IL BRIGANTAGGIO E
LA GUARDIA NAZIONALE
Non passiamo oltre senza tornare al sessanta e discorrere del brigantaggio,
che tanti veleni e brividi mise negli animi, che turbò la quiete non solo
delle famiglie, ma ridusse la loro attività campagnuola, distrusse in buona
parte le industrie armentizie e paralizzò il commercio. Il solo nome di
briganti, rinnovando il ricordo, incute spavento.
La fermentazione rivoluzionaria aveva nel bollore sollevato dal fondo di
miseria e di abbrutimento le anime prave; aveva scardinato le porte degli
ergastoli e rimesso in circolazione gli elementi più inquieti; aveva
l'amnistia aggiunto il lievito più tossico di camorra e di corruzione: tutto
ciò in un periodo per se stesso d'incertezza e d'orientamento, di sfoghi, di
rancori politici, di rabbia partigiana, di perdite amarissime di uffici e di
prebende.
Nuovi torbidi, nuovi soprusi ed altre violenze appestarono l'atmosfera delle
città e delle campagne. La pubblica sicurezza e la giustizia erano,
insufficienti o corrotte. Il sovrano che doveva impersonare la legge, la
moderazione e il freno, vistosi in pericolo, volle trarre vantaggio dal
malcontento e dare ad esso tutta una tinta politica credendo di volgerlo
alla sua salvezza. Anche i suoi avi erano stati due volte cacciati e
riacquistarono la corona dalle mani lorde di brutture e di sangue delle orde
brigantesche.
L'esercito borbonico sconfitto dai garibaldini in Sicilia, a Calatafimi, a
Palermo, a Milazzo, nel maggio e nel giugno 1860, sconfitto in Calabria, a
Reggio il 21 agosto e poi completamente disfatto in provincia di Cosenza, si
disperse; molti soldati avviliti, laceri ed affamati o vivevano d'elemosina
o facevano man bassa su tutto. Cosicché a quelli che si erano prima
sottratti al lungo e pesante servizio militare e si erano resi latitanti, si
aggiunsero molti altri disertori.
Fra i galeotti evasi, renitenti di leva, disertori e nuovi rapinatori,
accumunati da cattivi istinti in compagnie brigantesche, erano più di
cinquecento ad infestare la nostra regione lucana, la quale, impoverita e
depressa dal mal governo, fu tra le prime ad insorgere, inalberando il
tricolore, e in un momento di devastazione e di terrore, sotto il flagello
di Crocco, che si riteneva generale autentico per volere del re
Franceschiello, dovè gridare per forza e tremante: Evviva il Borbone!
Chi era Crocco? Nell'isola d'Elba, nel penitenziario di Portoferraio, dove
in una piccola segreta smarrì la ragione il regicida Passanante Giovanni,
morto poi al manicomio criminale di Montelupo, fu rinchiuso col numero 2351
il celebre brigante Carmine Donatello Crocco. Egli era nato a Rionero in
Vulture nella prima domenica di giugno 1830 da una famiglia di pastori, ed
egli fece il capraio. Soldato in un reggimento di artiglieri a Gaeta, ebbe
occasione di avvicinare il re Ferdinando II, a cui disse per non aver
ricevuto risposta alle tante suppliche a pro dei suoi fratellini orfani: «O
provvedi per quelle creature o ti darò da fare». Naturalmente, fu messo in
prigione. Uccise due gendarmi e fuggì: incominciò la sua carriera di
brigante. Arrestato e rinchiuso nel bagno penale di Brindisi di Lecce,
riuscì ad evadere nella notte del 13 dicembre 1859. Nuovamente preso, fuggì
di nuovo dalle carceri di Cerignola nella notte dal 3 al 4 febbraio 1860 e
si diede uccel di boschi a Monticchio e Lagopesole, ove trovò altri
latitanti, fra essi Michele De Biase, Giovanni Carullo, Vincenzo
Mastronardo, barbiere di Ferrandina, Giuseppe Nicola Scummo, detto Ninco
Nanco, D'Amato ed altri. Prese il comando, e in breve tempo la banda divenne
così potente e temuta da tenere in pugno tutta la provincia e impressionare
con la sua audacia il Napoletano, le Puglie, l'Abruzzo e le Calabrie.
Lo scrisse nell'ergastolo nelle sue memorie; chi non lo ricordava, il
Napoleone del brigantaggio? Dopo ventotto anni di galera, ebbe una vita di
avventure assai più note d'un generale di armata, ed anche i più temerarii
suoi compagni, come Ninco Nanco, il barbiere di Ferrandina, Caruso ed altri,
gli davano come di diritto l'appellativo di «Generale», perchè aveva
dichiarato la sua ostilità a due governi: prima a quello borbonico e poi a
quello italiano; aveva occupato con le armi venticinque paesi, tenendo
indietro le truppe regolari; si era data l'autorità d'un dittatore,
imponendo tasse e balzelli, nominando sindaci e capi urbani, venendo a patti
con generali e tentando di rovesciare il governo.
Egli si era iscritto fra gli insorti per redimersi in nome d'Italia, come
gli si lasciava sperare; ma quando seppe nell'agosto del 1860 che il giudice
Francesco Paolo Bonfaroti doveva procedere contro di lui per tutti i suoi
passati delitti, e ciò era stato ordinato dal Governatore Racioppi, si
ritenne tradito e si diede alla macchia con i suoi compagni, dichiarandosi
in inimicizia coi governo italiano. Si mise agli ordini del Borbone,
d'intesa con altri famigerati e temuti condottieri. Tra questi Paolo
Serravalle, di Marcone di Calabria.
Infestarono le campagne con aggressioni, uccisioni e ruberie; svaligiarono
casali, corriere postali, imposero taglie a proprietarii di mandre:
dappertutto, specialmente nei territorii di Avigliano, di Ripacandida, di
Melfi, di Rionero, di Atella, di Forenza, tra Vaglio e Tricarico, tra Ruvo e
Rapone, tra Marsico e Calvello, facendo teatro tragico della boscaglia di
Lagopesole, allora vasta più di diciotto migliaia di moggia, contigua a
grandi boschi del melfese, dall'Ofanto alle Puglie. Il castello di
Lagopesole, famoso pei ricordi storici, luogo prediletto di caccia di
Federico II di Svevia e del primo re Angioino, rimase poi associato a tali
ricordi come quartier generale dello stato maggiore brigantesco.
Di là partivan gli ordini ed i sotto capi, che eran capi delle loro bande in
altre zone di scorrerie e di appostamenti e di nascondigli, secondo le
particolari e precise conoscenze di luoghi e di persone, davano esecuzione
precisa. La inosservanza, un assalto, un ricatto, una mossa non comandata
dal capo portava la immediata punizione e grave di costui, anche da fratello
a fratello.
Paolo Serravalle aveva per zona di operazioni le macchie di Grassano, i
boschi di Tricarico e di S. Chirico Nuovo, sino a quelli di Gravina, di
Pazzano, di Brindisi, di Anzi, di Calvello, di Pignola, di Marsico, di
Gallipoli Cognato, di Salandra. Il covo più sicuro era nei boschi della
nostra Grancia, luoghi a lui molto famigliari; e se insidiato, per sfuggire
alle sorprese, agli assalti ed evitare scontri pericolosi, faceva rapide
corse in Calabria nella sua terra natale fra i suoi parenti.
Da giovane aveva prestato servizio, quale guardiano, alla casa di Luigi
Materi, ricco signore di Grassano e padrone d'una buona parte del territorio
boscoso e sativo della Grancia; e dopo le condanne giudiziarie, le
carcerazioni e le tre fughe, nella sua carriera brigantesca più di
masnadiero che di assassino, rimase devoto ai suoi antichi padroni e per
rispetto ad essi, tanto nel territorio di Grassano che nel nostro, fece il
minor male possibile, né lo lasciò compiere ad altri; anzi, e non di rado,
sia pure con denaro tolto a ricchi, a strozzini ed avari, aiutò famiglie
bisognose. Non destava, quindi, grandi apprensioni e l'incontro non metteva
paura: bastava non dargli noia: come la serpe e il lupo, se molestati, si
avventano contro l'uomo.
Non infrequenti in questi famosi criminali sono alcune note caratteristiche
di superiorità e di generosità, dirò simpatiche, che attutivano la paura e
l'odio. Crocco rispettava religiosamente la donna e ripeteva con Guerrazzi :
«Rispettate la donna, poiché nostra madre fu tale». Nicola Morra aveva
tratti di uomo superiore e si burlava di coloro che gli si prostravano per
ridicola debolezza: per poco non fu proclamato deputato. Ed altri
prodigarono aiuti pecuniarii per alleviare la fame ed il dolore, mente
disseminarono dolori, vergogne e morte!
S'intende, non vogliamo parlare di sanguinarii che di loro ferocia avrebbero
fatto arrossire le belve: come di Caruso di Torremaggiore, di Scummo o di
Ninco Nanco dissimulatore, che rimandava la vendetta per raffinarla e
uccideva suoi compagni prodittoriamente, di Masino del Cilenti, di Todaro
del Lagonegrese e di altre belve.
Serravalle, dunque, era agli ordini di Crocco, a Lagopesole, quando nel
marzo del '61 s'iniziò un arruolamento clandestino ad Avigliano, ad Abriola,
ad Atella e in altri paesi fra gente rozza, ignorante, sempre malcontenta, a
cui sotto voce, all'orecchio, si sussurrava la reazione politica e si faceva
credere l'arrivo immediato di armi borboniche per le vie delle Puglie.
Il fuoco covava sotto la cenere e le Autorità ne avevano sentore; ma fiacca
fu l'indagine e lenta e debole la preparazione di spegnimento.
Con l'ordine prodittatoriale del 19 agosto 1860, in nome di Vittorio
Emanuele Re d'Italia e del Generale Garibaldi, Dittatore delle Due Sicilie,
firmato da Nicola Mignogna e da Giacinto Albini, erano stati chiamati a far
parte della Guardia Nazionale:
i giovani dai 18 ai 30 anni per formare la prima categoria di guardia attiva
che doveva agire fuori del proprio Comune;
i patrioti dai 30 ai 40 anni per formare la seconda categoria, cioè la
guardia attiva pel servizio interno del comune;
i patrioti da 40 ai 60 anni, atti alle armi, per la terza categoria di
guardia sedentaria.
Furono esclusi coloro che erano « intaccati di reati infamanti». E ciò
deluse Crocco, come abbiamo già esposto.
La guardia nazionale non fece buona prova: i giovani inesperti, mal armati e
mal guidati, diedero ai briganti una caccia frammentaria; gli anziani
avevano famiglia, aziende e interessi da custodire e da proteggere, e,
temendo di lor sorte, molti rimanevan guardinghi e prudenti, ed a soverchia
prudenza talvolta erano consigliati dai maggiorenni e dalle autorità stesse,
che temevano di compromettersi o si erano già compromesse con intese
segrete.
Crocco, per esempio, quand'era in auge ebbe relazioni ed aiuti da
personalità politiche, militari e regnanti; il re di Napoli gli aveva dato
il brevetto del grado; ma Crocco da uomo d'«onore» non ne fece mai i nomi.
Non si all'armino i compromessi; io non parlerò; i loro nomi moriranno con
me!: questa fu la promessa nella sua autobiografia.
Le truppe regolari erano poche ed impegnate in altro.
Il 7 aprile fallì lo scoppio di reazione che era stato preparato dai
realisti a Napoli; venne acceso invece da quattro malandrini tra le capanne
di Lagopesole un moto di plebe, che si diffuse a Ginestra ed a Ripacandida.
L'orda di trecento uomini, comandati da Crocco, s'ingrossò ed ebbe fortuna;
mosse su Venosa, che saccheggiò e incendiò; il ventiquattro aprile invase
Lavello, poi Melfi, Rapolla, Barile, ma qui fu raggiunta dalla milizia
regolare e la notte del 18 maggio si riversò in parte nella provincia di
Avellino.
A Davide Mennunni ed a Giuseppe d'Enrico, a capo di duecento cavalieri e
settecento fanti, tutti animosi, dobbiamo attribuire il vanto di aver nei
dintorni di Lagopesole dato un colpo poderoso al grosso della masnada e di
averla dispersa.
Subito dopo venne un numeroso contingente di soldati dell'esercito borbonico
che era stato sciolto e poi riabilitato col R. Decreto 24 aprile 1861, e in
ciò cadde in errore il nuovo governo. Di questi soldati due mila si dettero
alla macchia, seicento furono catturati e millequattrocento accrebbero la
mala genia di grassatori e di ladri, che pullularono dappertutto.
Sopraggiunsero il generale Cialdini, luogotenente del Re Vittorio Emanuele,
tra noi, e il maggiore generale Della Chiesa nel circondario di Melfi; con
truppe regolari diradarono le torme di malandrini, e, sicuri di averle
disperse, ritornarono nelle loro sedi di guarnigione, lasciando il compito
della distruzione completa alle nostre milizie civiche mobili.
Seguì la più grave vicenda del brigantaggio; la raffica più rabbiosa di
ferro e di fuoco si scatenò per ruinare pacifiche borgate e per lasciarle
incenerite, cosparse di sangue ed avvolte nel lutto.
E questa rabbia lasciò la bava nel nostro territorio, lambendolo appena e
per vero miracolo non lo travolse.
Chi vuol conoscere i particolari di quei giorni di terrore e di obbrobrio li
troverà nel Giornale di Borjes : libro pubblicato la prima volta da Marco
Monnier nel 1862, a Firenze.
Noi qui ci limitiamo a riassumere alcuni fatti ed a dire quanto ci riguarda
e il libro non dice.
Don Iosè Borjes, guerrigliero di Catalogna, provincia spagnola, fu assoldato
da comitati borbonici di Barcellona, di Marsiglia e di Roma, i quali gli
diedero ad intendere che occorrevano il suo valore e la sua perizia per
unificare e guidare, senza spargimento di sangue, gli sforzi dei popoli
delle Due Sicilie, tendenti, nella generalità, a rimettere sul trono il loro
PADRE SOVRANO.
Così lo descrive il Racioppi nella Storia dei moti di Basilicata: Uomo
forte di animo e di corpo, di piglio grave e piacente, di carattere
imperioso e sobrio, pieno l'animo di onoratezza, e, come ad un leale
spagnuolo si addice, di una devozione mescolata alla fierezza castigliana,
aveva lo spirito romanzesco e la fecondità di ripieghi e l'immaginativa
ardita del venturiero unita al buon senso dell'uomo d'affari. Spirito aperto
alle poetiche ispirazioni della natura, ma dominante le condizioni della
natura con volontà fredda ed ostinata; forte di esperienza, di passione e di
sangue freddo, nei più grandi pericoli, anziché cadere d'animo, acquista
nuova lena; nelle agitazioni della persecuzione e della lotta scrive dì per
dì, con la brevità di chi non ama dire quando gli è dato di fare, il
giornale dei suoi eventi; osserva la natura che gli sta dinanzi e ne accenna
a grandi tratti la bellezza pittoresca o l'utilità economica.
Questo dell'animo, ma, più che onesto, partigiano, chiude gli occhi e per
non vedere le sozzure a cui è forza ci si commescoli, perchè la coscienza
rimanga in pace.
Quando egli cade prigione dà lode di bravura al soldato che l'ebbe vinto;
con la iperbole del carattere e della rettorica castigliana minaccia, se
tornasse; di sbranare il regno d'Italia; pria di morire dimanda di un prete
e si acconcia dell'anima; chiede perdono a tutti; intuona una litania;
esorta i compagni a morire da forte, e da forte muore di una morte che ben
sarebbe colpa in chi gliela inflisse, se le stragi di popolazione innocente,
le ferine offese, gl'incendii e le rapine e le devastazioni e i furori
selvaggi commessi sotto la sua bandiera e in sua compagnia, non gli avessero
acquistata tale una solidarietà con gli assassini, che Dio solo poteva
distinguere l'onest'uomo dal malvagio e dal brigante il soldato.
Venne da Malta con una trentina di spagnuoli e sbarcò in Calabria la notte
del 13 settembre 1861. Passò di bosco in bosco; non trovò consenso di
popoli, ma accolta di malfattori, volgari grassatori, a cui dovette unirsi,
inseguito dalle milizie paesane. Il Caracciolo che lo aveva accolto, lo
abbandonò. L'undici ottobre mise piedi in Basilicata ed anche qui fu
inseguito dalle nostre milizie, specialmente da quelle italo albanesi che
egli qualificò pessime, mentre trovò realisti i soli contadini, ma li
ritenne avidi e paurosi, come quelli calabresi. Guadò il Sinni e l'Agri e
tra le boscaglie di Salandra e Grottole, errando, s'incontrò con Paolo
Serravalle, e dovettero intendersi sul piano d'azione, perchè l'ulteriore
svolgimento percorse, devastando, la zona di Serravalle.
Costui lo guidò per congiungersi nel Melfese agli altri capi ed alle altre
masnade. Borjes avrebbe voluto proseguire per Roma e portare al re il suo
giudizio sfavorevole sul movimento realista; ma Crocco, promettendogli mille
uomini, lo indusse a sostare nelle boscaglie di Lagopesole, e dopo aver
raccolto alcune diecine di banditi e senza sottomettersi al suo comando,
perchè volle per sè e per i suoi man libera, dopo aver ammesso nella truce
impresa un certo Di Langlois, francese intrigante e impostore della peggiore
risma, che avrebbe voluto anch'egli arrogarsi il grado di generale, si mosse
alla testa della colonna infame.
Dove porta il flagello? Lo vedremo ben presto.
Non era escluso dall'itenerario il nostro paese, ed altre volte, spesse
volte, il tratturo del Bosco Cute e della Serra, il tratturo vecchio
Albanese e della Serra Mastrocianni erano stati i tramiti più brevi per
raggiungere la Pallareta, il Casone, il bosco di Anzi e di Calvello, le
arterie più rapide fra i covi di Fondi, di Lagopesole, di Gallipoli Cognato
e la Lama di Marsico, per gli assalti e i ricatti sulle strade provinciali
di Potenza Tricarico e di Potenza Laurenzana, come pel ricatto del sindaco
De Asmundis di Anzi.
. Alcuni contadini, tre o quattro, si muovono nelle tenebre asportando
viveri verso il folto del bosco Caterina. Sé ne ha vago sentore immediato e
segue un allarme generale. Le famiglie agiate, facendo fardello delle cose
più preziose, vanno nel castello per mettersi al sicuro; i poveri hanno
nulla da perdere e da temere e restano nelle loro catapecchie.
Gli uomini si armano fino ai denti ed ogni strumento di lavoro è un'arma si
dispongono sulla cresta del Castello, sul dorso del Serro Grande e sugli
orli della stretta gola della Scala per la più strenua difesa: di lì non si
passa e financo le pietre, in fretta accumulate, avrebbero nell'impeto
travolto un esercito. Gli spaldi son ben guerniti, altri passi ben guardati.
Una cortina di nebbia fitta da tagliare con le scure impedisce la vista
della campagna, delle alture della Serra e del bosco Cute. Come è più nero
il giorno dei morti!
Quanti sono i briganti, i cavalli?
Son mille, due mila, più ancora! Corre la voce e cresce il numero di bocca
in bocca, forse per notizia data con arte da qualche confidente e
manutengolo.
L'orgasmo cresce fra le nostre donne e i nostri piccoli. Gli uomini, giovani
e vecchi, stan saldi e pronti alla difesa. E il 3 novembre la nebbia si va
leggermente diradando, ma non l'incubo.
Qualcuno più ardito s'inoltra ed esplora; qualche forese viene e porta
notizie misteriose. La nebbia va scomparendo: Trivigno appare fra colonne di
fumo e guizzi di fiamme, come un inferno.
I briganti son molti, lo hanno in pugno.
.... Ma torneranno poi sui loro passi, verranno su Brindisi? Hanno voluto
risparmiarlo, perchè? A Serravalle è mancato l'animo di colpire il paese che
lo aveva per anni ospitato? I fuori usciti gli avevano detto che era
imprendibile, oltrechè per la risaputa e naturale disposizione degli spaldi,
per preparazione degli uomini a difendersi con tutte le forze e con tutti i
mezzi, disperatamente?
La nebbia densa s'indugia a nostra fortuna?
Nel dubbio niuno si muove dal suo posto di guardia e si sente capace di
accorrere in difesa di Trivigno che, d'altra parte, è colpito come da
fulmini improvvisi.
Descriviamo lo scempio con le stesse parole del Borjes: niuno meglio di lui
potrebbe descrivere quelle ore di strazio.
«Siamo ricevuti a colpi di fucile.
Dopo il combattimento di oltre a due ore c'impadroniamo della città; ma
debbo dirlo con rammarico, il più completo disordine regna tra i nostri,
cominciando dai capi stessi. Furti, eccidii ed altri fatti biasimevoli
furono le conseguenze di questo assalto.
La mia autorità è nulla . . . . Crocco, Langlois e Serravalle hanno commesso
le più grandi violenze; l'aristocrazia del paese, erasi nascosta in casa del
Sindaco; e i sopradetti individui, che hanno ivi preso alloggio, l'hanno
ignobilmente sottoposta a riscatto. Dippiù percorrevano la città e
minacciavano di bruciare le case dei privati se non davano loro danaro.
Langlois, interrogato da me intorno alle somme raccolte in quel luogo, ha
risposto che il Sindaco gli aveva dato duecentottanta ducati soltanto; e che
questo era tutto quanto avevano potuto ottenere».
La parte migliore degli abitanti, non riuscita a sottrarsi dal pericolo
fuggendo o nascondendosi, muore con le armi in pugno.
Gli assalitori eran due o tre cento, si seppe dopo; ma con essi avevan fatto
buona lega i plebei, che vollero sfogarsi contro il ceto superiore,
accumunarsi nelle rapine, prestandosi quali guide sicure, e rapinarono essi
stessi, confondendosi alla masnada, per saziare la loro voracità nei granai
e nelle ben fornite dispense e per vendicarsi delle lunghe e magre vigilie.
E questo si verificò negli altri paesi ove si riversò l'orda assassina,
ingrossando per via.
Il giorno cinque successivo l'orda sconvolse e saccheggiò il misero
villaggio di Calciano, ove niuno fra realisti e liberali fu risparmiato.
A Garaguso lo scempio non fu minore, sebbene il popolo uscisse in
processione con in alto la croce per scongiurare la piena devastatrice: lo
stesso Borjes s'allontanò sdegnato.
Il sette novembre si ripeté a Salandra, ove Crocco bruciò il giovane prete
Don Celerino Spaziante, ardente liberale.
Craco ed Aliano innalzarono la croce anch'essi, ma subirono sorte non meno
crudele. Caddero Cirigliano e Corgoglione nella stessa giornata.
Dappertutto le guardie civiche s'opposero inutilmente, mentre le orde
brigantesche più ardimentose, comandate con sistemi guerreschi, riescirono a
sopraffarle.
Queste a Montepiano sfuggirono le milizie regolari; toccarono Accettura e
Garaguso, poi Grassano, ove furono ospitate, ma compensarono l'ospitalità
con le solite cattive azioni. Raggiunte dalie milizie, passarono a S.
Chirico Nuovo; il sedici furono per Pazzano e fecero nuovamente trepidare le
nostre famiglie a così poca distanza. Passarono e piombarono su Vaglio, ove
fecero strage dei cittadini, che, asserragliati nel convento, si difesero
eroicamente.
Avrebbero deciso d'infliggere una dura lezione al Capoluogo, a Potenza;
piegarono in fretta su Pietragalla, che, difesa dalla Milizia Nazionale, si
oppose con gagliardia e, animata dai militi acherontini, mise in fuga gli
assalitori, carichi di bottino, ma stremati nel numero.
E il resto piombò su Avigliano e subito si ritrasse.
Borjes fu destituito; Langlois ebbe il comando del rimasuglio e attaccò
l'incendio a Bella: vi occorsero i militi di Pescopagano, la difesa fu
eroica.
I briganti fuggirono e puntarono su Balvano, ove furono ben accolti e in
festa. A Ricigliano ed a Pescopagano il loro vandalismo fu più veemente che
mai; inseguiti di nuovo, si dispersero.
La orribile tregenda di orgia sanguinosa, di rapine e di turpitudini finì
sull'antico e spento vulcano di Monticchio il ventotto novembre. Crocco
disarmò e licenziò la brigata, affamata, consumata e disillusa: volle che
rimanessero con sè i vecchi accoliti.
Il giorno dopo Borjes con tredici altri spagnuoli e nove banditi di
Basilicata si allontanò da Crocco. Inseguito come una belva, scoperto alle
orme nelle neve, preso in una cascina nelle campagne di Tagliacozzo da
bersaglieri comandati dal maggiore Franchini, venne fucilato lì sul posto.
I briganti, in comitive, infestarono ancora la nostra regione: apparivano e
sparivano, si congiungevano e si separavano con rapidissime mosse: le truppe
regolari li inseguivano, senza degnarli mai d'un aperto attacco di fronte:
compito questo delle milizie cittadine.
Crocco rimase signore della Valle dell'Ofanto, da Avellino ad Altamura con i
suoi compagni inseparabili: Coppa, Tortora, Totaro e Tina.
Il ferocissimo Ninco Nanco non si allontanò dai suoi luoghi fra il Carmine e
Lagopesole.
La famiglia di Cavalcante con Egidione, Percuoco, Canosa e Cappuccino si
aggirarono sul Sauro e sul Basso Agri; mentre sull'Alto Agri rimasero i due
Masino, sul Sinni e sulle pendici del Pollino scorazzarono Franco e Scaliero
e sul fianco del Raparo Mancino e Florio.
Chi leggesse il discorso del prefetto Emilio Veglia, pronunciato allora al
Consiglio provinciale, vedrebbe tutto il quadro fosco e raccapricciante che
si stende sino all'agosto 1865: la complicità di pastori, di contadini, di
mulattieri e trafficanti, per triste necessità di lavoro; di ricchi
proprietarii di armenti e di masserie che diventavano manutengoli,
depositarii di tesori rubati, perché davano tacita garanzia con i loro
capitali di bestiame esposti sempre nella pastura, e nelle masseria davano
asilo e vettovagliamento. Vedrebbe generosi sforzi, fra le stanche milizie,
di valorosi ufficiali che cadevano spenti e di audaci cittadini che
sacrificavano averi e famiglia, le indulgenze dei tribunali e le burle
feroci di Crocco, gli effetti della Legge Pica (innocente deputato) da cui i
partiti locali traevano pretesti per rappresaglie, per spogliare onesti
cittadini di loro averi e per esiliarli, sospettandoli d'intesa coi briganti
ed accusandoli quali spie e ricettatori così della campagna rimanevano
padroni indisturbati, depredatori ed avversarii.
Fino a quando il generale Pallavicino chi dei nostri vecchi non ne ricorda
con devozione e gratitudine il merito e la fama? nel 1864 riescì con fortuna
a distruggere la mala genìa e ad infrenare gli abusi di parte.
Crocco passò con i suoi nello stato pontificio e decise di costituirsi alla
giustizia nell'agosto 1864.
La banda di Ninco Nanco fu distrutta dai militi di Tricarico ed egli cadde
poco dopo sotto i colpi dei militi di Avigliano.
Altri capi, come Tortora e Sciacca, si costituirono. Masino e compagni
vennero acciuffati a Padula, durante un banchetto. Presso Stigliano, Todaro
e i suoi furon fatti prigionieri, mentre tre capi di diciassette masnadieri
caddero crivellati.
Nel 1864, a tirar le somme, furono spenti ottantadue briganti, catturati
ottantasei e si costituirono novantotto: ne rimanevan pochi nel lagonegrese
ed anche questi furono tolti dalla circolazione nell'anno successivo con
sollievo delle nostre genti lucane, che poterono al fine respirare, muoversi
e lavorare liberamente.
La vita di commercio e d'industria incominciò a riprendere il suo ritmo
mentre nelle altre sfere vi erano ancora preoccupazioni di regnanti, di
stati e preparazione di nuove guerre.
Noi per concludere sul brigantaggio, che fu un grosso tumore sul giovane e
fiorente organismo della rivoluzione, affermiamo che la miseria, o il solo
disagio economico, è causa di degenerazione fisica e morale, che dà
circolazione e veemenza a tutti i cattivi elementi e a tutti i detriti che
prima rimanevano ascosi; ed effetto è la diffusione di malcontento; di
calunnie, di scambievole tormento, di riottosità alle leggi, che termina in
ribellione. La speranza nei favori e la certezza d'impunità moltiplicano i
delitti, e tanto più se favoriti da speciali circostanze politiche.
Forse faremmo bene a suggellare con questa amara costatazione il tragico
argomento ed allontanare per sempre gli animi dalle fosche ombre: ma come
tacere sulle vicende che più dappresso ci strinsero?
Saremo brevi.
I nostri tre o quattro contadini, ex soldati borbonici, che da bietoloni
avevano creduto di servire la causa politica e di tornare col sacco pieno di
scudi, sfuggiti a Montepiano con l'orda brigantesca all'assalto delle
milizie regolari, dopo alcuni giorni d'angosce e di nascondimenti, si
ripresentarono a Brindisi; ma, accolti come meritavano, furono fucilati al
Largo della Chiaffa.
Un altro triste episodio, di colore equivoco, fu l'uccisione d'un giovane
innocuo, il Molinari, renitente di leva e fuggiasco.
E Paolo Serravalle?
Egli ed i suoi più fidi, tra i quali Coppolone meno sanguinario di tutti, il
28 novembre 1861 si allontanarono dai boschi di Monticchio e ritornarono
nella loro zona prediletta, fra il Bradano e il Basento, fra Grassano e
Potenza, e spesso si rifugiavano nei boschi della Grancia.
Non seguì per Brindisi un periodo di tranquillità: lo sanno bene gli
Allegretti della famiglia del Notaro, lo sanno i Larocca dei Colasanti per i
tormenti e le lotte a corpo a corpo nelle loro masserie con molesti
pretendenti e rapinatori di Abriola e di Laurenzana; lo seppe più di tutti
il capitano Bellezza della guardia nazionale, il quale forte della sua
carabina e rivoltella ed abilissimo nel mirare, veloce come il fulmine sul
suo bel morello, inseguiva senza tregua dappertutto, instancabile, i
malandrini e li colpiva, per cui gli fu da essi convertita in rogo la
masseria alle Facciate d'Anzi, in cui erano stati rinchiusi tutti i buoi: da
essi corrivi per non aver potuto bruciare vivo o morto il padrone.
Ma il fatto più grave e che più commosse i nostri, d'ogni ceto e d'ogni
parte, fu quello dell'agosto 1863: la morte innocente di donna Cherubina.
Bellissima nelle forme e nella luce che la irradiava, simpatica nei modi e
nei portamenti, era da tutti ammirata e rispettata per la sua naturale bontà
e per la sua educazione. Sposa di Nicola Salomone, avvocato di grido, nato a
Stigliano e residente in Napoli, aveva due graziose creature.
Veniva a Brindisi, ai suoi monti, per ritemprarsi dalla caldura estiva e per
trattenersi coi suoi parenti.
Il padre, don Francesco Di Donato, sindaco, dicono che avesse messo le
vedette sulle piste di Serravalle e segnalasse alla pulizia le sue
comparizioni. Serravalle se n'era doluto, anzi gli aveva fatto sapere più
volte, per mezzo di persone autorevoli, che sarebbe stato meglio per lui e
per tutti se lo avesse lasciato al suo destino.
Pare che don Francesco non avesse dato peso alle avvertenze né alle minacce.
Veniva, dunque, da Napoli la figliuola in compagnia del gioiellere Leonardo
Lospinoso. Da Potenza a Brindisi la via mulattiera per un buon tratto è
nascosta fra le boscaglie, sì che in quei tempi doveva a ragione far temere
le più brutte sorprese. Passato il Basento, là ove incomincia la salita di
Andrea Fasulo, la comitiva voleva deviare e raggiungere il paese seguendo il
corso del fiume. Vi fu tra essa chi si mostrò sicuro che niun pericolo si
poteva correre, perchè Serravalle in quei dì era lontano.
E qui fu l'inganno.
La comitiva, appena entrata nel bosco di Blasi, si vide circondata da brutte
facce e da bocche di fucili. Ebbe intimata la resa, e mentre la povera
signora, più morta che viva, veniva assicurata che nulla avrebbe sofferto,
gli uomini subirono scherni atroci di accento nasale calabrese, e, bendati,
furono allontanati per i meandri del bosco. Intanto le casse di gioielli
passavano in mani più sicure, e qualcuna, sottratta abilmente e nascosta nel
folto dei cespugli, fu poi raccolta da un fido mulattiere, che la tenne per
sé come retaggio della cattiva ventura.
Un giorno dopo una pattuglia di bersaglieri scovò nel Fosso della Fornace i
ribaldi, che fuggirono tra le forre e gli spini, come cinghiali, inseguiti
dal fischio rabbioso delle palle; anche Angelo Serravalle, fratello di
Paolo, fuggi sulla sua cavalla, come il vento, attraverso il Piano dei
Salici e riesci a mettersi in salvo.
Paolo non volle arrendersi né lasciare la bella preda; compì ogni sforzo,
perchè donna Cherubina si fosse messa in sella; ma costei, che vide poco
lungi nei soldati i suoi liberatori, indugiò e cadde: un proiettile le aveva
trapassata la gola.
Fu colpita da Paolo che nell'indugio di lei vedeva con rabbia la sua stessa
perdizione? Molti dicono di sì, altri ritengono che la ferita avesse tracce
d'una pallottola militare.
Paolo, raggiunto dal piombo vendicatore cadde, come una belva,
scontorcendosi tra gli sterpi in un rantolo di estrema bestemmia all'ultima
sua vicenda brigantesca, e dovè mordere il terreno da cui aveva raccolto
pane onesto nella sua prima giovinezza.
Donna Cherubina, portata in paese, mentre al Monte Picone una folla
s'agitava fremente e attendeva imprecando e piangendo, passò in agonia tra
la folla di donne scapigliate e le più vicine ne sentirono l'anelito
affannoso che si rimescolava alle arie dei primi vagiti e dei primi sorrisi.
E morì lasciando nella nostra nemesi la traccia più livida della tristezza
dei tempi. Il padre sopravvisse di poco.
La testa di Paolo fu portata a Potenza, come trofeo, per provare che la mala
pianta era stata recisa e che il cattivo seme non poteva più cadere nella
terra onesta.
In tal fatto, come è facile immaginare, vi era stata una spia, confidente di
Serravalle.
La spia, un parente della vittima, per vivere andava raccattando legna che
trasportava sullo scheletro ambulante di un asinello.
Il giuda, non molto dopo la morte di donna Cherubina, era sparito e niuno si
era data premura di cercarlo; fu trovato per caso nel folto del bosco di
Materi, sotto un vecchio tronco rovesciato, coperto di formiche rosse.
Né i topi né le volpi né i lupi avevano voluto in pasto il suo carcame.
Non una lagrima di pietà al suo passaggio o sulla sepoltura.
La nemesi, dea della vendetta, sembrò placata, perchè così chiudeva nel
nostro paese un triennio nefasto di brigantaggio, mentre sola l'eco giungeva
di lontano delle ultime rappresaglie.
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