USI E
COSTUMI
Voler parlare compiutamente, con larga copia di citazioni ed esempi, di
quanto ho messo avanti a titolo di questo studio, significherebbe proporsi
di scrivere un apposito libro.
Scendere nell'anima del popolo, nei recessi più profondi e più intimi,
toccare le corde meglio custodite, più sensibili e più vibrarti, seguire
nelle commozioni le onde sonore, cogliere immediatamente le sfumature di
armonie e disarmonie in azione, sorprendere manifestazioni genuine
individuali e collettive, ritrarle, è tutto un compito geniale d'indagine e
d'interpetrazione, che richiede sicura dottrina etimologica e storica,
speciale per l'ambiente, mobilità e sveltezza d'intelligenza, fedeltà di
riflessi nel proprio animo: compito che non potrei assolvere compiutamente,
anche perchè vivo così lontano ed assorto in altre cure.
Per integrare nelle sue parti questo libro tocco rapidamente i punti che
dovebbero, a mio giudizio, destare maggiore interesse.
Di spiriti e forme albanesi ben poco avanza. Gli arditi Skipetari (1), così
propriamente si, chiamavano gli albanesi del Sud venuti nelle nostre
contrade, dovettero certamente portare nella loro sub coscienza le tracce
d'una più antica razza irana, di primitivi istinti irrequieti e indomiti, e
nella memoria un miscuglio di ricordi greci e turchi, di oracoli, di bazar,
di moschee e di minareti. Dovettero sognare più volte, certamente, le vette
altissime dello Smolica e del Tomor degradanti in verdi vallee e in foreste
cupe, ondulate tra un mare di felci, i pianori in largo e in lungo
verdeggianti di granturco e di meliga, e balze e burroni e gole e cascatelle
tra cui scendono limpide le correnti verso i fiumi maggiori, il Drin nero e
la Voiussa, alle cui acque, fra il lieve sussurro e la fresca ombra dei
platani, degli olmi e dei salici, si abbeverano numerosi armenti e le
piccole libere cavalle in frotte.
Avranno nelle nuove sieste posato a lungo lo sguardo della mente sulla
placida superficie grassa dei laghi, e quelli di Scutari e di Ochrida avran
riveduto dormendo o fumando assorti, e, trasognando, avran riveduto le nero
occhiute lor belle fanciulle che ripeteano sommessamente:
«Dio perdoni al giovane che ci amava!»
« Dio perdoni». Dio invocando, così come ora qui aveano imparato: non più
Allah o il grande Profeta.
Ma le ore nostalgiche dovean esser brevi, se si pensi che i nostri luoghi, i
nostri monti e le nostre valli, coperte di alberi e di ombre, freschi di
arie, di acque, di muschi e di licheni, popolati di selvaggina, molta
somiglianza avevano ai loro luoghi.
E nelle giovani vigne, fra il loro frutteto o fra il loro bestiame, vigili e
pensosi, come nella loro stessa patria, dimenticarono Dodona.
«Oh, where, Dodona, is thine aged grove . . . .»
« Oh! dov'è, Dodona, il tuo antico bosco, la fonte profetica, l'oracolo
divino? In quale valle echeggiò la risposta di Giove? Che traccia resta del
tempio tuonante? Tutto tutto dimenticato. E si dorrà l'uomo che si rompano i
suoi fragili legami alla fuggevole vita? Finisci, pazzo! Il fato degli Dei
può ben essere il tuo .... ». Così sarcasticamente ammonisce se stesso
Byron.
Ma i nostri profughi non meditano su la loro sorte lontana: si erano salvati
dalla persecuzione dei Turchi, vogliono salvarsi dalle frequenti scosse di
terremoto, ritornano a S. Nicola, santo illirico, e gli fabbricano la
chiesa.
Le loro donne tranquillamente affastellano rami secchi nel Pian delle Pedine
o custodiscono gli armenti nei valloncelli di Milech o alla Ciux e cantano
le loro antiche canzoni. I figliuoli con i fez ricolmi di more, stretti al
seno, si divertono a cavalcare, sulle gualdrappe di lana scarlatta, le
cavalle dalle criniere sciolte ai venti. E cavalli muletti e asini pascolano
nei campi erbosi giù per le chine, presso la fiumana e il vallone poco
discosto, e capre e maialetti si accovacciano tra i chioschi di roveti, tra
i vimini e le giungaie, sotto i pioppi e i salici che sono nei greti.
Donne e fanciulli in quelle ore, seguendo il Basento che scende al Ionio e
risalendo per l'adriaco mare, non giungono col pensiero più a Venezia. E
forse non vedono più quel mare «che tra il verde perpetuo d'una selva
feconda lascia apparire più caro il ceruleo delle acque, e risponde con esse
all'onda de' ruscelletti che corrono dal pendio degli aranceti, o pare
dolersi che deserto di legni e sterile di commerci sembri esteso da Dio come
stendesi da un rètore un'amplificazione » (2).
E le donne non più chiedono conto a Venezia dei loro uomini affogati nel
mare: i loro uomini sono al sicuro da ogni insidia e da ogni assalto.
«Sulla spiaggia seggono le donne de' marinai;
De' marinai e dei nocchieri, de' capitani;
Hanno sassi nel seno e ciottoli nei grembiali,
Lapidano il mare, al mare buttan sassi:
«Mare, amaro mare e bianco spumeggiante, mare dove sono i nostri mariti,
dove i nostri cari ? » (3)
. Così una volta . . . . .
Ma ora qui, all'ombra generosa ed ospitale d'una quercia vetusta, come
quelle di Dodona, nel fresco cavo d'un colle che a borea protegge una oscura
masseria, fra un grosso e angoloso macigno a cui aderiscono depresse, come
al Lacoonte, le radiche serpenti, verso la fontanella che riluce tra l'erbe,
siedono su due gomiti di radici, che affiorano il terreno, una matura donna
albanese dagli occhi grandi e neri, dimessi sotto l'ampio fazzoletto bianco,
e una vecchietta arzilla e asciutta, dallo sguardo grigio d'acciaio e
dolcemente severo.
E' l'incontro, dopo un cammino di mille anni, di due anime della stessa
stirpe ellenica, dopo la sosta nel tempio di Iànina l'una e nel tempio
cotronese di Era l'altra.
Placidamente assise su questa terra lucana, rievocano i tempi di loro
fiorente giovinezza; la prima, snocciolando grosse e succose visciole,
narra, dopo un sospiro di sollievo, i soprusi dei Muftar, dei Bey, dei
Mutessarif e le gelosie dei mariti; l'altra s'annoda compostamente due
candide trecce sull'ampia nuca, chiosando con ironia sarcastica i capricci
dei duchi, dei baroni e delle ultime castellane.
I monti e le valli si rassomigliano molto, dunque. Templi, boschi e campi
sono anche qui il teatro d'azione. Terra e cielo sono i termini degli
spiriti, gli approdi delle migliori speranze.
Religione nuova ed armi antiche di lavoro e di difesa ritemprano e
fortificano i cuori. I ricordi di glorie guerriere ed i frutti dolci ed
abbondanti dell'amore e del lavoro si sciolgono in succhi, in balsamo, in
canzoni per la donna che non è più schiava; ma savia e provvida padrona
della famiglia, per la Madonna che dispensa grazie divine a tutta l'umana
gente affaticata ed anelante.
S. Paolo aveva predicato in Albania. Gli Albanesi scovrono tra i ruderi di
antiche chiese e mettono in luce la passione di Cristo e il martirio
cristiano di S. Lino, vescovo greco.
Adorano S. Lorenzo e S. Lorenzino, giovinetti fiammanti nel miracolo, che
nel sangue sempre vivo tengon desto il fuoco della fede, e i carboni che
sembrano spenti devono riaccendere benefico calore, distruggere i germi
della malaria d'Albania e del Basento e purificare con i corpi gli spiriti.
E il sole d'agosto santifica i frutti del sudore e dell'amore.
Dapprima non parve vero agli skipetari di essere lontani dalle unghie turche
e greche, di trovarsi completamente liberi fra campi e boschi, senza neppur
un pastore d'anime, e si sbizzarrirono nei loro costumi e nelle loro
canzoni, non desiderando altro che comodità e benessere; nè ebbero molto
riflesso nei loro animi il pallore e il tremito nervoso degli indigeni, che
erano sotto l'incubo delle convulsioni terrestri.
Prima che la trasformazione si compisse col nuovo adattamento, prima che la
fusione avvenisse nel clima storico, i popoli vicini accorrevano per
assistere, con avida ma diffidente curiosità, alle cerimonie ed ai riti
stranieri.
La casa era la capanna di assi, di rami e di frasche, intonacata di loto o
di sterco di bue; vi stavano insieme l'uomo, più donne, i figliuoli, l'asino
o il muletto, la capra e il maiale. L'orto vicino forniva il vitto mediocre.
Gli uomini, abbronzati dal sole, alti e membruti, andavan silenziosi. I
capelli lunghi non lasciavano vedere la loro fronte bassa; la barba
arruffata, gli occhi neri e vivacissimi sotto un arco di sopracciglia nere,
allungate e folte, quasi fino agli zigomi sporgenti, col grande cortello nel
largo scigliachi di cuoio alla cintura, accrescevano la loro espressione di
fierezza. E silenziosi andavano e venivano dai campi fumando sempre, seguiti
da tre o quattro pecore e capre e dalle loro donne curve sotto il fascio di
legna, o sotto il barile pieno di acqua, o sotto la gerla ricolma di frutta.
Lavoratori tenaci, di vita sobria e semplice, portavano nel cuore e nel
volto l'austera solitudine della loro montagna, l'antica e la nuova.
Allora come dopo si davano, ma non si abbandonavano: si mantenevano fieri ed
onesti. D'una sola cosa son rimasti sicuri: del proprio fucile.
Allora, fedeli al costume antico, avevano in capo il fez bianco o rosso,
senza fiocco; portavano sulla camicia a larghe maniche; i poveri ne facevano
a meno, il loro pischli di lana bianca o rossa, succinto, tagliato a
figaretto, la fustanella, una vesticciola a pieghe sopra larghe e corte
brache anche di lana grossolana, le calze bianche e d'inverno, le uose di
flanella, giarab o scalze legate sotto il ginocchio, lì ove finisce il
polpaccio, da un legame bruno detto scalzodeta. Ai piedi avevano rozzi
sandali, caratteristici, con lunga punta rivolta in su e terminante con
fiocco.
Gli Epiroti toschi odierni portano una larga fascia di lana rossa fino a
mezzo il petto, come i toreros, e una casacca a maniche larghe ed aperte con
una grande lista nera sulle spalle: lista che da quattro secoli è il lutto
per la morte di Scanderberg.
E i nostri contadini, fino a pochi anni addietro, usavano portare i calzoni
corti, di velluto o di felpa, con bottoni violacei, legati alla cintura con
larga fascia rossa o turchina. La giacca avevano molto corta, stretta,
aperta sempre, con bavaro succinto e alzato: anch'essa di rozza lana,
tessuta in casa, di tinta avana, francescana; ma della giacca facean senza
volentieri, per portare in sua vece un corpetto di maglia di lana bianca,
amplia, aperto davanti con liste rosse o nere sullo sparato e sulle
estremità delle maniche. Avevano calze di lana bianca legate con nastri,
sandali rozzi con lacci di pelle di cane criuòlí legati in croce sul dorso
del piede e attorno alla caviglia. Il cappello nero portavan basso, rigido e
rotondetto, a piccole falde. D'inverno portavano, come gli antichi, le uose
sino al polpaccio, ed anche fin sopra il ginocchio quelli che avevan più
lana da filare, e tutti portavano un mantello scuro e pesante dello stesso
tessuto.
Non parliamo delle donne, pochissime, che nel vestiario imitavano alcune
costumanze turche ed avevano il ciarciaf in testa, velo che lasciava
intravedere la seriche vesti dai colori vivaci, e le babbucce, scarpine
ricamate in oro. Erano le ricche e non ben viste.
Le donne coronee venute tra noi eran quasi tutte cattoliche, dal volto
visibile tra i bianchi lini che cadevano mollemente dalla testa; portavano
fino ai garretti una gonna crett di panno nero di lana, pesante, a molte
pieghe, che, fitte, perpendicolari, compresse, leggermente s'aprivano
ondulando al movimento delle calcagna, lasciando veder le calze bianco
pallide di lana, e nei tempi nostri le calze di cotone candidissimo. La
cintura dello stesso panno stringeva al busto la gonna, sorretta da risalti
ai fianchi. I corpetti o busti sino ai giorni nostri, qualcuno tipico sarà
conservato gelosamente, erano una specie di corazza resa rigida da uno
scheletro di ossa di balena o di stecche di canna d'India, rivestito di
panno nero fortissimo di castoro o d'altra stoffa meno pregevole, o di
colore caffè oscuro o scarlatto, secondo la possidenza e i tempi; spezzato
ed allacciato ai fianchi o alla schiena, con le maniche brevi sino ai
gomiti, allargate all'estremità come tromba, legate alle spalle con lacci o
con nastri serici e fiorati. Corpetto e maniche guarnite di zagana e di
cordoncini d'oro o d'argento, o di seta orpellati, su disegni di greche e di
fiori.
Il corpetto sorreggeva il seno in atteggiamento rigido e superbo e tra le
maniche di panno e il corpetto si espandevano ampollose e sgargianti le
maniche della camicia, artisticamente pieghettate e ricamate.
Un panno scarlatto o nero, rettangolare, e nei tempi più vicini a noi di
forma quadrato e piegato diagonalmente a triangolo, copriva le spalle, e la
parte superiore, a guisa di bavaro alzato fin sulla nuca, terminava
anticamente con due cordoni che stringevano graziosamente le due cocche sul
petto.
Grembiule largo allacciato sulla cintura, fazzoletto grande in testa, di
seta entrambi, scarpine con fibbie d'argento e monili completavano
l'abbigliamento di festa per le donne agiate; mentre per le poverette la
vantana, grembiule, era di rozza lana e per esse l'umiltà scalza era
simulata da sandali primordiali, di pelle naturale di pecora, tenuti fermi
da cordoncini di lana: questa era l'uniforme del bisogno e del lavoro,
conservata e ripulita per i dì di festa.
Le salme rinvenute in quest'anno nella chiesa madre, rifacendo il pavimento
davanti all'altar maggiore, per quanto mi viene assicurato, avevano
indumenti intatti e di poco difformi da quelli descritti: avanzi, dunque, di
costumi e di fogge non anteriori all'ottocento.
I ragazzi, poco dissimili da quelli di oggi, erano nei tempi ai quali
rimontiamo poco puliti e andavano spesso, scarmigliati e scalzi, nelle
tunichette bianche o turchine. Per i nostri ragazzi poveri la moda ha gli
occhi bendati e corre più veloce e non curante della dea fortuna.
I preti albanesi, così i primi Avianò e Sannazzaro, come i successori di
rito latino, i fratelli Don Lazzaro e don Lasilio Buscicchio, arcipreti, don
Antonio e don Vincenzo Caprarelli, si coprivano il capo con un berrettone,
nero, a tronco di cono rovesciato, detto callimachi; avevano capelli lunghi
e scinti, barba prolissa e fluente; indossavano una veste lunga ed ampia,
stretta alla cintura da una larga correggia di soatto con fibbia di acciaio,
una pellegrina con grande collare, che, arricciato e sollevato, dava alla
pellegrina foggia di mozzetta.
Fra gli odierni Albanesi di Vallona, delle montagne prossime e dei villaggi
lungo la Suscitza, nei villaggi di Wrainsta, Kallarat, Brata, Tirbaci e
Boliena, i matrimoni avvengono precocemente, all'età di quattordici o
quindici anni. La fanciulla è comperata, nascendo, dal padre dello sposo; se
lo sposo è ricco, può comperarne due. La donna è tuttavia considerata bestia
da soma ed è destinata a provvedere la famiglia di acqua e di legna; deve
ciecamente ubbidire il marito che, padrone di tutto e di tutti nella casa,
pub sferzarla a sangue e impunemente.
Come negli antichi tempi greci e romani, il capo di famiglia ha poteri
illimitati, è padrone della proprietà e della vita della famiglia, è giudice
in tutto il suo campo e di tutte le azioni famigliari, è arbitro nello
spirito e nel rito religioso: ma gli antichi greci e romani avevano nella
fede religiosa un freno potente ai sentimenti, all'arbitrio ed alle azioni.
I Coronei, qui venuti, si piegarono lentamente, senza grandi sforzi, alle
nostre consuetudini latine religiose.
La bigamia, come regola, rimase al di là dell'Adriatico; la famiglia si
costituì più solidamente, originata e santificata dall'amore spontaneo,
fortificata e sviluppata dal lavoro concorde. Fu accettato per unico rito
quello religioso e ai tempi del ministro Tannucci fu associato al rito
civile.
La sposa nei primi tempi, vestita di gala, con la chesa in testa, una specie
di turbante a corona, con cerchietto di legno all'interno, da cui scendeva
un ampio velo giallo di seta, che nascondeva la persona, era condotta dal
padre e dai parenti alla casa dello sposo; prima di entrarvi, si scopriva il
viso, traeva di sotto le vesti un vasetto con miele; vi intingeva le dita,
si ungeva la punta della lingua e le labbra, poi ungeva gli stipiti della
porta della capanna o della casa. Il padre chiamava a voce alta lo sposo che
si teneva nell'interno; lo sposo, appena invitato, usciva e col miele che
gli porgeva la sposa compiva lo stesso atto di lei.
Quanto significato in questa semplice funzione! gentilezza e dolcezza,
promessa di prudenza e di pace che la donna deve portare nella nuova
famiglia, promessa e compimento a cui lo sposo s'ispira e a cui attinge
conforto per sostenere le sue responsabilità.
Ai tempi romani, del poeta Catullo, ottantasei anni avanti G. C., la sposa
ungeva il limitare della porta con grasso di maiale o di lupo per tener
lontani i geni malefici; la donna da quel momento e per quell'unzione
prendeva il nome di uxor. A quei tempi, dunque, i geni malefici, attentatori
della pace domestica, eran temuti e tenuti d'occhio!
La festa nuziale era primitiva tra i profughi albanesi. Ai parenti ed agli
amici seduti in giro o in piedi si distribuiva nello stesso bicchierino un
po' di raki o di acquavite, simile alla grappa. Subito dopo s'imbandiva la
tavola, spesso senza piatti nè posate nè bottiglie nè bicchieri, con
piattoni ricolmi di carne di pecora arrostita allo spiedo, di grossi pezzi
fumanti. Tutti mangiavano senza pane, in religioso silenzio: si sentiva solo
il rosicchio. Bevevano prima del pasto, o anche durante il pasto, alla
stesso orciuolo; sul punto migliore, quando la forza degli stomachi avea
dato agli spiriti un certo rialzo, si costumava rompere sul capo degli sposi
alcune focacce calde, le pinte, su cui erano impressi disegni allusivi,
immagini di colombe, di uova, di vasi con fiori, e la rottura si
accompagnava con motti di spirito augurali per gli sposi, scherzosi e di
burlette per gli invitati. Subito dopo venivano distribuite le paste azime,
di farina di grano, senza sale, fritte nell'olio puro.
Chi aveva preparato il pasto mangiava gli avanzi.
Quando la capanna o la casa non era capace, tutti uscivano al largo, si
prendevano per mano e facevano il giro tondo. La sposa intonava una canzone,
«Nescìo», una specie di nènia, e tutti in coro cantavano con lei
Costantinne voghiglie se nontiniette gl'umbridie
Tidimbri etichecchie, martue buereimme
Erzanotte ed ezzaditte enlumideghie, luglimedritte
Curiant eundieuseta, bonni mamma ionna
Gasmipasci tribari ditrimma.
Nosmidi chi cuscive urori sod
Mosmipiet dibtadasmi, isetinusi a Costantini imma.
Ghintimi di curora
Ib sproniti cavaglimme
Haniapin glimbigliara simer curora para.
Mori vape e barde vape simiriri mori, e simirimori. (4)
Ecco tradotta la canzone epitalamica :
Costantino è andato per nove anni alla guerra.
Una notte ebbe un vivo sogno, che sposava la sua bella.
Si pose presto di giorno e di notte in cammino
per trovarsi allo sposalizio.
Dentro alcune vigne incontrò sua madre, a cui disse:
Buona mamma nostra.
Essa, non riconoscendolo, rispose:
Allegrezza tu possa avere bel giovinotto.
E Costantino: Sapresti dirmi chi sposa oggi?
Ed ella: Non mi rinnovare i dolori:
va sposa la fanciulla di Costantino mio.
Ah! potessi trovarmi in tempo a questo sposalizio!
Sprona il cavallo!
Giunto in tempo, Costantino fu riconosciuto dalla sposa,
la quale disse ai convitati : Lor signori mangino e bevano,
io voglio unirmi al mio primo sposo.
Bella giovine mia, bella giovane, mi fai morire, mi fai morire.
Quest'ultimo verso, di ritornello, era ripetuto dal coro.
Gli stanchi riposavano, gli altri li sostituivano fino .ad ora tarda.
Il canto è riminiscenza di guerra: è di rispetto al primo debito del cuore.
La fanciulla riconosce subito Costantino.
Il secondo sposo, licenziato, si rassegna, sia pur mal volentieri, perchè sa
che si rispetta la prima promessa.
Così la canzone. Sembra inverosimile in essa che la vecchia e dolorante
madre, col suo amore chiaroveggente e col suo intuito soprannaturale, non
debba, se anche china al lavoro e velata dalle lagrime, riconoscere il
figliuolo alla voce di tenero e commosso saluto: «Mamma nostra!». La madre
sola vede ed intende al di là del tempo e attraverso le forme mutate: il suo
amore è sole che non tramonta.
«Di mamma una sola, di spose cento» così ammonisce un detto volgare.
Nèscio non è parola albanese: sarà il latino Nescìo ignorare, non
conoscere. Se così usata la parola nel titolo, è per la madre che non
riconosce il figlio. Ed allora risveglia nella nostra memoria «Il
riconoscimento» del poeta viennese G. N. Vogl (5): canto popolare anch'esso,
ma quanto più naturale! Il giovane garzone, col volto abbronzato, a piedi,
polveroso, passa per la porta della città nativa; ma il diletto amico
doganiere non lo ravvisa. Scuote la polvere e va oltre, sotto la finestra
dell'amor suo che saluta con grazia; ma l'amante non lo riconosce. Si fa
mesto, più scuro e incede più lento. Vede uscir dalla chiesa una vecchietta
curva e canuta: sua madre. La saluta con un cenno del capo ed aggiunge: Dio
vi salvi. E la genitrice sua gli si avvinghia al collo e fa rifiorire con
calde lagrime il suo volto bruciato.
Ho copiata fedelmente da un antico manoscritto il canto di nozze e la
caglimera della pasqua, che si leggerà in seguito, e alle versioni in lingua
italiana, ho dato lievi ritocchi di forma per renderle corrette.
Non conosco la lingua nè alcun dialetto albanese, non avrei potuto assolvere
scientemente il compito. Mi son rivolto al chiaro grecista e orientalista
Dott. Giuseppe Gabrielli dell'accademia dei Lincei di Roma, il quale molto
gentilmente mi ha accolto, e per suo consiglio ho inviato i due canti
manoscritti alla Rassegna Italo Albanese di Palermo, diretta dal Dott.
Rosolino Petrotta.
Questi, pur scorgendo a prima vista le difficoltà, affidava il compito di
chiarificazione, al fratello professor Papas Gaetano Petrotta, di Piana dei
Greci, albanologo, discepolo ed ammiratore del celebre poeta Giuseppe
Schirò, che, nato il 10 agosto 1865 a Piana dei Greci, ove la colonia
albanese conserva quasi intatte le antiche tradizioni, e morto a Napoli il
17 febbraio 1927, dedicò la sua vita, il suo ingegno e le sue opere
preclare, .insieme al grande G. Pitrè, al nome, alle tradizioni e al culto
delle idealità politico letterarie religiose del popolo albanese, e le tenne
in alto.
Il professore P. G. Petrotta, ricercatore appassionato di documenti
linguistici albanesi, trova oscuri nella forma i due che gli ho mandato ed
attribuisce l'oscurità a corruzioni dialettali. Con tutto ciò non si
arresta: tenta come meglio può di portare i canti alla forma genuina,
tralasciando qualche frase intraducibile: (6)
1 Kostantini i voghégli se néndé vieté . . . . .
2 Te dimbri i keki, u martua e bukra imme
3 Ezza noté e ezza dité . . . . . . . .
4 . . . . . . . bonni mamma ionna
5 Gas mé patce . . . . . trimma
6 Mos mé di ti kush vé (k)uroré (mette corona) sod
7 Mos mé piet ti kta dasma, isht nusia e Kostantinit t'im
8 Té ghindem te Kurora (corona)
9 Ik spronite Kavaglinén
10 Hani e pini in bugliaré, se marr kurorén e paré (prima)
11 Mori vashè (vascè) e bardha vashè (e bianca giovane) . . . .
«Questo il Petrotta aggiunge è uno dei canti tradizionali delle colonie
italo albanesi: la variante è riportata dal De Rada, dallo Schirò e dagli
altri raccoglitori. Da noi ancora si conosce intera . . . . . . E una
bellissima ballata, quasi un poemetto.
Il frammento contiene lo schema del canto, oppure è residuo d'una variante
assai breve, in paragone del canto intero, intitolato appunto Costantino;
che è riportato in quasi tutte le raccolte dei canti tradizionali
italo-albanesi ».
Il canto nuziale che è ora in voga fra gli albanesi dell'Epiro accorda le
sue note alla quiete ed alla felicità che scaturisce dagli agi preparati
dallo sposo agricoltore e pastore, e si culla nel possesso di numerosi
armenti, nella fecondità di essi, nell'abbondanza e nella finezza dei loro
prodotti. La sposa superba sul suo muletto, avvolta nel suo lungo velo e nel
suo sogno radioso, si ritira dal freddo dei monti o dalla malaria delle
valli, si adagia sui fiocchi candidi e morbidi che fioccano dall'alto e
dalle mani di Allah grande, ed alla musica grave e solenne dei fiumi e dei
venti covre di baci il viso del suo morè, del suo amico, e gli sussurra
dolcemente che vuole restargli sempre fedele, così vicina.
«Pari con pari» diciamo noi e vogliam significare che il matrimonio deve
essere tra pari di condizioni sociali.
Il costume è molto cambiato, il nostro.
L'uomo non compera la donna. La sposa deve portare la dote in peculio o in
beni stabili, nel corredo che deve bastare per molti anni; deve portare,
innanzitutto, le doti di salute, di serietà e di buone abitudini al lavoro
ed al governo della casa. Per tutto ciò si pon mente alle qualità della
madre: « Cumm'è la vite è la magliola, cumm'è la mamma è la figliola» in
ogni caso; Oppure: «Figlia di gatta surice piglia» : trapasso di naturali
istinti, legge d'ereditarietà per la nostra gente.
Il periodo di fidanzamento, di circospezione e di riservatezza, quasi
sempre, dura sino a quando non sono appianate le difficoltà, se vi sono:
almeno sino ad approntare il corredo. La sposa deve prima terminare di
cucire « i quattro zivoli», cioè i quattro straccetti: conclude sospirando
la povera madre con l'amica che le chiede notizie.
Le pubblicazioni della chiesa e dello stato civile, e queste son lette da
pochi, rendono nota a tutti la promessa. Le nozze si effettuano di
preferenza quando la nuova casa è, in assetto e rifornita di provviste: di
carnevale, quando vi penzolano i salami freschi, di agosto o di settembre,
quando vi si è messo al sicuro il raccolto.
« Ohi nenna, ohi nenna,
dammi 'nu vase ca po' ti lu renne:
ti lu renne a 'u mese di giugne,
quann fann . . . , pere e cutugne».
Vase per bacio e renne per restituire. A giugno veramente no: nelle vene
dell'impaziente amatore in vernacolo vi è il fuoco e non vi è bisogno di
aggiungerne altro: il giugno scotta. Egli deve lasciar maturare le pere e le
melocotogne, deve attendere le miti arie settembrine, le feste della madonna
che son giorni di calma e di riposo: avrà buon tempo per ricevere e
restituire baci.
Le nozze sono un avvenimento per tutti del paese.
I parenti e gli amici hanno messo a nuovo i vestiti ed hanno preparato i
regali. Chi non è invitato o non voglia partecipare è un nemico.
Lo sposo con i genitori, parenti ed amici in corteo, va a prendere in
trionfo la sposa, che nella sua casa attende, inghirlandata e velata,
composta e silenziosa, il momento di solenne distacco. Piangente,
s'inginocchia, bacia i piedi dei genitori, o semplicemente li abbraccia, e
chiede perdono e benedizione. I genitori la baciano, la benedicono e con
parole di commozione l'affidano allo sposo. La sposa è condotta sotto
braccio al sacro rito dalla persona più onorevole fra i convitati: il
sindaco, o il medico, o il conciliatore, di solito.
Il corteo, una volta preceduto da suonatori di violini e di chitarre, è
annunziato e seguito da spari di fucili, di pistole, di petardi: un gettito
di confetti (cannellini), e negli sponsali di ricchi anche di soldini
(anticamente era di grano), mette una ressa ed un arruffìo di monelli tra i
piedi della folla. Archi trionfali di cortine ricamate e di fazzoletti
serici dai colori vivaci sono preparati lungo il passaggio. Gli sposi sono
accolti nel nuovo nido dai genitori dello sposo, i quali fra nuove
benedizioni promettono alla sposa di tenerla come propria figliuola.
Non più la celebrazione di sola domenica: il giorno e l'ora cambiano di
moda: l'anello pronubo rimane.
I salmi finiscono in gloria e le feste nuziali in banchetti, con dolci e
liquori, in rotture di bottiglie che voglion sembrar casuali e che sono
invece volute e significative, in brindisi liberi ed allusivi, in crapule e
balli, «Quatt . . . . zumpi» ci vogliono, «'na vota si spusa e 'na vota si
more».
Fra i dolci, al rinfresco, rimangono rituali le crustole: paste frolle, a
liste dentellate, ripiegate ed a spirali, di farina finissima di maiorica
(grano tenero e bianco) e uova frullate, fritte nell'olio purissimo di
olive, asperse abbondantemente di miele. Vogliono essere le tradizionali
focacce azime dei Romani e degli Albanesi antichi.? Può darsi.
«'U paccio fa la nozz . . . . e 'u savio se la gode» così sentenzia un
vecchio volpone.
Terminata la settimana vergognosa «'a settemana d'a zita», nella prossima
domenica si ripete la festa, con la stessa pompa, a spese dei parenti della
sposa, che è cacciata in santo, e dopo quel dì ha libera uscita, quale donna
che si è messa al mondo e con onore.
Quando non seguono liti per opposizione d'interessi, per diversità e
manifestazioni d'indole, o per inopinate pretese, prima che vengano i
figliuoli, tutto è giuoco di rose e la luna di miele dura parecchio ed a
bocca baciata.
Nel periodo acuto di emigrazione, avvenuto il matrimonio ed assicurato il
partito, seguivano la separazione di fatto, il pentimento e il pianto della
giovine moglie. Mi manderai a chiamare dall'America? mi manderai
l'etichetta? ed una nuova promessa di fedeltà e di ricongiungimento
detergeva le lagrime, ma lasciava dietro di sè timori ed incognite. Passato
'u tuonzo (il mare, in senso ironico ), come il Lete, il giovane avventuroso
manteneva la promessa fatta alla fresca sposina ? . . . .
La nuora, se adusata al lavoro, se preparata ad essere buona e prudente
massaia, alleggerisce il peso delle faccende alla suocera, che serba a se la
direzione della casa; ma se, per non smentire il proverbiale antagonismo che
nasce da due naturali e potenti gelosie, della madre che vede allontanare da
sè l'affetto del figlio e della moglie che vuole tutto per sè il marito,
divampano dissensi e litigi, oh, allora! . . , la novella coppia di colombi
si allontana dallo stormo e va a formare il suo destino con vita separata.
La donna maritata che ha casa a sè, anche per non farsi riprovare dalla
suocera, diventa quasi sempre interessata, laboriosa e premurosa. Mentre il
marito lavora, in campagna o in bottega, essa sbriga le faccende, attinge
l'acqua, fabbrica il pane, va nei giorni di sole al fiume o al vallone a
lavare i vestiti e la biancheria e a fare il bucato, se poverissima, vi
conduce i figli che, denudati, fanno un bagno di sole; a casa cuce, rattoppa
e rammenda, alleva i maialetti, mette la chioccia e cura il pollaio,
conserva i risparmi, porta la contabilità con tendenza economica e
stiracchiatura notevoli. Di regola è una vera provvidenza ed un freno al
marito, se spendereccio: con una più accorta e pratica preparazione
culturale possiamo fare della nostra donnetta un senno più misurato ed una
vera fortuna domestica. Le si dia, inoltre, una casa più comoda e più
civile, che si presti, cioè, ad una migliore pulizia e ad un più facile
assetto, le si dia acqua abbondante e si veda quanto vi sia di giusto o meno
nell'imputarle la trasandatezza della casa, la sporcizia dei figlioletti, e
nel ritenere tradizionale la sua indolezza.
«Casa ricca, donna savia» ripetono le donne a loro difesa.
Il nostro contadino ha fede nel lavoro e nel movimento: «Si nun si fatica,
nun si magna» «chi cammina lecch e chi nun si move secch ..» E scettico,
financo satirico, davanti alle false fortune: «nesciuno cu fatica pare» «chi
fatica ha 'na cammisa e chi nun fatica n'ha doi». Non si lascia, però,
sedurre da miraggi e lavora indefessamente dall'alba al tramonto; se lavora
nei suoi fondi, si contenta del solo pane e di scarso companatico: non è
scagliuttone, cioè ghiottone, goloso. La sua minestra solita è di ortaggi,
di patate o di legumi; di rado compera la carne fresca, di pecora o di
capra, e fa uso invece di quella secca, affumicata, di maiale, lessata quasi
sempre. I piatti che preferisce, e ben ricolmi; nelle solennità sono di
cavatelli pasta casalinga, come gnocchi conditi copiosamente di formaggio
pecorino e di sugo di pomidoro; sono di minestre verdi, di cavoli, di
cicorie, d'indivie, maritate riccamente di guanciale, di salsicce e di
prosciutto. Gli piace il vino sincero e lo beve a garganella nel fiasco o a
gorgate nell'orciuolo; ma quando non ne ha, non si rammarica troppo: tutt'al
più sospira ridendo ed asciugandosi il sudore col dorso della mano: « . . .
. 'na stizza d'aglianico ci vurrìa! Pane e vino vita d'omo».
Non ha casa nel podere: va e viene quotidianamente, quando piove e quando
nevica. « Nun piglia lipp nè juorn . . . nè notte» e nei periodi più
laboriosi va «cum 'u zaccone supa l'acqua». Ara, zappa, falcia, miete, passa
dal campo alla vigna; fa le ritenne, scambio, cioè, di giornate di lavoro
con i suoi compagni e ripete: «..mpresta pane a chi tene farina». Nelle
giornate in cui il tempo minaccia e nelle primissime ore dei giorni di festa
va al bosco col suo muletto per legna, o porta qualche soma di letame al
vignale o di grano al mulino: ma torna in paese per l'ora della messa.
L'artigiano ha press'a poco la mentalità e le consuetudini del contadino, da
cui è stimato e con cui se la intende benissimo.
Quando non lavora in bottega, colma i vuoti con qualche occupazione
nell'orto, nella vigna specialmente. Però l'artigiano entra più spesso
nell'osteria: un tressette di siesta o di vespro è quasi di prammatica. «Il
comodo fa il ladro» : la prossimità dell'osteria e l'invito d'un diavolo
girandolone lo tentano: non sa resistere, la tentazione viene da «
'nu
galantomo» che ha sete ... e come gli si può dir di no? ... anche per
rispetto! ... Spontaneamente non si metterebbe in mezzo ai «galantuomini»
«int'a li puorci gruossi».
Le donne non vanno a bere all'osteria: desterebbero scandalo. Qualcuna fa
capolino, ma per chiamare il marito, e gli usa precauzione e garbo, se ne è
meritevole; se no, gli fa una scenata, gli lancia ad alta voce, sdegnata, la
sua tremenda sentenza: «Omo di vino ciento a carlino» .... non val mezzo
centesimo.
Il nostro operaio stringe i soldi nel pugno quando spende, è un tantino
avaro. «Tieni quann ài», oppure «stipa ca truovi» : così ammonisce sè stesso
e si trascura persino nelle vestimenta.
Il Brindisino puro sangue è gelosissimo delle sue donne: molto ha ereditato
dall'Albanese che considera la donna una vera intangibile ed invulnerabile
proprietà, e della moglie e delle figlie conta i passi e i respiri. E quindi
sospettoso; ma il sospetto non lo guasta: lo fa previdente: «à ddu nun vai,
salva riesti» avverte la giovinetta, se invitata.
L'Albanese punisce l'adulterio, anche oggi, col taglio del naso. Se il
tradito ha sangue, freddo e sa raccogliere le prove dell'infedeltà, ottiene
dai parenti dell'adultera una cartuccia vendicatrice pel suo fucile. E il
Brindisino sa covare l'ardore nell'animo, a lungo, e sa domare lo strazio:
attende, la palla al balzo, «a padd .. o singh», e qualche volta «muzzic' a
citt ...» morde silenziosamente, quando tutto sembra dimenticato.
Come l'Albanese, agli amici veri nulla nasconde e si tiene a distanza dai
nemici: o amici o nemici, non vi è mezzo termine: «chi non è con te è contro
di te».
La simulazione dei modi e degli atteggiamenti richiede un animo raffinato.
La madre «va ardenn pe' figli», li ama seriamente, lavora ed è capace di
compiere per essi qualunque sacrifizio. Di solito è severa; ecco le sue
massime fondamentali di educazione: « Vasa i figli ... nsuonn Chiegh'u
vinghiettiell quann'è teneriell Mazz' e panell fann' i figli bell».
E se alcuno, sia o non sia un conoscente, dà per semplice correzione qualche
scappellotto ad un monelluccio e lo fa piangere, aggiunge questo ritornello
«.... abbuscica (7) e porta 'ncasa e dici a mamma ca so' cirase».
I figli hanno una grande influenza, come avviene in generale, sulla condotta
morale della donna madre, anche quando il marito è in America da lungo
tempo; essa è tutta dedita ai figliuoli che poi le son grati: molto molto
difficile che non pensino a lei, pur avendo altri doveri ed altri serii
grattacapi. E che figli! ... e che miracoli di amore di gratitudine e di
redenzione sanno compiere!..
Il rispetto ai genitori è condensato nelle sentenze: «Chi maltratta l'attane
e la mamma fa dispett'a Dio» «Chi maltratta o nun sente la mamma e lattane
fa la fine de li cani».
Con tutto ciò ognuno è convinto che l'amore scende e non sale, che
«'n'attane e na mamma manteneno ciento figli e ciento figli nun manteneno
'n'attana e na mamma».
In generale la parentela è tenuta molto di conto: «tagliami e sminuzzami,
jettami nmiezz'a li mei». Si ha fiducia nel proprio sangue : «'u sanghe nun
si po' fa acqua». I parenti si uniscono e si difendono, si condividono
rancori ed amicizie: tranne nei contrasti per eredità e per altri forti
interessi.
Le persone del vicinato son tenute in considerazione di parenti, ed a volta
di più. I vicini si aiutano a vicenda, fan gara ed accorrono nei bisogni, ad
ogni lamento e ad ogni grido; si assistono nei casi di malattia, si
scambiano favori e cortesie, acqua, pane, minestre, utensili; la negazione e
il rifiuto son causa di ammutinamento. Si conoscono tutti i segreti e si sa
di doverli serbare a bocca cucita: la debolezza è subito rinfacciata : «nun
sai tenè tre ciceri mmucch ...».
S'intende, la lingua della donna è sempre quella che è: un'arma affilata e
irrequieta, facile a ritorcersi; ma l'uomo di poche parole, prudente,
l'avverte: « ... si a ogni preta pietra vuo' mitt u' pede! ...» non
toccheresti mai la meta: così vorrebbe completare la frase.
Lavoratore sì, ma non molto intraprendente: i vicini trivignesi e vagliesi
gli danno molti punti al riguardo. Il nostro uomo è rimasto un po'
speranzoso e sognatore, dobbiamo confessarlo. Di coraggio non gli manca: va
solo, di notte, nei boschi, tra il nevischio, sotto le bufere, non s'arresta
mai; ma non ha spirito d'indagine e spigliatezza di difesa; la sua donna, in
compenso, sbroglia le matasse con disinvoltura e gli fa da paracadute nei
negozii.
Appunto perchè geloso dei lari domestici e dei termini lapidei, perchè
disposto a non dimenticare, non può essere proclive all'invadenza e
all'appropriazione, e non lo è.
Sensibile e non impulsivo, non provocatore nè sanguinario: «nun va' truvann:
morte levamimm ..».
E abbastanza rispettoso e ricorda i benefizii; si disobbliga come può, con
le primizie dell'orto e della vigna, con una fiscella di ricotta, con un
canestrino di uova fresche o di funghi di stagione: una volta offriva anche
polli e capretti, ma ora .... costano troppo! ora che tutto costa quanto
l'occhio destro, offre umilmente .... « u' buonu core».
Della giustizia umana ha scarsissima fiducia; è scettico : «... senz'u'
licch .. non si fa niente», cioè senza l'offa; oppure dice: «vieni ca
vegne», ed equivale al latino do ut des.
Lo scetticismo sembra un avanzo dei tempi albanesi, .... di diffidenza greca
o turca, e di tempi più recenti, di quelli borbonici, quando si prezzolavano
senza scrupoli la giustizia e la polizia, e il comprarla, quando si avevan
mezzi, era una necessità di difesa e di salvezza.
Conviene insistere, con l'esempio più rettilineo e col governo più
disinteressato, per formare il senso di fiducia nelle leggi positive e nella
giustizia civile, amministrata da persone illuminate, equanime, serene,
sicchè ognuno debba, convinto, ripetere: «È la vilanza di S. Michele» che
era un santo rispettatissimo dai nostri antenati.
Gli originarii albanesi, bellicosi e focosi, portarono seco e mantennero
nell'animo, negli atti e nelle armi, come impegno d'onore, il dovere e il
diritto di farsi giustizia da sè. Una offesa grave ricevuta, nell'onore o
nella persona o nella proprietà, doveva farsi scontare a caro prezzo: occhio
per occhio, dente per dente. Gli Ariropoli, gente di condizione elevata, non
si facevano posare la mosca sul naso: vita per vita.
Una volta entrati in sangue, gli Albanesi, su una decisione dei vecchiardi,
dovevano finire la tragedia nel sangue; ai parenti delle due parti, o, in
mancanza, agli amici più intimi, era commesso il mandato di esecuzione, di
giustizia punitiva. Così per punire l'usurpatore dei confini della proprietà
o il ladro di pecore e di buoi.
Non era raro il caso che per liti o per furti qualcuno si desse alla
montagna, armato fino ai denti.
La popolazione, mescolata ad italiani bonarii, resa mite dalle donne e dal
clima dei nostri luoghi, guidati con la persuasione e con la fiducia in Dio
da un clero onesto, savio e vigile, dimenticó via via le tradizioni e
modificò i propri sentimenti, rifuggì dal sangue e dalla rapina. Mentre
prima compiva la vendetta con la fronte alta, verso il monte ove credeva di
vedere splendere fra le nubi il volto di Allah appagato, perdonava poi, e
perdona quando può, con la fronte dimessa.
«Sia fatt .... pi l'amore di Dio! ...» : esclamazione che significa un calmo
dolore, ira domata e fiducia nella gran legge del compenso, che è di
giustizia indefettibile, sovrumana: «Oggi a me, domani a te» per conseguenza
logica delle cose, indefettibile.
Fino al 1727 i confessori della chiesa erano greci: tra essi ricordiamo don
Michele cantore Plescia, don Biagio Bellezza ed altri; la confessione si
faceva in lingua albanese. L'arciprete don Gerardo Amati (1727 1766), il
correttore rigido dei costumi pagani più volte ricordato, demolì e disperse
ogni avanzo di costumi e di riti greci, di arredi e paramenti sacerdotali,
così nelle cerimonie civili, che in quelle esclusivamente sacre: nelle
nascite, nei battesimi, nelle nozze, nei funerali, nella sepoltura, financo
nei modi di piangere i morti e nella disposizione della chiesa.
L'opera demolitrice dello zelante arciprete e di ricostruzione latina era la
caratteristica dei tempi (8). Mentre «oggi, per saggezza lungimirante della
Santa Sede, in vista dell'auspicata Unione delle Chiese Orientali,
l'avversione della Gerarchia latina contro il rito greco nel seno della
Latinità non ha più favore nè luogo; si guarda anzi con rispetto, con
benevolenza e simpatia, ai resti di esso, alla possibilità d'una locale
restaurazione là dov'essa sia utile e desiderata» (9).
Ormai, fra noi, è tutto soppiantato e non rimane che il ricordo.
Dal 1730 in poi, per il mantenimento della chiesa madre ogni abitante, d'età
non inferiore al dodicesimo anno, a titolo di decima pasquale, corrispondeva
al parroco un quarto di tomolo di grano, dieci carlini in denaro per
assistenza ad un moribondo e per una messa cantata. Per ogni sposalizio
spettava al parroco un compenso di cinque carlini, una gallina ed un
moccaturo (fazzoletto da naso) e per lo sposalizio in casa il compenso si
raddoppiava, mentre per ogni pubblicazione il compenso era di soli cinque
grana.
Gli sposalizii ora sono più sbrigativi: senza grano, senza grani e senza
moccaturi; tutto è compreso nella congrua parrocchiale e vi pensa lo Stato,
a cui preme di moltiplicare le sue unità con le nascite.
S'intende: anche senza l'uso del moccaturo bisogna «toccare' 'u nasu» e
portare «'a fede di vavone» per guadagnar tempo. La fede rilasciata dal
nonno, secondo l'uso antico è la gallina, ed è così detta in senso
scherzoso. Se non si unge l'asse, anche quello ecclesiastico, la ruota non
gira .... Tutto il mondo gira così ...
La venuta alla luce di un bambino è accolta con giubilo, mentre la venuta di
una bambina è accolta con sospiri di malinconia: «ste femmine ... che veneno
a fa'? ..». E per rispondere al quesito segue una grattatina di testa, in
cui germina il pensiero della dote.
La morte naturale è considerata come il termine di tutte le fatiche e di
tutte le sofferenze: «vene l'angelo e dice: amen» « meglio è arricettà
lossa!»
Quando colpisce un capo di famiglia, una madre di numerosa prole, un
benestante che potrebbe goder la vita, allora sì, è bene esclamare: « guai
cu la pala e morte mai».
I bambini che muoiono son tanti fiori che si mandano a Dio per abbellire il
giardino del paradiso. Se un bambino muore senza essere stato battezzato,
rimane nel Limbo, di dove lo potranno trarre solo le continue preghiere,
senza lagrime.
Come tra i Romani antichi, la famiglia si raduna intorno al moribondo; nel
momento in cui cessa di vivere, il parente più vicino lo bacia sulla bocca,
come per raccogliere lo spirito fuggente, quindi le amiche del vicinato si
affrettano a chiudergli le palpebre e la bocca, prima che s'irrigidisca; gli
lavano il viso e le mani, lo vestono con gli abiti migliori, lo aspergono di
essenze (una volta lo ungevano con olii profumati) e lo espongono su un
letto con i piedi rivolti verso l'uscita.
Si lascia il cadavere per un giorno e una notte in casa con le finestre
aperte: lo spirito non si diparte immediatamente, ma aleggia sulla salma,
fra gli oggetti famigliari e fra i parenti. Tutti piangono a voce alta,
straziante, le donne sciogliendosi i capelli, e i parenti, come giungono
alla spicciolata, piangono anch'essi a voce alta rievocando particolari
tratti della vita dell'estinto nei propri rapporti, e chiedendogli perdono
anche di lievi dispiaceri datigli in vita, o affidandogli il saluto per
altri cari morti di recente. È l'ultimo viaggio!
Ai funerali d'un adulto partecipano quasi tutti del paese, i contadini e gli
operai sospendono il lavoro. I giorni di lutto son pochi nell'anno,
fortunatamente.
I parenti e gli amici più affezionati portano per più giorni alla famiglia,
addolorata ed accasciata, «'u cuònsulo» (nome derivato dai verbo consolare):
consiste in caffè, cibi scelti, compagnia, conforto e aiuti.
Il lutto dura mesi ed anni, secondo il grado di parentela, ed è
nell'espressione addolorata e chiusa, nelle gramaglie e nel tenersi
appartati e lontani da ogni riunione e manifestazione collettiva. I
contadini non si radono la barba, non si tagliano i capelli, non si cambiano
i vestiti e la biancheria durante il lutto.
«Chi more se ne vai é pi chi resta so' li guai »: è la rima di strascichi
dolorosi.
Nei primi tempi albanesi i parenti dovevano formare con ciuffi di capelli
che si strappavano alcuni mazzetti per empire le mani del cadavere, che se
li portava in sepoltura. Nella notte successiva al decesso la porta di casa
doveva rimanere spalancata, per far entrare sotto forma di farfalla, o con
altre sembianze, l'anima esalata: la famiglia vegliava ed attendeva.
Chi moriva di morte violenta era lasciato per più giorni insepolto; gli
cantavano d'intorno canzoni misteriose per alleggerire lo strazio e lo
spasimo che lo spirito ancora soffriva. Un tale della famiglia Bodino,
famigerato bandito, fu sorpreso e soppresso dalle squadre del Tribunale di
giustizia nella contrada di Caprarizza, allora di boscaglie; fu per molti
giorni esposto, sospeso, alla cima del Serro, nel punto ove è piantata la
croce per tal nefasto ricordo. Parenti e connazionali in quei giorni non
fecero che cullarlo e cantargli lamentevolmente misteriose canzoni.
Nei primi tempi, nel seicento, i sacerdoti morti si portavano seduti in
sedia, con paramenti sacri, in giro pel paese. Anche tal costumanza non
parve di ossequio alla dignità sacerdotale, e l'arciprete Amati l'abolì
disponendo che la salma fosse distesa nella bara e portasse il calice tra le
mani durante il funerale.
Gli Egiziani gli Ebrei e i Greci portavano anticamente sulle tombe dei loro
cari cibi e bevande da questi preferiti in vita. I Romani nel nono giorno
dopo il funerale, novemdalia, costumavano un sacrifizio con un pranzo
funebre presso la tomba, cena feralis, o nella casa del morto, ove
convenivano molti ospiti. Da noi, nella notte che precede il due novembre,
fino a pochi anni addietro, venivano cotti, in gran copia, in un sol
calderone, legumi di diverse qualità i cuccèi e si distribuivano a tutti
coloro che si presentavano, imbacuccati, a chiederli: «dammi ... du' cuccei
pi l'anime du' purgatorio ...».
Rimane, poi, 'u cuònsulo invece della cena feralis.
Le pompe funebri con riti religiosi devono essere state sempre a cuore del
paese, che ha ritenuto la santità della morte e il suffragio delle anime
come una necessaria congiunzione ed elevazione degli spiriti fra i due
mondi: di passaggio e di falsa luce l'uno, eterno di verità e di chiaro
splendore l'altro.
Le confraternite religiose e le società operaie ebbero nelle loro regole
fondamentali l'assistenza ai moribondi e le pompe funerarie: potremmo,
quindi, chiamarle le compagnie della morte.
lll
NOTE
(1) In lingua nazionale albanese skip significa montagna.
(2) Mare e terra di Gorfù N. Tommaseo.
(3) Da i «Canti popolari greci» Trad. di N. Tommaseo.
(4) Il lettore vedrà quanto è detto intorno alle forme dialettali. L' A.
(5) Visse dal 1802 al 1866, nel periodo romantico: autore di romanze,
ballate, leggende, canti militari.
(6) Per la pronunzia, avvertenze del Prof. Petrotta:
é e muta francese, presso a poco: suono usali comune in albanese;
sh sc suono dolce italiano, come in scemo, con tutte le vocali; sh inglese;
k suono duro della c con tutte le vocali: ka (ca), ke (che), ki (chi), ho
(co ), ku (cu);
kj chi, come in chioma italiano: kja, kje. kji. Kjo, kju;
dh come d in candido; come D in greco moderno.
Le altre consonanti e gruppi si leggono come in italiano,
(7) i poco si pronuncia, appena per rendere dolce c.
(8) Bisogna leggere quanto ha scritto al riguardo I. A. Primaldo Coco nello
studio storico critico Casali Albanesi nel Tarantino (Estratto dal Roma e
L'Oriente).
(9) G. Gabrielli «Gl'italo greci e le loro colonie».
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