Home Page

Artisti Lucani

Guest Book

Collaborazione

Carmine Curcio

Picerno

.

STORIE DI SANTI, DI EROI E DI EMIGRANTI

"LA PORTA DI SAN NICOLA A PICERNO"

 

Carmine Curcio

<< precedente

INDICE

successivo >>


CAPITOLO  III°

PICERNO “LEONESSA DELLA LUCANIA”

UNA RESISTENZA “LUNGA, OSTINATA ED EROICA”

Narrano gli storici che durante la rivoluzione napoletana del 1799 Picerno fu il centro di raccolta dei repubblicani della Basilicata occidentale e che il popolo picernese oppose una resistenza lunga, ostinata ed eroica alle truppe sanfediste del cardinale Ruffo comandate da Gerardo Curcio da Polla, detto Sciarpa. Per quella strenua resistenza, a Picerno venne attribuito più tardi il poetico appellativo di Leonessa della Lucania (10 -fonti bibliografiche e sitografiche)..
A Picerno, riferisce il noto storico napoletano Vincenzo Cuoco, fecero prodigi per la libertà. Si batterono «fino a che ebbero munizioni, e quando non ebbero più munizioni, per avere del piombo risolvettero in parlamento di fondersi tutti gli organi delle chiese. I nostri Santi, si disse, non ne hanno bisogno. Si liquefecero tutti gli utensili domestici, finanche l’istrumenti più necessari della medicina; le femmine, travestite da uomini, si batterono in modo da ingannare il nemico più col loro valore che colle loro vesti»
(10-11-12 - fonti bibliografiche e sitografiche). Dello stesso tenore la testimonianza di Pietro Colletta, nella “Storia del Reame di Napoli” (13 -fonti bibliografiche e sitografiche), di Sergio De Pilato (10 -fonti bibliografiche e sitografiche). ne “il 1799 in Basilicata” e di Francois Lenormant nelle sue note di viaggio “A travers l’Apulie et la Lucanie” (14 -fonti bibliografiche e sitografiche). Molti assalti furono respinti, ma essendo privi di artiglieria, al contrario delle truppe di Sciarpa che erano munite di cannoni, i picernesi subirono molte perdite. Alla fine, i pochi rimasti, senza né armi né altre risorse per difendersi, cercarono scampo nella Chiesa Madre, dove furono ugualmente raggiunti e massacrati dai sanfedisti. «Quando i vincitori arrivarono, il sacerdote Nicolò Caivano fece aprire le porte e si presentò sulla soglia della chiesa con i paramenti sacri, elevando l’ostensorio al di
sopra della sua testa», come riportano sia Sergio De Pilato
(10 -fonti bibliografiche e sitografiche) che F. Lenormant (14 -fonti bibliografiche e sitografiche). «Pensava di poter ispirare in loro il rispetto e di fermare la rabbia omicida. Vana speranza ... cadde per primo, crivellato dai colpi del nemico». Un’altra testimonianza, quella del sacerdote Bernardino De Meo (10 -fonti bibliografiche e sitografiche), riferisce invece che Nicolò Caivano fu ucciso in chiesa a colpi di pietra mentre presentava l’immagine di Cristo crocifisso. Era il giorno 10 Maggio del 1799. I morti furono 70, tra i quali 19 donne. A quei morti Mario Romeo dedicò dei componimenti poetici carichi di amarezza (15 -fonti bibliografiche e sitografiche). Non vi fu solo il massacro ma anche incendi e saccheggi. Ben documentato è l’incendio di Palazzo Carelli (16 -fonti bibliografiche e sitografiche). «Per una di quelle ingiustizie di cui la storia è colma», commentò Lenormant qualche decennio più tardi, «l’eroico sacrificio e la caduta di Picerno passarono inosservati tra gli avvenimenti della fine della Repubblica Partenopea: Sono rimasti ignorati per 80 anni senza che nessuno storico ne facesse menzione...» (14 -fonti bibliografiche e sitografiche). A sua volta l’avvocato tursitano Luigi Ettore Cucari, presidente del consiglio provinciale di Basilicata e candidato alle elezioni del 1919 contro Francesco Nitti, nel suo “Viaggio elettorale in Basilicata”, manifesta tutto il suo sdegno in un’amara riflessione che ho voluto qui riportare in quanto condivido quel risentimento. Afferma Cucari: «Picerno ha una pagina gloriosa, cui è mancato uno storico o poeta. In quel gruppo di case nerastre si asserragliò una popolazione di eroi, e si consacrò a sicura morte per un’idea... Se quell’episodio fosse avvenuto in qualche angolo remoto di Guascogna o di Sciampagna, se ne sarebbe impadronita la prosa sonante di Giulio Michelet, ed avrebbe corso il mondo… invece tra i napoletani, turba di avvocati e filosofi a spasso, nessuno seppe raccontare tanta gloria, e Picerno, vecchio nome lucano, si perdette nell’oblio» (17 -fonti bibliografiche e sitografiche).
In verità due napoletani che quella gloria seppero raccontare ci furono, e si chiamavano Vincenzo Cuoco e Pietro Colletta
(11-13 -fonti bibliografiche e sitografiche). È però anche vero che non tutti gli storici concordano sulla dimensione eroica della resistenza del popolo picernese alle truppe controrivoluzionarie di Sciarpa e Ruffo.
Lo storico Giacomo Racioppi
(18 -fonti bibliografiche e sitografiche)., ad esempio, ridimensiona molto e, a mio parere ingiustamente, la portata di quegli avvenimenti. A Picerno, riferisce testualmente lo storico, «vi fu qualche resistenza, che la poesia della storia di parte liberale disse lunga, ostinata ed eroica...». Egli dubita pertanto che la resistenza fu eroica e, proseguendo nella critica storica, nega che le donne morirono combattendo e che la capitolazione fu onorevole; proiettando in questo modo un’ombra di scetticismo sul valore complessivo di quella lotta*.

* Nelle pagine da lui scritte sui fatti di Picerno. Racioppi esprime delle sue opinioni in certa misura contrastanti con quanto è stato scritto da altri, senza il supporto di nuova e diversa documentazione. Le sue valutazioni in merito ai fatti citati hanno pertanto, a mio parere, più un sapore giornalistico che storico. Racioppi descrive i fatti di Picerno non come eroica resistenza, bensì come una scaramuccia sostenuta quasi unicamente dai fratelli Vaccaro: «Morti i fratelli Vaccaro che del loro petto sostenevano la difesa, la città aprì le porte: i briganti entrarono; e del primo furore dei micidiali e ladroni, restarono vittime donne e uomini inermi... di saccheggiamenti le storie non parlano». Dunque tutti quei morti e tutti quei condannati per una scaramuccia. Se le cose stessero nei termini raccontati da Racioppi, ci sarebbe anche da presumere che i fratelli Vaccaro sbagliarono a concentrare su Picerno gli sforzi per la difesa della Repubblica. Sempre Racioppi racconta che invece una «valorosa resistenza vi fu a Muro, dove nonostante questa, le truppe di Sciarpa entrarono in paese uccidendo e saccheggiando». Delle donne che morirono, Racioppi dice testualmente: «che le donne cadessero combattendo non so se altri lo creda, io non posso». Aparte la grossolanità della forma, che tale rimane a prescindere dal valore dell’illustre storico, mi chiedo se sia lecito insultare la memoria di quelle eroiche martiri della libertà, senza uno straccio di controprova. E perché mai avrebbero dovuto travestirsi da uomini se non per partecipare in qualche modo alla battaglia? Degli incendi e dei saccheggi Racioppi afferma che non ce ne furono. I documenti riportano invece che ce ne furono16. Quanto alla capitolazione, secondo lui fu tutt’altro che onorevole in quanto «la città tornò all’antico e i patrioti che non morirono nella mischia, scomparvero altrove». A parte il fatto che la lunga lista di condannati come rei di stato dimostra il contrario; ma quale sarebbe la loro colpa se fossero scomparsi altrove? Dopo una rivolta fallita, la via di scampo dei rivoltosi è sempre stata la fuga per riparare altrove. Lo fu anche per Garibaldi e Mazzini.
In conclusione, sulla base delle considerazioni fatte, ritengo che le valutazioni di Racioppi sui fatti di Picerno siano inattendibili e che di conseguenza non si debbano tenere in alcun conto. D’altro canto, se quelle valutazioni fossero veritiere, tutto quanto è stato fatto e detto per celebrare quegli eventi assumerebbe la dimensione di una gigantesca montatura. Non mi pare sia questo il caso.

Sono consapevole dell’esigenza primaria che ha lo storico di distinguere sempre e comunque i fatti dai miti, ma in questo caso ritengo che lo scetticismo del Racioppi sia eccessivo e che, tra le due versioni, la più attendibile sia quella testimoniata sia da Vincenzo Cuoco che da Pietro Colletta, non solo storici altrettanto autorevoli, ma anche contemporanei ai fatti. Mi è difficile pensare che entrambi questi storici, i quali ci hanno consegnato una descrizione così ricca di dettagli sul comportamento della popolazione durante quegli eventi, abbiano stravolto completamente i fatti (10-13 -fonti bibliografiche e sitografiche). Non si trattò dunque di azioni magnificate dalla poesia della storia, bensì di fatti riportati con scrupolo; anche se una qualche esagerazione da parte di Cuoco, di Colletta e di altri non si può escludere. Se questo fosse avvenuto, si tratterebbe tuttavia di una colpa perdonabile. Dopo tutto, in quella lotta la poesia non mancò, perché dove si combatte e si è disposti anche a morire per difendere degli ideali, lì ci sono necessariamente sentimento, emozione, passione, eroismo, ardore, disperazione, che sono la sostanza di cui è fatta la poesia. È vero che eccedendo nell’esaltazione si rischia di scivolare nella retorica, ma è anche vero che atteggiamenti di sufficienza, di scetticismo e di minimizzazione rischiano di risultare ingiustamente dissacranti nei confronti di coloro che in quella lotta e per quegli ideali ci rimisero la vita.
In fin dei conti, poco importa se le donne morirono o non morirono combattendo; se le canne dell’organo furono o non furono fuse per farne pallottole; se il sacerdote fu assassinato in chiesa a colpi di pietra, oppure a fucilate sul sagrato; se la resistenza del popolo picernese fu meno eroica o più eroica e la capitolazione meno onorevole o più onorevole. Ciò che più conta è che in un momento di grandi fermenti ideali e di movimenti che agitarono e scossero tutta l’Europa, Picerno, dimostrandosi paese aperto a ciò che succede nel resto del mondo, non solo rispose con prontezza all’appello, ma partecipò alla lotta battendosi dalla parte giusta con grande determinazione e innalzando il proprio vessillo così in alto, che lo videro anche da molto lontano.

IL PANNELLO 5

Sul pannello dedicato ai fatti del 1799 fin qui commentati, per contrastare lo scetticismo di Racioppi e riaffermare con forza la dimensione eroica di quella lotta, chiesi allo scultore di rappresentare l’appellativo di Leonessa della Lucania con grande vigore e tutta l’efficacia espressiva possibile. Cataldi ha risposto da par suo, raffigurando sulla parte alta del pannello un’energica leonessa che ruggisce aggressiva tra i cespugli, con la vecchia torre di Picerno da una parte e la forma della Basilicata dall’altra. In basso, l’eccidio sul sagrato della Chiesa Madre con la figura del sacerdote colpito a morte in mezzo ad altri caduti, che regge ancora saldamente tra le mani l’ostensorio. Ai margini della scena si intravede uno degli assalitori con l’arma puntata.

Pannello 5 - Picerno, Leonessa della Lucania - Foto Raffaele Martino Scorcio panoramico di Picerno nel passato con la vecchia torre diroccata

 

APPENDICE AL CAPITOLO III

CONSIDERAZIONI SULLA PARTECIPAZIONE DEI CONTADINI AI MOTI DEL 1799

Sulle ragioni che motivarono la partecipazione dei contadini ai moti del 1799, desidero proporre, in appendice a questo capitolo, alcune riflessioni derivanti dal mio vissuto all’interno di quel mondo negli anni cinquanta e contigui, quando la condizione dei lavoratori della terra aveva ancora molte somiglianze con quella di duecento anni fa. È stato detto che i contadini lottarono per la terra e non per la Repubblica, che erano indifferenti alle forme di stato e di governo perché non le conoscevano, che non morirono per la libertà che a loro non apparteneva ed altri simili giudizi che in qualche modo tendono a svilire le ragioni della loro partecipazione alla rivolta. Insistere nel dire che i contadini lottarono per la terra e non per la Repubblica, equivale a dire che essi sapevano lottare brutalmente e rozzamente solo per un bene concreto e non per qualcosa che avrebbe richiesto una passione e una carica ideale a loro estranea e, che la lotta per la Repubblica non era roba per loro, ma solo per componenti sociali dotate di maggiore sensibilità e cultura. Invece non è così, perché laddove la Repubblica si presentò fin dall’inizio con una identità veramente rivoluzionaria, anche i contadini ne compresero subito la portata e aderirono immediatamente all’appello, come avvenne a Picerno. Scrive infatti Cuoco: «in Picerno, appena il popolo intese l’arrivo dei Francesi, corse, seguendo il suo parroco, alla chiesa a rendere grazie al Dio d’Israele, che aveva visitato e redento il suo popolo. Dalla chiesa passò ad unirsi in parlamento ed il primo atto della libertà fu quello di chiedere conto dell’uso che per sei anni si era fatto del pubblico danaro. Non tumulti, non massacri, non violenza accompagnarono la rivendica dei suoi diritti... il secondo atto della libertà fu quello di rivendicare le usurpazioni del feudatario. E quale il terzo? Quello di far prodigi per la libertà istessa...» (10 -fonti bibliografiche e sitografiche). Laddove invece la Repubblica si presentò col volto dei grandi possidenti che volevano tutta la terra per se stessi, lasciando gli altri a mani vuote, le masse contadine fecero bene a non aderirvi. E perché mai avrebbero dovuto? Dopo tanti secoli di asservimento al regime feudale, avevano tutte le buone ragioni per non farsi ancora una volta strumento di interessi altrui. A Picerno i contadini si schierarono immediatamente a favore della Repubblica perché intesero fin da subito che la Repubblica si proponeva sia di eliminare la feudalità sia di distribuire le terre e ci credettero. Questo è vero, viene replicato, però i contadini lottarono per la terra e non per la Repubblica; se non ci fosse stata di mezzo la terra non avrebbero aderito. Ma siamo sicuri che i borghesi e i grandi possidenti avrebbero aderito alla Repubblica se non avessero avuto la prospettiva di prendersi le terre del feudatario? E gli stessi intellettuali avrebbero continuato ad essere convinti repubblicani se la Repubblica si fosse presentata come un guscio vuoto, senza cioè i contenuti necessari per fare da supporto alle loro convinzioni? La verità è che nell’ampio contesto della rivoluzione del 1799 si mescolarono esigenze diverse, variabili da una componente sociale all’altra, ciascuna delle quali ebbe le sue motivazioni e, a giusta ragione, anche i coltivatori della terra ebbero le proprie; è però anche il caso di ricordare che quella della terra fu la questione centrale per tutti e non solo per i contadini. C’è di più: la scelta dei contadini di lottare per la Repubblica e di inscrivere le proprie rivendicazioni all’interno di un programma politico più ampio e articolato, attesta che avevano raggiunto un grado di consapevolezza politica molto maggiore di quanto ne sia stata loro attribuita. Capivano che lottare solo per la terra non avrebbe dato risultati e sapevano anche che qualora la Repubblica fosse stata sconfitta, tutto sarebbe rimasto come prima. Forse anche per questo continuarono a lottare insieme agli altri fino alla fine. L’episodio dei contadini di Avigliano che minacciarono di ritirare il proprio sostegno alla rivoluzione e persino di bruciare le case di tutti i galantuomini contrari alla distribuzione delle terre, non dimostra affatto che essi lottavano solo per la terra, semmai conferma che essi lottavano per la Repubblica e che erano pronti a difenderla da chi tentava di
assecondare unicamente i propri interessi. Sembra dunque del tutto evidente che non si trattò di folle informi e solamente affamate di terra, all’assalto dei forni con roncole e forconi, bensì di uomini e donne consapevoli e pronti a lottare fino in fondo per riprendersi insieme alla terra, anche la dignità a lungo calpestata daisoprusi feudali. Quanto poi alla diffusa convinzione che la libertà non era tra i loro valori e che quindi i contadini non erano ad essa sensibili, il racconto di Cuoco sopra riportato mi sembra che dimostri l’esatto contrario. In aggiunta a questo, è anche il caso di ricordare che i contadini sono istintivamente liberi per antico DNA e, che per loro, la proprietà della terra non è altro che la prima condizione della libertà: solo chi è padrone della propria terra può dirsi veramente libero. In questo senso, la loro lotta per la terra fu anche lotta per la libertà e viceversa.
Ho voluto fare queste brevi considerazioni, dettate sia dal cuore che dalla ragione, per contribuire in qualche modo a cancellare l’immagine stereotipata del contadino “cafone” che è stata archiviata nel deposito dell’opinione comune e che non corrisponde a quella consegnata alla nostra memoria di figli, di nipoti e discendenti di contadini. Potrei anche dire di quella nobile stirpe, ma non lo dico, per non correre il rischio di aprire un argomento dai confini incerti. Certo è, che la nobiltà, e mi riferisco a quella dell’animo, l’unica che conti, non ha preferenze di lignaggio, e nel cuore dei contadini ne alberga più di quanta ne alberghi altrove.

 

 

 

 

[ Mailing List ] [ Home ] [ Scrivimi ]