Lettera al Dott. Vito Pisani, Chicago
Al Dott. Vito Pisaní
Chicago Ill.
Roma, 21 dicembre 1926.
Caro fratello, nel dare pubblicità a questi scritti parlo a te, perchè
meglio m'intendi, a te che hai per legge di natura a mia somiglianza spirito
e tendenze, a te che hai il primato fraterno nella nostra famiglia
brindisina, tra cui la presente cronistoria può incontrare un certo
interesse.
Questi scritti, conservati gelosamente ed a lungo in fondo alle mie casse,
mi hanno fedelmente accompagnato in tutte le peregrinazioni; e chi sa in
quale nascondiglio sarebbero andati poi ciecamente a finire, se un doloroso
epilogo, che mi sembrava lontano lontano e da cui ogni volta rifuggivo col
pensiero, non avesse, arrestandomi nella corsa affannosa, penetrato il mio
spirito, commovendolo profondamente, raccogliendolo in meditazione suprema e
sollevandolo da interessi e da cure effimere verso una sfera purissima di
aspirazione, in cui l'amore diventa religione e si diffonde di moto in moto
verso l'infinito.
L'amore era stretta aderenza alla vita e vago sogno, era timore dell'ignoto,
trepidanza e smarrimento nato dal dubbio che s'indugiava per le vie del
finito. L'amore ora approda ad una perfetta armonia, in cui lo spirito
s'acqueta e si rasserena, perchè si concilia con l'essenza vera delle cose e
con il fine ultimo dell'esser nostro.
La morte di Celestina mi sorprese vergine al dolore, e, parendomi non vera
la perdita d'una sorella così mite e buona, sentendomi circolare nel sangue
una continua piena d'affetto e parendomi assurda la sparizione di una sì
fiorente e rigogliosa giovinezza, non sapevo rassegnarmi alla perdita
impensata, rapida, di sembianze che avevo sempre negli occhi e di parole e
di canzoni che avevo negli orecchi e nel cuore. Mi recavo nelle ore di
quiete e di solitudine nel nostro camposanto, chiamavo a voce alta
Celestina, la chiamavo a notte alta, disperatamente, e mi pareva
d'impazzire. Era la mia una pietosa insania.
Allo stato di disperazione subentrò una lenta e serena malinconia, in cui
l'amore vivo dei genitori e di voialtri piccoli adorati fratelli, e la
speranza e la certezza di raggiungere la morta (no, per me non era morta)
nella sua eterna sede, quando fosse suonata la mia ora, mi acquetarono in
una visione eterea, del di là, in una vita di amore che non si spegne più
mai.
Eppure questo grande dolore non mi aveva completamente educato.
La gioventù e la intelligenza irrequiete, l'esuberanza di attività e il
traboccante entusiasmo, rinnovatosi in ogni benefica impresa, mi han fatto
poi trascorrere molti anni senza darmi tempo di volgermi addietro.
Però, ad ogni alba pallida o rosata, dal Piano di Mincio o dalla vetta della
Serra, ad ogni trillar alto di allodola invisibile, che . . . . " tace
contenta dell'ultima dolcezza che la sazia (1), ad ogni tarda sera, quando
tutto intorno taceva e dal Serro Grande si vedevano i lumicini comparire e
scomparire nei vani delle finestre, e le strie luminose di stelle vaganti
filavano e sparivano nell'immensità del cielo, tra innumerevoli atomi di
fuoco, di mondi, nella profonda quiete era un fascino di note modulate e
dolcissime che veniva di lontano, che s'insinuava nei miei nervi, in ogni
atomo del cervello, e mi sospingeva, cullandomi, nell'indefinito, ove è la
sede del meraviglioso. E quell'accordo mi risuonava nell'anima di poesia
intima e mi lasciava assorto e malinconico. All'esordire di ogni primavera,
rilucente e tersa, tepida e rorida, al bacio purissimo e lieve lieve con cui
le aure aprivano mille bocciuoli e mille ali dalle fogge più smaglianti di
colori, un vago senso di trepidazione mi vibrava nel cuore e
nell'immaginazione e mi sospingeva di nuovo innanzi ad avvenimenti grandiosi
e indefinibili; mi sentivo come all'inizio di un viaggio per lidi lontani
lontani, incantevoli, non mai esplorati, ove pareva mi attendesse una
visione abbagliante, la più solenne dello spirito.
Uno stato d'animo che ancora non so definire, anche quando fisso lungamente
l'alto e purissimo ciel nostro di Brindisi, anche quando lo attraverso con
l'ali riposate dell'immaginazione e mi par d'essere sul tuo capo, mentre
baci Tommasino morente . . . .
In più di trent'anni quante luci e quante ombre! Dopo le giornate radiose,
quante bufere e quanti abbattimenti . . . .
Era morta Rosina, buona e pia, da poco tempo. Tu eri, come sei, tanto
lontano. La terra volgeva quella mattina ai solstizio boreale: la sua faccia
era muta e fredda, eppure entro bruciava e si consumava. In viaggio da Roma,
in treno, in una notte insonne e angosciosa, poco prima dell'alba, al
cospetto del Vesuvio sterminatore, mi appisolavo e in sogno vedevo nostro,
padre morente.
In quell'ora del ventuno dicembre il suo spirito lieve e solenne, nella
stessa camera ove ci aveva data la vita e ci aveva scaldati poi sempre col
fuoco più puro di amore e d'intelligenza, ci abbracciava e ci abbandonava a
noi stessi nel rimanente viaggio terreno.
Per via, dalla stazione, non avevo interrogato alcuno, temendo, e mi
contenevo tragicamente taciturno: piangevano per me le cose d'intorno.
Il cuore gelido mi si sciolse, entrando appena, alla vista di fiammelle
tremule di ceri: quella fronte pallida, ampia e serena, traluceva ancora di
bellezza e di verità, solenne, inflessibile . . . . Ma la luce degli occhi ?
dove era la luce di dolce bontà, la onesta e sincera fierezza di quegli
occhi castagni . . . . ?
Baciai quella fronte e quelle palpebre e poi uno schianto di cuori, un grido
solo disperato ed un abbraccio strettissimo, come per morire tutti insieme:
mamma, Marialuigia, Peppino ed io ci ritrovammo così davanti alla
inflessibile legge della morte. E piangemmo per te : forse il tuo spirito
piangeva con noi in quelle ore.
Piangemmo; piansi e mi accorai. Il dolore grande non ebbe forme di follia:
mi trovò temprato nelle opere, più forte nella fede, più vicino alla mia
stessa meta, allo svolto fatale verso l'infinito:
«Come la fronda che flette la cima
Nel transito del vento, e poi si leva
Per la propria virtù che la sublima ».(2)
Prima di giungervi vo' assedermi ancora sull'estrema vetta del Serro Grande,
a pie' della Croce. Ho bisogno di respirare quell'aria a pieni polmoni, ho
bisogno di rivedere l'oriental zaffiro sulle vette di Albano, di riposare
lentamente in giro lo sguardo sulla linea ondeggiante delle alture: sul
Romito, sulla Pallareta, sul bosco Cute, sulle guglie aguzze piramidali di
Castelmezzano, sul calvo Pazzano, sulle campagne che declinano versò le
valli e verso il Basento. Voglio guardare a lungo il vecchio castello, prima
che crolli, e l'abitato e il nuovo recinto e i giovani pini del camposanto
solatio. Quanti cari morti ! . . . . La mia fronte s'inchina al pensiero dei
padri e il mio pensiero è lampada votiva che non si spegnerà.
«Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt »(3)
Le persone muoiono, le cose 'rimangono e quanto è destinato a perire ci
commuove profondamente; ma ciò che pare destinato a perire si rinnova e
riaccende gli spiriti.
«Putrescant, ut resurgant».
Gli spiriti vigili non si arrestano: consegnano la fiaccola ad altre
generazioni. Nell'eterna vicenda si consacrano le più belle memorie e si
tramandano.
Nella mia breve sosta che è di rapida indagine sul passato, di sobria
valutazione del presente, di spinta dello sguardo nell'avvenire; sciolgo la
mia giovanile promessa, di primo amore alla vita.
Bella era la fede alle mie stesse idealità e tal fede ritrovo nei principii
che ebbi col sangue.
Pater creatore, primo e più grande genio tutelare in tutte le epoche, fra
tutte le progenie, in ogni popolo e in ogni grado di civiltà.
E inseparabile l'amore per i genitori e per la famiglia da quello per il
luogo natio. Ogni stilla di sangue ereditato e ogni cellula del nostro corpo
hanno elementi di aria e di terra nostre; ogni vibrazione dei nostri nervi e
della nostra intelligenza ha riflessi di luce, di colori e di calore
dell'ambiente in cui ci siamo formati; il tono dei nostri sentimenti e del
nostro idioma ha risonanze della nostra storia e dei nostri canti, e l'eco
si ripercote avanti, con onde che si moltiplicano verso l'avvenire: or come
note d'una musica solenne, come diana di molte fanfare unite e armoniose,
che conquide e trascina, ed ora come fremito tragico di ribelle volontà che
rivoluziona e riforma. E' l'animus che somma e porta con sè, in mirabile
fusione, le caratteristiche e le aspirazioni della razza, che polarizza le
energie spirituali e morali d'un popolo, che è potenza propulsiva
straordinaria, che si fa esponente d'un periodo storico ed assurge a genio
tutelare, a padre della patria.
Per questa somma nulla si trascuri, anche con la raccolta di fatti e di
personaggi modesti, oggi che per la ricostruzione italica si scopre e si
valorizza ogni salutare rivolo per risalire alla nostra prisca grandezza.
Il trattato di Tirana (27 novembre 1926) converge l'attenzione d'Europa
suggella la fusione italo-albanese, caldeggiata per cinquecento anni.
Queste memorie si svegliano in buon punto: se non portano un considerevole
contenuto storico, hanno un diritto sbocco nella vita nazionale, perchè son
destinate a portare un contributo, quantunque modesto, di luce e di calore
che son fiamma pura di buona volontà e di vita chiara ed operosa. ,Così come
sono, di modesto valore iconografico, di genuino ed onesto folklore,
dovranno soddisfare la sana e semplice curiosità dei nostri conterranei,
mentre coronano il mio maturo desiderio d'innalzare un piccolo faro sul
monte che ci vide nascere. F dovrebbe averlo luminoso ogni comune d'Italia.
Nell'America del Nord la «Vatria», potentissima associazione, conta più di
trentamila Albanesi; mentre in cotesti Stati Uniti vi sono circa duemila
Brindisini. Diffondi tra essi, se puoi, queste memorie per ravvivare il
ricordo d'origine, per rafforzare l'amore alla nostra vetusta madre Ausonia
ed avvincerli ad essa con migliori propositi.
Nelle memorie comuni, che sono di ponte granitico fra i due mondi, che
tendono a sollevare all'altezza spirituale d'Italia novissima i suoi figli
lontani, scocchi con l'ora che suona il bacio possente di figlio a padre, di
padre a figlio, di fratello a fratello.
Andrea
(1) Dante Paradiso Canto XX, 73,74.
(2) Dante Paradiso Canto XXVI 85, 88.
(3) Virgilio Eneide.
|