario dorato posto sulla parete destra presso l'altare stesso. Nel paragrafo "Sanctorum reliquiae" dell'op. cit. di P.A.P. Coco (riportato da G. N. Molfese, op. cit., p. 136) si legge: "In Conventu Sanctae Mariae Ursolei, Digitus S. Antonini, brachius S. Saturnini Martiris. Pars ossarum Beati Andreae Avellini". Si vede che queste reliquie dovevano trovarsi a Orsoleo già molto tempo prima che si costruisse l'altare di marmo; infatti S. Andrea Avellino (nato a Castronuovo nel 1521, morto a Napoli il 10 nov. del 1608) è detto "beato", perciò le sue reliquie dovettero essere portate a Orsoleo non prima del 1624 (data della beatificazione ad opera di Urbano VIII) né dopo il 1712, quando il Beato Andrea Avellino fu proclamato santo dal Papa Clemente XI.
51) Cfr. T. Pedio, - Uomini, aspirazioni e contrati nella Basilicata nel 1799: i rei di Stato lucani, - Matera, 1961, pg. 78.
52) G. Giocoli, op. cit., p. 40.
53) P. Colletta, - Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, Vallardi, Milano, 1905, vol. II, pg. 38. (L'opera ha avuto varie edizioni).
54) R. Bruno, Storia di Tursi, Moliterno, 1989, pp. 266.
55) Si tratta dell'epidemia di colera che, scoppiata nel Gargano nel settembre del 1836, fece la prima comparsa a Napoli nel mese di dicembre e, dopo la pausa invernale, scoppiò con maggior virulenza nell'aprile del 1837 propagandosi, poi, nelle province e nella Sicilia. Finì nel mese di settembre, dopo aver provocato 13.798 morti e circa 50.000 nelle province continentali. Cfr., in proposito, A. Filangieri, op. cit., p. 198.

 

 

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