SPIRITI POPOLARI E RELIGIOSI
Gente così provata dal tragico destino, così fiera nelle lotte per la vita,
così pensosa davanti al mistero sacro della morte, diventò via via festaiola
non poco: tanto che si ebbe la qualifica di allegra e spensierata.
Gente allegra il ciel l'aiuta: del resto, dopo vicende dolorose di fughe, di
adattamento, di fatiche costruttive, venne il periodo di sicurezza e di
gaudio; e sotto un mal governo di re, che largheggiava in feste farina e
forca, non rimaneva che affidarsi alla protezione dei santi e prodigarsi in
feste in loro onore.
IL NATALE, fra gli avvenimenti che si solennizzano in tutto il mondo
cristiano, è rimasto nella sua commovente semplicità col presepe
d'asparagine, col digiuno della vigilia, con i regali di capponi di vino e
di frutta, con la cena di magro, di paste fritte, di baccalà, di peperoni
sott'aceto e di vino bianco, con la veglia che raduna famiglia e vicinato
intorno al ceppo messo al fuoco dai due più vecchi della casa, perchè vivano
ancora e siano i genii tutelari della fortuna domestica; è celebrato dallo
scampanio della messa e dalla stella di mezzanotte.
Rimane il buio pesto ed algido della notte, che al segnale delle campane è
rotto dai bagliori e dai guizzi di fiaccole enormi di asfodèli secchi
affastellati, portate a spalla da chiassosi foretani: pastori, caprai,
bifolchi, giovani che vivono quasi sempre in campagna e tra i boschi. Se il
bambinello divino porta con sè il lenzuolo candidissimo di neve, il Natale è
più bello e più caratteristico, e la fiammata, il desco e il vino arzillo
raccolgono la famiglia nel più tenero ed intimo gaudio.
E i nostri cantano:
«'U juorno di natale bella festa principale
nasce nostro signore inta 'na povera mangiatora:
'nu voio e 'n'asiniello S. Giuseppe 'u vecchiarello.
S. Giuseppe fu' chiamato la Madonna 'ncoronata.
Viva Gesù , viva Maria evviva S. Giuseppe ' ncompagnìa ».
Negli ultimi giovedì e negli ultimi tre giorni di carnevale, fino al 1770,
si soleva portare in giro pel paese un nuovo guindolo (in dialetto vìnnulo)
un anno dai massari di campo ed un anno dai contadini braccianti,
alternativamente. Il guindolo era infilato ad una lunga verga, avvolta in
fasce colorate; da esso penzolavano in giro conocchie, matterelli,
cucchiaioni, forchette, nastri e fiori artificiali, alla rinfusa. Il trofèo
dell'allegria e della baldoria aveva dietro un seguito di suonatori di
cornamuse, di pifferi e di tamburelle, di altra gente che emetteva grida
scomposte di gioia e portava, fattasi sera, numerose fiaccole accese. Nei
larghi delle strade, il guindolo, tratto dalla verga, veniva piantato sul
terreno e messo in moto velocemente, mentre i suoni e il chiasso crescevano
tra un vero baccanale.
Il carnevale è morto... pare per sempre. Anche prima dell'abolizione e della
serietà fascista, anche prima della guerra erano dileguate le maschere
d'ogni paese e i balli e i mattacchioni.
Rimane per noi il triduo, introdotto dall'Arciprete Amati, per le ultime
sere di carnevale, con l'esposizione del SS. Sacramento e la recita d'una
coronella dedicata alle anime dei morti: funzioni a cui partecipava una
volta il fior fiore del paese.
Lo stesso arciprete Amati istituì, il 15 aprile 1753, l'esercizio della via
crucis, serbato alle ore pomeridiane e ai venerdì della quaresima. Nella
notte successiva al sabato mandava in giro un sacerdote che all'imboccatura
dei vicoli scuoteva un campanello, svegliava i dormienti ed a voce alta
cantava:
Oggi in figura, domani in sepoltura:
Beato quel corpo che per l'anima si procura.
Pensa che hai da morire,
Non sai quando, non sai come, non sai dove.
Un pater, un requiem alle anime sante del Purgatorio.
Il richiamo notturno al pensiero della morte si ripeté per anni e per anni,
fino a quando .... non sappiamo. A memoria nostra, la notte che precede il
riposo domenicale non è turbata dallo spettro della morte, se non quando
.... la morte s'affaccia per davvero.
I nostri Albanesi erano già passati dal digiuno di quaranta giorni, detto
Ramadam, durante i quali non dovevano mangiare né bere dal levar del sole al
tramonto, e l'avviso veniva dato dallo scheu, con un corno, dall'alto di una
rupe o di un minarèto, alla nostra quaresima di penitenze, di preghiere di
salacche di baccalà e di rape a base di olio.
Nella notte fra il venerdì e il sabato precedenti la domenica delle palme
quattro uomini, tra i Coronei e i Croiesi più probi, con un codazzo di
compagnoni, si presentavano in tutte le case, anche di famiglie non
connazionali. In ognuna cantavano la cagli mera o cali iméra (1), un canto
augurale che concludeva col chiedere doni: pane, vino, uova, galline ed
altro ben di Dio.
La cagli mera, come ogni altra usata composizione poetica albanese, era
cantata da due paranze a piena voce: la seconda replicava la strofa cantata
dalla prima, ma con vario tono, sicché produceva difetto in chi intento
ascoltava.
Nel 1790 un bel vecchio, Carmine Truppa, di origine albanese; così dettava
la Cagli méra
Miri Brumne, e mirinessiridith nesciridith
egnidittemire scihscit Sintigliazzare fun mire.
Dei e dei guietre diete mire cistaglis atabare ditte
vasce achiavattete ectabuttusitrimma
Vasciti nagliosne grich e scrich, ettrimatiglianosne
e ripirchiacque.
Morimì, frinignesi, e gnivoresi, zorecriate gagna
parafice, disdecth mi scantaglissi.
Morimi pasci equi capiglie boglie, menetimiehisce
Cristo foli Barra.
Vantinegliematisce trenta figlie, ghini promamuschiacche.
Greu greu tiso gniostipise, greu permirisi, e scirmirisi;
en en diette cocchiene
Custutarusce ataburre cicche duriditiglia, timabanchisotti.
Pes ducat, egniuz vere, duritiglia . tinabisogna, pespeth
tegniscosce me.
Greu permirisi, e scimorisi, bifch vere e scamburremino niglium.
Bifch grure scambigliom nicatunth, cagli carria.
Sante Gliazzare, e Sante Gliazariste, gren sogne, e si ripughe bibiscth.
Ecco quello che significa, secondo un antico manoscritto:
Sia buona stasera e meglio dimani: dimani veramente bello, chè nasce S.
Lazzaro affatato.
Da giorno in giorno sia sempre migliore la giornata, affinché tutte le genti
di tua famiglia si vestano bene nella processione della domenica delle
palme.
Per fare anche i preziosi balli alla Scanziata, le figliole con nacchere,
portando gli uomini sopra il loro collo appoggiati.
Affacciati alla finestra, non aver paura che il vento ti ventili i capelli,
sebbene rompa i rami degli alberi.
La signora padrona della casa, gravida, sta tutta ornata di panni finissimi
e preziose biancherie.
Ella, la signora, tiene il grembiule pieno di rose ed il petto pieno di
viole.
Alzati presto, signora della casa, per amore di Cristo e della Madonna, e
vieni a darmi dieci paia d'ova.
Dio ti guardi tutti gli uomini che tieni in casa, di tua famiglia, o
signora, dacci tu:
Cinque ducati, un barile di vino, e tu signora, dacci cinque fuccilatelli
(ciambelloni) ed un crivo di ova.
Via, alzati per amore di Gesù Cristo e della Madonna; possa fare tanto vino
quanto ne può menare una fiumana;
Possa fare tanto grano, quanto si abbondi tutto il mondo; via, sbrigati e
dacci tutto.
Santo Lazzaro è stato, e Santo Lazzaro è un gran santo, e per suo amore,
signora padrona, alzati, afferra una gallina per coda, e daccela.
Il Professore P. G. Petrotta, dianzi nominato, ha così trovato il canto in
lingua albanese:
Caglimera (buon giorno),
1 Miré mbréma e miré nestré dité. Nestré dité é gné dité e miré: shihshit
(pafshit) shén Gliazzarin fan miré.
2 Dej e dej gnetré dite e miré, cé stoglis .....
3 Voshat na gliosné ngrikj è shkriki e trimat na gliosné e zé perkjafé.
4 . . . . . . frin gné . . . . e gné voré.
5 . . . . . pash gnè kopiglie . . . . . . barra.
6 Vantineglia . . . . trentafiglie, ghini pro manushakje.
7 Ngreu ngreu ti zogné e shtipishé, ngreu pér mirési e Shén Mérîs; en en
dhieté kokje vé.
8 Krishti té ruashit até burré cé ké, duritiglia ti na bén ghié sot.
9 Pes dukat, e gné vuz veré, duritiglia ti na bén, zogné, pes peta te gné
shoshé me (vé).
10 Ngreu per mirési e Shén Mérîs, béfshé veré . . . . . gné glium.
11 Béfshe gruré sa mbuglion gné katunt . . . . .
12 Shén Gliazzari, e Shén Gliazzari isht, ngren zogné, e zé gné puglié pér
bisht. (2)
Il significato, nell'insieme, è quello già espresso.
Il professore Petrotta, e gli son grato per avermi consentita l'inclusione
dei frutti di sue ricerche nel presente volume, attesta che anche questi
versi son frammenti di un popolarissimo canto tradizionale albanese e italo
albanese, che celebra la resurrezione di Lazzaro. E così li commenta: «E
antica costumanza albanese cantare il miracolo evangelico nella notte dal
venerdì al sabato precedente la Domenica delle Palme, che è ricordata nella
traduzione, ma di cui non mi riesce di trovare le corrispondenti parole nel
testo. Nel sabato precedente le Palme la chiesa greca commemora con
solennità il grande miracolo di Gesù Cristo. Ma questa che si presenta nei
frammenti di Brindisi di Montagna è una variante assai distinta dai canti
che si ripetono tutt'ora e si conservano interi nelle nostre colonie siculo
albanesi: molti sono, però, i punti di contatto».
. . . E nel giovedì santo si offrì la cena agli apostoli. Vige ancora questa
antica usanza.
La Cena è apparecchiata in chiesa, davanti al sepolcro di Gesù, addobbato
per la circostanza. Siedono intorno al tavolo, coperto di lini candidi,
dodici poveri, ed ognuno ha davanti, su di un piatto, un pane di maiorica
fresco e fragrante; l'arciprete, a capo, funziona da Gesù, si alza e lava i
piedi ai discepoli, benedice i pani, non solamente quelli che sono in
tavola, ma tutti gli altri che insieme a ciambelle e biscotti fan bella
mostra in canestri sparsi per la navata, e in fine distribuisce i pani della
cena.
La quale è fatta a spese della famiglia Bellezza (Rizzino), che la istituì,
secondo la tradizione orale, a perpetuo ricordo d'un miracolo.
La famiglia aveva, per la abituale munificenza e in una annata di scarso
raccolto, esaurite le sue riserve granarie. Un giorno la signora padrona
s'affliggeva di non poter dare un tozzo di pane in elemosina; entrò nel
magazzino e con sorpresa e gioia vide un cumulo di grano che si formava sul
pavimento, scorrendo dal granaio rigurgitante . . . . . Ma questi son
miracoli d'altri tempi!
Angelo Guarniero, sarto e negoziante, venuto da Padula, avendo sposato
Margherita Canadeo, mise su casa a Brindisi. Fece scolpire le belle statue
della passione da Giovanni Maria Netri di Albano ed introdusse la lugubre
processione notturna, tra il giovedì e il venerdì santo, con quelle statue,
col popolo scalzo e coronato di spine. Dal 1780 la processione non venne più
fatta a notte innoltrata, ma di buon mattino nel venerdì, e di notte si
fanno ancora le visite al sepolcro e le gite al calvario.
Anticamente, nei tre giorni successivi alla Pasqua di resurrezione, una
comitiva di tre persone soleva prendere un giovanetto, od una giovanetta, di
buona famiglia e portarlo, seduto su una sedia, in giro per le case; due
uomini andavano con la portantina ed uno compiva l'ufficio di cercatore di
uova, salsicce, proscìutto e di altro tenuto in pregio per la solennità. In
ultimo i tre se ne facevano la spartizione. E al giovinetto . . . ? nulla .
. . L'usanza si chiamava del ricatto!
La consuetudine è variata nel linguaggio: in sostanza . . . la finalità è
quell'antica. I canti i suoni e la cerca delle uova continuano dalla sera
del sabato santo alle ore piccole della notte. Una volta i suoni erano di
zampogne di tamburelle e di nacchere e i canti di stornelli augurali
laudativi e gentili, intercalati da voci di gioia rumorose; ora non più
zampogne, ma fisarmoniche e canti che voglion essere moderni e sono
un'aritmica e discordante tiritela. Menomale quando suona il povero Tony ! .
. .
Fra le antiche e caratteristiche costumanze festaiole dobbiamo ricordare
quella del 24 giugno.
Nel giorno di S. Giovanni Battista si esponeva nella strada dalle donne del
vicinato, sopra un altarino eretto ed addobbato, come tuttavia si fa in
altre feste, una coppa di germogli allungati, d'un verdolino chiaro, ed
erano di orzo cresciuti al buio ed esposti alla luce qualche giorno prima.
Si divideva la strada con lenzuoli di puro lino, stirati e fragranti di
bucato, sciorinati e tesi a guisa di sipario.
Due paranze di giovani donne, le più belle e graziose delle concorrenti,
vestite di gala, coi migliori ornamenti, con la chesa in capo, al suono di
violini e chitarre e cornamuse, si partivano al di qua e al di là dei
lenzuoli e cantavano in due tempi: in modo che la strofetta cantata dalla
prima paranza era subito dopo ripetuta dalla seconda.
La canzone, detta coronella di S. Giovanni, trascrivo in vernacolo
dell'ottocento.
1 La coronella mia di S. Giovanni è già cresciuta ben polita e grande:
Maronella, maromà.
2 La coronella mia di S. Vito è già cresciuta grande e ben polita:
Maronella, maromà.
3 La coronella mia non è d'avena, ma è di rose della bella Elèna: (3)
Maronella, maronà.
4 La coronella mia non è di veccia, ma: di rossìa venuta di Leccia: (4)
Maronella, Maronà.
5 La coronella mia di S. Giovanni è cresciuta ben polita e granne:
Maronella, maromà.
6 Sia tu il benvenuto che venisti, come le rose nelle canestre: Maronella,
maromà.
7 Sia il benvenuto e passa 'nnante, seduto in seggio com 'nu gigante:
Maronella maromà.
8 Metti mano alla borsa dell'oro e poi regala a noi un gran tesoro:
Maronella, maronà
9 Metti mano alla borsa di seta, dove troverai 'na gran moneta: Maronella,
maronà.
Le paranze si confondevano e ballavano con i più bei giovani presenti. Se
gli ascoltatori regalavano loro delle monete, i balli seguitavano e si
alternavano ai canti gentili e laudativi, ad altre espressioni augurali e
complimentose; ma se gli spettatori facevano finta di non intendere la
musica, la canzone si cambiava in eruzione di vituperii e d'ingiurie, come
le seguenti:
Lasciate ire sta barba di cucco che sino alli piedi gli cala lu mucco:
Maronella, maromà.
Lasciatelo ire all'acqua abbasce, come lu ciuccio quanne l'erba pasce:
Maronella, maromà.
Lasciatelo ire sempre all'acqua a monte, acciò si pozza rompere la fronte:
Maronella, maromà.
Pezzo di bestia che ci sei venuto, ti possano portà co' lu tavuto:
Maronella, maromà.
Vidìte lu vacc'apierto, come se' restato, da qua a stasera puozza i' cecato:
Maronella, maromà.
E le graziose attrici alternavano alle lodi i vituperi, destando l'ilarità
generale.
.... In quella ricorrenza vi era di più gustoso. Non vorremmo spiattellarle
tutte . . . . ma ormai ci siamo.
Nella sera precedente la festa di S. Giovanni le zitelle preparavano con
particolare cura una focaccia ben salata e ben pepata, che mangiavano
avidamente e senza bere. Col bruciore dello stomaco, assetate, andavano a
letto; se sognavano ad occhi chiusi (dato che potessero prender sonno con
quel po' di arsura) qualche donna con figli giovani da maritare, che
offrisse loro da bere, e se sentissero estinta la sete e che sete! . . .
allora sì, svegliandosi, forse di soprassalto per la gioia, allora sì
credevano che una donna misericordiosa avrebbe offerto i suoi uffici di
suocera.
Queste usanze abbastanza sfacciatelle, non portavano l'acqua lustrale, di
purificazione, di S. Giovanni. La coronella dell'orzo cresciuto, chiaramente
allusiva al rigoglio della giovanilità, i balletti all'aperto e la mimica
che accompagnava i vituperii, tutto non abbastanza contenuto dal diaframma
di pur candidi lenzuoli, arieggiavano le danze e le cerimonie in onore di
Cerere, dea dei campi, a cui i pagani offrivano le primizie delle biade.
E torna in campo il pastore d'anime Don Gerardo Amati, che, acceso di santo
sdegno, leva il bastone per le strade e fa tacere le maronelle e le maromà.
Minaccia, fa sgombrare gli altarini e le simboliche coppe di orzo ben
cresciuto, destinato ad appetiti impudichi, e passa processionalmente col
crocefisso per le strade.
E quando nel 1798, a S. Giacomo, alcune donne di origine greca, più risolute
delle altre, nel dì di S. Giovanni tentarono di ricantare la coronella,
vieppiù cresciuta e grande, furono prese e messe in gattabuia, ove non
sappiam dire se appassissero le rose della bella Elena: di certo sappiamo
che la Corte condannò le donne a pagare una multa.
Inoltre, localmente, venivano celebrati con riti religiosi e pubbliche
feste:
S. Antonio Abate il 17 gennaio,
la Candelora, purificazione di Maria Vergine, il 2 febbraio,
- l'Annunciazione di M. V. il 25 marzo,
S. Lorenzino il 22 aprile,
S. Marco il 25 aprile,
S. Michele l'8 maggio,
S. Nicola il 9 maggio,
S. Antonio di Padova il 13 giugno,
Il Corpus Domini nel giugno,
Visitazione di Maria Vergine il 2 luglio,
il Carmine il 16 luglio,
S. Lorenzo il 10 agosto,
l'assunzione di Maria Vergine il 15 agosto,
S. Rocco il 16 agosto,
la natività di Maria Vergine l'8 settembre,
la B. V. del Rosario nella prima domenica di ottobre,
tutti i santi il 1° novembre e
l'Immacolata Concezione l'8 dicembre.
S. Antonio Abate apriva la serie non breve delle feste con le sfrenate corse
di asini, muli e cavalli, che nella mattinata, intorno alla chiesa madre,
sul ghiaccio delle strade, dopo compiuti tre giri rituali con relativi
scivoloni, erano fermati in piazza per esser benedetti. Nelle ore
pomeridiane, un'altra cavalcata collettiva, meno sfrenata, aveva alla testa,
legato sul basto di un somaro, un tentennante carnevale, imbottito di paglia
e con un gran cappellaccio a sghimbescio; essa, fra un tintinnio assordante
di campanelle armentizie, percorreva le strade e i vicoli incitando alla
baldoria.
Nel giorno della Candelora si dava in chiesa la benedizione a molte candele
di cera vergine, che venivano distribuite ai maggiorenni del Comune:
immancabilmente ai Consiglieri per ricordare che bisogna purificarsi ed
ardere di fede per amministrare la cosa pubblica.
Dal 1721 in poi, il 22 aprile di ogni anno, si celebrava il martirio di S.
Lorenzino, portando in processione la sola ampolla col sangue. Via via il
rito venne trascurato.
In onore di S. Marco si svolge ogni anno, di buon mattino, una processione
salmodiante: va pel Serro, per S. Giacomo, pel Monte Picone, pel Monte di
Gallo e per la periferia dell'abitato, per benedire la campagna. E un rito
semplice e significativo che è rispettato: le palme benedette nella domenica
precedente la Pasqua e i tizzi del fuoco sacro, accesi spenti e conservati
nel sabato santo, son portati processionalmente in giro e subito dopo nei
campi e nei vigneti, ove son piantati per scongiurare le tempeste.
S. Michele e S. Nicola, per due giorni di seguito, venivano associati per
dare continuità alla festa e convenienza economica ai procuratori nelle
spese per concerto musicale, per fuochi pirotecnici e simili.
Tale festa una volta solennissima, poi come le altre ed ora ridotta alla
celebrazione di una messa.
Caratteristica era pure la festa in onore di S. Antonio di Padova con la
processione, l'infiorata alle finestre, gli altarini e i paramenti per le
strade. Tutti gli animali vaccini erano menati dalla campagna al Serro
Grande, che si copriva interamente di bianco, mentre custodi e padroni si
muovevano quali punti neri. Un bel colpo d'occhio! Vi andava un prete a
benedirli tutti insieme, e i padroni distribuivano alle proprie bestie il
sale benedetto.
Il sale pastorizio venne conosciuto poi e raccomandato dai veterinarii: ma
anch'esso è oramai dimenticato.
La festa del Corpus Domini si svolgeva come quella precedente, a pochi
giorni d'intervallo; aveva, però, maggiore e meritata solennità, religiosa e
civile, con l'intervento delle autorità del municipio. Il principe, o il
duca, o il barone dominante, o il sindaco o chi per esso di diritto, seguiva
immediatamente l'Arciprete che sollevava tra le mani un prezioso ostensorio;
le altre notabilità sorreggevano i bastoni del baldacchino.
Le verande e le finestre tutte addobbate ed infiorate: una sfarfallante
profusione di petali di rose bianche e carnacine, di gigli cilestrini, di
ginestre, di rosolacci e di altri svariati fiori campestri era mandata giù,
a manate larghe e continue, da belle figliole che vi avevan preso posto con
i loro canestri variopinti, ricolmi ed orlati con passione, con ammirevole
diligenza e buon gusto.
Al passare della processione ed al soffermarsi ad ogni altarino il gettito
si faceva più fitto: le teste scoperte, i capelli neri e quelli bianchi si
coprivano di fiori ed un profumo acuto di ginestra si spandeva dappertutto.
E i giovani trionfi portavano a casa, con una corona di petali, il segno
della gentilezza muliebre e del sacro rito.
Le feste del 2 e del 15 luglio, del 15 e del 16 agosto, non avevano molte
pompe; si conservano tuttavia modeste e sono rispettate.
Il 16 agosto molti preferiscono andare alla festa grande e solenne di S.
Rocco in Tolve: santo venerato e temuto per i miracoli attribuitigli in casi
di peste, di colera e di pustole maligne.
Alla festa del Rosario fu data molta solennità appena dopo la battaglia di
Lepanto, e si annetteva ad essa una certa importanza per la fiera di animali
suini, ovini, equini e vaccini: unica fiera locale. Da un pezzo fiera e
festa son cadute in disuso.
Rimane anche in forme modeste, ma caratteristica per la processione di
vergini bianche velate, la festa della Immacolata Concezione, dell'otto
dicembre.
Più solenni e più clamorosi erano, e sono in proporzioni assai ridotte, i
festeggiamenti in onore di S. Lorenzo e della natività di Maria Vergine.
La festa di S. Lorenzo dura uno o due giorni. Molti devono rimaner sull'aie:
il grano è pane. E per tale fatto da alcuni anni la celebrazione viene
rimandata al 10 settembre.
Nel dì di festa le case si vuotano quasi tutte in un batter d'occhi. Giovani
e fanciulletti, ruzzolandosi per le scorciatoie; non visti e visti, sono
alla fontana della Grancia; mentre i vecchi e le donne seguono il
serpeggiamento della strada mulattiera. Tutti hanno la loro merenda nel
bianco tovagliolo annodato, e di buon mattino, freschi ed allegri, sono
seduti sotto il grosso noce della Concerìa, intorno alla fontana o sullo
spiazzale davanti alla cappella. Moltissimi son quelli dei paesi vicini, e
vengono anche nella vigilia: un vero formicolio sulle altre strade della
Vigna Grande e del Bosco. Forastieri a comitive devono sciogliere il voto e
passano fra le implorazioni, le cantilene e le mani protese di ciechi di
ciompi e di venditori ambulanti di figure, amuleti e scapolari.
S. Lorenzo, vittima della fede e del rogo, fuga i brividi freddi,
maciullanti, della terzana e le iniezioni malariche, periodiche e non
periodiche, più ostinate. Le reliquie del santo sono riposte nel polso d'un
braccio dorato che le lascia intravedere da un foro ovale, chiuso da
cristalli. Il braccio è portato in processione; la campanella tintinna
insistentemente; lo sparo dei mortaletti e lo stamburio più energico
avvertono i presenti e quelli sparsi per la campagna che è il momento di
propiziarsi il santo ed ognuno s'inginocchia e fruga rapido nel terreno, e
là ove appoggiava il piede destro trova quasi sempre uno o più frammenti di
carbone vegetale, che conserva religiosamente: ridotto in polvere, sciolto
in acqua e ingoiato, produce con una preghiera al santo effetti miracolosi e
le febbri malariche non tornano più.
Ma anche questa cieca credenza si è dileguata per cedere il posto
all'efficacia dei chinino. La propaganda antimalarica, la profilassi e
l'opportuno intervento del medico non offendono i principii della fede e il
merito del santo: tutto ciò che è prodotto della natura e della scienza
onesta è dono divino, e «.. quann Dio 'nnu vóle i santi 'nnu ponno».
Terminata la funzione sacra, la folla si disgrega e le comitive dei
forastieri tornano sui loro passi; si formano capannelle e si serrano nel
cortile intorno a vinai, a rosticcieri, a venditori di avellane e di
torroni; alcuni siedono al fresco sulle gradinate, altri si isolano nei
corridoi e si appartano nelle stanze; le comitive amanti della libertà
prendono il largo, si sdraiano all'ombra ed al rezzo delle querce sul verde
tappeto, profumato di menta, del Piano delle Pèdane. Tutti consumano in
letizia vettovaglie piccanti ed abbondanti, preparate in scodelle di legno;
ogni boccone innaffiano a garganella con fiaschi e barilotti di buon vino, e
la digestione si compie tra frizzi e scherzi, che all'aria libera non hanno
reticenze e fan trasvolare ed allontanare le cinzie e le capinere fra ramo e
ramo, albero e albero. E si susseguono altalene, grasse risate e canzoni a
distesa; mentre nelle stanze ospitali della Grancìa si animano tarantelle e
tresconi schioccanti
a suoni di filarmoniche, di tamburi e di pifferi, e non di rado, a segnare
il ritmo, volano pugni e bastonate, che aprono in quel capo divenuto folle
per pressione qualche valvola per l'uscita di fumi alcoolici.
E di sera, col fresco, un po' si ritorna ragionevoli per la fatica della
salita; alle Fontanelle ogni ira è sbollita, ed a casa una buona dormita fa
dimenticar gl'incidenti: «Chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato». I
conti son ben saldati.
L'avvenimento che ha lunga preparazione, per l'opera, d'un comitato scelto
dal Comune, l'avvenimento che è atteso con sospiri ed ansie e che è rimasto
nel solco più profondo dei cuori, anche di quelli lontani, è la festività
della Madonna.
S'invocano oblazioni in ogni tempo: in denaro, in mosto, in latte, in
formaggio, in grano, in legumi, nelle case, nelle tinaie, negli ovili, nelle
aie: di compenso immediato sono una bella immagine ed un augurio: «La
Madonna ti aiuti», del cercatore.
Vengono raccolte offerte spontanee, e quelle provenienti dalle Americhe, di
emigrati che serbano con profonda devozione il culto per la Vergine Santa,
sono cospicue e immancabili.
I festeggiamenti durano un periodo di tempo che comprende le novene e il dì
solenne, l'otto settembre.
Tutti, o quasi tutti, han fatto aia pulita: tranne il proverbiale
ritardatario Nicola Maria Surdo, che ha ancora le bighe nelle stoppie, anche
dopo morto.
Spari e scampanio all'alba, a mezzogiorno ed all'avemaria.
La funzione vespertina della novena mette negli animi le prime vibrazioni di
festa: la festa è nella disposizione e nell'attesa. Durante la funzione è
cantata con sentimento e con tenerezza, ed anche con enfasi, una speciale
coronella
Evviva quel Padre
Che fece Maria,
E vergine e pia
Qual figlia l'amò.
Evviva Maria,
Maria semprevviva;
Evviva Maria,
Viva chi la creò.
Così incomincia; continua con diciotto quartine di apoteosi e ad ognuna si
accoda lo stesso ritornello.
Il concerto musicale aggiunge per alcuni giorni le note più insolite di
gaiezza; i fanciulli lo precedono a frotte nei giri diuturni e gli
ballonzano d'intorno sulla piazzetta, prendendosi per mano, come in
quadriglia, o abbracciandosi per effusione di contentezza; mentre gli adulti
assistono, ripuliti e serii, in atteggiamento di quasi cittadini e di buoni
intenditori.
Nella vigilia, di sera, luminarie a profusione: lampadine ad olio, ora ad
acitilene, lampioncini colorati alla veneziana, archi di drappi e di luci,
bandierine su pali rivestiti di verdi frassini bossi e pungitopi, palco
troneggiante pel concerto e un odor acre di calcina da per tutto. Più tardi
la guglia occhieggia con i suoi lumi fra le stelle della costellazione del
Leone, in cima al Serro Grande; due lunghe fumiganti sfilate di torce a
vento e di lampioncini accesi, che s'alzano, s'abbassano, ondeggiano;
apparizioni roteanti e luminose di bengala, lancio di bombe e pioggia di
faville colorate, voci di campane e concerti di trombe e tamburi, fanno
sfoggio e contrasto di fiamme e di suoni e di rumori e di rimbombi, notevoli
anche dai paesi circonvicini. E in ciò consiste le vera gloria.
Nel dì solenne il movimento e lo sfoggio son riprodotti e raddoppiati da una
folla aumentata di forastieri; di curiosi, di zingari, di storpi, di
venditori: chincaglieri, cappellai, merciai, fruttivendoli, ortolani,
rosticcieri e gl'immancabili castagnari con le tende, non sempre candide, in
due ordini sulla piazza.
Messa in musica, panegirico, processione, palloni aerei di carta velina,
l'albero della cuccagna, corsa nei sacchi, bersaglio, fuochi pirotecnici e
canzoni dei diversi gruppi appollaiati intorno alla cappella di S. Vincenzo,
sono i numeri caratteristici del programma.
La festa della Madonna, fra tutte le feste locali, ha portato con sè e con
gli anni i riflessi dei tempi, un certo dinamismo che riassume, i caratteri
e le modificazioni di vita religiosa e civile insieme, nei comitati, nelle
processioni e nei divertimenti pubblici; sicché si sono alternati nella
direzione massari di campo, artigiani e professionisti, per portare nei loro
programmi quei mutamenti che la maggioranza del popolo o il partito
vittorioso esigeva e per dar posto d'onore, ufficiale, nella processione
solenne, a fratellanze, a guardie nazionali o municipali, ad associazioni
operaie e di mutuo soccorso, a corporazioni fasciste.
Rimangono in usanza: la fiaccolata della vigilia, di sera, e il giro
trionfale della guglia «turris eburnea»; la gara che, durante la meridiana
processione solenne, accende, rinfocola e fa sudare massari di campò ed
artigiani nell'elevare le offerte in grano per contendersi l'onore di
portare a spalla il quadro della Madonna e il suo trofèo, «la cuna», e le
mazze del pallio; le offerte votive in oggetti preziosi e in biglietti di
banca, italiani e americani, di piccolo e grosso taglio, e l'esposizione
immediata di essi davanti al quadro della Madonna; le offerte in grano, in
sacchi ben appariscenti, su muletti che lucidi e guarniti, coperti di nuovi
tappeti, seguono la processione, non sempre di passo e composti, anche se
guidati da polsi sicuri; il bersaglio col premio d'un agnello benedetto, che
dà occasione per rimettere in mostra ogni sorta di fucile, denunziato,
s'intende, di qualunque sistema, calibro e tiro, e quasi quasi ad una
formale esposizione storica balistica, dai tempi del selce ai nostri, della
polvere senza fumo.
Per recenti disposizioni di ordine pubblico sono stati tolti dal programma
alcuni numeri dispendiosi e, se vogliamo, barbaretti nel ricordo, come
batterie e mortaletti assordanti e pericolosi. I vuoti non sono stati
colmati con trattenimenti piacevoli, civili ed educativi, e di pubblica
beneficenza.
L'entusiasmo va scemando, anche per altri motivi e per circostanze diverse,
e subentrano la monotonia e l'indifferenza; mentre l'anima popolare ha
bisogno di vibrazioni e di scosse, per non cadere nella materialità e
nell'apatia più complete.
Per i sentimenti di fede e di devozione che sfidano i secoli e gli eventi,
per la spontaneità e l'entità delle offerte, la festa, è la sola e solenne
che sopravvive, potrebbe svolgersi ben diversamente con genialità di
direttive e con maggiore coerenza ai nuovi tempi. E non termineremo il libro
senza dire la nostra parola.
E per ora «passata la festa gabbato lu santo». Vi è chi pensa ai debiti ed a
farne di nuovi, se gli riesce; molti pensano a preparar le sementi e i
terreni per la stagione, altri a preparare i tini e le botti, mentre vanno
maturando «i quattro racioppi». La Madonna è passata e tutti tornano
pensosi, ma rassegnati, al loro lavoro, alle loro masserie ed alle loro
botteghe.
Altri santi ed altri santuari lontani commovevano e movevano la nostra
antica gente.
Aveva fissata la sua dimora e godeva molti privilegi ed esenzioni per
concessione dei Reali di Napoli (5); non vedeva altro che il proprio lembo
di terra e il lembo del proprio cielo: doveva pur levarsi dalla gleba e
dalle diuturne occupazioni ed abitudini, materiate di necessità vegetative,
e vibrare con lo spirito nelle celebrazioni locali, non solo, ma portarsi
con l'immaginazione ed anche in persona, ogni volta che avesse potuto, oltre
il profilo dell'orizzonte sensibile.
Non l'annunzio d'una scoperta geografica o scientifica, o d'un avvenimento
storico o artistico, la incuriosiva; ma l'oracolo, il miracolo, lo
straordinario, lo strabiliante esagitava le sue vergini e rozze fantasie e
dirigeva i suoi passi verso i santuari lontani.
E l'incognita, l'imprevidibile e la sorpresa non erano di freno. Il fermento
che mette negli animi la bella stagione, sino a determinare il movimento
migratorio anche tra esseri inferiori, il bisogno di rompere la monotonia
con nuove sensazioni e di cercarle in comitiva, l'incitamento e l'impulso e
la guida di persone ardite che vedono al di là, che sanno ed hanno influenza
sulla folla per condurla ad una meta: tutto ciò ha dovuto portare le
primavere sacre antiche, gli incolonnamenti di pellegrini e dettare ai
gitanti laudi e canzoni e coronelle.
Studio molto interessante di Emilio Bertaux fu pubblicato «sur les Chemins
des pélerins e des emigrants » nel 1897 dalla «Revue des Deux Mondes», ed è
di documento pregevole.
Fra i santuari più vetusti, di maggiore rinomanza in Italia, era quello di
S. Michele Arcangelo sul Gargano. Al tempo delle Crociate fu una delle tappe
più importanti di forti guerrieri, di papi, di sovrani, di prelati
condottieri, di santi venerati, fra i quali S. Guglielmo di Vercelli, che,
fondatore della Congregazione di Montevergine, visse e morì in Basilicata, e
S. Giovanni Stalcione di Matera, fondatore della Badia di Pulsano. I più
arditi dei nostri guerrieri e i più ferventi tra i nostri prelati vi
giungevano con alcune nostre famiglie; ma il popolo si contentava di
mandarvi espressioni di desideri e voti.
I santuari frequentati ogni anno da nostre colonne di pellegrini scalzi
erano quelli di Fondi, di Viggiano, di Novi, di Belvedere (Oppido).
A Fondi, nel bosco, al confine dei territori di Tricarico di Albano e di S.
Chirico Nuovo, in tutte le domeniche di maggio, si celebrava e si celebra
una festa campestre in onore della Madonna. Con due ore di cammino, nella
mattinata del sabato, vi andava una compagnia brindisina; anche i fanciulli
vi partecipavano e tornavano con trombette ed altri ninnoli.
« Io già mi parto o Madre cara,
Che pena amara sente il mio cor».
Alla partenza, così incominciava alto il canto del corifèo non ricordate, o
paesani, la voce nasale di Domenico D'Amato? e d'un nucleo di giovanotti, e
il seguito rispondeva col ritornello:
«Tu delle rose
Sei la Regina;
Madre divina,
Prega per me».
Il canto che incomincia con la pena amara del passato, è di undici strofe, e
termina con l'offerta del cuore, e già mondo:
«Cara mia madre madre d'amore,
Eccoti 'I core nol voglio più».
Appena nel santuario, si cantava in dialetto, con monotona cadenza, un
caratteristico capitolo, ed è il racconto della prima comparizione della
Madonna nel bosco ad una povera ragazza che si era sperduta, e della
costruzione del Santuario: e i capitoli sono la più schietta manifestazione
della credenza popolare nei miracoli.
Il ritorno, ottenuto il perdono, non è più a piedi scalzi, e la coronella è
diversa e così termina:
«E nell'empireo,
O Madre pia,
Dolce Maria,
Teco sarò,
-Perché mi prometto
di sempre amarti,
sempre lodarti,
finchè vivrò».
Il tintinnìo delle campane e gli spari, così come alla partenza, accolgono
in festa la comitiva, ed ognuno si affretta a raccontare gli episodi della
gita.
Gli altri pellegrinaggi si preparavano da coloro che avevan fatto speciali
voti e si svolgevano con somiglianti modalità, con maggiore scorta di viveri
e con maggiore provvista di soldarelli: tutto col crescere della distanza.
La visita al santuario, che è sul Monte di Viggiano, veniva fatta ogni anno,
puntualmente.
La festa è nella prima domenica di settembre. La nostra colonia sacra
s'avviava all'alba del sabato precedente per ritornare nel lunedì
successivo.
Il Santuario è là ove apparve una gran fiamma, sul monte che sovrasta
Viggiano, ridente cittadina nella valle di Agri, nota per la sua tendenza
musicale e per il nome che i suonatori d'arpa e di violino portano in giro
pel mondo, celebrati dal Parzanase: «Con l'arpa al collo son viggianese».
Attraverso il sacro bosco dell'Abetina i pellegrini staccano e portano seco
per rito i verdi rami di abete. E la carovana di Vagliesi, che al ritorno,
passando, sosta in Brindisi festante per la sua Madonna, sembra un bosco
sacro ambulante: la vedete ancora?
La laude dedicata e cantata dai nostri alla Madonna di Viggiano così
incomincia:
« Pi terra e pi mare si numinata,
« O Madonna di Viggiano tutta chiena di virtù.
col ritornello
« Evviva Maria Maria sempre evviva!
« Evviva Maria evviva chi la creò.
Un po' in dialetto, un po' in italiano.
Il santuario di Novi, nel Cilento, era visitato dai pellegrini più
ardimentosi, e non eran pochi. Questi ritornavano portando conchiglie e
raccontando mirabilia del monte, del mare, visto di lassù, e di tutto un
mondo nuovo.
Nell'andare cantavano la coronella in uso nella novena della nostra Madonna
delle Grazie. Il ritornello era diverso:
« Madre potente e pia,
« Di grazie immensa fonte,
«Maria del, sacro Monte,
« Prega per noi Gesù.
Ritornello che, ripetuto fino a pochi anni addietro in puro dialetto, ora è
tradotto benissimo in lingua nazionale. Progresso dei tempi.
Nelle acque del «Sacrato», valloncello che è ai piedi del Sacro Monte, i
pellegrini si lavavano i piedi per mondarsi dai peccati, e in esse si
rappaciavano i discordi. A piedi nudi, tutti, percorrevano poi la rimanente
strada, che è di sei miglia, per raggiungere il Santuario.
Un tale, chiamato Turchino, non volle denudarsi i piedi per lavarseli, nè a
piedi nudi volle fare il rimanente, cammino: era un signore ed a dispetto
del suo garzone, un pover'uomo che lo seguiva, che aveva fede nella Madonna
e aveva osato esortarlo al sacro rito, egli, in arcioni e sprezzante,
raggiunse il Santuario. Ma il cavallo diede un salto su un picco roccioso,
da cui non poteva muoversi senza precipitare. Turchino si vide perduto, si
raccomandò al suo servo credente ed alla Madonna: il cavallo spiccò un
secondo salto e lo rimise in luogo di salvezza. Le impronte del cavallo son
rimaste incise nella roccia e le briglie son conservate in chiesa per
ricordare il miracolo.
Questa è la narrazione poetica del capitolo che i nostri pellegrini
cantavano appena giunti nel santuario; è ricco di particolari, di figure
immaginose ed incomincia commiserando il poeta che non riesce a raggiungere
il volo epico degno dell'argomento:
« Quanta corla si piglia 'stu púeta,
nun pote fatte 'nu lavoro addirizzato:
ora pi ora comincia a fa dieta
cu' la sua mimoria riale e sconsigliata».
Al ritorno i pellegrini si guardavano dal bagnarsi nelle acque del «
sacrato» per non insozzarsi di nuovo nel fondaccio dei peccati, e
ricantavano in coro:
«Madre potente e pia,
Di grazia immensa fonte,
Maria del Sacro Monte,
Prega per noi Gesù
Stabiliti buoni rapporti di vicinato con Trivigno, Albano, Tolve, Vaglio,
Palmira, Acerenza, Potenza, i nostri paesani presero occasione dalle feste
dei santi patroni S. Pietro, S. Vito, S. Rocco, S. Faustino, la Madonna di
Belvedere, S. Canio, S. Gerardo per ricambiare visite ai parenti ed agli
amici e per trarre diletto dalle feste. Il ricambio di visite è diventato
poi consuetudine, che sopravvive nei casi di sincera e cordiale accoglienza
e stringe vieppiù i buoni rapporti.
Ogni popolo ha i suoi pregiudizi ed il nostro ha i suoi. Ove attarda o non
giunge il ragionamento, incede la fantasia, la quale, direi, è soccorritrice
nei casi di disgrazie, è mitigatrice degli sbalzi di fortune impreviste:
perchè acqueta la coscienza sotto la convinzione di necessità fatale, anche
quando determina una irrimediabile caduta.
Il male grave, s'intende, è nel totale arresto della volontà, o, peggio,
nella soppressione di essa al primo nascere, quando la cieca credenza
ereditata sbuca dall'anfrattuosità di cose e di circostanze impensate, di
luogo e di tempo, e strozza, fra le combinazioni misteriose, i figli
legittimi dell'attenzione e della riflessione.
Comunque, i pregiudizi, mitighino le follie di gioia e le profonde
tristezze, annullino i germi del raziocinio, son fenomeni umani, di
psicologia sociale; e forse di tutto un mondo morale che richiede un
particolare studio, perché sia lumeggiato corretto e guidato con
circospezione. Lavoro di sapienza e d'accorgimento questo che, anche di
notevoli considerazioni contigenti, dev'essere condotto senza abusare di
forma sarcastiche, le quali esporrebbero l'oggetto al ridicolo avvilente e
farebbero di bersaglio l'indole e il costume d'un popolo che ancora pensa ed
agisce in buona fede, senza ottenere modificazioni di acume, di
ragionevolezza e di bontà, producendo invece reazioni, irritazioni, correnti
avverse ed antipatiche, se non odiose.
Nella esposizione nostra intorno ad usi e costumi degli albanesi han fatto
capolino i loro pregiudizii e le loro credenze sulla vita e sulla morte, e
sovrattutto sui fatti di guerra, sulle fortune e sulle disgrazie domestiche
ed armentizie, sui miracoli e sul tempo
Per evitare il male e per procurarsi il bene, quando la verità non si era
nettamente appalesata ai più, quando la scienza non era il pane quotidiano
delle nostre intelligenze, le precauzioni e i rimedii erano nella fantasia e
nelle parole, nelle cose come potenze attive e autonome: quindi, idolatrie e
formule misteriose di preghiere, d'invocazioni, di esorcismi, di scongiuri e
di giaculatorie, quali armi di difesa, quali mezzi di aiuto, soli ed unici
nell'assoluta povertà di sussidii di scienza e mezzi di arte ........
Orinare per imprudenza rimpetto al sole nascente significava prendersi
senz'altro la malattia dell'arco, ienestrite: itterizia, stravaso di bile e
profonda anemia.
E in quel caso non vi era che un solo rimedio: invitare nove donne, le nove
Marie. Le quali facevan cerchio e tenevan fra le mani un crivello vuoto; in
mezzo, disteso sul letto o per terra, il paziente, e le donne gli giravano
intorno e cantavano:
« Nove Marie sime
e nove crivi avime
sto male d'arco levamo
e 'n terra lo' jettamo».
E in così dire una di esse mandava per terra il crivello, sicchè il
ritornello, con l'operazione di getto, veniva ripetuto nove volte, quante
erano le Marie.
Niun documento ci assicura che il paziente, circondato da nove crivelli
vuoti, si levasse sano e roseo.
Per il mal di pancia, comunque determinato, bastava un'orazione a S.
Martino.
S. Martino, tornando da Roma, chiese ospitalità ad una tale famiglia. Marito
e moglie, padroni di casa, disputavano circa l'accoglienza. La moglie,
perchè di parere contrario, venne presa da forti dolori di pancia e chiese
aiuto a S. Martino, che la liberò dal male.
«Santi Martino da Roma vinìa,
tutt' u' cielo apierto ca chiuvìa;
bussai' a 'na porticella
pi cercà la caritate:
«Date alloggio allu pilligrino».
Lu marito vulìa e la mogliera no.
La mogliera jettava l'acqua
E lu marito spannia saramenti.
«S. Martino mio, fammi allintà stu male di ventre»
dicendo nu' pater nostre e nave maria ....
il male sparì. Era questa l'orazione richiesta dal caso.
Quando la donna lattante soffriva di erosione al capezzolo, di pelo della
mammella, chi l'assisteva doveva ripetere la storia di S. Minnaio fino alla
guarigione.
S. Minnaio veniva da Roma tutto lacero e consunto. Sulla sponda d'un fiume
vide tre zitelle che, risciacquando e sbattendo i panni, lo guardavano di
sottecchi e gli facean beffe. «A voi che lavate, a voi che sghignazzate e
date la baia ad un santo, possa cadere uno dei vostri sottili capellini
sulle vostre mammelline e non possiate allevare i vostri fanciullini» Così
le apostrofò il santo e s'allontanò.
«Voltati, ritorna, S. Minnaio, noi laviamo e ridiamo, senza riderci di te».
«Una volta che lavate e ridete senza beffarmi, vi dico: possa cadere un
capello dai vostri capezzoli e possiate ben allevare le vostre creature» Un
pater ed un'ave maria a S. Minnaio.
Il racconto in dialetto é tutto di riboboli e giuochi di parole: S. Minnaio,
però, non è nel martirologio, vi è in sua vece S. Menna.
Per far guarire da reumi e da dolori artritici gli adulti, da orticarie e da
malattie epidemiche i bambini, una persona di famiglia, e per i piccoli
quasi sempre la madre, ravvolta strettamente in un panno, da cui a volta a
volta sfuggiva solamente la punta del naso, andava di porta in porta per
chiedere, con un fil di voce lamentevole, un pezzo di lardo. Dopo un giro di
nove case, il lardo raccolto, e tutti lo davano, veniva sciolto in un
recipiente nuovo, sul fuoco, con acqua pura, e, ridotto in forma d'unguento,
serviva a spalmare la parte malata.
Il risultato del medicamento era quale doveva essere: simile a quello dei
pannicelli caldi. Ed allora si è mutato il testo di terapia e il lardo ha
preso il suo vero posto in cucina.
Per la espulsione della tenia e degli elminti credevano i nostri popolani
nell'incantesimo ed a speciali orazioni, nelle quali venivano declinando i
giorni della settimana santa; durante la recita, a voce alta, avevano cura
d'immergere in acqua, in un catino, nove capi di refe sottile, tagliati lì
per lì con forbici non prima usate.
Per il mal di milza, comunque causato, si doveva tagliare in forma circolare
la corteccia d'un albero di noce, la quale, applicata localmente, si teneva
ferma per un pezzo e fino alla cessazione del gonfiore e del dolore.
Una panciera non soffice, veramente!
Per le malattie dei bambini, poi, i rimedii usuali, forse anche ora, dopo un
secolo e più di lotta contro i pregiudizii, condotta con abilità persuasiva
e con prove luminose da medici esperti, offrono argomenti a malinconiche
riflessioni ed a sdegnose deplorazioni: sangue di lepre, sterco di piccioni,
succhi ed essenze di piante odorose e sovrattutto preghiere, segni di croce
e di geometria (il poligono stellato di Salomone), geroglifici: formano una
collezione di rimedi, secondo le volgari tradizioni. In un trattato le
preghiere e le giaculatorie vi troverebbero, s'intende, il posto d'onore.
Per sobria citazione diremo di due casi: della pleurite e della polmonite, e
del fascino.
Per guarire la pleurite, ed anche la pleuro polmonite (pinturedda), si
recitava la seguente storiella:
«Lu sabato sant la gloria sunava e Gisì Cristo dai cieli calava. Trovai
(trovò) stu malato e Gisì Cristo l'ha sanato. Fui carnacretta (carne viva)
pì nome di la santissima Tirnitata binidetta: pì nome del Patre, del
Figliuolo e di lu Spirito Santo quistu male nu' passasse 'nnante: pi nome di
Gisù Salvatore 'sta pintura adda (deve) 'sscì fora: pi nome della Santissima
Tirnitata levacilla (toglila) quessa (cotesta) 'nfirmitata».
E per la pigliata d'uocchio (il fascino), che vien ritenuta conseguenza
d'una forte corrente visiva magnetica, suggestiva, fissa, di persona adulta
invidiosa e maligna, ed anche ed a volta incosciente, ecco quanto si recita;
tenendo la mano sulla fronte e sulle palpebre del bambino assopito
« Dui (due occhi) ti uffinderono e tre santi ti avitarono: S. Anna, S. Lena
e S. Maria Matalena.
Supa (sopra) 'na muntagnella 'nc'era 'na vaccarella; passa Gisì Cristo, Che
fai zia vacca? Allicca lu mio figlio ca mi l'hanno affasciunato
(affascinato).
Supa 'na muntagnella 'nc'era 'na vaccarella; passa Gisì Cristo: Che fai zia
vacca? Allicca lu mio figlio ca io binidico
A nome di lu Patre di lu Figlio e di lu Spirito Santo ca quisto male nu'
passa 'nnante».
In vero, dobbiamo concludere che la fiducia nella scienza medica ormai è
generale e che, in qualche caso di sopravvivenza del pregiudizio, la
vecchietta sapiente, invitata a recitare le sue segrete giaculatorie,
pregata, riluttante, non manca di esprimere la sua personale convinzione:
«Vuoi ch'io venga, e per non dispiacerti verrò presso il tuo piccolo
infermo, ... ma neppur io credo alle mie stesse filastrocche».
Abbiamo segnato il cammino.
Di coronelle, inni e capitoli religiosi, di formule per scongiuri,
indovinelli e proverbi potremo in altro momento fare una più completa
raccolta.
Verso la fine del secolo decimo ottavo e il principio del decimonono si ebbe
certamente la sensazione dell'ultimo tramonto degli antichi costumi e del
linguaggio albanese. Il simpatico vecchio Carmine Truppa, del ceppo antico,
prima che la scure avesse dato il colpo di grazia all'ultima radice, volle
raccogliere all'ombra amica della pianta vetusta le note dei carmi popolari:
alcuni son giunti sino a noi e li abbiamo riprodotti, altri si son sperduti
per via e ne siamo dolenti.
Nello stesso svolto di vita paesana avemmo lo storico accurato, Pisano
Gioacchino, colto e paziente, addottorato in legge, e l'uomo politico,
ardente tribuno, per quanto sfortunato, Gerardo Mangoni sacerdote. Dobbiamo
a questi due conterranei la stesura della trama principale della cronistoria
sino all'ottocento.
Nella seconda metà del secolo decimonono non mancò tra noi l'aedo arguto e
piccante, scherzoso e piacevole, Giuseppe Calace, che, tagliando il terreno
con la lucente zappa, traeva versi dal suo spirito apparentemente bonario e
li recitava ai compagni zappatori per tenerli su con l'umore e per
alleggerire la loro fatica.
Coglieva fatti salienti e scandaletti gustosi nella cronaca paesana, trionfi
e sconfitte, gioie ed amarezze di partiti comunali, per improvvisare
comporre e condire con salse piccanti satire vivaci e dilettevoli.
Chi non ricorda l'ardita metafora contenuta nella seguente sestina?
«Ai . . . . di jennaro
«è passato lu Re
«jemara jemara
«quatt . . . . piedi; una pist . . . (le ruote del treno, della vettura)
«è passuto u' Re
«Nu' l'ammo vist ....
E nello schermo della narrazione si susseguono, dopo il fulmineo passaggio
del treno reale con Umberto 1°, le delusioni del popolo, le chiose e i
sospiri delle autorità ben vestite e delle guardie municipali in uniforme,
l'ammainamento delle bandiere, il rinfoderamento dei discorsi, i canestri
ben ricolmi e ricoperti di candidi tovagliuoli, i bottiglioni di pretto vino
di pastino e la decisione di non ritornare in paese con il grave someggio e
con il peso dell'umiliazione.
Il treno reale che fischiava superbo allontanandosi e il vino che ronzava,
forse prima ancora, negli orecchi con gli evviva che avrebbero voluto
fermare il treno, chiudono la patriottica giornata nei versi umoristici di
zio Giuseppe.
E la Nevicata del Capitano, nell'aprile? E il chiaro di luna rilucente sul
candore della neve e sulle argentee piastre che il guardiano dei maiali,
affogati nel nevischio, conta, nella notte di desolazione, per pagare i
danni d'una estemporanea nevicata, che egli, pover'uomo, non aveva neppur
sognata?
Da fatti che sembravano insignificanti Giuseppe Calace traeva argomenti di
fine arguzia e di sottile ironia. Non sapeva leggere nè scrivere; in
compenso riteneva esattamente a memoria quanto componeva e poi dettava in
vernacolo a suo figlio Ferdinando.
Il nostro contadino poeta è morto da molti anni, forse una trentina. E morto
da pochi anche il figlio.
Lo scartafaccio dov'è? Una nipote non sa dirci come e dove sia finito ....
Non perderemo noi le caratteristiche note fondamentali di indole, di
mentalità e di tendenze, nostre. Non sono proprio ciarpame da buttare nei
gorghi del tempo.
Sentimenti schietti e fantasia pronta; linguaggio espressivo in laconismo
che è quasi risparmio di parole, e più espressivo in sguardi ed atti;
sensibilità morale non comune, accentuata forse nell'amor proprio; naturale
disposizione al lavoro e tenacia nei propositi: son retaggio di secoli e di
lotte e sopravvivenza di fuoco religioso, purificatore, son tempra di
credenza soda con lucentore orientale: retaggio, sopravvivenza e tempra da
mettere più e meglio in accordo ai tempi nuovi e alle nazionali fortune.
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NOTE
(1) Cali iméra, buon giorno, e cala espéra, buona sera: in greco.
(2) Per la pronunzia vedere la nota (6) di Usi e Costumi Canto di nozze
Costantino ».
(3) Accenno ad Elena, madre di Costantino il Grande: bellissima e graziosa.
Era una locandiera e Costanzo Cioro se ne invaghì, poi la ripudiò. Il figlio
le diede il titolo di Augusta e la fece arbitra del suo tesoro privato.
Elena le adoperò in sollievo dei poveri ed a pro della chiesa,
abbracciandone le dottrine, dopo aver rinnegato il paganesimo.
Fece abbattere la statue di Venere e di Giove che Adriano aveva innalzato
sul Calvario. Nel praticare gli scavi in questo monte sacro vuolsi che si
rinvennero la Croce e gli strumenti della passione di Gesù Cristo; tali
pezzi mandò alla chiesa del S. Sepolcro, della quale aveva gettato le
fondamenta.
(4) Rossia, grano leccese. Leccia o Lecce in Terra d'Otranto di origine
greca: non è da confondere con Leccia di Corsica.
(5) Facio, «De Rebus Gestis ab Alphonso I» Lugduni 1562. L. IX p. 257. Arch.
di Stato di Napoli Privil. dei Collater. 1494 vol. 5 Procur. della somm.
vol. 377 n. 4446.
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