SERVIZI PUBBLICIISTRUZIONE
Gli spiriti di parte, per antichi rancori, tenevano dall'una e dall'altra
sponda le migliori famiglie, che nei periodi di elezioni amministrative si
contendevano il terreno vivacemente e trascinavano nella lotta molti
pacifici cittadini.
Fra le alterne vicende dei partiti, con licenziamenti e nomine di
segretarii, medici, insegnanti e guardie, si ebbero ripercussioni dannose,
interruzioni e deviazioni nell'andamento dei pubblici servizii,
nell'esecuzione di opere di prima necessità collettiva e nell'applicazione
di sovrimposte e di tasse: fenomeno questo che si verificò tristamente in
quasi tutti i comuni d'Italia dopo il sessanta, come nel medio evo. Non è
vergogna il confessarlo: male comune mezzo gaudio. Ed ora, col nuovo regime,
delle ignobili lotte intestine devesi dileguare per fino il ricordo.
Ci conforta un'altra costatazione. Fra noi gli attriti amministrativi non
inasprirono sotto l'influenza e la violenza di lotte politiche: fra noi le
simpatie, sì, in buona fede, per alcuni uomini politici, ma uno spirito di
indipendenza ed una forma rude di ribellione ad ogni raggiro e ad ogni
pressione politica han mantenuto la caratteristica di fierezza della nostra
gente rurale.
Anche fra lotte e contrasti l'ufficio comunale ha avuto, con abili
segretarii, assetto e buon andamento. La condotta medica, fra alcune
mormorazioni dell'opposta sponda, inevitabili, si è mantenuta all'altezza
della sua funzione e in periodi di diffuse epidemie, di vaiuolo arabo, di
difterite, di tifo, di malaria, di polmonite, ha reso segnalati servizii di
diligenza e di generosa attività, fra desolante povertà di mezzi, assoluta
mancanza d'un dispensario e in alcuni periodi persino di farmacia.
Nel primo ventennio di governo italiano dalle leggi iniziali di rinnovazione
intellettuale e di formazione di coscienza popolare derivò, senza dubbio, la
prima ondata salutare, fresca e pura, d'istruzione popolare obbligatoria,
che doveva svolgersi e guidare i cittadini alla conquista della vera
libertà: mentre il governo borbonico, premeditatamente e delittuosamente,
aveva voluto mantenere nella più fosca e crassa ignoranza il suo popolo, il
suo gregge: come per un secolo lo aveva creduto.
Pel passato i fanciulli più fortunati avevano imparato a leggere e scrivere
dai preti, dai monaci e dalle persone colte del paese, ed avevano proseguito
gli studi nei seminari di Matera, di Acerenza e di Potenza.
Nelle aziende domestiche complessi conti correnti di salarii, di prodotti,
di vendite e d'acquisti eran tenuti con le taglie, o tacche, su cui si
incidevano le cifre romane, e tali mezzi erano adoperati anche nelle
pubbliche contabilità di tesoreria comunale, di esattoria delle imposte, di
ricevitoria di canoni, decime e manomorte. I contratti notarili, le
deliberazioni del Comune, gli atti di stato civile erano segnati con croci;
i decurioni non sapevano scrivere.
E questo fino ai primi tempi nostri. La buona fede regnava sovrana e le
frodi e le infrazioni raramente avvenivano: affermazione questa che, molto
sincera e ripetuta dai nostri vecchi, è da ritener fedele alla realtà,
perchè rispondeva ad una necessità di scarse e rare conoscenze.
Inoltre, non dobbiamo tacere che per solo sospetto di frode o d'illecito
profitto, per la indebita ritenuta di dieci grani, qualche salariato od
operaio che si credeva leso non ricorreva al giudice, ma col favore delle
tenebre incendiava il fienile, devastava il vigneto e si vendicava a suo
modo.
Le fanciulle imparavano la dottrinella in chiesa, dalle nonne imparavano
esorcismi e scongiuri, dalle comari del vicinato il rammendo, il cucito, la
maglia, la tessitura, e quelle più fortunate arrivavano più avanti col
ricamo, sino a vent'anni ed a trenta, cioè sino a quando completavano il
corredo per andare a marito: e non si sposavano prima di venticinque o
trent'anni.
Tra il 1850 e il 1860 due frati di Anzi aprirono una scuola pia nel locale
ora di proprietà di Angelo Guerrieri. I giovanetti che volevano apprendere
qualcosa di più del leggere e dello scrivere frequentavano la scuola di
Gaetano Plescia, uomo paziente, di buon senso e di modesta cultura. Poi si
dedicò all'insegnamento il teologo don Giuseppe Montulli.
Nel 1867 fu istituito un asilo infantile per l'azione di propaganda spiegata
dall'Associazione nazionale pro asili d'infanzia, di Firenze, la quale aveva
alla direzione centrale uomini di mente e di cuore che rispondevano ai nomi
di Carlo Matteucci, di Gino Capponi, di Terenzio Mamiani, di Bettino
Ricasoli, di Luigi Sanvitale, di Federigo Bellazzi, di Pacifico Valussi e di
Ottavio Gigli. Prima nelle case soprane del dottor Tito, in Piazza Vittorio
Emanuele, poi in quelle più ampie di Fanelli l'asilo accolse bambini dal
terzo al sesto anno, di famiglie povere e ricche, e pel primo anno fece
ottima prova; continuò con una cinquantina d'allievi e principalmente per
l'opera caritatevole, zelante e proficua del frate Graziadei di Laurenzana.
Alcune famiglie vollero pretendere l'ammissione di fanciulli d'età superiore
al sesto anno; nacquero, con il pettegolezzo e il capriccio, la confusione e
il malumore.
L'ufficio scolastico provinciale, con lettera del 30 settembre 1869, fece
notare al Comune che lo scopo dell'asilo veniva via via falsato; non ebbe
ascolto. L'asilo si chiuse nel settembre del 1872 con sicuro danno
dell'infanzia grama, che, abbandonata, si disseminò nelle vie polverose e
nei letamai, che circondavano l'abitato, a pascersi di germi infettivi (1).
Dal 1870 in poi due scuole elementari ebbero funzione normale e benefica,
per quanto lenta, nella diffusione dell'alfabeto. Venne da Tolve fra noi,
verso il 1874, Daniele Villamena, maestro impareggiabile per coltura moderna
e soda, per gentilezza d'animo e per passione educativa; egli diede luce di
verità, colore d'idealità e calore di fede alla coltura della propria
intelligenza ed a quella di coloro che gli facevan corona, piccoli ed
adulti; vi rimase per soli due anni.
Intanto le due scuole pubbliche presero assetto e vigore e dal 1878 in poi,
nei corsi diurni e serali, ebbero confortanti risultati ed effetti di vita
rinnovatrice. Vittorio Emanuele I, lo Statuto, Pio IX, Garibaldi, Umberto I
ebbero significative commemorazioni; le guerre contro gli Abissini e i
Turchi furono seguite con vivo interessamento, tanto che gli alunni,
spontaneamente e per turno, ogni mattino, a piedi, andavano alla stazione a
prendere le notizie che vi giungevano per telegrafo (in paese non vi era
ufficio telegrafico) e riproducevano nei loro giuochi movimentati e serii
gli avvenimenti di guerra. La storia e la morale civile erano entrate
evidentemente nella circolazione del sangue, dei sentimenti e delle azioni,
perchè la scuola era diventata il crogiuolo di buone ed utili conoscenze.
La febbre d'emigrazione, elevatasi per le esigenze civili e legali degli
Stati Uniti d'America, e la sete del voto, fatta più ardente dalla passione
di parte e dal bisogno di rendersi liberi amministratori di se stessi,
diedero contenuto reale all'interessamento per la scuola ed ai suoi
immediati progressi e risultati. Ma così preparati, i giovanetti più sani e
più intelligenti presero il volo e la popolazione, anziché rinnovarsi, venne
via via sfiorandosi.
Dal 1889 al 1901 l'accrescimento della popolazione, per differenza di più
dei nati, 920, sui morti, 787, risponde esattamente al numero dei fanciulli
che, d'età sino al dodicesimo anno compiuto, emigrarono in detto periodo di
tempo, come si legge nel presente prospetto:
Anno N. degli adulti emigrati N. dei fanciulli emigrati, FEMMINE MASCHI
d'ambo i sessi 1889 23 9 8 1890 26 34 34 1891 14 54 11 1892 18 21 18 1893 11
6 9 1894 7 12 2 1895 9 6 0 1896 2 36 3 1897 13 8 12 1898 21 17 9 1899 12 14
10 1900 8 13 9 1901 11 29 8 TOTALI . 185 259 133
Alla curva ascensionale dellemigrazione si accompagnò parallela quella di
defezione scolastica, sicchè il numero degli obbligati, dimoranti nel
Comune, da una media di 220 nel 1880 scese nel 1901-1902 a 123 fanciulli,
dei quali solamente 77 si iscrissero alle scuole. La curva risalì poi
lentamente, sicchè nel 1915-1916 gli obbligati furono 187, ma di essi; a
causa della guerra, solamente 52 frequentarono le scuole.
Ora con l'aumento della popolazione il numero degli obbligati è salito a 191
e quello dagli iscritti a 85: due soli emigrati all'estero.
Le scuole, divenute funzione di stato dal 1912, son tre nel centro ed al
corso elementare inferiore si è aggiunta di obbligo la quarta classe. Alla
Grancia una scoletta ebbe breve vita intorno al 1914 15 per colpa di pochi.
Al Casone, da parecchi anni, è stata istituita una scuola provvisoria che è
amministrata da un ente delegato dal ministero: dall'Associazione Nazionale
per gli Interessi del Mezzogiorno d'Italia.
La cultura privilegiata, chiamiamola aristocratica, cioè della casta dei
galantuomini, parola che per noi è sinonimo di signori, dei preti, dei
notai, degli avvocati e dei medici, si è dileguata da quasi un secolo. Il
vuoto non è stato riempito ancora dalle esigenze dei tempi. Con la caduta
delle cime e dei monti bisognava riempire i bassi fondi sociali ed elevare
il livello delle masse ad altezza utile e conveniente, da rendere agevole il
cammino di tutti sui ponti e sui terrapieni elevati dalla vita collettiva e
dallo stato moderno: e ciò avverrà gradualmente per il cammino della storia.
La istruzione popolare, diffusa e generalizzata, tende non solo a rafforzare
i corpi e le intelligenze, a rendere ogni individuo utile e disciplinato,
sicché costituisca, per il fondamento che Dio e natura pongono, una unità
operante, abile e produttiva, ma a comporre le forze morali, in salde
coscienze concorrenti all'elevazione, alla prosperità ed alla sicurezza
economica e culturale della nazione, ed a mantenere alte di questa e
spiccate le caratteristiche di tendenza e di genialità nell'agricoltura e
nei commerci, nei mestieri e nelle arti, nelle professioni e nel governo, e
soprattutto a tener alto il prestigio e la sovranità dello Stato.
Problema generale che appassiona gli uomini più evoluti e più sensibili: su
di esso torneremo con alcune proposte concrete nelle nostre ultime
conclusioni.
lll
DAL 1880: EMIGRAZIONE ALL'ESTERO
Il disagio economico, secondo i nostri vecchi, era incominciato dal sessanta
ed è venuto innanzi, sempre più accentuandosi, nel periodo del brigantaggio
e poi delle cause feudali.
Ritornata la vita laboriosa dei campi, riattivato con i servizii pubblici il
commercio, non ritornò fra tutti noi il benessere materiale. I piccoli
proprietarii, scossi da una serqua non breve di tristi avvenimenti, furono i
primi a sentire dall'alto le pressioni delle imposte, le pretese
dell'operaio e l'usura dei ricchi dai fianchi. Le piccole industrie caddero
mortalmente, mentre era sfinito il credito del Monte Frumentario.
Coloro che tenevano il mestolo della pubblica amministrazione trovavano
quasi sempre il verso d'alleggerire il proprio peso di sovrimposte e di
tasse comunali. Gli altri, se non clienti o favoriti, mordevano il freno.
La libertà era giunta fra noi prima della capacità e dei mezzi a produrre e
non poteva esser stimata abbastanza; anzi gli oneri che le facevano scorta
d'onore ebbero cattiva accoglienza.
Mentre tutti attendevamo d'essere rinsanguati dopo i salassi feudali, ci
trovammo di fronte alle esigenze di nuove opere pubbliche, mal ideate ed
affrettate nell'esecuzione: come utenti, fummo sottoposti ad opere turnarie
e ad ultime strette di torchio.
Cespiti d'entrata i soli raccolti di grano e di uva e spesso venivan meno;
se abbondanti, non offrivan prezzo remunerativo.
Tutto ciò produsse uno stato di depressione e di abbattimento, prima nelle
classi più modeste e poi in quelle che erano state più fortunate.
Fino al 1880, all'inaugurazione della prima ferrovia, annunziata dal Pro
dittatore con disinvolta promessa il 1° settembre 1860, il popolo nostro non
aveva mai pensato di emigrare all'estero, di passare i mari o le Alpi. Si
era dato solo qualche caso sporadico: come quello di Antonio Pellettieri,
calzolaio, e di Francesco Pecora, muratore, che andarono a Buenos Ayres,
quello di Andrea Surdo e di Vincenzo Creasi, che andarono a New York poco
dopo il 1870.
Intorno al 1880 l'emigrazione all'estero prese notevolissime proporzioni e
merita il nostro esame.
Il fenomeno dell'emigrazione si allarga alla nostra provincia, alle
Calabrie, ad altre provincie limitrofe, con una rapidità ed una intensità
allarmanti. E contenuto solo da leggi restrittive degli Stati Uniti del
Nord, ove più affluivano i nostri paesani.
Le cause, le circostanze e gli effetti del movimento emigratorio sono stati
con ampiezza di dati e di argomentazioni trattati da studiosi competenti.
Il fenomeno è complesso nella sua essenza e nelle sue forme: il nostro
accenno ha colore di fatti locali ed è indice di semplice movimento
demografico, così come richiede il nostro modesto lavoro.
Di 149 famiglie, o casati, venute dal 1534 in poi e indicate
precedentemente, alcune sono scomparse per morte e per mancanza di
discendenti maschili; altre si sono trasferite in comuni diversi del Regno;
molte si sono trapiantate nelle Americhe.
I casati indicati con l'asterisco, e sono 73, sopravvivono; gli altri 75 si
sono estinti, o, se viventi, non si ha sentore alcuno.
Nel 1881 eravamo 2254 abitanti.
Le nostre famiglie propriamente dette, entità organiche e sociali, aggregati
a sè nelle forme di legge, nel 1901 erano 524: nel centro 451 e nelle case
sparse 73.
Le cifre segnate in seguito con esattezza rigorosa, secondo lo norme dettate
nel 1900 dalla circolare, N. 434, della R. Prefettura di Potenza, e secondo
gli articoli 19 e 20 delle istruzioni estratte dalla legge 15 luglio 1900,
n. 261, e dal relativo regolamento, risultano dal censimento 1901.
La popolazione agglomerata con dimora abituale era di 1589 abitanti e quella
sparsa di 131: cioè di 1711 abitanti in tutta; l'agglomerata con dimora
occasionale al centro di 39 abitanti e di 168 quella sparsa: cioè di 207
abitanti, quasi tutti boscaioli ed altri operai occupati temporaneamente in
campagna. In complesso nel 1901 la popolazione risultava di 1918 abitanti,
dei quali 43 erano assenti temporaneamente, ma presenti nel Regno.
In un ventennio la diminuizione era di 543 abitanti. Si noti che fino al
1903 la mortalità si aggirava intorno ai 50 (media annuale), mentre la
natalità la superava di poco. Le malattie predominanti erano causate da
infezioni malariche e polmonari e da quelle tifose di rado.
Nel 1911 al centro erano 1284 abitanti e altri 88, con dimora fissa, sparsi
per la campagna; sicchè tutti erano 1372.
Nel 1921 al centro erano 1476 abitanti (20 di popolazione fluttuante) e 300
erano sparsi per la campagna: un totale, cioè, di 1776 abitanti. I giovani
di leva erano una dozzina in media.
Finita la guerra, la popolazione era di 1754 abitanti: ora è in aumento.
Nel primo decennio di questo nuovo movimento, cioè sino al 1886, gli
emigranti quasi tutti adulti e lavoratori, raggiunsero il numero di 470. Dal
1889 al 1901 ben 577 si trasferirono negli Stati Uniti d'America del Nord,
pochi nel Brasile e nella Repubblica Argentina: di essi 185 uomini, 259
donne e 133 fanciulli d'ambo i sessi: come abbiamo prospettato parlando di
pubblica istruzione.
Una sola era l'amara delusione, e si coglieva nel commiato dalla bocca
onesta dei migliori uomini nostri: « Qui non possiamo più dar pane, il solo
pane, ai nostri figli. Lavoriamo e lavoriamo senza mai tregua, dimenticando
le feste e il bene dell'anima. I baroni, i duchi, l'esattore, gli uscieri e
gli usurai ci succhiano le ultime goccie di sangue e ci mandano alla malora,
laceri ed avviliti. Vogliamo lavorare, sudar sangue, ma vivere per dar pane
e meno amaro ai nostri figli».
Era il pianto angoscioso di chi aveva potuto contrarre ancora un debito al
cento, al duecento per cento, ed anche a maggior usura, per pagare il nolo
d'imbarco; era il singulto di chi si accingeva con lo schianto nel cuore ad
abbandonare la famiglia, la casa ed il podere con l'unica fede nell'aiuto
della Madonna delle Grazie, con la sola speranza di ritornare fra pochi
anni, di riscattare dalle gravose ipoteche i suoi fondi e di rimettere la
famiglia nel benessere.
Nell'angoscia opprimente e nel desiderio di liberazione stendevano i viscidi
tentacoli gli improvvisati agenti di compagnie transatlantiche.
Nel primo decennio non pochi emigrati, realizzando il fermo proposito che
aveva salde radici nel fondo puro dei cuori, si restituirono alla famiglia e
liberarono da gravami la proprietà, rimisero a nuovo la casa ed acquistarono
sementi, muli ed attrezzi da lavoro; ma dopo qualche anno, appena inaridita
la fonte di modesti risparmi, ritentarono la via della fortuna e non si
allontanarono soli. E mentre pareva rallentata la corrente migratoria, si
trapiantarono all'estero intere famiglie.
Dal 1890 al 1900 altre ondate, incalzantisi con forza di contagio, e direi
meglio di mania collettiva, portaron via tutti coloro che avevano capacità
di occuparsi in un lavoro proficuo; e nel biennio 1900 e 1901 quanti per
proprietà ed agiatezza non avrebbero dovuto stendere passi azzardosi, vinti
invece dal rovescio delle annate, scarsissime di raccolto, fuggirono questa
nostra terra impoverita, sorda oramai alle più aspre fatiche ed ai più
disperati appelli.
Rimasero con noi i vecchi, i malati cronici e i bambini tristi e lenti nel
sole della piazzetta a contare le lunghe ore; e l'orologio della chiesa
martellava monotonamente i loro cuori, ravvivandoli nella sola attesa del
corriere postale.
Non poche casette si chiusero per sempre nel silenzio desolante, interrotto
appena dalla sordina dei tarli annidati negli assiti e nelle travature; e le
nostre campagne intristirono nell'abbandono, oziarono nell'ampia distesa; e
le vigne si confusero tra i roveti e perirono negli sbadigli nebbiosi del
fiume e delle valli.
Fra gli emigrati vi eran di quelli che dalle steppe del Brasile e dalle
miniere di Pennsylvania si sarebbero restituiti ad ogni costo all'aria
natia, al tetto ed al campicello aviti, se avessero potuto mettere insieme i
mezzi pel viaggio e se tetto e campo avessero potuto riscattare dai
creditori.
Molti non tornarono né torneranno per tutto l'insieme di mutate condizioni
di vita, di famiglia e d'ambiente, dissimili e quanto! dall'affumicato
tugurio, dalla dura gleba, dai rattoppi mal sovrapposti e dalle situazioni
penose e senza uscita, dai bocconi di tossico impastati con sudori e con
lagrime.
Intelligenti ed attivi, chi più e chi meno, han saputo adattarsi alle
diverse esigenze del nuovo ambiente, con un nuovo battesimo di civiltà dato
da un popolo giovane, esuberante di salute, di ricchezze, di vedute e di
ardimenti per l'avvenire.
L'espatrio fu una necessità, una vera liberazione: fu un bene nel tempo per
tutti quelli che vollero con le proprie energie risollevarsi nella dignità
di vita; fu un male per coloro che, rimasti a custodire i lari domestici,
dovettero coprire di cenere i pochi tizzi cigolanti, ancora accesi.
Ed a ravvivare i focolari non più son tornati i giovani.
I renitenti di leva erano appena due nel 1879 e zero nel 1880, furono
ventotto nel decennio 1881 1891, settantotto nel decennio successivo,
diciassette nel solo 1902.
La renitenza è spegnimento d'un gran fuoco, più sacro: dell'amore verso
questa nostra bella e gloriosa Italia.
Ma il gran fuoco non si spegnerà, non si può spegnere: è nell'interno dei
suoi vulcani, che son di cuore pulsante, è nel gran sole che le profonde e
le rinnova ogni giorno tanta potenza di giovanilità e di bellezza.
Ma perchè, dunque, la nostra stirpe, venuta di là ove sembra il sole
levarsi, riprende il cammino dopo secoli e va lontano seguendo il sole
nell'apparente sua via?
Così si compiono, dunque, il giro fatale delle cose e la legge dei ricorsi
storici del Vico?
La volontà suprema si esplica attraverso le cose, i fenomeni, e si compirà
nella volontà e nell'azione degli uomini.
La progenie albanese irrequieta, errante, si disseminò per l'Italia e vi
attecchì come fra i suoi monti: checché dica il Macchiavelli nel secondo
libro dei Discorsi sopra la prima deca, là dove tratta «quanto sia
pericoloso credere agli sbanditi».
E torniamo sulla nostra origine, o più determinatamente, sulle prime genti
del nostro Brindisi: perchè oramai, come abbiamo dimostrato, molti di noi
siamo eredi di una fusione di razze e di famiglie e pochi son quelli che
direttamente discendono, senza giri e deviazioni, dagli originarii albanesi.
E questo sarà di certo avvenuto in altri villaggi agricoli, in Basilicata,
in Calabria, in Sicilia, in Terra d'Otranto, in Capitanata, nel Molise;
mentre altri e molti albanesi di nobile prosapia, più agiati e più attivi,
si sono sparsi nelle grandi Città e sono valori indiscutibili di vita
pubblica italiana, nazionale.
Francesco Crispi e Ageslao Milano danno gran lustro, decoro e vanto alla
origine albanese, e non sono i soli che l'origine onorano e rendono
armoniosa nella fusione dei cuori, delle intelligenze e delle volontà con i
fratelli della seconda patria: l'Italia.
Vittorio Emanuele nel 1896 accese il suo cuore all'astro di Montenero.
Elena, amantissima dell'Italia e italianissima nei sentimenti, nei costumi e
negli ideali, ha vissuto e vive con materna pietà e tenera sollecitudine le
nostre vicende di ansie, di lotte e di dolori, e noi italiani, ammirati e
riconoscenti, le vogliamo bene con sincerità e rispetto.
Ad agenti antitaliani, maligni e volgari nell'attribuire all'Italia una
politica famigliare a favore del Montenegro, rispose il principe Danilo in
un brindisi famoso che ribattè la calunnia. Egli accennava alle mene
dell'Austria verso l'Albania ed aggiungeva che gli Albanesi, cercando la
libertà, avrebbero dovuto seguire con lo sguardo il sole per vederlo
scendere di là dal mare sopra una terra benedetta dall'arte e da Dio, la
quale aveva lottato quasi un secolo per raggiungere l'indipendenza e la
libertà, e le aveva raggiunte, e stendeva ai fratelli albanesi la mano per
sollevarli.
Il giovane principe additava la via del sole e non pensava, e non poteva
prevedere, che l'Italia avrebbe nel giro di pochi anni ripresa la lotta per
una più completa indipendenza, che in certi luoghi albanesi, ad Azio od a
Dodona, a Nicopoli o a Scutari, a Vallona o a Durazzo, da cui balzano
ricordi romani e veneziani che non sono ruderi antichi che parlano nel
sogno, o raffigurati nei trapunti d'un comodo tappeto austriaco o jugoslavo,
i ricordi balzano e agiscono e nella parola forte e chiara del nostro Duce
ammoniscono; attenti ai mali passi, rispettate lAlbania.
Ora sì, sia benedetta l'Italia nella sua nuova aurora, nel suo genio, nel
suo cenno divino, che se lascia corruscate le avverse fronti, non lascia
dubbiezze nel suo significato e non permette altre mosse nell'ombra.
Conviene, però, far buona guardia: a noi!
E torniamo al modesto nostro compito pel dovere che c'incombe di compierlo
silenziosamente, operando.
Il risveglio dei ricordi e dei sentimenti che sono negli strati più remoti
del passato e più interni del nostro animo, può commuovere di noi ben pochi,
nel nostro Brindisi.
A quelli che sono al di là dell'Atlante auguriamo buona fortuna e li
esortiamo a tener l'animo saldo sulle più gloriose e belle nostre
tradizioni, sicché anche lontani tengano ben alto il prestigio nazionale.
A quelli rimasti con noi, siano o non di origine albanese, di origine
italica certamente, senza ombre campanilistiche, sono ben note le leggi
restrittive sull'emigrazione. Non la chiusura delle porte degli Stati Uniti
ci deve umiliare, ma la voce materna d'Italia che ci tiene con sè deve
infiammare ed esaltare noi stessi. I figli d'Italia son fatti per noi ecco
il nuovo grido conclamante nell'educazione e nel lavoro proficuo le nuove
generazioni, che devono alacremente fabbricare con intelletto d'amore nelle
nostre campagne fertili e benedette, invidiate e contese per tanti secoli
dagli stranieri, la prosperità economica e l'indipendenza propria, che è
quella d'Italia.
I figli d'Italia lavorino e cantino, tutti a coro.
L'emigrazione nelle leggi del governo nazionale ha un orientamento di popolo
e di attività che, nell'incarnazione di altri energici provvedimenti, dovrà
in pochi anni restituire il nostro paese ad una vera benedizione di Dio. Il
nostro paese dovrà essere quello vaticinato da Virgilio e da Dante, realtà
palpitante e ascendente verso le sue vere altezze.
«Onde i suoi primi gloriosi auspicii
Avrà l'inclita Roma, quella Roma,
Che, sette monti entro al suo cerchio accolti,
Tanto si stenderà, che fio con l'armi
Uguale al mondo, e con le menti al cielo
Roma, di così prodi e chiari figli
Madre felice. Tal di Berecinto
La maggior madre infra i leoni assisa,
E di torri altamente incoronata
Va per la Frigia, gloriosa e lieta,
Che tanti ha figli in ciel, nepoti in seno;
Tutti che dii già sono o dii si fanno».
(Libro VI : Eneide di Virgilio trad. di A. Caro)
E Roma risuona nella storia e nell'avvenire, nei nostri cuori e nel mondo
con l'eco poderosa che ripete: Italia! Italia! Italia!
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NOTE
(1) Attualmente, da pochi mesi, funziona un nuovo asilo nel palazzo Gallo.
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