FORMAZIONE DELLA CHIESA RECETTIZIA, CURATA,
INNUMERATA DELLA TERRA Dl TRIVIGNO
Dalle carte
conservate nell'archivio parrocchiale e dagli atti notarili è possibile
elaborare la storia della formazione della Chiesa recettizia, curata,
innumerata della Terra di Trivigno; era definita"recettizia", perché i
sacerdoti che esercitavano in essa il loro ministero erano riuniti in un
Capitolo di Chierici e partecipavano ai benefici che andavano a
costituire la massa comune dei beni, di per sé inalienabili e le cui
rendite dovevano essere equamente divise tra i componenti del Capitolo
"sacra distributio". Era detta "curata" perché tutti i Sacerdoti
partecipanti erano tenuti a collaborare nella cura delle anime
attraverso la catechesi, la predicazione, la celebrazione della Santa
Messa, con il parroco, che era solo "primus inter pares"; "innumerata"
perché il Reverendo Capitolo aveva la facoltà di ammettere ad esso un
numero illimitato di componenti, purché nati nella stessa "Terra"
(essendo stata istituita come chiesa dall'Università), dopo che il
Vescovo aveva accertato, attraverso "saggio di probità e dottrina", la
loro idoneità.
Questa organizzazione aveva la sua origine nella chiesa patrimoniale
spagnola, il cui modello si diffuse nel mezzogiorno d'Italia durante il
periodo della dominazione spagnola nei secc. XV-XVI (29).
Il primo documento pubblico di cui si è a conoscenza, è un atto notarile
del 1675 rogato tra l'Università di Trivigno e il Clero, in cui si
stabilivano patti relativi al servizio che esso doveva svolgere a
vantaggio della collettività, assumendo così ufficialmente il suo ruolo,
oltre che religioso anche sociale e civile (33).
Con tale atto l'Università s'impegnava a corrispondere annualmente al
clero 30 ducati e 20 grana per le cere, 63 ducati e mezzo per le
funzioni, inclusi i 6 ducati per la lettura del Passio e, al posto delle
decime, doveva versare un quarto di grano per ciascun bove, o per
ciascuna casata, se ne era sprovvista.
A causa della estrema povertà della Chiesa, l'Università doveva
corrispondere al clero anche tonacelle, pianete, calici e 12 ducati per
fare fronte alle spese nelle feste principali (Natale, Settimana Santa,
Pasqua, Corpus Domini), durante la Santa Visita del Vescovo e, al tempo
della Comunione, fornire la farina per le Ostie.
Il Clero, da parte sua, s'impegnava a servire la comunità in ogni
momento, specialmente nelle festività e solennità a celebrare tre messe
alla settimana.
Nello stesso atto si elaborò lo "ius mortuorum": si convenne che per
officiare con prete e chierico il funerale di un bambino fino a sette
anni si dovevano pagare 2 carlini e 4 candele, per un figliuolo in età
maggiore fino ai 14 anni 6 carlini e una libbra di cera. Per il funerale
di un adulto si fissò il pagamento in 20 carlini e due libbre di
candele, o di 35 carlini, due libbre di cera con tumulazione nella
Chiesa Madre se la famiglia, in rispetto alla volontà del defunto,
voleva l'intervento di tutto il Clero, con messa cantata; questa
convenzione venne ulteriormente chiarita nei dettagli nel 1692 (31).
Col passare del tempo la popolazione aumentò; tra il Clero e
l'Università si crearono delle incomprensioni e controversie tanto da
ricorrere al Principe del feudo; il 18 gennaio 1705, in presenza del
notaio Francesco Spasiano e dell'Agente del Principe Pietro Cancillari,
si ebbe la riconferma dei patti (32); il sindaco dell'Unità Egidio
Allegretto e gli altri eletti, Francesco Antonio Iemundo, Giovanni
Coluzza e Gregorio de Sagoda, acconsentirono a versare al Clero altri 26
ducati e mezzo, giungendo così ad un totale di circa 90 ducati l'anno.
I Sacerdoti, da parte loro, s'impegnarono a solennizzare tutte le feste,
celebrare la messa mattinale, per il comodo della collettività che, già
dal 30 giugno 1704, dava al Clero 8 ducati e mezzo all'anno, per
l'acquisto alla fiera di Grottole dell'incenso e della cera necessari
per le funzioni religiose (33). Si fornì così una minima rendita per il
funzionamento della parrocchia e il mantenimento del Clero, a cui si
provvedeva peraltro con lasciti alla chiesa da parte di privati
cittadini, come attesta la registrazione delle rendite annuali dell'ex
Recettizia (34).
Il primo lascito fu di Francesco Sponso: il 7 agosto 1653 nel suo
testamento dispose che la vigna in contrada Spinoso doveva essere
venduta dal Rev. Clero e, con il ricavato, officiare il suo funerale e
celebrare Messe per l'anima sua e della moglie Magdalena Martiello,
indicando Giambattista Sarla quale esecutore testamentario.
Nel 1655 il 25 maggio Mastro Andrea Spagnuolo, nella sua casa, sita in
contrada Castiello, dispose che il suo corpo fosse sepolto nella Chiesa
Madre e lasciò 20 carlini per il male oblato (pagamento volontario di
un'ammenda per avere agito male) e 7 carlini per la cera da accendere
sopra il suo corpo (nota bene: la fiamma della candela indica la forza
della fede).
Con l'infuriare della peste nel 1657 la popolazione era atterrita e, non
essendoci alcun rimedio contro il male, si pensava almeno a salvare
l'anima; chi aveva disponibilità, faceva testamento a favore del Rev.
Clero con vari lasciti (case, vigne, animali, indumenti, effetti
personali), chiedendo in cambio Messe per sé e per i familiari defunti,
funerale con Messa cantata o letta e sepoltura nella Chiesa Madre.
Questa indicazione specifica fa comprendere che esisteva un altro luogo
di sepoltura, il cimitero, così come si legge nel I Libro dei Morti
(35). La collettività però non dimenticava i più bisognosi, Rocco
Coronati nel 1677 e Antonia Carramone nel 1680 nei rispettivi testamenti
lasciarono parte dei loro beni al Monte dei poveri, più comunemente
detto "Congrega della Beneficenza", intestati al Capitolo del Rev.
Clero, che doveva provvedere a non fare mancare il sostegno spirituale e
materiale ai più diseredati. La gestione delle rendite da parte del
Clero, affidata all'Economo curato era però disordinata e imprecisa,
tanto che il Vescovo di Acerenza (da cui è sempre dipesa la Chiesa di
Trivigno) incaricò l'Università, (proprio perché Essa conservava sulla
chiesa il patronato laico), nella persona degli eletti Domenico
Santangelo, Mastro Antonio Garzonetto, Gregorio Beneventi, di riscuotere
quanto dovuto alla Cappella di Sant'Antonio di Padova, cioè 24 ducati, 4
tarì, 11 grana per la vendita di animali e altri lasciti, oltre 27
ducati per quella del grano (36).
Dispose inoltre che Francesco Sassano, esattore delle collette, le
doveva devolvere in fede di credito parte al Banco di Santo Spirito di
Napoli e parte alla Beneficenza o Monte dei Poveri, per darle ad annuo
censo a persone solvibili. È da notare l'incongruenza della richiesta,
perché i poveri per cui era stata istituita la "Beneficenza", non avendo
beni da dare in garanzia, non potevano usufruire di alcun prestito.
Il Rev. Capitolo aveva accumulato nel tempo un notevole patrimonio di
beni mobili e immobili, gestendo in gran parte l'economia del paese.
Nel 1734 Carlo III di Borbone ritenne più equo tassare non più per
"fuoco" (nucleo familiare) ma le rendite dei beni mobili e immobili
espresse in oncia (37), estendendola anche alle rendite derivanti dai
beni ecclesiastici, da sempre esenti da imposte.
In seguito al Concordato del 1741 tale tassazione venne limitata ai soli
beni che erano al di fuori del patrimonio sacro e, per quelli acquisiti
anteriormente a tale data, I'imposta doveva essere dimezzata. In questo
modo si sottrasse ulteriormente la chiesa all'autorità ecclesiastica,
più per convinzione politica che per ispirazione illuministica,
agevolando ancora di più la laicità della chiesa recettizia.
Dal Catasto Onciario (38) si apprende che il Clero di Trivigno era
costituito da ventotto sacerdoti e un parroco arciprete; tutti
risultavano proprietari di case (per lo più palazziate), terreni,
animali, per cui rispetto alla collettività costituita da massari,
artigiani, bracciali, godevano di una condizione economica abbastanza
buona, vivevano di solito presso la famiglia d'origine con cui
condividevano i beni e ne accrescevano il prestigio.
La chiesa di San Pietro nel corso del tempo, sia per mancanza di mezzi
che per scarsa manutenzione, si deteriorò a tal punto che nel 1726, a
causa del cedimento del pavimento, non fu possibile amministrare la
Cresima (39), per cui intorno al 1730 i rappresentanti dell'Università
affidarono a Mastro Giuseppe Alicchio, della Terra di Oppido (per una
spesa complessiva di 600 ducati) importanti lavori murari di
consolidamento e ampliamento della chiesa, costituiti da coro con
cappellone, sagrestia e cappelle aggiunte con volte a crociera che, male
eseguiti, in parte crollarono. Nacque pertanto nel 1739 un contenzioso
tra l'Università e il Mastro Muratore che addebbitò l'accaduto
all'imperizia dei Mastri fabbricatori e s'impegnò, a sue spese, a rifare
le lamie, gli archi ben lavorati e consegnare la chiesa entro il mese di
maggio del 1740 (40).
I lavori purtroppo non andarono avanti, come promesso, per cui i
rappresentanti dell'Università e del Clero si videro costretti il 3
maggio del 1741 (41) ad affidare l'incarico a Mastro Francesco Prunetti
della Terra di Gravina e a Mastro Giuseppe Lauro di Lecce.
Essi s'impegnarono a rifare, per l'importo di 330 ducati, le cinque
lamie, gli archi della navata maggiore, i pilastri, il tetto, il
frontone della chiesa con tufi lavorati e a terminare i lavori entro il
mese di agosto del 1741.
Naturalmente questo intervento fu condizionato dai lavori
precedentemente eseguiti non del tutto confacenti con l'assetto
originario dell'edificio sacro (42). L'Università e il Clero, onde
evitare ulteriori danni economici, inutili attese, disagi per la
popolazione, affidarono il controllo dell'opera al Magnifico Alessandro
Coronati e a Mastro Domenico Marotta.
Nel frattempo l'Università il 22 agosto 1733 (43) aveva commissionato
per 130 ducati, a Mastro Antonio Mazzella di Potenza il coro da
sistemarsi nell'abside, con stalli e inginocchiatoi in legno di noce,
castagno e cipresso e l'ossatura di quercia, chiodi e "scribbi" di buona
qualità. Il pagamento doveva avvenire secondo modalità ben precise: 30
mezzetti di grano da consegnare a Trivigno alla "noce", 4 ducati in
contanti per comprare il materiale occorrente per la costruzione del
coro. Terminati finalmente questi lavori la collettività ritenne
necessario dotare la chiesa di un nuovo organo che fu commissionato il
22 ottobre 1753 a Mastro Leonardo Carella del Vallo di Novi (44) il
quale s'impegnò a consegnarlo entro sei mesi, sistemarlo sull'"Archesto"
della porta grande della Chiesa Madre, per il prezzo di 150 tomoli di
grano e 75 ducati in contanti, oltre l'organo vecchio. Mancavano però le
stazioni della Via Crucis, per cui il parroco Don Donato Antonio
Marotta, dopo avere ottenuto il permesso dalla Curia di Acerenza, il 5
maggio 1769 ne commissionò l'esecuzione a frate Francesco da Miglionico
dei Reverendi Padri del Convento dei Minori Riformati di Laurenzana, con
l'obbligo di sistemarle nella Chiesa Madre di Trivigno (45).
Alla chiesa così rinnovata, il Principe Carafa, per particolare
devozione e per l'affetto paterno che aveva per i suoi vassalli, donò
nel 1771 (46) un apparato di altare di "ramo cipro" consistente in una
grande croce, dodici candelieri, altrettante frasche di cartagloriae e
lavabo. Nel 1775 offrì un altro apparato per Messa Cantata, consistente
in "Cappa, Pianeta e tonacelle" affidandone la custodia al Sindaco
dell'Unità, Don Domenico Filitto, con l'obbligo di fornirli al Clero,
ogni volta che ne fosse stata fatta richiesta; per molto tempo, fino
all'eversione della feudalità (1806), la Famiglia Carafa provvide alla
fornitura dell'olio per alimentare la lampada accesa dinanzi al SS.
Sacramento (47).
Successivamente, nel 1784, Donna Maria Francesca Buoncompagno Carafa
concesse alla Chiesa di Trivigno la reliquia di San Basileo, costituita
da un'urna con le spoglie del Santo, collocata sotto l'altare del SS.
Crocifisso (48).
Di tutti questi arredi non se ne conserva memoria, se non nelle carte.
Il Clero della Chiesa Recettizia, curata, innumerata della Terra di
Trivigno, il 28 marzo 1792 richiese che gli Statuti su cui si fondava la
chiesa ricevessero il Regio Assenso, che venne concesso il 13 giugno
1792, dopo un attento esame da parte della Reale Camera di Santa Chiara
di Napoli (49). Essi non ledevano in alcun modo i diritti della
sovranità e del pubblico e regolavano il buon governo, l'esercizio
ecclesiastico e l'amministrazione dei beni della Chiesa e prevedevano
che ad essa fossero ascritte solo persone nate nella stessa Terra. Gli
Statuti erano costituiti da 24 articoli; i primi 13 regolavano
minuziosamente le mansioni spettanti all'Arciprete, al Cantore e, così
come da antica consuetudine, la suddivisione equa degli emolumenti tra
tutti i sacerdoti, 5 disciplinavano l'immissione alla chiesa dei
chierici (previa licenza del Monsignore Arcivescovo) e inoltre venivano
bene specificati i loro doveri nel triennio del noviziato; 6
individuavano e regolavano il servizio dei sagrestani, che doveva essere
espletato dai suddiaconi, avvicendandosi nei compiti loro assegnati.
Per ridare tranquillità al Clero, essendo sorte varie controversie
interne, su richiesta dell'Arciprete Don Francesco Antonio Abbate, il 3
settembre 1814, gli Statuti vennero riconfermati e resa più dettagliata
la normativa riguardante gli obblighi che dovevano essere assolti da
tutti i sacerdoti, la suddivisione dei proventi delle Messe e delle
Decime e la regolamentazione delle funzioni religiose, in occasione
della morte di un sacerdote (50).
L'Arciprete don Giuseppe Passarella e il Clero, il 14 febbraio 1847
rettificarono lo Statuto della chiesa di Trivigno per uniformarlo allo
Statuto Generale (Articolo 31) e alle altre Reali Disposizioni (51). Il
primo articolo era molto importante perché, la insignita chiesa di
Trivigno, sotto il titolo di San Pietro Apostolo, oltre ad essere
Recettizia diveniva numerata con 12 titoli, incluso il Parroco; si
prescriveva inoltre che la rendita della Chiesa, di 614,80 ducati,
doveva essere così distribuita: al Parroco, per sua congrua 150 ducati,
2 porzioni di 10 ducati l'una, che il parroco stabiliva di dare a coloro
che, nell'ambito del Clero, si erano distinti nel servizio della chiesa
e nella cura delle anime. l rimanenti 360 ducati erano divisi in 9
porzioni minori di 40 ducati e, spettava all'Ordinario della chiesa
conferirli ai soli ecclesiastici naturali che avevano assolto il loro
ministero con devozione e zelo.
La chiesa conservava sempre due dignità: Arciprete-Parroco, che era il
capo e il Cantore; inoltre, con l'assegnazione dei vari compiti,
responsabilità e onorari, la gerarchia del Clero era così ben definita.
Queste nuove norme, dettate da esigenze di ordine ecclesiastico, oltre
che politico, modificarono i rapporti esistenti nel clero; infatti si
passò da una situazione quasi paritaria, sia nella dignità che nella
suddivisione dei compiti e delle rendite, ad una posizione preminente
dell'autorità del Parroco, rilevabile non solo dalle attribuzioni di
specifiche competenze, ma anche dall'assegnazione di una "congrua"
(paga), costituita da un quarto delle rendite della chiesa e dalla
facoltà di distribuire le restanti rendite, suddivise in piccole quote,
secondo suo giudizio discrezionale, agli altri sacerdoti e chierici.
Dopo pochi anni gli eventi storici modificarono radicalmente il rapporto
tra Chiesa e Stato. In base alla legge n. 3036 del 7 luglio 1866 i beni
e le rendite della Parrocchia passarono in possesso dello Stato italiano
che istituì il Fondo per il Culto, a cui venne affidata
l'amministrazione dei beni ecclesiastici e al Clero fu corrisposta un
assegno che lo Stato versava al Parroco per il suo ufficio. Per la
definizione di quest'ultimo sorsero contestazioni tra le parti che
terminarono anche se solo parzialmente, con l'emissione del Decreto
Sovrano del 28 luglio 1898, in cui venne chiarito che spettava al Comune
sostenere tutte le spese per l'espletamento del culto (52).
Il 22 novembre del 1911 il parroco Don Ferdinando Abbate fece presente
al Ministro di Grazia e Giustizia e Culto che la Chiesa Madre aveva il
muro maestro dell'abside lesionato, le volte e gli archi di sostegno
minacciavano di crollare, inoltre i soffitti e il pavimento, consunti
dal tempo, erano indecentissimi e il campanile colpito da un fulmine
aveva urgente bisogno di essere ripristinato.
Tutto ciò fu documentato anche dalla perizia che il perito Giovanni
Padula il 5 dicembre dello stesso anno presentò al Comune, in essa erano
bene indicati i lavori urgenti da eseguire e l'importo che ammontava a
L. 1800. Tale richiesta non ebbe alcun esito, per cui fu rinnovata il 22
settembre del 1914 dall'Arciprete Don Luigi Abbate, che accluse
l'ulteriore perizia effettuata dal Mastro muratore Filippo Carrera il 14
febbraio del 1914, per la somma di L. 3066,69. Trascorse ancora molto
tempo tanto che nel 1924, a causa dell'urgenza dei lavori non più
dilazionabili, l'Arciprete Don Vincenzo Allegretti, rendendosi conto
dell'impossibilità da parte del Comune di fare fronte alle spese
necessarie, a causa della precaria situazione economica in cui versava,
ottenne dalla Curia di Acerenza il permesso di vendere gli ex-voto
offerti dai fedeli a Sant'Antonio di Padova e San Rocco, ricavando in
tale modo L. 3710,80, a cui si aggiunsero L. 4930,05 inviate dai
trivignesi emigrati all'estero. I lavori ebbero finalmente inizio,
I'antica campana risalente al 1705 venne fatta rifondere da Mastro
Gennaro Refandelli di Sant'Angelo dei Lombardi, che impiegò per l'opera
98 kg. di metallo e bronzo. Tutti gli artigiani più qualificati di
Trivigno furono chiamati a fornire la loro opera: i fabbri Tommaso
Coronati e Luigi Orga approntarono i cugni di ferro, eseguirono
l'accomodo del battaglio e la foratura del ceppo che doveva reggerla,
Francesco Carillo fuse 20 kg. di ferro per rinnovare l'asse della
campana grande e i falegnami Salvatore e Giovanni Petrone approntarono
la forma di terra romana (53).
Soltanto nel 1930 i lavori terminarono e le funzioni religiose ripresero
ad essere celebrate nella Chiesa Madre. A merito della popolazione di
Trivigno bisogna dire che tutti, secondo le proprie disponibilità,
collaborarono a rendere la chiesa di nuovo operante.
Malgrado l'impegno profuso dal parroco e sacrifici dei fedeli, dopo
breve tempo le strutture portanti della chiesa presentavano lesioni
molto gravi, per cui nel 1935, si richiese un intervento urgente alle
autorità competenti. Dalla Soprintendenza di Reggio Calabria fu inviato
l'architetto Nava che in un'attenta e precisa relazione, constatati e
individuati i danni, indicò quali lavori eseguire (54). Gli eventi
bellici della II guerra mondiale fecero sì che tutto fosse rinviato, si
pose mano alla ristrutturazione dell'edificio soltanto verso la fine
degli anni '50, purtroppo la struttura originaria non fu rispettata,
anzi ne risultò impoverita. Infatti furono eliminati nel coro i due
ordini di stalli con sedia arcipretile e leggii in noce e il fastigio
intagliato e dorato che abbelliva la nicchia di San Pietro (55),
eliminati gli altari dedicati ai Santi (i candelabri in legno dorato o
argentato e i leggii che erano a corredo di essi sono scomparsi), ad
eccezione dell'altare del Crocifisso attualmente detto del SS.
Sacramento.
Venne sostituito il soffitto della navata maggiore, costituito da un
lacunare ligneo intagliato e dorato (56) con al centro un bel dipinto
raffigurante San Pietro Apostolo con la scritta:
TU ES PETRUS
ET SUPER HANC PETRAM
HAEDIFICABO ECCLESIAM MEAM
e cancellata la frase che correva tutto intorno alla chiesa al di sopra
alla cornice di abbellimento "DOMINUS DIXIT: DOMUS MEA, DOMUS ORATIONIS
QUI PETIT, ACCIPIT PULSATE ET APERIETUR VOBIS" (57).
Venne chiusa la grande cripta ipogea adibita sotto il transetto alla
sepoltura dei sacerdoti, la rimanente parte in cui trovavano posto i
fedeli e le relative quattro botole di accesso.
Scomparve inoltre la sepoltura di Don Carlo Carafa, morto a Trivigno il
2 ottobre del 1832 (58), Marchese di Anzi e Trivigno, Principe di
Belvedere, ultimo discendente in linea maschile della famiglia (59).
La reliquia di San Basileo in quanto manomessa, è stata invece
conservata dal parroco Don Giuseppe Ciorciaro.
Si è perduta infine ogni traccia di un'interessante "Deposizione" di
scuola fiamminga e di quadri di discreta fattura raffiguranti le Anime
del Purgatorio, l'Annunziata, l'Assunta (60). Ladri sacrileghi negli
anni '70 hanno inoltre sottratto tutti gli arredi sacri in argento (61),
costituiti da un Ostensorio cesellato, un incensiere, una Croce, un
secchiello, un'ampollina per Olii Santi, un Calice e anche il quadro
della Madonna della Stella, molto cara ai fedeli per antica devozione e
la statua della Madonna Immacolata (62).
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