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ANDREA PISANI
Dall'Albania a Brindisi di Montagna all'Italia
 

ANTICHE ORIGINI LE FAMIGLIE

Lodovico Antonio Muratori, storico erudito, visse tra il 1672 e il 1750; negli Annali d'Italia, parlando dei Principi di S. Severino, confuse BRUNDUSSII DE MONTANEA con Brindisi che è nella penisola leccese, e quanto egli scrisse di una popolazione attiva nel traffico marittimo venne da alcuni erroneamente attribuito alla nostra antica borgata, dandole importanza di città cospicua. La nomea solleticò la fantasia di nostra gente, che per naturale amor proprio, attraverso parecchi secoli, finì per crederla vera e meritata.
La primitiva borgata di Brindisi, castello nobilissimo, come la chiamò il Summonte, fu non altro che un aggregato di case, cioè di una quarantina di fuochi e di altrettante famiglie. Si stendeva fra il Piano di Mincio e le Coste di Fonzo; aveva centro là ove rimane l'Aia di Brindisi, che ne perpetua il ricordo. Fu distrutta dal terremoto alle ore undici del 5 dicembre 1456, da quel terribile cataclisma che abbattè molte città fiorenti napoletane, Benevento, S. Agata, Ascoli, Campobasso, Avellino, Cuma ed altre, ed uccise cinquantamila persone: ai tempi di Calisto III papa e di Federico III imperatore di Napoli.
Niuna traccia apparente rimane all'osservatore, tranne alcuni cumoli (detti volgarmente specchie) di pietre in parte lavorate ed alcuni segni di tombe primitive. Di scavi a bello studio, a fine archeologico, non sono mai stati eseguiti.
Per quanto scrissero gli annalisti del tempo, come il Porzio e il Costanzo, per quanto abbiamo potuto raccogliere da manoscritti e da tradizioni più attendibili, la nomea di città opulenta dev'essere stata l'eco di remota e più antica grandezza, quando in fatto per molte località erano disseminate belle case e ville, vigneti ed orti doviziosi, così nell'Ebraica, nel Piano di Mincio e a Caprarizza, come verso la fontana Lavecchia, il Largo della Chiaffa, la Difesa, i porcili di Potenza o Ciux, l'Acqua del Ceraso, la Mandra d'Eboli, ove avanzi di fabbriche dirute, di tombe e di cadaveri disseppelliti, ove armi, monili e vasellami rinvenuti negli strati profondi, sabbiosi, specialmente sul pendio della nostra montagna, durante gli scavi e gli sterri per la costruzione della strada rotabile, sono testimoni e documenti sicuri d'una epoca lontana, di civiltà pagana, forse romana di gente dipendente da Roma.
Altre ipotesi sono state architettate al riguardo, per cui si vorrebbe attribuire la prima origine di Brindisi agli Eruli o ai Longobardi; ma sono semplici congetture, senza una fondata e persuasiva dimostrazione.
A noi punto giovano tali arzigogoli. Niuno dei pochi scampati dal terremoto, sparpagliati nella campagna e nei paesi più vicini, confusi poi ai sopravvenuti albanesi, continuò la tradizione o serbò memorie orali o scritte dell'antico paese; noi, non potendo attingere gli elementi a chiare fonti di atti, di annali, di reliquie e di monumenti, andiamo innanzi per la via a noi più prossima che è illuminata e sicura.

Come è stato detto nel sommario storico che precede, la nostra cronistoria con dati certi incomincia nel 1268, con Guidone da Foresta, che venne investito della signoria dagli Angioini e prese il titolo di Primus Dominus Brundusii de Montanea et Ansiae.
Dai de Foresta ai de Divort e da questi ai Belmonte il dominio passò ai La Zatta e per usurpazione nel 1449 ai conti Sanseverino di Tricarico, i quali lo tennero fino al 1606. Da quest'epoca mutarono spesso i signori e nel 1634 Flaminio Antinori comperò Brindisi sub hasta sacri concilii; un suo discendente degenere, Giuseppe Domenico, istituì un fide commesso e s'intitolò duca di Brindisi e Pietro Morella nel 1740; dopo di lui venne Flaminio, in ultimo Giuseppe e con costui, il 14 novembre 1807, termina il regime feudale, propriamente detto.
Dal 1807 ad oggi la vita del nostro paesello per la sua posizione fisica e per le sue condizioni demografiche non ha risentito delle congiure politiche e dei moti rivoluzionarii. Appena dopo il 1860 fermentarono di nuovo gli avanzi feudali e la convivenza fu inasprita da lotte interne; poi, estinte molte famiglie che avevano sempre primeggiato, emigrate moltissime altre che costituivano la nervatura dell'operosità, immigrate altre diverse per condizioni sociali, per indole e per fini, gli spiriti e le forme della nostra gente si sono profondamente mutati.
Il primo periodo di formazione della nuova borgata si svolge in un'atmosfera di sicurezza e di pace, sotto la protezione della Casa Sanseverino, del ramo dei principi di Bisignano.
Bisignano, in provincia di Cosenza, fu distrutta dal terremoto nel 1905; della famiglia Sanseverino di duchi, conti, principi; di Tricarico, di Matera, di Montescaglioso, di Venosa, di Marsico, di Tursi, di Terlizzi, di Ostuni, di Salerno, di Bisignano, di Sessa, di Caiazzo, di Melito, di Terranova, di Belcastro si occupano diffusamente annalisti e storici ben noti, come il Panormita, il Collenuccio, l'Ammirato, il Summonte, Camillo Porzio, Leone Ostiense e Camillo Freccia.
A noi basta accennare alla potenza e nobiltà originaria di essa in Normandia; al buon nome di Pietro de Tori, chiamato da Roberto il Guiscardo; alla potenza ed alla ricchezza raggiunte nel Napoletano; alla parentela che strinse con gli Orsini e con famiglie reali; alle alte cariche tenute sempre con dignità e con prestigio, (Tommaso Sanseverino fu vicerè di Napoli nel 1386); alla difesa sostenuta dai suoi cardinali contro l'Imperatore Federigo II per la chiesa cattolica.
La illustre famiglia ebbe anche i suoi rovesci, e Camillo Porzio, nella congiura dei Baroni, trae dalla rovina di Nomento (Mentana) questa interrogazione: «Pur che maraviglia ci deve recare la rovina di Nomento se gli stessi suoi rovinatori, con raro esempio, insegnano al mondo l'umana fragilità ed in quel brieve spazio la fortuna e il mal governo traggano l'altissime cose all'intima loro bassezza? Conciosacchè la famiglia dei Sanseverini, famosa allora per tutta l'Italia nelle guerre, copiosa di personaggi, splendida di signorie, non ottant'anni di poi si vegga in ogni lato inesperta di armi, vota di uomini e quasi spogliata di stati».

I NUOVI ABITATORI

«Come la nostra Esperia, e il nostro Epiro
si son vicini, e come ambe le terre
fien vicine e cognate ed ambe avranno
Dardano per autore e per fortuna
un caso istesso, così d'ambedue
ani proporrò, chè d'animi e d'amore
siano una Troia; e ciò perpetua cura
sian dei nostri nepoti . . . .»

Virgilio Eneide, libro III.

Erina o Irene fu seconda moglie di Pietrantonio IV Sanseverino, principe di Bisignano, e madre di Nicolò Berardino: nata nell'Epiro (Albania meridionele ), era figlia di Giorgio Caprioto o Castrioto, Scanderberg, e sorella di Giovanni.
Giorgio Castrioto, nato nel 1404, principe di Croja, città principale dell'Illiria, per il suo gran valore fu chiamato Scanderberck (1) e paragonato in grandezza d'animo ad Alessandro Magno, re di Macedonia.
Nel 1454, impegnato contro i Turchi che assediavano un suo castello albanese, Belgrado, chiese, aiuto ad Alfonso d'Aragona ed ottenne alcune truppe al comando di Raimondo Ortassa, catalano.
Nella Dieta di Mantova del 27 maggio 1459, Pio II promosse una crociata contro Maometto II e ad essa avrebbero dovuto partecipare Venezia, Pisa, il Duca di Milano, altri principi italiani e l'Albania.
La Francia svolse azione di rivindica del Napoletano a favore degli Angioini e impedì la Crociata. Agli Aragonesi la guerra era sfavorevole e delle Puglie rimanevano Trani e Barletta. Ferdinando, che si era chiuso nel castello di Barletta, chiese aiuto al Castriota, il quale, memore e grato di quello che aveva ricevuto dal Re Alfonso, dopo aver chiesto a Maometto ed ottenuto un anno di armistizio, accorse a Barletta con le forze allestite per la Crociata Santa e col suo intervento riuscì a liberare Trani e Barletta dall'assedio. Giorgio ebbe per sè e per i suoi da Ferdinando il Cattolico, in pegno di gratitudine, la città di Trani, altre terre, paesi vicini e alcuni privilegi per i suoi commilitoni. Poi continuò la lotta contro i Turchi, sempre vittorioso; venne in Roma per chiedere soccorso al Papa, e a Roma la casa e la strada ove abitò portano il suo nome. Morì il 17 gennaio 1467 in Alessio, o Lissa, l'antica Lissu fondata in Dalmazia dal primo Dionigi di Siracusa 340 anni avanti G.C.
Irene ottenne dal principe consorte ospitalità per i profughi suoi connazionali nella terra di Brindisi, tenuta in fitto da un prete di Potenza, Don Gerardo Curt: nel 1534.
Tra il 1532 e il 1534 venne in Italia una quarta (2) ondata immigratoria di Albanesi o Illirici; i quali vollero sottrarsi al furore di Baiazet II, per ordine di Carlo V furono portati in Italia su alcune navi siciliane, comandate dal celebre ammiraglio Andrea Doria, ed ebbero nel Napoletano possedimenti e privilegi dal Re generoso. (3)
Trenta famiglie, originarie di Corona, sbarcate a Napoli, furono accolte dal principe Pietrantonio di Bisignano e mescolate ai pochi indigeni superstiti per ripopolare il feudo che era rimasto fra i ripetuti terremoti e per settantanove anni quasi deserto.
I Coronei, dopo molti giorni di cammino e di disagi per luoghi sconosciuti ed aspri, senza perdersi mai di animo, giunsero affamati ed estenuati alla Torre della Serra del Ponte. Quivi ebbero la prima indicazione del luogo che, in prossimità del fortilizio, doveva essere la loro perenne dimora; ma, secondo tradizione, appena attraversato il Basento, si trovarono in così folta boscaglia, smarriti all'inizio dell'ascesa, da dover una prima ed una seconda volta retrocedere per riprendere esatta visione, migliore orientamento e precisare la meta.
Dallo sbocco del Vallone Monaco, risalendo nella valle per il Tufo, ove son ora l'orto di Antinori e la vigna di Spera, raggiunsero con molta fatica la sommità del monte.
Le trenta famiglie albanesi prime giunte furono quelle di Barbati, Basta, Bellezza, * Beccia, * Bello, * Bianco, Biluscio, Bodino, Bubbich, Buscicchio, * Canadeo, Caparriello, * Caporale, Colossi, Como, Creasi, Cresio, * Greco, Lech, Licumati, Manes, * Mattes, Molicchio, Musciacchio, Plescia, * Prete, Pulmett, Rennisi, Scura e * Truppa.
Tra le poche famiglie brindisine superstite alcune si erano rifugiate nei paesi vicini, come quelle che ancora conservano il casato di Brindisi, Maggio; e le nostre terre negli anni di abbandono erano inselvatichite e divenute covo di cignali, di lupi, di cervi e d'altri animali.
Gli Albanesi, dopo le escursioni fatte nel territorio e tra le ruine dell'antico Brindisi, scelsero come luogo di dimora, com'è naturale, la parte più sicura presso il castello, cioè sul blocco roccioso e inespugnabile. Le prime loro abitazioni, in tanta fittezza di alberi annosi, furono capanne di legno, e, in vero, ricordiamo noi stessi molte umili casette con muri a loto, coperte non di embrici o di tegole, ma di scannule (tavolette a spacco, lunghe circa cm. 75 e larghe cm. 25, in media): copertura che ancora si osserva su qualche casetta di campagna.
Il primo periodo di attività dovette essere di scorrerie nella contrada, ove molte comodità mancavano e la disperazione cresceva pel triste governo del vice reame spagnuolo, che spingeva gli abitanti di tutto il napoletano, anche quelli della campagna, ad abbracciare come ultima risorsa, il mestiere del bandito in ischiere, che venivano poi capitanate da signori di nobilissime famiglie. E non pochi tra i nuovi venuti si diedero alla caccia e al servizio militare mercenario nelle case dei principi e nei regi tribunali: con un passato tutto di guerre non potevano non essere esperti ed inclinati alle armi. Il lavoro, sempre tenuto in dispregio dagli uomini, era serbato alle donne.
Alcuni dapprima, e in seguito quasi tutti, si dedicarono alla pastorizia e all'agricoltura: la pastorizia è sempre stata ed è l'occupazione prediletta degli Albanesi. Poi piantarono vigne, le popolarono di alberi da frutto, e migliorarono le loro abitazioni.
Per la vita spirituale e per seguire le loro supreme e ferme aspirazioni avrebbero voluto conservare e praticare il culto cattolico orientale che, insieme alla loro lingua, ai loro costumi; alle loro tradizioni, formava la caratteristica spiccata della loro razza; non avevano, però, sacerdoti connazionali e furono dagli arcivescovi della diocesi di Acerenza accumunati nel rito latino ai prossimi Vagliesi: non agli abitanti di Trivigno che era un casalotto di Anzi, e non a quelli di Albano che era nella diocesi di Tricarico. A Vaglio, dunque, si recavano i nostri per tutte le pratiche religiose; ma con loro disagio, maggiore durante le intemperie e nei casi urgenti.
Il 20 giugno 1595 in pubblico comizio, v'intervennero il Sindaco Giobbe Barbati, il capo eletto Bolimetti, il governatore Molfese, tutti i capi di famiglia, decisero e giurarono di edificare, sui ruderi di altra cappella, la chiesa di S. Nicola di Bari, ora chiesa madre, mediante oblazioni in grano e in denaro, e contrassero obbligo per la manutenzione dell'edifizio e pel mantenimento del parroco. Lo stesso Barbati si rese promotore d'una colletta per riedificare la cappella di S. Maria Mater Misericordiae : come ho detto altrove.
Ma sino al 1628 non, riuscirono ad avere sul luogo preti e cure di anime. Soggiunsero allora altre famiglie croiesi di Lillo, di Ariropoli, di * Dorisi (poi detta Dores ); di * Bizza. In vero, anche queste avevano per un certo tempo dimorato in Italia: gli Ariropoli, colti e nobili, vennero dalla regione leccese; i Dorisi e i Bizza, poi detti Bellezza (Rizzillo) vennero dalle Calabrie; i Lillo da Barile. si erano staccate da altre colonie albanesi e furono accolte dai loro connazionali, come di contemporanea provenienza, ed ammesse a godere i loro stessi privilegi. Nacque dalla fusione e dalla concordia una piacevole gara per procurarsi col lavoro assiduo le comodità di vita comune e per nobilitarsi con le lettere, le scienze e le virtù civili.
Con queste ultime famiglie si ebbero i due, primi sacerdoti greci: Don Francesco Avianò e Don Demetrio Sannazzari; i quali, con regolare contratto rogato il 21 dicembre di quello stesso anno, accettarono il disimpegno degli ufficii religiosi.
I due preti, come consentiva il loro rito, ebbero moglie e discendenti e tra questi non pochi preti, come Don Basilio Bellezza.
L'arciprete Avianò e il fratello, Alessandro, suocero di Demetrio Bellezza, fecero ricostruire sulle prische rovine la cappella di S. Giacomo, apostolo, della quale non rimangono che qualche arco e due basì prismatiche di colonne.
Sulla faccia di uno di questi basamenti che era nell'angolo esterno, a nord, ed ora rovesciato, si leggono le seguenti iscrizioni di parole latine e di qualcuna francese, senza data nè era:
D. M. Nen, Ulianazo enim nixit II annis.
IX mensibus IIII diebus. C. Capuius Papder Conjuci.
su altra faccia
D. M. Sabia Marciane vixit annis X.
Fecit Magius Felicio Conjuci benemerenti

Indubbiamente tali iscrizioni portano incisi i nomi di coloro che fecero costruire o restaurare la cappella: Teodora, moglie dell'arciprete Avianò, aveva appunto il cognome Maggio, di nascita: forse di famiglia aboriginaria nella seconda iscrizione ricordata.
La cappella di S. Giacomo ebbe una dote di tre case, di 50 tomoli di terreno (Ea 20, 5750), di una vigna in contrada Cornale, di 400 fra pecore e capre e di due bellissime campane. La cappella con tali benefizii passò nel 1657 al prete Don Basilio Bellezza, avanti ricordato, e poi ad altri discendenti, preti colti e stimati.
Di essi Don Giacomo, battezzato il 29 luglio 1717, divenne medico, e sacerdote nel 1742, poi arciprete di Genzano, e per più anni fu maestro in casa del Duca di Laurino, in Napoli, ove morì nel 1786.
Un fratello di costui, Saverio, sacerdote anch'egli, fu maestro in casa del Principe di Genzano; visse in Napoli, ove morì nel 1787.
E in Napoli altri della famiglia, medici e farmacisti, fissarono la loro dimora.
La famiglia Bellezza è stata la più numerosa, là più intelligente e la più attiva, quella che più si è diffusa e diramata fuori del nostro comune.
Abbiamo il dovere di ricordare Andrea Bellezza, che fra le altre buone opere fondò la Congregazione del Rosario e le elargì quanto possedeva; istituì la Lavanda dei piedi e la Cena del giovedì santo con la distribuzione, a sue spese, di pane benedetto ai poveri: secondo l'uso di case principesche.

Discendente della famiglia Sannazzari fu Don Domenico, primo architetto ed ingegnere con onorario perpetuo di Sua Maestà Ferdinando IV di Borbone. Su disegno di questo illustre paesano fu costruita la cupola della cappella del Carmine. Egli morì in Tricarico nel 1793.

Don Vincenzo Capparelli, fratello dell'arciprete Domenicantonio, avvelenato in Vignola ora Pignola per volere d'un duca, fu parroco di San Paolo di Roma.

Decoro e lustro al nostro paese diede la famiglia Basta, Croiese. Di essa si occupa lo Strada, autore del libro «De bello bellico» (libro V pag. 308). Andrea fu molto versato nelle lettere; Gerardo, benefico e religioso, fece costruire nella cappella della Madonna il nuovo coro e la cupola del campanile; Nicola fu ufficiale di cavalleria nell'esercito del Re di Spagna e nel 1580 combatté nei Paesi Bassi, ove molto si segnalò; Giorgio, nato a Rocca di Cosenza, Conte e valoroso generale nella stessa armata di Spagna (1600), scrisse due trattati: «Il maestro di campo generale» (stampato a Venezia nel 1606) e «Il governo della cavalleria leggera» (stampato a Francoforte nel 1612).
Durante la dominazione spagnuola e la serie nefasta dei vicerè il fiore degli Italiani militava negli eserciti stranieri; i generali e i soldati nostri gareggiavano nella gloria per ingegno e coraggio con le bande spagnuole. «Non erano nello interno ordini di milizia: milizie straniere guardavano il paese; e le nostre in terra straniera obbedivano alle non proprie ordinanze: le arti di guerra imparate altrove non erano utili a noi; e il sangue e i sudori delle nostre genti non facevano la gloria nostra. Così che mancavano ordini, fama, sentimento di milizia». Così il Colletta nel libro 1° pag. 162 della Storia del Reame di Napoli.
E dire che le nostre provincie avevano tanto bisogno della direzione e dell'azione di uomini d'intelletto e di cuore italiano, perchè esse si andavano sempre più ammiserendo nella soggezione alla Spagna, che con la non curanza le opprimeva e le avviliva con gravose imposte (torniamo al nostro sommario storico ed alle frequenti vendite sub asta del nostro territorio, quasi sempre a causa d'imposte), perché calpestate da soldatesche straniere, perchè amministrate da gente ignorante, scialacquatora e rapace, perchè desolate e uccise nell'agricoltura e nelle industrie.
Con sì triste ricordo dobbiamo saper valutare la grandezza della fortuna, quando ci dà uomini di fede, di coraggio e d'azione, i quali, mentre lavorano alacremente nell'interno, chiaroveggenti nei nostri destini, trasvolano su mille difficoltà, si fan largo e credito, e nel mondo fan posto onorato all'Italia ed a noi.
Ai primi Ariropoli, molto tempo dopo, forse nel 1700, si aggiunsero altri provenienti da Fagiano; oggi Fasano di Lecce; cosicché la famiglia s'ingrandì, ebbe uomini di lettere e probi, altri impulsivi, violenti e sanguinari, e tali se provocati.
A questo punto dobbiamo tener presente che l'albanese di oggi, come di ieri, è indipendente ed egoarca: per isurpazione d'un breve tratto di pascolo, pel furto d'una pecora, peggio se per adulterio, provvede da sè col fucile o con la pistola, velocemente. «Niente è più al mondo giusto quanto il fucile d'un albanese» dice ancora un proverbio.
Son pur degne di nota le famiglie originarie di Plescia, di Barbati, di Mattes poi Mazza, di Belli, di Manes, di Buscicchio, di Prete, di Pulmetti, di Dorisi o Dores, di Canadeo, di Rennisi e di Beccia: perché diedero cittadini probi, colti e stimati, e i Barbati si prodigarono più degli altri nelle cariche pubbliche.
I Truppa, i Malicchio, i Caporale, i Greco, i Creasi, i Crescio, i Biluscio, i Bodino, i Colossi, i Lecca, i Rubico e i Licumati attesero umilmente e modestamente al lavoro dei campi, senza mai dimostrare alcuna tendenza a migliorarsi intellettualmente.
Nei primi tempi di adattamento, e di assestamento, che durarono più di un secolo e fino alla seconda metà del 1600, nel regime di vita domestica ed agricola la colonia si mantenne gelosa delle sue tradizioni e delle sue consuetudini elleniche originarie.
Alle prime incertezze, alle oscillazioni tra il vecchio e il nuovo, tra le armi e la pastorizia, dileguatosi il ricordo delle feroci persecuzioni turche e delle torture, seguì tutto un fervore di opere casalinghe, campestri e chiesastiche, un vero raccoglimento di spiriti concordi, anelanti alla pace e alla quiete. Il raccoglimento, favorito dal silenzio silvestre e dalla inaccessibilità dei monti, aveva ancora una tinta di paura delle convulsioni sismiche e delle furie aeree; era desiderio intenso di placare le ire dei cattivi geni e di avvicinarsi alla clemenza d'un supremo regolatore, che una volta chiamavano fatale Allah ed ora hanno imparato a chiamare giusto Iddio.
Lo prova il fatto, di cui il ricordo è preciso, che le famiglie di migliori intelligenze e di migliori sentimenti diedero cure devote e sostanze cospicue all'edificazione ed alla restaurazione di chiese e di cappelle e allo studio di lettere latine, di teologia e di storia; mentre fino al 1595 non avevano avuto un prete, e se l'ebbero poi saltuariamente fu un vagliese, Don Gregorio Catalano.
Superato tutto un periodo di difficoltà, le famiglie originarie si fecero conoscere dai popoli vicini e guadagnarono credito: contrassero matrimonii e amicizie, stabilirono commerci ed effettuarono scambi di prodotti.
Aumentato con la popolazione il benessere, per i cresciuti bisogni, oltre i primitivi inerenti all'agricoltura ed alla pastorizia, si verificò l'immigrazione di artigiani e di professionisti e di famiglie italiche.
Dobbiamo, per la verità, far rilucere col buon nome acquistato dagli Albanesi la bontà del nostro clima, la salubrità dell'aria, l'abbondanza delle acque che sorgevano in molti punti del territorio, la estensione e l'ubertosità del territorio stesso, l'esuberanza dei pascoli e la folta ricchezza dei boschi.
Allora facilmente si ottenevano terreni feudali con semplice istanza e col solo pagamento di decime in vettovaglie.
La Grancia era un luogo dovizioso e opulento per lavorazioni, per allevamenti ed industrie di buoi, di pecore e di capre, per prodotti in cereali, vini e latticini.
Tutto ciò attrasse genti di altri paesi.
Si vennero così, via via, mescolando sentimenti e riti religiosi e pregiudizii, costumi, sistemi di vita e di lavoro, capacità ed abitudini.
A tirar le somme, il secolo XVIII fu per i nostri bisavoli di notevole attività, di benessere materiale e di altezza culturale.
Il capitano Giulio Cilenti, nobile genovese, andò con la sua famiglia a svernare in Tolve nel 1580, mentre Tolve era Regio Demanio. Vi fissò la sua dimora e prese in moglie Vincenza d'Erario.
I d'Erario erano stati cavalieri di Malta; avevano lo stemma gentilizio sormontato dalla corona baronale, in esso si vedevono due leoni rampanti verso un pino. La famiglia d'Erario tenne, per acquisto, la signoria di Brindisi per poco tempo: dal 1608 al 1610. Fu sottratta alla giurisdizione di tribunali ordinarii con decreto del 25 maggio 1805, di Fernando IV: di essa discorriamo in altre parti del nostro libro.

Della famiglia Parise abbiamo fatto cenno nel sommario storico. Oriunda di Calabria, si trasferì in Moliterno, ove ha ancora discendenti. Di essa Don Troilo morì il 21 ottobre 1614 e lasciò tra noi buon nome.

I DUCHI ANTINORI

1634 1811

Mentre i Principi Sanseverino si recavano qui da noi, di tanto in tanto, a visitare i loro possedimenti, i duchi Antinori che per quasi due secoli dopo li hanno goduto, son rimasti con le loro famiglie nel nostro castello, pur facendo di Napoli il loro centro di vita nobiliare e cittadina.
Nel 1458, all'incoronazione di Ferdinando I in Puglia, col seguito del Cardinale Ursino, delegato dal Papa Pio II (Enea Silvio Piccolomini, senese), troviamo Luigi Antinori di nobilissima famiglia fiorentina, il quale, avendo preso moglie di casa Mango in Salerno, ivi per l'acquisto di molti castelli in Sanseverino stabilì la dimora. I posteri continuarono a far matrimonii nobilissimi in Napoli con famiglie di Capuana, Nido, Zurla, Capece, Piscicella, Guindazza ed altre. Così riferisce il Summonte; ma cronologicamente non coincide con quanto dirò in seguito.
Giuseppe Campanile, in un suo libro, parla delle famiglia Antinori e la disse regnicola dei baroni napoletani, del nobile paese Sanseverino.
Anche il Beltrano nel 1644 l'annoverò tra le quattordici famiglie nobili di Sanseverino. Gli Antinori di Brindisi asserirono per bocca dei Montulli che nel 1644 la loro famiglia era in Firenze e con altre di pari nobiltà, e, per sottrarsi alla potenza della casa Medici, si trasferirono in diverse città d'Italia: mentre ad essi piacque di fermarsi a Napoli, ove ben presto si resero noti e rispettati per nobiltà, decoro e ricchezza, ed ebbero palazzi e ville sontuose a Pizzo Falcone, a Forcella ed a vico delle Vergini. Inoltre, acquistarono una vasta tenuta a Casale di Quarto è un feudo a Frattapiccola in prossimità di Senseverino.
A noi risulta che il duca Flaminio comperò il feudo di Brindisi il 23 marzo 1634 ed il prezzo di ducati diciottomila fu sborsato dal fratello Fabrizio, allora arcivescovo di Matera. Nel 1690 il duca Giuseppe Antinori condusse a Brindisi a diporto l'amico don Stefano Montulli, e i Montulli, legati da amicizia, ben dovevano conoscere da vicino la famiglia del Duca e la sua storia, e i Montulli appunto hanno riferito quanto sopra e lo vogliamo ritenere esatto. Ed allora osserviamo:
Gli Antinori si erano volontariamente allontanati da Firenze per sottrarsi alla signoria dei Medici; avrebbero dovuto, quindi, portare fra noi uno spirito di libertà e infonderlo nelle popolazioni delle loro terre.
Educati nell'Atene d'Italia a sentimenti artistici ed a luce di sapienza, alle tradizioni gloriose medioevali di maestranze e di municipalità toscane, di commerci e di attività finanziarie fiorentine, con esempi di mecenatismo e di liberalità di casa Medici, avrebbero dovuto portare fra noi un benefico influsso d'iniziative per risvegliare intelligenze e moltiplicare operosità. Si limitarono a qualche lascito alla chiesa ed al condono di alcune gravezze all'università per alleggerire della zavorra la navicella in momento critico: sebbene per quei tempi il paragone d'aviazione fosse troppo anticipato.
Per i tempi e i costumi d'allora, secondo l'origine, la ricchezza, il lustro e il decoro della famiglia, non si poteva pretendere che essa, scendendo dalle vette, si confondesse col popolo e ne vivesse la vita; ma avrebbe potuto essergli di sapiente guida, avviarlo a migliori destini, aiutarlo con atti di liberalità, con mezzi di lavoro più acconci e più perfetti e con istituzioni benefiche.
È vero che la gran fiumana del tempo, coi secoli e con gli avvenimenti, travolge uomini ed opere, ma la storia rende sonanti i nomi e con «l'armonie vince di mille secoli il silenzio» e i nomi porta di moto in moto lontano.
I duchi a tanta rinomanza non aspirarono e vissero, dunque, nel castello, ove ricevevano terraggiere, regalie ed omaggi, visite di signori loro pari, ove si svolgevano cerimonie religiose e di fasto domestico; il castello con la torretta erano di fortezza, chiesa, tribunale, caserma, prigione, granaio e palazzo ospitale. I duchi vi entravano e ne uscivano pomposamente fra il codazzo degli armigeri e dei servitori, per cortei, cavalcate e partite di caccia.
La loro comparizione nella nostra piazzetta, o sotto il baldacchino nella processione del Corpus Domini, in chiesa al posto d'onore per ricevere la benedizione nella domenica delle palme, era un avvenimento e un chinar di fronti riverenti al loro passaggio.
Solo più tardi, quando la famiglia dominante si separò nei vari rami di parentela, per alcuni la dimora fu stabilita in paese nel palazzo che si vede al Piano del Medico, presso S. Giacomo.
Don Giuseppe morì nel 1691, lasciando quattro figliuoli e di essi il primogenito Flaminio erede del feudo. Costui, effeminato e prodigo, morì giovine. Gli successe il secondo fratello Don Geronimo, di indole diametralmente opposta, superba, rigida e sprezzante; rimase celibe, perchè niuna gentildonna reputava abbastanza degna di lui. Il terzo fratello, Don Gioacchino, gesuita, studioso di chimica, si fece costruire un laboratorio a tergo della Torretta. Il quarto fratello, Ottavio, romantico e tenero di cuore, s'inebriò ad un vago bocciuolo della nostra terra: di Margherita, giovanetta che, fra le doti singolari d'una pura bellezza greca e d'una rustica affascinante bontà, aveva il torto di essere popolana, figliuola di Giorgio Scura, d'un coroneo e per giunta vassallo dei duchi, e d'aver ceduto alla passione ardente di don Ottavio.
E don Ottavio la sposò nel 1711 con la benedizione del vescovo di Vieste (4) Nicola Prete, nostro paesano.
Il fuoco della passione, contrastato, ma non domato dal soffio gelido ed ostinato di Don Geronimo, fuse i cuori degli sposi in quattro graziose creature, Giuseppe Domenico, Francesco, Gerardo e Cherubino, che avrebbero dovuto con la loro infantile innocenza e con le loro grazie piegare l'animo più altezzoso ad abbracci di tenerezza e di clemenza. La loro esistenza produsse invece uno stravaso di bile in Don Geronimo, che da ambizioso e sprezzante diventò crudele e disumano; fece mille dispetti a quelle creature, e, morto il padre loro di crepacuore, andava preparando la soppressione di esse e della madre sventurata; ma non ebbe il tempo di attuare il triste disegno.
Nei primi di maggio del 1735, mentre cavalcava per la strada che dal castello mena per la fontana Lavecchia a Trivigno ed andava a sorvegliare la sua crescente industria d'allevamento suino, prima di giungere a Policastro, vide sbucare dalle alte siepi un rabbioso cane. Il cavallo, sorpreso e impaurito, s'impennó e mandò a sbattere per terra il vecchio e pesante Duca che, malconcio e tramortito, fu raccolto e portato al castello, ove cessò di vivere pochi giorni dopo, l'otto maggio: non senza prima aver riacquistati i sensi ed aver raccolto la forza di odiare per compiere un atto estremo di volontà che nella albagia di casta dovette sembrargli di doverosa fermezza. Con testamento lasciò il feudo al Regio Fisco ed al fratello Gioacchino i beni burgensatici con espresso divieto a costui di darne la successione ai figli di Ottavio, «perchè nati da indegna vassalla».
Il R. Fisco s'impossessò immediatamente dei beni donati; ma si oppose Don Gioacchino, che dopo una lite aspra li ottenne, compì un atto di giustizia riparatrice chiamando quale erede il primo figlio di Ottavio, Don Giuseppe Domenico, dall'altro zio ritenuto degenere. Giuseppe Domenico fu in lotta col Comune, che voleva liberarsi da molti capi di gravezze; ciònonostante, egli partorito da una vassalla, fu dai posteri reputato ottimo per sentimenti e costumi. Aveva sposato nel 1747 la gentildonna Barbara Sifolì, figliuola del Conservatore di Napoli, dei baroni di S. Martino, ebbe con lei molti figliuoli, mori il 24 maggio 1767 e Donna Barbara gli sopravvisse fino al 1795.
Dei figli il primogenito Don Flaminio III fu duca e successore nel feudo; don Scipione morì presto, nel 1808, e i figliuoli Francesco, Maria, Filomena, Luigia, affidati alla tutela dello zio Don Gioacchino, dopo la vita di collegio non vennero mai più da Napoli.
Delle figlie, Vincenza andò sposa a Don Antonio De Notariis di Nola ed altre quattro, Maria Luisa, Ottavia, Gabriella e Paolina presero il velo e non uscirono più dai monasteri.
Don Flaminio III, duca, sposó Mariantonia Goyzueta, rimasta nota fra noi per il dono di S. Lorenzino. La vita coniugale non fu serena ed armoniosa. Il Duca, prodigo e malato di gelosia, fu ripudiato dalla moglie, che lo fece rinchiudere nella fortezza di S. Elena, e, pure avendo con lui un figliuolo, si ritirò nel monastero delle Solitarie di Napoli.
Dopo due anni Don Flaminio riuscì ad evadere; ma, perseguitato dalla moglie, nel luglio 1782 riparò nel castello di Brindisi, ove, assistito dal solo fratello Scipione, morì il 16 settembre successivo. Tutti gli altri parenti si erano già allontanati, mentre il feudo era stato locato ai Sassoni di Trivigno.
Giuseppe, unico figliuolo di don Flaminio, di minore età rimase sotto tutela dell'ava, donna Barbara Sifoli, e dello zio Scipione. Uscito di tutela il 7 luglio 1791, assunse il titolo di duca; ma prodigo, come il padre, per evitare l'assalto dei creditori e per non affogare nei debiti, dopo aver venduto allo zio i casamenti di S. Giacomo, le vigne e i privilegi burgensatici, gli diede in fitto per lunga durata tutto il feudo, riserbandosi un appannaggio mensile di soli quindici ducati. Verso il 1800 sposò Maria Donata Battaglia di Anzi, ma non rimase con essa e non ebbe figli. Non conservò buoni rapporti con lo zio Scipione e per fargli dispetto donò all'Università di Brindisi, con pubblico istrumento, la maggior parte delle sue rendite. Nel 1806 si trasferì a Napoli, ove rimase con l'uffizio di capitano civico, e la moglie ritornò in Anzi dal fratello Francesco Paolo, a cui il Duca, in data 8 gennaio 1811, cedè il feudo di Brindisi: l'istrumento fu scritto dal notaio Nicola Filitti di Trivigno.
Don Scipione morì il 10 giugno 1806 e rimasero a Brindisi i figliuoli procreati con una certa Eufemia Robertelli di S. Martino d'Agri. Gli ultimi rampolli sono nella memoria di noi tutti.

Torniamo alle famiglie popolane.
Nel 1620 Pietro Pisano di Anzi sposò Domenica Palumbo dì Brindisi; la nuova famiglia si moltiplicò e produsse monaci, preti e dottori in medicina: le professioni di prete e di medico andavano allora quasi sempre insieme. Francesco (detto Cicco) Pisano fece dipingere e donò alla chiesa il quadro ad olio dello Spirito Santo; vi si vede dipinto lo stesso Cicco, vecchio, con un bastone in mano. Un Pisano, prete, fu consigliere aulico del Re di Napoli.
Come abbiamo già accennato, verso il 1690 il Duca Don Giuseppe Antinori condusse seco da Napoli, a diporto, il nobile Stefano Montulli, il quale prese in moglie Cristina Ariropoli, figlia di Demetrio.
La famiglia Montulli, molto prolifica, s'imparentò nel 1737 con il magistrato Gioacchino Pisano, a cui dobbiamo gratitudine per averci lasciato un buona parte di queste notizie. Ebbe preti, magistrati e dottori in medicina: Bonaventura Antonio, nato il 19 marzo 1745, si laureò appunto in medicina a Salerno il 22 novembre 1767; sposò in Pietrapertosa Paola Rosa Torraca, figlia di Michele e di Teresa De Sanctis di Viggiano, il 22 gennaio 1769: fu popolare, benefico e religioso. I Montulli, senza mai deflettere dalla via diritta della onestà e della dignità, han mantenuto sempre alto con gli intelletti il decoro del casato. Ricordiamo Don Giuseppe, teologo e oratore sacro, morto di recente, e annoveriamo tra i viventi, integri magistrati e funzionarii.
Da Anzi vennero, inoltre, la famiglia di Fanelli, verso il 1650, e quella di D'Emilio, verso il 1700.
Aniello D'Emilio sposò Lucrezia Belli e tra i loro discendenti emersero preti, vicarii generali e foranei.
Da Trivigno vennero, verso il 1700, gli *Allegretti: famiglia che molto si estese con massari, sacerdoti, professori in legge e notai. Non è da confondere con la famiglia di Allegretti Michele, bastaio, venuto da Pignola nel 1848.
Originaria di Vaglio era la famiglia *Tito, immigrata verso la fine del 1600. In essa troviamo Don Francescantonio Tito, prete nel 1698 ed arciprete nel 1703, morì nel 1718; poi Giovanni Domenico, Tommaso e Giuseppe Nicola (1733) arciprete, missionario, oratore sacro e molto stimato, maestro insigne di teologia (Rocco Coiro di Vignola, vescovo di Cotrone, fu suo alunno), molto caritatevole; morì all'età di quarantacinque anni, il 14 ottobre 1783, e fu compianto da tutti.
Seguirono: Beniamino (1798) e Giosè (1813), ambo sacerdoti, Daniele, marito di Mariangela D'Amato, padre di Raffaele, medico e chirurgo, morto il 19 febbraio 1903.
Inoltre i Viglialbi si trasferirono da Vaglio nel 1760.
Di origine tolvese sono le famiglie di *Spera e di *Amati, di buona reputazione: si stabilirono a Brindisi verso il 1700. Don Gerardo Amati, più volte ricordato in questo libro, fu un degnissimo arciprete, un molto severo Catone Censore, e il paragone d'un pagano non offende le sue virtù cristiane; di proposito rinnovò gli arredi e i paramenti sacri, sicché le funzioni religiose ebbero rito latino e non più greco dal 1727; corresse energicamente i costumi nelle manifestazioni pubbliche. (5)
Provenienti da Calvello e da Altamura due famiglie De Grazia: diedero anch'esse preti ed arcipreti colti. É da ricordare Don Venanzio De Grazia, medico ed arciprete dal 1783 al 1813.
Da Pietragalla e da Lecce vennero le famiglie Lauria, da Vignola verso il 1700 i Postiglione, che diedero fabbri, medici e preti, e i Calace.
Da Abriola si trasferì, nel 1700, Francesco Di Donato, tintore: i suoi antenati provenivano da Molina (in provincia di Salerno); poco dopo il 1850 s'imparentò col valente avvocato Salomone di Stigliano. Da Abriola si trasferì la famiglia Mangoni, oriunda di Muro Lucano, e ad essa appartenne il sacerdote don Gerardo Mangoni, tribuno ardente del popolo, per cui ebbe riprovazioni, ed amarezze dai suoi superiori (1768 1807).
Da Padula (Salerno) vennero, poco primo del 1732, i Pisani che poi contrassero parentela con la famiglia Mattes o Mazza, che ebbe dotti letterati.
Da Padula venne, inoltre, nel 1750 il calzolaio Michele *Franchino; la sua famiglia ebbe discendenti, progredì e produsse dottori in legge, farmacisti e un arciprete, don Luciano.
Vennero, poi, le famiglie *Potenza da Tito e Falco da Laviano, casale di Nola.
Chiamarono antiche tutte le famiglie dianzi nominate e le seguenti, segnate nel catasto del 1732, e qui con i paesi di origine: Argenzio di Vaglio; Arnone di Abriola; Avigliano di Vaglio; *Benedetto di Castelmezzano; Bisceglie di Bitonto; *Bonomo di Anzi; *Brindisi di Vaglio; Casella di Abriola; Ciammellí di Vignola; Ciccarrone di Vietri di Potenza; Coluzzo di Trivigno; *Curci di Tito; *Damiano di Anzi; Di Salvia di Abriola; Fusillo di Trivigno; *Giordano di Vaglio; Granata di Vignola; *Grieco di Trivigno; *Guarniero di Padula; *Larocca di Abriola; Lavanga di Potenza; Legiovane di Calvello; Leone di Trivigno; *Marino di Anzi; *Martorano di Abriola; *Mattia di Vaglio; Miccio di Gravina; Murimanno di Calvello; Palorcia di Tricarico; Palumbo di Abriola; *Passarella di Trivigno; *Perriello di Albano; Perrone di Tito; Petrosino di Trivigno; *Smaldone di Abriola; Surdo di Anzi; *Tamborrino di Vaglio; Turso di Grumo di Bari; *Valente del Cilento; *Valentino (s'ignora la provenienza); *Zampolla di Trivigno.
Furono dette moderne le altre famiglie che tra noi fissarono stabile dimora dal 1732 in poi, cioè quelle che trovarono edificata la chiesa madre. Esse sono indicate con la provenienza nella seguente nota:
Bellezza Carmine di Calabria; *Adesso, *Barra, Briglia, Brigante, Gallo, Simonetti, Tepidino, *Volpe, *Molinaro di Padula ; Cagianese di Vietri di Potenza; *Cutri, Parrella, *Pecora, Pellettiero e Zito di Anzi; De Luca di Ferrandina; Leo, Grippo, Nella, Savarese di Trivigno; Zottarelli di Pietrapertosa; Pavese di Laurenzana; *Blasi di Vignola (ora Pignola); *Chirico, Larossa, *Lospinoso, Nubila, *Russo e *Viola di Montemurro; Guerriero di Quadrella; Giaquinto di Sanseverino (Salerno); Raggio di S. Giuseppe Ottaiano; Salomone di Stigliano; Vitrillo di Castelluccio; Valentini, Lavieri e Lavalle di provenienza non nota.
La famiglia Blasi di Vignola, verso il 1700, aveva quattro fratelli: Gerardo, Francesco, Rocco e Michele, tutti di mediocre fortuna. Questi si separarono e si diedero a diversi rami di commercio e di traffico nelle Puglie e in città marittime. Presero in fitto alcuni feudi a Genosa, ad Acerenza, a S. Liquido ed a Brindisi nostro. Intraprendenti e accorti, e per ciò favoriti dalla fortuna, notevolmente progredirono, fecero acquisti di palazzi e di ville in Napoli, incamminarono i figli per gli studi e con essi diedero belle intelligenze alle scienze, alle lettere ed alle leggi.
Michele fu padre di Giuseppe, marchese di S. Paolo, cioè del feudo in prossimità di Foggia, comperato nel 1801 dal Principe Imperiale. Francesco fu padre di Gesualdo, Luigi e Ferdinando. Questi due ultimi nel 1809 acquistarono dal R. Fisco la Grancia, senza il tenimento di Pietra Morella. La proprietà passò ai loro eredi Antonio, Giovanni ed alle loro sorelle maritate a Materi, a Tramater, a Riccardi, a Martinelli. La parte dei Materi è stata di recente ceduta allo Stato.
Il movimento della popolazione nella prima metà del secolo XVIII fu limitatissimo; quello immigratorio riprese un certo ritmo intorno al 1860. Dobbiamo segnalare la venuta, ad intervalli, di queste nuove famiglie: * Biscaglia, Bove, *Caffarelli, *Cappiello, *Castrovillari, *Cestari, *Claps, *Correale, *Coviello, *Cufino, Del Monte, *De Marco; *Esposito, Freida, *Giffuni, Gilio, Larocca ( di Abriola), Mente, *Missaniello, *Montani (di Albano), *Montani (di Laurenzana), *Pisani (di Grassano), *Sarli, *Tramater: quasi tutte venute da Comuni vicini, della Lucania: Freida venne da Lungro (Cosenza) e i Tramater, figli di Carolina Blasi, vennero da Napoli, ove avevano una casa editoriale di musica ben nota in Italia.
Il movimento immigratorio si accentuò di nuovo dal 1874 al 1881, cioè durante la costruzione della ferrovia Eboli Metaponto, la prima e più importante linea militare e commerciale di Basilicata, perchè unisce i porti di Napoli e di Taranto, ideata fin dal 1860.
Fra i moltissimi operai, impresari, commercianti venuti d'ogni parte d'Italia, una trentina di famiglie si fermarono nel nostro comune; alcune si dileguarono ed altre rimangono tuttavia nei loro discendenti, come: Abruzzese, Ammirabile, Barra, Basile, Bavaro, Dema, Deus Detit, Frascoli, Galasso, Giliberti, Lapeschi, Laurita, Lenzi, Marrese, Mori, Petrone, Pilogallo, Purri, Romanelli, Santarsieri e Vaccaro.
Anche il taglio dei boschi determinò in diversi periodi una certa affluenza di lavoratori; ma fu precaria ed appena qualche famiglia venuta occasionalmente, rese, definitiva la sua dimora.
Molte famiglie di vagliesi, potentini, aviglianesi, anzesi, trivignesi, castelmezzanesi, sebbene col domicilio legale nei loro paesi, hanno avuto per maggior parte dell'anno, effettiva ed abituale dimora nel nostro territorio, verso la periferia, per loro di facile e breve accesso, ed hanno quasi sempre atteso laboriosamente e diligentemente all'agricoltura ; quali proprietarii, fittavoli e coloni e quali contribuenti ed elettori hanno partecipato alla nostra vita amministrativa.

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NOTE

(1) Scander cioè Alessandro e beg cioè signore, grado superiore: parole turche.
(2) La settima ondata venne in Italia pel 1800, regnando Ferdinando IV di Borbone.
(3) Lettera dell'8 aprile 1533 di Carlo V al Marchese di Villafranca, vicerè di Napoli. I privilegi furono confermati da Filippo III nel 1620, da Filippo IV nel 1672 e da Filippo V nel 1700.
(4) Vieste in provincia di Poggia.
(5) Fu di eccessivo rigore nella lotta contro i Greci: per seguire la corrente di ostilità disperse un tesoro di lingua e di tradizioni.
 

 

 

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