Quando a Giuseppe parlarono di un'eventuale emigrazione in America, dove
avrebbe dovuto raggiungere un suo zio materno, rispose subito con un
"no" secco. Era implicito che avrebbe dovuto lasciare il pascolo e la
sua libertà con il cielo del monte Moltone, cose queste, che per
Giuseppe erano proprietà private. Soprattutto non voleva lasciare
"Falcotto" un cane da pastore che, grande come un puledro, era alla
guardia assieme ad altri quattro cani, di un discreto gregge di pecore e
capre che nella giornata attraversava i pascoli profumati del "Moltone"
raggiungendo talvolta anche le vicinanze di Tolve o di Vaglio. Giuseppe,
un ragazzo meno che ventenne, dal sorriso dolce che si apriva schietto
sotto due occhi furbi e diffidenti, forte e asciutto come un albero,
amava tutte queste cose con la certezza di non doversi mai separare da
esse escludendo del tutto il pensiero di dover lasciare Falcotto perché
nessuno l'avrebbe potuto comprendere come lui. Il padrone, avendo notato
questo suo attaccamento alla montagna nonché le sue amorevoli cure
assieme ad una sapiente guida del gregge, gli lasciava gestire ogni cosa
a suo piacimento. Giuseppe quindi, provvedeva alla consegna della lana
al suo padrone al tempo della tosatura, manipolava il latte facendo
ricotta e formaggio di cui in abbondanza si cibavano Falcotto e la muta
di quattro cani i quali, benché feroci, scodinzolavano davanti a
Falcotto. I soldi che Giuseppe riceveva dal padrone li consegnava alla
madre fino all'ultimo centesimo.
Il desiderio che lui segretamente nutriva era quello di rimanere sempre
fra quei monti, quegli alberi e quei pascoli che lui amava anche quando
diventavano aridi e brulli nei periodi di siccità. Allora il suo lavoro
si triplicava poiché doveva recarsi col gregge presso quei pozzi che
conosceva da bambino onde disse tare una per una le sue pecore e capre.
Quando di mattina si avviava verso il pascolo col gregge, sembrava un duce
dall'inflessibile grinta che andava in battaglia con Falcotto a fianco,
vice-duce e i quattro cani i generali. Dallo stupendo Monte di
Belvedere, che sta di fronte al Moltone, alla distanza di un paio di Km.
in linea d'aria, si poteva vedere in primavera, mentre il Sole era
ancora basso all'orizzonte, questa macchia marrone-scuro, dai contorni
ben decisi, che compatta si spostava lentamente verso il pascolo... al
comando di Giuseppe. I cani, infatti, sotto i suoi occhi vigili,
abbaiavano senza interruzione onde evitare che qualche pecora o capra,
uscendo fuori dai margini, potesse rompere l'ordine chiuso del gregge.
Il giovane pastore, quindi, programmava e viveva la sua giornata senza
attendere ordini, approvazioni o correzioni. Il tutto si svolgeva,
naturalmente, secondo un codice che aveva come finalità il rispetto del
padrone e della vita del gregge, poi dei cani e per ultimo veniva il
pastore. Proprio per questo Giuseppe era felice, nel sentirsi ultimo e
nello stesso tempo re, padrone ed amministratore dei suoi umili
sudditi.
Quando una pecora cadeva in un burrone frantumandosi e quindi,
irrecuperabile, era doveroso ucciderla per non farla soffrire, gli
dispiaceva, ma doveva farlo. Le cosce le conservava al padrone, con
tutto il resto un grande arrosto all'aperto. Alla sera i cani, con le
pance strapiene, si ritiravano stanchi, più vogliosi di dormire che di
fare la guardia. Ma a Falcotto, ininterrottamente attento, non era
sfuggito che anche alla sua mamma-padrone era piaciuto l'arrosto e che,
quindi, con la pancia piena sarebbe caduto dal sonno dopo il rientro col
gregge nella stalla. Allora era lui il comandante in capo per tutta la
notte di cui rompeva il silenzio con i suoi terribili bau bau che
tenevano lontani persino i lupi. Qualche ladro a cui spuntava l'idea
balzana di avvicinarsi alla stalla di Giuseppe, se la faceva subito
passare dalla mente poiché già inizialmente sapeva di rimanere sbranato
da Falcotto che tutti temevano.
Nella stalla, molto grande, si poteva passare anche la giornata standovi
dentro col gregge, sia che piovesse, sia che fosse necessaria ed
impellente la lavorazione del latte per fare ricotta e formaggio. Solo
in questi intervalli Falcotto si concedeva una buona vacanza con dormite
alla grande mentre silenziosamente "stavano ruminando manse le capre",
sdraiate lontane da Giuseppe, intento a governare il fuoco sotto la
caldaia del latte. Nella stalla regnava allora una strana atmosfera di
serenità come se quei momenti fossero l'epilogo di un sogno divenuto
realtà... uno di quegli attimi che, inafferrabili e imponderabili, tutti
vorremmo che si fermassero nella loro fuggevolezza... ma. Ma una cosa
era certa per Giuseppe, che quella serenità non aveva nulla da invidiare
alle ovattate bomboniere di qualche grattacielo di cui parlava in una
lettera lo zio di Giuseppe: "Caro Giuseppe vieni in America perché qui
si sta assai bene e nelle stanze dei grattacieli ci sono per terra le
stoffe dei nostri cappotti verdi ed io cammino scalzo per non
sporcarli". Questa lettera, che talvolta gli leggeva la madre onde
operargli un sicuro lavaggio del cervello, lo innervosiva poiché in cuor
suo era certo che nessun mantello verde, giallo o rosso steso per terra,
gli avrebbe garantito la serenità della stalla, della sua stalla.
Qui, un giorno d'Agosto, circa tre anni prima, era nato Falcotto, un
batuffolo bianco tutto tenerezza, mentre le cicale col loro frinire
cantavano la sua nascita e invidiosi a sera i grilli, dandosi convegno
sul pagliaio accanto alla stalla, raddoppiavano i loro cri cri. Poi, un
brutto ricordo: pochi giorni dopo il parto, la mamma di Falcotto non
fece più ritorno alla stalla per cause che Giuseppe non seppe mai. Ma il
piccolo reclamava la mamma poiché aveva fame, tanta fame. Allora
Giuseppe, avvicinando il piccolo ad una capra che aveva partorito in
quei giorni, gli mise nella bocca con non pochi sforzi, i capezzoli
delle mammelle di questa a guisa di grossi biberon. Ancora qualche breve
titubanza del grazioso batuffolo nei giorni seguenti e infine la
certezza che la capra fosse la sua vera genitrice: ciò fu la salvezza di
Falcotto. E chi l'avrebbe detto poi, che doveva essere ancora più grande
della mamma? Da quando diventò alto come un molosso, dalla grinta dura e
severa, sembrava dire abbaiando: "qui c'è Giuseppe che è la mia mamma ed
il mio padrone col suo gregge e spargerò
il sangue di chi osa toccarli".
Sicuro, quindi, di essere amato dal suo cane e dalle sue pecore, Giuseppe
si abbandonava ai suoi sogni, accoccolandosi talvolta sotto i grandi
alberi, avvolto dal grande mantello a ruota da cui sporgeva in alto
oltre la testa, una robusta mazza-bastone (la paroccola), potenzialmente
minacciosa per chi, malintenzionato, volesse disturbarlo o togliergli
qualcosa. Così accoccolato, con la testa affondata nel bavero, lo trovò
un giorno la madre che per l'ennesima volta andò a dirgli che aveva
pregato il suo padrone di congedarlo dal suo lavoro, affinché potesse
recarsi in America dallo zio ricco e benestante che lo chiamava. Ma
Giuseppe, facendo finta di non averla né vista e né sentita parlare,
entrò in una delle sue mistiche "trances".
Ma cosa sognava Giuseppe durante queste sue estasi? Sognava e vedeva cose
nuove, gli giungevano suoni e musiche mai sentiti come immerso in una
sfera fatta di altrettanto nuove realtà estraniandosi così da tutto il
resto del mondo. Affidando il gregge a Falcotto ed ai suoi subalterni,
s'inoltrava nel bosco fitto, fino a raggiungere le querce secolari che
sembravano fossero state piantate dal Creatore in persona. In questa
nuova dimensione vedeva le stesse cose di sempre, ma trasfigurate in una
fantasmagoria onirica vissuta però ad occhi aperti. Quindi mentre in
alto il vento ruggiva rabbioso, rivedeva la nonna, una figura dolce e
gentile che lo aveva tanto amato fino all'incredibile e la sentiva
raccontare, come nelle lunghe serate d'inverno, le storie di cavalieri
con le armature d'argento e di affascinanti dame dai lunghi capelli
biondi, vestite di bianco e di celeste. Cavalieri e cavalli, dame e
paggetti si aggiravano come se volassero, attorno a fontane zampillanti
acque iridescenti e salivano e scendevano scale di sontuosi palazzi e
castelli dove immense tavolate, imbandite e illuminate da lampadari di
cristallo, attendevano ospiti da lungo tempo attesi. Dopo aver così
popolato i luoghi della montagna a lui cara fin dalla nascita, calandosi
nel profondo della sua anima innocente e trovandosi ad una notevole
distanza dalla stalla, gli era difficile sentire Falcotto che lo
chiamava con una certa ansietà: "bau, bau, Giuseppe, torna presto perché
qui c'è qualcuno che minaccia il tuo gregge".
Gli giunsero anche i latrati degli altri cani che lo svegliarono
completamente dai suoi sogni. Ma l'abbaiare di Falcotto non lo convinse
che qualcuno potesse minacciare il gregge con lui presente, per cui era
più che certo che fosse la madre ad attenderlo per dirgli ancora una
volta che era atteso dallo zio in America. Giustamente la mamma,
all'apparenza dura, amava Giuseppe per cui invogliandolo ad andare in
America, gli garantiva un avvenire sicuro, con la certezza che un domani
avrebbe avuto anche l'eredità del fratello che per un trentennio aveva
realizzato lauti guadagni. Ma Giuseppe, lontano anni luce da questa
logica che, furbo com'era, aveva messo a fuoco a tempo, senza però che
gli andasse a genio, era stato sempre duro con i "no" secchi dati alle
proposte della mamma. Ma ora intuiva che questa avrebbe tuonato come una
Tromba da Giusto Giudizio nell'imminente incontro. A malincuore, quindi,
si alzò da terra, sciolse il suo mantello a ruota e barcollando tornò
alla stalla. Falcotto e gli altri cani gli andarono incontro
festosamente, ma la madre, ferma e decisa, lo attendeva con un cipiglio
così duro da spaventare i serpenti della Medusa. Senza preamboli lo
aggredì subito dicendogli che buttava nell'immondizia una fortuna che
altri in paese avrebbero accolta con gioia. Gli disse, come ultimo
motivo di seduzione, che andando in America, dopo alcuni anni sarebbe
tornato ai suoi monti, ricco, ma tanto ricco da comprarsi mille pecore
con cento cani da guardia e dieci stalle. Ma Giuseppe, pietrificato
dallo sguardo della madre come la moglie di Lot dal fuoco di Dio, rimase
muto per cui la madre sicura che quel silenzio fosse una risposta
negativa, gli disse: "e allora resta pure dove sei come un eremita, non
farti più vedere da me, non voglio neanche i tuoi soldi e muori pure nel
bosco come un selvaggio".
Voltandogli le spalle andò via di corsa mentre cane e padrone ritrovarono
presto la serenità di prima come se nulla fosse successo e nei giorni
seguenti e per sempre continuarono a dividersi tutto quanto c'era di
buono, dal latte caldo di capra appena munto, dolce e grasso come la
panna, allo stufato (cutturiedde) della carne di vecchie pecore, che era
necessario abbattere perché la lana non era più buona perché non stavano
più al passo nei lunghi tragitti dai pascoli alla stalla. Padroni del
Cielo, del bosco e di quell'acqua limpida della sorgente sotto le grandi
querce, Giuseppe e Falcotto seguivano dai pascoli il Sole dall'alba al
tramonto e, mai sazi dell'azzurro e dei caldi colori che sfumavano
all'orizzonte, respiravano, inconsciamente, partecipi dell'Armonia
dell'Universo, l'aria purissima col profumo delle mille essenze del
bosco, che l'immancabile brezza della montagna spandeva tutt'intorno.
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