Col tascapane pieno di rimasugli d'ogni genere: tozzi di pane duro, uova
sode, salame, sigari spenti a metà, pezzi di lardo, più la valigia coi
ferri del mestiere, più la cassetta della fortuna col pappagallino Carlo
Magno, Don Matteo girava per il paese nei mesi più piovosi dell'anno.
L'ombrello,
quasi un'eredità di famiglia, era un oggetto gelosamente custodito da chi
lo possedeva e assai desiderato per la sua necessità da chi non ne era
ancora in possesso. Chi, comunque, era padrone di questo oggetto tanto
prezioso, voleva che fosse sempre in efficienza e a questo ci pensava
Don Matteo il quale, per essere preciso coi suoi clienti, portava nella
sua valigia una piccola incudine per appiattire il ferro filato anche a
freddo, un tronchese, due martelli, una tenaglia, forbici e pinze. Tutto
questo per risolvere problemi di alta tecnologia inerente alla
riparazione degli ombrelli. Un assortimento di varie pezze colorate con
aghi e fili di ogni spessore, completava il suo bagaglio. Indossava un
impermeabile avuto in regalo ed un berretto con splendida visiera su cui
spiccavano due grandi SS, iniziali della Società Sanitaria di Parigi
dove, al suo primo arrivo in Francia, ebbe una generosa accoglienza che
in seguito si trasformò in una dignitosa assunzione di lavoro di cui
parlerò in seguito. Tutti coloro che per la prima volta incontravano Don
Matteo, capivano subito di trovarsi di fronte ad una persona che aveva
tanta voglia di lavorare, purtuttavia ugualmente veniva considerato
dalla massa un accattone e, come tale, simbolo del degrado senza
speranza di riscatto né materiale, né morale e questo lui lo sapeva
bene. Intanto non riparava nessun ombrello poiché non pioveva e né, di
conseguenza se ne rompevano. La gabbietta poi, il pappagallo, le buste
rosa e celeste contenenti le fortune in vendita a due soldi l'una,
menomavano ancora di più la figura dell'autentico aggiustatore
ambulante. A questo punto Don Matteo, non curandosi più di nessuno,
andava dritto per la sua strada, qualunque fossero le considerazioni
degli altri vivendo intimamente la sua dignità ed il suo prestigio.
L'importante era darsi da fare in qualsiasi modo, lavorare quando poteva
farlo ed amare il piccolo pappagallo, la cui storia, apparentemente
inverosimile, lo commuoveva ogni qualvolta la ricordava. Un giorno,
infatti, Don Matteo mentre riparava un ombrello, vide un pappagallino,
senz'altro smarritosi e quindi senza padrone, posarsi sulla sua valigia
aperta contenente attrezzi e chiodi. Don Matteo, interrompendo il suo
lavoro, notò che l'animaletto prelevava i chiodi col becco e superbo
come un pavone, attendeva che lo sconosciuto padrone li prendesse nelle
sue mani. Stupito, ma felice, Don Matteo capì subito che il pappagallino
era di quelli ben ammaestrati che si portano dietro i venditori di
fortuna. Lungi dal pensare di fare anche lui lo stesso mestiere,
catturato da una strana tenerezza, costruì per il neo-arrivato una
comodissima gabbietta con i due balconcini da cui prelevare i biglietti
rosa e celeste sui quali con bella grafia scrisse le fortune per i
maschi e per le femmine, chiaramente per chi sapesse leggere. In Francia
Don Matteo aveva letto la Vita di Carlo Magno, del quale rimase
profondamente affascinato, credendolo il più grande re della Terra.
Quale altro nome, quindi, poteva dare al neo-trovatello tanto
intelligente che gli dava affetto e compagnia? Quello del più grande re
della Terra: Carlo Magno. Don Matteo dunque aveva il suo piccolo re e
così, suddito e padrone non erano più soli ed ignorati in un Mondo così
grande. In questa meravigliosa simbiosi Don Matteo si confortava col
proteggere con ogni cura il pappagallino procurandogli gustosi semi."
Almeno lui", diceva, "è sicuro di essere amato e custodito da me".
Comunque, al mestiere di aggiustatore era stato necessario che Don
Matteo avesse aggiunto anche quello di venditore della fortuna, giusto
per raggranellare qualche soldo in più. Da più anni ormai cantava nei
vari paesi con voce decisa il suo invito a comprare la fortuna: "la
fortuna, la fortuna, compratevi la fortuna". Si sentiva di arrossire
quando si trasformava in questo nuovo mestiere non certamente congeniale
al suo carattere alquanto castigato ed austero, ma per campare era
necessario farlo e poi... poi c'era Carlo Magno da accontentare affinché
desse sfogo al suo estro nella delicata mansione di essere arbitro
niente meno che della scelta della fortuna delle persone. Don Matteo
sapeva che il piccoletto né poteva e né doveva oziare, altrimenti dava
in preoccupanti smanie che inquieto lo facevano girare e rigirare
nell'angusta gabbietta, emettendo striduli gridolini e allora il buon
Don Matteo tirava fuori dalla tasca dei pantaloni quel buon seme che
piaceva tanto a Carlo Magno ed eccolo allora calmo e sereno. Intanto
ecco avvicinarsi due fanciulle, senz'altro avranno sentito i gridolini
di Carletto. "Due fortune, bell'uomo, due fortune". "Belle bambine, sono
qui per questo". Due fortune, quattro soldi, la terza parte per un
modesto aggiustaggio d'ombrello.
"La fortuna, la fortuna, compratevi la fortuna". Ecco avvicinarsi uno
scapolo perditempo del paese, ben pettinato, una vecchia cravatta al
collo e l'aria di chi vuol apparire simpatico a tutti i costi o forse in
attesa di chiedere la mano a qualche ragazza da marito. "Una fortuna don
Matteo, una fortuna fortunata, io vi conosco, siete venuto altre volte,
ma allora ero piccolo, ora sono cresciuto ma non so leggere e se mi
vendete una fortuna buona vi darò mezza lira". "Oh, finalmente un
cristiano che fa vivere", disse Don Matteo, rivolgendosi a Carlo Magno,
"ora prendi una busta celeste". Il piccoletto, tutto agitato e consumato
istrione esibizionista, affonda il becco estraendo la più bella fortuna
dell'anno. "Ed ora leggetela", disse il giovane a Don Matteo il quale,
felice, così improvvisò la lettura del biglietto: "tu sei un bel giovane
ed in questo paese nessuno è bello come te, tre belle ragazze sono
innamorate di te, ma una non è di questo paese. Sposerai quella che
vedrai per prima e sarai ricco perché sei figlio unico". "Ma io ho due
sorelle", interrompe il giovane, ma subito Don Matteo di rimando:
"appunto, il biglietto dice che hai due sorelle che presto si sposeranno
con due giovani ricchi e tu avrai la loro roba". "Allora, la fortuna mi
piace, questa è mezza lira ed in più eccoti quattro soldi e dimmi qual è
il paese dell'altra ragazza". Don Matteo nominò a caso un paese vicino
ad Oppido: "il paese è Tolve e ti conviene andare subito altrimenti
qualche altro sposerà la tua ragazza". Ma Don Matteo non è contento
quando s'imbatte in persone che non sanno leggere, gli dispiace abusare
dell'ignoranza del prossimo. Ma chi è Don Matteo? Da dove è venuto? Nel
1930 una stasi economica senza ripresa incombeva su tutta la Lucania con
chiari risvolti di miseria specie per i meno abbienti. Da ogni parte
giungevano in paese venditori ambulanti, mestieranti ed accattoni d'ogni
genere. Fra questi Don Matteo, che si pensava venisse da Salerno. Da
giovane di fortuna ne ebbe anche troppa"na non essendosi saputo gestire,
la sua vita non ebbe mai una svolta decisiva verso le dovute scelte da
operare. Emigrato quasi trentenne a Parigi nel 1908, ebbe al suo primo
approdo in Francia un'accoglienza provvisoria presso una Società
Sanitaria, un piccolo ospedale gestito da facoltosi privati, filantropi,
che stipendiavano medici specializzati nel combattere la tubercolosi.
Dopo il primo mese di accoglienza i dirigenti dell'istituto chiesero al
giovane Matteo se fosse disposto a portare con una carriola vestiti,
scorie e immondizie varie a bruciare in un inceneritore lontano
dall'ospedale. Matteo accettò di buon grado: un lavoro leggero, vitto
eccellente, un tetto sicuro. Dopo alcuni mesi di lavoro, un bel mattino
stava per buttare una giacca nell'inceneritore quando, improvvisamente,
venne assalito dalla curiosità di esaminarla, sembrandogli questa, dura
come se fosse inamidata. Eludendo la vigilanza dei custodi, mise la
giacca nel suo tascapane. Di sera, isolatosi nella toilette, ruppe le
fodere della giacca e... sorpresa da capogiro, estrasse soldi, soldi e
soldi in tutte le taglie. Nei giorni seguenti accusando strani malesseri
dovuti, secondo i medici a quel genere di lavoro che espletava, venne
subito licenziato con una discreta buonuscita. La quale assommata ai
soldi della giacca costituiva un buon gruzzolo che, se fosse stato
gestito bene, avrebbe potuto dare una svolta giusta alla sua vita. Ma in
pochi anni, pur lavorando in una fabbrica di ombrelli, dissipò più della
metà della sua fortuna in viaggi, divertimenti e pazzie varie. Tuttavia
imparò bene tutte le tecniche per la costruzione degli ombrellini da
collezione che la Francia esportava in tutto il Mondo. Tornando al suo
paese d'origine impiantò una piccola fabbrica. Questa resse per un po'
poiché le vendite erano sporadiche per cui decise di fare l'aggiustatore
ambulante, ma dopo altri insuccessi si trovò ben presto sul lastrico.
pentendosi amaramente dei suoi errori commessi. Pensava che prima di
uscire dal calderone di questo Mondo, ognuno si cuoce da sé come vuole e
di come lui si era cucinato non era per niente soddisfatto. In fondo era
lui che aveva buttato alle ortiche una fortuna arrivatagli fra le fodere
di una giacca. Con questi pensieri Don Matteo, passando per il "Casale"
gridando a malincuore: "la fortuna, la fortuna, si sente chiamare da una
finestra di un piccolo palazzo gentilizio... sì un palazzetto per il
quale il forastiero passante per il Casale (attuale via Umberto), non
può non soffermarsi a guardare lo stupendo antico portale in pietra
viva, con decori floreali scolpiti ad alto rilievo stile tardo-gotico e
spingendo lo sguardo nell'interno, ammirare l'atrio con la cisterna e lo
scalone: un gioiello di architettura del 1450 circa.
Una sobria costruzione, oggi decadente, fatta eseguire dalla Famiglia
Zurlo o dallo stesso Conte Francesco Zurlo, martirizzato ad Otranto
assieme ad altri mille cristiani durante l'occupazione del Sultano
Ottomano Maometto II nell'Agosto del 1480 (3). - Allo stesso Zurlo (a
quel tempo Zurulus) si deve la costruzione del Convento sul cui portale
c'è una lapide a Lui dedicata - Da una finestra, quindi, di questo
palazzo Don Matteo si sente chiamare da una distinta signora anziana che
viveva tutta sola, non per sua volontà ma perché non curata dalla
maggior parte dei paesani (sì, non curata poiché sapendo che era ricca e
colta, sembrava fosse inaccessibile, per cui veniva meccanicamente
isolata, ignorando che era una donna, anche se vecchia, di fine
sensibilità). Questo era il dramma di Donna Carla. "Subito sono da voi",
dice Don Matteo, mentre si reca nell'atrio del palazzo rimuginando tra
sé come mai una nobildonna di quella fatta si ribassasse allo stesso
livello delle bambine o del giovane analfabeta a chiedere la fortuna.
"Signora, eccomi a voi, su Carlo, prendi quel biglietto che non hai dato a
nessuno". "Non è della fortuna che bisogno", dice subito Donna Carla,
"ho bisogno della tua opera per questi ombrellini che sono piuttosto
malandati". Così dicendo mostrò i quattro ombrellini di epoca a Don
Matteo il quale, col fiato mozzato e incapace finanche di balbettare,
riconosce negli ombrellini, oltre l'opera di grandi maestri, anche il
titolo della collezione "Le quattro stagioni". Quei minuscoli oggetti
dai manici d'argento filettati con oro finissimo, avevano un alto costo
di produzione ed essendo d'epoca avevano il valore di una casa. Ognuno
di essi aveva un suo fodero con sopra una dedica: alla gentile signorina
Carla. La quale, fingendo di non essersi accorta dello smarrimento di
Don Matteo e sicura di trovarsi di fronte ad un competente, relegato
purtroppo ai margini della società dice: "ecco, mi devi restaurare
questi ombrellini che sono i ricordi più cari della mia vita, scegliti
nell'atrio un posto dove lavorare ed allora te ne andrai quando avrai
finito il tuo lavoro." Con entusiasmo Don Matteo accetta
quell'ordinazione avendo a disposizione ogni comodità, finanche un
giaciglio preparatogli in seguito nell'atrio da Donna Carla. Ma quando a
sera Don Matteo fu solo nell'atrio del palazzo, deposta la gabbietta su
un tavolino e acceso un piccolo lume, vede Carlo Magno triste e mogio
come mai l'aveva visto. I colori dei bigliettini, depositari delle
potenziali fortune, si sbiadivano di fronte alla tristezza del loro
piccolo e grazioso arbitro con la testolina sotto un'ala. Don Matteo era
senz'altro felice per quel lavoro da fare, ma avrebbe voluto affiancare
alla sua felicità anche quella del pappagallino e se Donna Carla avesse
chiesto la fortuna l'avrebbe visto esibirsi e fare l'attore o
l'istrione, il pavoncello o il pagliaccio di fronte a lei onde farle
dimenticare tante cose, vederla sorridere e distoglierla da quella
dannata solitudine. Ma Donna Carla, ormai sola e stanca, era morta al
Mondo e, benché lontana dai sogni e dalla giovinezza, serbava di questa
il suo unico ricordo: gli ombrellini, una dedica, un amore. Alla
consegna di questi dette a Don Matteo la strepitosa somma di cinquanta
lire. Più che un onorario, quei soldi erano un tacito riconoscimento
alla persona di Don Matteo che, dietro le umili apparenze
dell'aggiustatore, celava una fine sensibilità che si perdeva
nell'accattonaggio per l'amara conquista della sopravvivenza. Donna
Carla, nobildonna di vecchio stampo, sensibile al fascino dell'Arte, non
poteva non apprezzare l'opera di Don Matteo che aveva ridato agli
ombrellini il loro antico splendore. Questa silenziosa e profonda
comprensione reciproca mise in evidenza le loro affinità elettive e nel
momento del commiato essi pensarono la stessa cosa: che la bellezza
appartiene a chi la sa apprezzare e che, uscendo dal calderone di questo
Mondo è una fortuna lasciare questa bellezza in eredità a chi la sa,
oltre che apprezzare, anche conservare, affinché altre generazioni
possano godere quelle profonde estasi spirituali che mai potranno essere
tradotte in gesti o in parole, ma ad una commozione e ad un pianto di
gioia senza fine.
3) Enc. U.T.E.T. Cronologia Universale pag. 475
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