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STORIE DI SANTI, DI EROI E DI EMIGRANTI "LA PORTA DI SAN NICOLA A PICERNO"
Carmine Curcio |
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PICERNO NEL PASSATO SITUAZIONE SOCIO-ECONOMINCA A cavallo tra ‘700 e ‘800 Picerno aveva una popolazione di circa 4000 abitanti. Il Comune era feudo di Pignatelli e «per la particolare infelicità dei luoghi» destinava a pascolo buona parte del suo territorio che era di circa 20.000 tomoli. Al pascolo erano destinati infatti 9000 tomoli e all’agricoltura 8000. I rimanenti 3000 tomoli erano boschi o terreni inutilizzati. Nella pastorizia erano impegnate circa 100 famiglie che allevavano 6000 pecore,1500 capre, 200 vacche e 100 buoi (19 -fonti bibliografiche e sitografiche). Le risorse della terra a Picerno erano gestite da poche famiglie benestanti che amministravano l’intero patrimonio dei Pignatelli. La manodopera bracciantile a disposizione era abbondantissima e costava poco o nulla. Una giornata di lavoro di un uomo valeva 44 centesimi e di una donna 22 centesimi e la giornata durava dall’alba al crepuscolo. Per comprare una capra il cui costo medio si aggirava intorno a 9 lire occorrevano 20 giornate di lavoro di un uomo e per una vacca che costava in media 175 lire, 440 giornate. I terreni erano aridi, lavorati quasi esclusivamente con la zappa, e pertanto rendevano poco, intorno a una media di 4 tomoli per tomolo. All’inizio dell’Ottocento, con Potenza divenuta capoluogo, si sviluppò lungo la fiumara la coltivazione degli ortaggi, destinati ad alimentare il mercato potentino.
Gli orti subentrarono alla coltivazione
del tabacco. Nelle campagne le case in muratura erano rare. Al loro
posto c’erano i “pagliari” che erano abitacoli costruiti con tetti e
pareti di paglia appoggiati su una base perimetrale di muro in pietra.
L’asino era l’animale da trasporto più comune. Oltre all’economia
agricola e pastorale, c’era un artigianato povero rappresentato da
fabbri-maniscalchi, calderaistagnini, carbonai, fabbricatori,
scalpellini, falegnami, scarpari, cucitori, bastai, bottai,
“cernecchiari” (artigiani che costruivano setacci e crivelli per la
cernita del grano e della farina). Fino agli ultimi decenni
dell’Ottocento ci fu anche una tintoria e, lungo la fiumara, delle
manifatture per la lavorazione della seta, della lana e del lino.
Accanto a questi ceti produttivi complessivamente poveri, prosperò,
dalla seconda metà del Settecento in poi, una borghesia
urbano-commerciale dalle molteplici attività economiche, animata da
spirito innovativo e sensibile anche all’emancipazione dell’intera
comunità. Qualche anno più tardi, intorno al 1820, molti di quei
borghesi (primi fra tutti Saverio Carelli, Luigi Calenda e Benedetto
Capece) si autotassarono per finanziare la costruzione del ponte
sull’Otranto, consentendo il completamento della strada rotabile da
Picerno al bivio
(16
-fonti bibliografiche e sitografiche).
Uno spaccato realistico di come vivevano i picernesi all’inizio
dell’ottocento lo fornisce con abbondanza di dettagli il relatore
dell’inchiesta fatta eseguire da Gioacchino Murat nel 1811: «A
Picerno... Il pane e la verdura formano l’ordinario nutrimento della
classe numerosa... fassi uso di pane di frumento che si vende a 22
centesimi al Rotolo (circa 900 grammi), e talvolta di polenta cotta con
olio e sale. Tutte le classi fanno uso continuo di carne. I contadini
solamente di quella di animali infermi o morti naturalmente»
(20
-fonti bibliografiche e sitografiche).
Dunque nel 1811, per comprare 900 grammi di pane occorrevano 22
centesimi, l’equivalente di mezza giornata di lavoro di un uomo e di una
intera giornata di lavoro di una donna. «La miseria influiva talmente
sulle classi sociali più povere che non solo era causa di infermità per
scarso nutrimento, ma non metteva quegli ammalati in condizione di
guarire per incapacità organica. Ammalarsi significava spesso morire»,
scrive Franco Sabia
(19
-fonti bibliografiche e sitografiche).
È vero che nel corso dei decenni successivi, per varie ragioni, quali
l’abolizione della feudalità, lo sviluppo della rete viaria, Potenza
capoluogo e il dinamismo economico della borghesia locale, Picerno
conobbe condizioni un pò più favorevoli; ma è pur vero che la gran
maggioranza della popolazione rimase in miseria e più tardi prese in
massa la via dell’emigrazione. Per quanto riguarda l’architettura
urbana, se così si poteva chiamare, l’autore della già citata inchiesta
murattiana del 1811 riferisce che ad eccezione dei pochi palazzi dei
galantuomini, le abitazioni erano costituite da «… bassi formati di
pietra, arena e calce. Essi sono sicuri ma sono mal custoditi dal freddo
e dall’umido, e sono senza nettezza e proporzionata decenza,
coabitandosi coi polli, col porco e coll’asino»
(20
-fonti bibliografiche e sitografiche).
In aggiunta a questo, l’assenza delle fogne, la sporcizia e la presenza
di letamai ai bordi delle strade cittadine. Situazioni che per alcuni
aspetti sono rimaste tali fino a pochi decenni fa, tanto da entrare a
far parte dei ricordi d’infanzia di quelli della mia generazione e
oltre. Fino agli anni cinquanta infatti, una gran parte delle case del
paese erano ancora corredate di stalle per il maiale, per l’asino o il
mulo o la giumenta, oltre a capre, pecore e pollame. Le stalle
supplivano anche alla grave carenza di servizi igienici. Per queste
funzioni si utilizzavano anche luoghi all’aperto come le cosiddette
“chiagge” (terreni alberati dell’immediata periferia dell’abitato), i
“carbunar’e” che erano discariche di rifiuti a ridosso delle ultime case
del paese, e naturalmente i vasi da notte, i “pisciaturi”. Il tanfo che
esalava da tutto questo si può solo immaginare, perché alla puzza
l’olfatto si abitua e nella memoria non ne rimane che una labile
traccia. Così, o più o meno così, era Picerno fino mezzo secolo fa. La
fame non mancò almeno fino alla fine degli anni cinquanta. Quanto alla
sensazione della sazietà, era un’esperienza non comune ed erano in tanti
a non averla mai provata.
Nei tempi non facili che ho fin qui raccontato, non furono pochi a Picerno gli uomini di ingegno che riuscirono a dispiegare in varie forme il proprio talento e le proprie grandi capacità. La figura di maggiore spicco fu quella di Giuseppe Nicolò Leonardo Biagio Forlenza, chirurgo oculista di grande talento, che si distinse in Francia e in Europa nel periodo a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento21. Non si può tuttavia fare a meno di ricordare alcuni altri uomini d’ingegno e di notevole spessore intellettuale quali- Carlo Tirone, Giuseppe Antonio Gaimari, Tommaso Cappiello, Tommaso Caivano, Giovanni Capasso (22 -fonti bibliografiche e sitografiche), Attilio Cerruti, Vito Marcantonio e molti altri più vicini ai giorni nostri che raggiunsero ciascuno nel proprio campo livelli di notevole prestigio (23-24 -fonti bibliografiche e sitografiche). Né si possono ignorare tanti altri picernesi, meno noti ma ugualmente di valore, i cui nomi sono inclusi nei lunghi elenchi di protagonisti dei fatti del 1799 riportati sia da Giuseppina Caivano Bianchini10 che da Tommaso Pedio (25 -fonti bibliografiche e sitografiche). Il chirurgo Forlenza seppe gestire la propria formazione e creare il proprio successo in maniera impareggiabile. La sua biografia presenta insieme aspetti straordinari e misteriosi. Straordinaria la carriera di questo figlio di povera gente, nato a Picerno verso la metà del settecento in una misera casa appartenente ai nonni materni, e divenuto a Parigi chirurgo oculista di fama europea. Misteriose, anche se non del tutto, le ragioni per le quali un uomo il cui prestigio raggiunse in Europa un livello così alto, sia rimasto per lungo tempo quasi ignoto nella sua terra di origine. Preferisco raccontare prima le cose sicuramente straordinarie e poi quelle in apparenza misteriose. Forlenza nacque il 3 Febbraio del 1757 a Picerno da Felice e Vita Pagano. Terzo di otto figli. A tutti gli altri i genitori diedero due nomi, solo a Giuseppe quattro, quasi un segno premonitore. Felice faceva il bracciante e non avendo una casa propria abitava con la sua famiglia in casa dei suoceri. Probabilmente il padre sognava per Giuseppe Nicolò, suo primo figlio maschio, un progetto di vita che lo riscattasse dalla miseria, perché ben presto lo mandò a Ruoti dai suoi fratelli Sebastiano e Gennaro, per frequentarvi la “Scuola di Catechismo,” l’equivalente di una scuola elementare (21 -fonti bibliografiche e sitografiche). A quel tempo non erano in tanti a preoccuparsi dell’istruzione dei figli, soprattutto tra le famiglie povere. La scuola pubblica non c’era, anche se proprio in quegli anni re Ferdinando IV di Borbone con l’editto del 28 luglio 1769 provvedeva a formulare un piano per la nascita di una scuola diretta alla formazione della gente “alta e bassa”. A Ruoti, frequentando la scuola elementare, o di catechismo che dir si voglia, fondata dalla famiglia dei principi Capece-Minutolo, il giovane Giuseppe ebbe modo di farsi apprezzare dal principe Ferdinando per la sua intelligenza e vivacità e per il grande attaccamento allo studio, agevolato dal fatto che gli zii Sebastiano e Gennaro frequentavano abitualmente la famiglia dei principi, dei quali erano barbieri e flebotomisti di fiducia oltre che vicini di casa. I barbieri che ne avevano l’autorizzazione in quei tempi esercitavano anche come flebotomisti, cioè facevano i salassi, eseguivano autopsie sui cadaveri di morti per cause violente, ed erano anche in grado di eseguire piccoli interventi chirurgici. Giuseppe mostrò grande interesse per la professione esercitata dagli zii tanto che qualche anno più tardi, i principi Capece-Minutolo, su sollecitazione della famiglia Forlenza che non ne aveva i mezzi, provvidero a mandarlo a Napoli per frequentare la Scuola di Chirurgia. Non si laureò in Medicina, come risulta da ricerche meticolose presso il Grande Archivio di Stato di Napoli (21 -fonti bibliografiche e sitografiche), ma non c’è da meravigliarsi. La formazione del chirurgo nel 1700, non richiedeva la laurea in Medicina. È vero che nelle università si insegnava anche la chirurgia, ma i migliori chirurghi provenivano dai grandi ospedali dove si frequentavano corsi di chirurgia pratica e non dalle aule universitarie dove si passava gran parte del tempo a dissertare. Fu tuttavia proprio in quel secolo che incominciarono a nascere le grandi scuole da cui originò la moderna chirurgia. Parallelamente si assistette alla progressiva scomparsa della chirurgia vagabonda ed empirica dei praticoni e dei barbieri-chirurghi e all’affrancamento del chirurgo dallo stato di inferiorità nei confronti del medico (26-27 -fonti bibliografiche e sitografiche). Con ogni probabilità la formazione chirurgica di Forlenza avvenne in un grande ospedale ed è senz’altro questa la ragione per cui il suo nome non risulta tra i laureati dell’università di Napoli. Dopo Napoli Forlenza trascorse dei periodi di studio in Sicilia, nell’isola di Malta e in alcune isole greche prima di approdare in Francia, a Parigi (21 -fonti bibliografiche e sitografiche). Non si conosce l’anno in cui emigrò a Parigi, si sa però con certezza che nel 1792 Forlenza era già un esperto oculista nella Clinica Chirurgica diretta da Desault, come si può desumere dalla testimonianza di Salvatore De Renzi, grande storico della medicina dell’800, riportata nelle pagine che seguono (28 -fonti bibliografiche e sitografiche). Per quanto riguarda le notizie sugli inizi della sua carriera, fondamentale è anche la testimonianza del Passigli (29-30 -fonti bibliografiche e sitografiche) che nel suo Dizionario Biografico Universale scrive: «Chirurgo oculista, per cura di un suo zio materno ebbe la sua prima educazione, e fu poi mandato a compiere gli studi chirurgici a Parigi sotto Desault, che lo ebbe come suo più caro discepolo, applicò l’ingegno in particolare alla cura degli occhi e nel 1799 fu nominato dal governo chirurgo oculista degli Invalidi dove bene meritò dalla patria nel curare i soldati tornati dall’Egitto gravemente offesi negli occhi». Sulla base di quanto ci riferisce Salinardi circa la situazione economica della famiglia Forlenza, appare assai improbabile che a Parigi Forlenza fosse stato mandato da uno zio materno, che non ne avrebbe avuto i mezzi. Molto più verosimilmente ci andò per sua scelta. Dato che la chirurgia viveva proprio in quegli anni il grande momento storico della transizione dal passato al futuro (26.27 -fonti bibliografiche e sitografiche) si potrebbe anche supporre che Forlenza considerasse obsoleta la formazione chirurgica ricevuta fino a quel momento e che avvertisse la necessità di un approfondimento delle proprie conoscenze. C’erano sufficienti ragioni per scegliere Parigi. Nel 1700 Parigi era il fulcro della cultura europea, e ove questo non bastasse, nel 1731 vi era stata fondata la prima Accademia Reale di Chirurgia, uno dei punti di partenza della moderna chirurgia (26 -fonti bibliografiche e sitografiche). Inoltre nel 1743 un decreto reale aveva finalmente elevato la dignità del chirurgo alla pari di quella del medico distinguendo definitivamente il vero chirurgo dal chirurgo-barbiere. E c’è in fine da considerare la grande attrazione che esercitavano in quegli anni sugli aspiranti chirurghi le lezioni di patologia chirurgica di Petit e di anatomia chirurgica di Desault (31 -fonti bibliografiche e sitografiche), tra i fondatori di queste discipline. Ce n’era abbastanza per attrarre un giovane dotato, intraprendente e, per come si rivelò successivamente, anche molto ambizioso, qual’era Forlenza. Desault esercitò sicuramente una grande influenza sulla formazione di Forlenza sia dal punto di vista professionale che umano. Pertanto ritengo che conoscere meglio Desault ci possa aiutare a conoscere meglio anche Forlenza. Pierre Joseph Desault nacque nel 1744 in Francia, nel villaggio di Magny-Vernois non lontano dal confine colla Svizzera e la Germania, da famiglia povera (31 -fonti bibliografiche e sitografiche). I genitori lo avevano destinato alla carriera ecclesiastica ma lui essendo interessato alla medicina, ben presto abbandonò il seminario e si mise a seguire un chirurgo-barbiere del suo paese. Subito dopo iniziò un apprendistato presso l’ospedale militare di Belfort, non lontano da Magny-Vernois, dove apprese le prime nozioni di anatomia e chirurgia militare. All’età di vent’anni andò a Parigi dove seguì corsi di anatomia, di chirurgia e di pratica ospedaliera e all’età di ventidue anni, nel 1766, aprì una scuola di anatomia sotto il nome di un altro.
«Il suo insegnamento era così chiaro,
lineare, completo e innovativo che fu presto seguito da centinaia di
studenti provenienti sia dalla Francia che dai paesi vicini. Man mano
che illustrava le parti del corpo umano, indicava per ciascuna di esse
le patologie e la relativa terapia chirurgica »
(31
-fonti bibliografiche e sitografiche).
Il suo successo non mancò, come spesso avviene, di suscitare le ire e
l’invidia degli accademici ufficiali che lo consideravano un outsider e
le tentarono tutte per fargli chiudere la scuola. Desault non solo vinse
la sua battaglia, ma nel 1776 divenne membro del Collegio di Chirurgia e
della Reale Accademia di Chirurgia. Nel 1782 fu nominato chirurgo
maggiore all’ospedale de la Charitè e nel 1788 a l’Hotel-Dieu dove
istituì l’insegnamento di clinica chirurgica. Era il chirurgo più
prestigioso di Parigi, la sua scuola attraeva folle di studenti da ogni
parte e attrasse verosimilmente
La prima grande sfida che dovette
affrontare nel nuovo ruolo fu il rientro della spedizione di Napoleone
dalla campagna d’Egitto, con un gran numero di soldati affetti da
tracoma. «L’opera di Forlenza in questo contesto, quale chirurgo
oculista dell’Ospedale degli Invalidi, si dimostrò veramente
determinante per curare, alleviare ed il più delle volte guarire un gran
numero di tracomatosi» riferisce Salinardi
(21
-fonti bibliografiche e sitografiche).
Non fu solo una grande sfida ma anche una grande opportunità che
Forlenza non mancò di utilizzare e sfruttare a fondo, cosa che come
vedremo in seguito, sapeva fare con perizia non priva di disinvoltura.
Non molto tempo dopo, approfittando del prestigio acquisito per l’enorme
impegno profuso nella cura dei tracomatosi, chiese e ottenne dal
ministro degli interni di poter operare gratuitamente gli indigenti
affetti da cataratta in tutti gli ospedali della Francia. * Nel corso di un recente convegno sull’illustre chirurgo tenutosi a Picerno il 28 Marzo del 2009, uno dei discendenti ha riferito che nella famiglia Forlenza si tramanda l’informazione circa una figlia parigina del suo antenato Nicolò. Il dottor Robert Heitz, uno studioso francese che sta conducendo nel suo paese una ricerca sui viaggi di Forlenza e sullo stato della medicina in Francia a quel tempo, al quale mi sono rivolto per una verifica, riferisce che si tratta di una notizia priva di fondamento. Quanto ai rapporti con la sua terra di origine, è presumibile che a poco a poco si allentarono fino a diventare del tutto inesistenti. Nella testimonianza del Passigli, le origini di Forlenza vengono lasciate nel vago. Forse fu lui stesso a volerlo. Si fa riferimento a un fantomatico zio materno che lo avrebbe mantenuto agli studi anziché all’aiuto costante e consistente fornitogli dai principi Capece-Minutolo. Nessuna traccia di gratitudine per questi ultimi e nessuna menzione dei genitori e della famiglia di origine. E come avrebbe potuto! Lui che aveva condiviso gli ideali e lo spirito della rivoluzione francese, che aveva fatto carriera sotto le insegne della Repubblica Napoleonica e che aveva grande dimestichezza con il potere e con l’aristocrazia e i salotti buoni di Parigi; lui che frequentava il Cafè de Foy e chissà da quando. Quella non era gente alla quale si poteva impunemente raccontare di essere stato mantenuto agli studi da accaniti anti repubblicani quali i principi Capece-Minutolo. Per quanto riguarda infine la sua famiglia, due dei suoi fratelli, accesi sanfedisti, avevano asssassinato due concittadini ruotesi di sentimenti repubblicani ed erano stati a loro volta uccisi (21 -fonti bibliografiche e sitografiche). Due sorelle avevano avuto figli illegittimi e una cugina era stata incolpata di infanticidio. C’era dunque tra il suo mondo e quello delle sue origini un’enorme distanza sotto ogni profilo, vuoi culturale, vuoi sociale, etico, politico, e quant’altro. Se a questo si aggiungono la lontananza e il costante sovraccarico di impegni del chirurgo Forlenza, diventa assai verosimile l’ipotesi di una progressiva e totale cessazione di rapporti tra quest’ultimo e i suoi congiunti lucani con i quali non aveva più nulla in comune, neanche la patria, che per Forlenza era ormai la Francia (29-30 -fonti bibliografiche e sitografiche). Anche in tarda età, benché senza famiglia propria, non fece alcun tentativo di cercarsi un erede tra i parenti ruotesi e picernesi, a cui lasciare il suo cospicuo patrimonio che finì per confluire nelle casse dello stato francese. Sarà dunque pur vero che Picerno per tanto tempo ha quasi ignorato la memoria di questo suo illustre concittadino del passato, ma è altrettanto vero che Forlenza tenne in poco conto la terra delle proprie radici. Se questo toglie qualcosa alla sua grandezza, non saprei dirlo. Forse no. Comunque sia, Giuseppe Nicolò Leonardo Biagio Forlenza fu un uomo straordinario e un chirurgo di grande talento che in un ambiente tutt’altro che facile, com’era quello parigino degli anni del terrore, seppe avanzare fino ai più alti livelli della carriera nella sua disciplina con le uniche leve del sapere, della perizia, dell’impegno e della totale dedizione alla professione che esercitò con la curiosità dello scienziato e lo spirito del missionario. I picernesi non possono che essere orgogliosi di condividere con lui la comune origine dalla stessa stirpe.
IL PANNELLO 6 Su questo pannello, dedicato al passato, chiesi allo scultore di scolpire da una parte figure che ricordassero le attività economiche del tempo, tipicamente agro-pastorali e artigianali, dall’altra parte un personaggio illustre di allora, adatto a simboleggiare l’eccellenza intellettuale. Per quanto riguarda la realtà economico-sociale, è stato abbastanza agevole individuare delle immagini rappresentative da tradurre nel bassorilievo della porta. Avevo in realtà suggerito di rappresentare l’agricoltura con una coppia di buoi aggiogati al tiro dell’aratro oppure di un carro, come nei dipinti del macchiaiolo Fattori e la pastorizia con immagini che ricordassero anche la transumanza. L’artista ha realizzato il bassorilievo secondo la propria ispirazione, come è giusto che sia, mantenendosi fedele alla propria scelta operativa iniziale di non affollare i pannelli con troppe immagini a discapito della resa scultorea complessiva. Nel pannello i buoi aggiogati non compaiono per ragioni di spazio. È presente invece una bella mandria di vacche podoliche al pascolo, non lontano dal casone, la casa comune di pastori e vaccari dediti all’attività della transumanza. Nelle vicinanze, una giovane contadina con l’asino e il maiale, entrambi animali simboli dell’economia agricola del tempo. Per rappresentare l’attività artigianale lo scultore ha scelto, tra le varie possibilità, la figura di uno scalpellino, colpito forse dalle numerose testimonianze di questo mestiere presenti ovunque nell’architettura degli antichi palazzi e delle chiese, come nei portali di alcune vecchie case del paese. Stabilire quale figura scegliere tra gli uomini illustri del passato, è stato invece piuttosto indaginoso. I candidati erano tanti. Suggerii la figura del chirurgo Forlenza per la sua impareggiabile dimensione professionale e umana, rinunciando a malincuore all’inserimento di personaggi dello stesso periodo storico e di spessore intellettuale e umano pure elevato, quali Tommaso Cappiello e Giuseppe Antonio Gaimari (10 -fonti bibliografiche e sitografiche).*
* Tommaso Cappiello (1778-1840) si laureò in Medicina
all’Università di Salerno ad appena 20 anni. Giovane brillante e
intraprendente, coinvolto dai fatti della Repubblica Partenopea nel
1799, fu nominato appena ventunenne capo amministrativo della
guarnigione del Castel dell’Ovo. Caduta la Repubblica riparò in Francia.
Durante il viaggio incontrò a Lione Napoleone Bonaparte col quale ebbe
un breve colloquio e dal quale ottenne soldi e lasciapassare per andare
a Parigi a continuare gli studi di chirurgia. L’anno dopo partecipò alla
battaglia di Marengo come medico. In seguito si stabilì a Milano dove
ebbe stretti rapporti con Vincenzo Cuoco. Durante quel periodo pubblicò
“La confutazione del sistema medico di Brown”, basata quest’ultima sulla
teoria del “Vitalismo” che dilagava in quel tempo in Europa. Conseguì la
specializzazione in chirurgia a Salerno nel 1802 e nello stesso anno
rientrò a Picerno dove esercitò la sua professione di medico dedicandosi
anche attivamente alla politica fino alla sua morte. Ha lasciato una
“Storia di Picerno” inedita, patrimonio della Biblioteca Caivano. Sul pannello Forlenza viene raffigurato nell’atto di esaminare una paziente. Dietro a lei altri pazienti in fila. Sullo sfondo la grande cupola dell’ospedale degli invalidi di Parigi. |
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