FORME DIALETTALI
Cogliere le espressioni dialettali calde calde, nel momento in cui gli
istinti grezzi agiscono, in cui i sentimenti fermentano incerti o si
manifestano prepotenti, in cui le idee si formano, si orientano, si
traducono in fatti, e i lampi e le espressioni fedelmente ripetere o
tradurre: son compiti di comprensione molto delicata, e prima ancora di
sensibilità naturale squisita: visiva uditiva sentimentale. Tanto più per lo
studioso, davanti a cui tace riluttante il dicitore in vernacolo che fosse
chiamato a bella posta per riferire, quasi che dovesse denudarsi ed essere
indiscreto.
Lo dicevamo incominciando questo capitolo: uno spirito gemello, perspicace,
investigatore, senza averne l'aria, che ha acquistato padronanza d'ambiente
e che ispira confidenza, che ha tutto pronto, tavolozza pennelli e tela, sa
e può fissare con fedeltà in pochi tratti, ogni piccolo lampo del pensiero
ed ogni atteggiamento dello spirito, che ad altri, se estraneo, potrebbero
sembrare trascurabili, banali, ridicoli o inverosimili.
Compiere con limpida verità lo studio dialettale, scartando le deformazioni
grottesche, e trarre da esso genuinamente quelle spontanee bellezze e snelle
vivacità che, mal tradotte in perifrasi e in locuzioni proprie di altre
mentalità, renderebbero cattivo servizio al pensiero, significa raccogliere
dalle miniere inesauribili degli spiriti popolari le gemme più preziose
dell'idioma nazionale.
Ed anche il nostro dialetto non manca di pregi.
Com'è la maggese? «'nu silmo»: una compieta meteorizzazione, assimilazione.
È nato il grano? è bello il seminato? «'Nu cardo»
E il grano raccolto? «. . . . ti luce!»
Sei contento? « . . . . 'nu priizz' n suonn ....» mi par di sognar la
felicità.
La rapidità e l'esattezza del giudizio è nelle seguenti similitudini:
«Panza cuntenta» è detto di chi non è sensibile a patemi morali, di chi vive
nello stomaco pieno; oppure : «panza a monte», supino rinunciatario ad ogni
responsabilità.
«È proprio de cipp ....» : rampollo diretto di forte radice, di vera
nobiltà.
È svelto? « .... 'na musca di campanaro», di campanile, si posa su tutto,
vede tutto, sa tutto.
«Carrèia 'i zippri ....» : porta i fuscelli furtivamente, si fa il nido ....
d'amore.
«Ma .... nun fa l'ova a lu cistariedd!»: che vuoi che dica? ... è una
ragazza .... che non farà le uova in casa!»
Un lampo della pupilla, un ammiccamento o una strizzatina d'occhio, un cenno
della mano o del solo indice, una scrollatina o un tentennamento del capo o
del busto, alcune inflessioni di voce che valgono differenzazione e leggiera
sfumatura di toni d'una stessa idea, tutta la mimica così varia, ricca ed
espressiva del linguaggio articolato, e non di rado di forza sintetica molto
significativa, in noi meridionali, sono spesso intraducibili; mentre tra
coloro che s'intendono assumono una corrispondenza rapida e perfetta ed una
eloquenza che muove in un attimo le volontà.
In via di monito:
«Tieni pede a' u' singh ....!» cioè misura il passo nella via retta.
«Fatt' a cruce ....» « nun ti i manco sunnanne» non ammettono replica.
«Vuo' chi ti lev' u' suonn da luocchi ...?!» : perifrasi tremenda di
minaccia.
«Fatt' uscì 'u serpe !...»; parla finalmente, confessa il tristo segreto!
«Nun puozz ... piglià mai lipp!»: che tu non possa trovar mai sede, mai
pace! ...
Se dovessimo costruire un particolare dizionaretto dialettale, appena
qualche dozzina di nomi proprii e comuni raccoglieremmo tra gli avanzi
albanesi, come:
scìupio, sebuzzè, scèscit, crett e pochissime locuzioni.
Quasi tutte le voci sono derivate dal latino corrotto.
Niuna parola o sintassi francese, forse qualche modo spagnuolo nelle
cerimonie. Nelle inflessioni non abbiamo strascichi nasali o, fievoli
lamenti; ma toni rudi, monchi, sommessi, quasi albanesi.
Nella nostra favella predominano l'onomatopeia e la figura.
Fonologia La pronunzia è stretta, dura, gutturale, ha frequenti assonanze
con quella calabrese e con quella leccese.
Non è difficile coglierla, tradurla, chiarirla e ingentilirla.
Ha elisioni della vocale finale quasi in ogni parola e della sillaba finale
nelle voci dei verbi all'infinito: e allora l'accento tonico cade
sull'ultima sillaba.
In molte parole o suona u, oppure uo (curt, muort); in altre uo suona ó
(ovi, move). lo finale si converte in ro nei nomi (cucchiaro ), e in ie
(mièzz) e ie in é ( méle per miele, méte per mietere).
Lo scambio di suoni è molto più frequente: v per b (vacca = bocca); z per c
(vrazz = braccio) e viceversa c per z (pacci = pazzi); c per g (spica =
spiga) ; j per g (jubileo giubileo); gìa per scìa (buscìa bugia ); d per l
(puviriedd = poverello); sc per ss (nisciuno = nessuno); zz per ss (puòzz =
che tu possa) (nzugna = sugna).
La morfologia è semplice. Nei nomi alterati poche trasformazioni e
derivazioni; gli articoli per i nomi mobili si riducono a u', cioè il, i
(duro) per i, gli per le, a (dura) per la, 'nu per uno e 'na per una.
Nei pronomi e negli aggettivi, tranne le deformazioni di pronunzia, nulla
riscontriamo di anormale nell'uso. È difficile cogliere il plurale degli
aggettivi per le frequenti elisioni delle voci finali. Il superlativo di
regola vien formato con la ripetizione: bell bell (bellissimo), nìuro nìuro
(nerissimo) ecc. Così nei modi avverbiali: assai assai (assaissimo), picch
picch (pochissimo). Nei comparativi è frequentissimo l'uso del più e del
come; il meno non si usa, sicchè vengono capovolti i termini in modo da
partire dal maggiore: più bell du sole, ...cchiù lucente du specchio. ecc.;
duce cumm 'u mele, ridutt cumm 'a 'nu scalière (emaciato come cardo secco),
brutt... cum 'na peste.
Molti aggettivi sostantivati e moltissimi paragoni sono nel nostro
linguaggio e ben appropriati quasi sempre.
Tra i verbi più usati sono quelli copulativi: essere, diventare, parere,
rimanere, restare. Non si riscontra caso di confusione o d'inversione
dell'azione transitiva in quella intransitiva o viceversa, come nel dialetto
di popoli di regioni e di paesi limitrofi. Di tempi non abbiamo che due: il
presente e il passato prossimo. Il remoto mai usato: è chiarito con la
determinazione del tempo e con le circostanze. Il futuro è nella forma
presente, ma è chiarito anche con la determinazione: Craie aggia ì (domani
dovrò andare); domenica ca vene t'aspett (domenica prossima ti attenderò).
Abbiamo in uso non poche locuzioni avverbiali: tutt 'na vota (di botto)
tieni pi certo (per sicuro) ecc, Avverbi di luogo pochi: qua in ogni caso,
qui mai; molti comparativi figurati: cumm 'a l'uoglio (scorre come l'olio);
è 'pulito cumm 'a 'na stadd (come una stalla, in senso ironico) ecc.
Poche le preposizioni: a, inte (in), cu (con), supe (sopra), sutt (sotto),
fra, usate propriamente, spesso con a, oziosa: a ddu vai ? (dove vai?);
oppure a invece dell'articolo: sup 'a tavola (sopra la tavola).
Anche le congiunzioni sono adoperate a tutto spiano, senza bisogno: 'nfatt
(in fatti: dichiarativo), pirò (però: avversativo), dunch (dunque e
pertanto: consecutivo), condiscono tutti i discorsi, quasi in tono di
nobiltà e solennità.
Il vivo e improvviso commovimento dell'animo esprimiamo con una molteplice
varietà di espressioni, specialmente di rabbia e di sdegno: caratteristico
gue' ... gue' guagliò (ohi! ragazzo!); guai a te! scicant! ( sc dolce, i
appena si sente), sccante mio! (schianto mio!).
La sintassi è logica e scorrevole; è involuta in pochi casi, quando, cioè,
il pensiero non è limpido e deve compiere uno sforzo per snocciolarsi. Le
concordanze sono quasi sempre rispettate in loro formule rozze, s'intende;
le proposizioni si susseguono brevi e compiute, è raro il caso di
apposizione.
Ella al posto di tu o 'voi farebbe ridere. I giovani soldati, tornando in
paese, adoperano per un po' di tempo il lei, alternandolo col tu e col voi
con disinvoltura, ma lo dimenticano senza fatica; mentre assignurìa (vostra
signoria) è adoperato con rispetto verso i genitori e gli anziani: eppure
sono spariti i signori da mezzo secolo ....
E respiriamo con sollievo !
Queste osservazioni, che sembrano di quisquilie grammaticali, hanno molto
peso; dovrebbero essere continuate e approfondite con accurata indagine e
valorizzate nell'uso con lenta e tenace opera insegnativa, con forme prette
e genuine del nostro idioma sonante e puro.
Il compito, per categorico comandamento dei programmi didattici governativi,
è dei signori maestri elementari. Lo svolgano con intelletto d'amore.
Noi dobbiamo terminare questo libro. Se insistessimo sull'argomento,
diffondendoci in esempi, significherebbe correre il rischio di esorbitare ed
annoiare i pochi benevoli lettori.
Chiudiamo il capitolo con un breve ritorno, che è di leit motif e di
raccoglimento.
S'incontravano, si salutavano i nostri antichi Skipetari, mettendo le mani
sulle spalle dell'amico e passandogli il volto prima a destra poi a sinistra
del volto, parlottando a bassa voce per qualche minuto, con parole
monosillabe, quasi preistoriche, separandosi col solito Tec niat jeta
cioè, «La vita ti sia lunga». Non una sola esclamazione rumorosa, non un
gesto incomposto. «Calì mera»: buon giorno; «calì espira»: buona sera.
Dopo due secoli tra noi, italiani e albanesi, come uno spirito solo,
s'incontravano in un saluto che era una invocazione ed una preghiera : «Dio
t'aiuti» «sempre»; oppure «Va con Dio» « .... con Gesù Cristo» « .... sempre
».
E il saluto venne via via a sostituire l'espressione avvilente del vassallo:
non più «schiavo di Vossignoria» «Padrone mio», ma «Buon giorno e buona
sera» ed ognuno per il suo cammino.
Le forme, quindi, di letteratura neo latina rivestirono il nostro spirito
ascetico, religioso, timorato, fiducioso in ogni atto di speranza, di
pentimento, di preghiera, di esaltazione, così come i nostri pastori di
anime vollero educarlo e formarlo.
Però nella piena libertà dei campi gli spiriti ritornano in diretto rapporto
con le cose e i primi formati si svegliano, riaprono le ali e si lanciano
nel passato con i canti dell'odio e dell'amore, e con le note di guerra
magnificano il prode ed il forte, la promessa e fa fede.
Nella campagna riecheggia
« L'aria del Capitano è la bandiera bella
«La paisanella lo sa,
« La pomponella,
« Ohi bella!
« L'aria del cacciatore è la sua arma bella
« La paisanella lo sa:
« La pomponella,
« Ohi bella!
Note argentine altissime e duetti, che sembrano echi limpidi, tra gruppi
lontani di forosette, fra colli e colli e chiuse di alberi, a volte di
territori limitrofi, si disperdono nel cielo.
Le note guerriere si alternano con gli stornelli di amore :
«Fiori di anguille,
il pregio delle donne son' li capilli»
e gli stornelli si alternano con giuochi e canti allegri
« ARIALÒ E PIZZICANTÒ»
....Il fischio della vaporiera interrompe il canto. Più tardi una canzonetta
napoletana, male appresa, mal ripetuta e peggio cantata, si sostituisce agli
stornelli.
Il popolo nostro, con gelosa arte tenuto lontano dai moti politici, il
nostro, come ogni altro meridionale, raccoglieva ogni volta dall'aria e dal
vento le note e le vibrazioni patriottiche di attualità; dopo il sessanta
cantò sghignazzando il dies ire a Franceschiello e con foga di passione le
più alate strofe al Leone di Caprera:
« Garibaldi fu ferito,
« Fu ferito ad Aspromonte,
«E portava scritto in fronte
«Noi vogliam la libertà.
«Vieni, o bella, vieni sul mar,
Noi con te vogliamo vogar », ecc.
Dopo tante canzoni, imparate sotto le armi e in guerra, nei periodi di
risorgimento, ora ripete di cuore con i bambini che appena balbettano
«Giovinezza, giovinezza
« Primavera di bellezza ....
E la primavera italica è la prima di tante primavere belle e sacre che
seguiranno con le prossime future generazioni.
lll
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