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Carmine Curcio

Picerno

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STORIE DI SANTI, DI EROI E DI EMIGRANTI

"LA PORTA DI SAN NICOLA A PICERNO"

 

Carmine Curcio
 

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INDICE

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CAPITOLO  IV°

PICERNO NEL PASSATO
 

SITUAZIONE SOCIO-ECONOMINCA

A cavallo tra ‘700 e ‘800 Picerno aveva una popolazione di circa 4000 abitanti. Il Comune era feudo di Pignatelli e «per la particolare infelicità dei luoghi» destinava a pascolo buona parte del suo territorio che era di circa 20.000 tomoli. Al pascolo erano destinati infatti 9000 tomoli e all’agricoltura 8000. I rimanenti 3000 tomoli erano boschi o terreni inutilizzati. Nella pastorizia erano impegnate circa 100 famiglie che allevavano 6000 pecore,1500 capre, 200 vacche e 100 buoi (19 -fonti bibliografiche e sitografiche). Le risorse della terra a Picerno erano gestite da poche famiglie benestanti che amministravano l’intero patrimonio dei Pignatelli. La manodopera bracciantile a disposizione era abbondantissima e costava poco o nulla. Una giornata di lavoro di un uomo valeva 44 centesimi e di una donna 22 centesimi e la giornata durava dall’alba al crepuscolo. Per comprare una capra il cui costo medio si aggirava intorno a 9 lire occorrevano 20 giornate di lavoro di un uomo e per una vacca che costava in media 175 lire, 440 giornate. I terreni erano aridi, lavorati quasi esclusivamente con la zappa, e pertanto rendevano poco, intorno a una media di 4 tomoli per tomolo. All’inizio dell’Ottocento, con Potenza divenuta capoluogo, si sviluppò lungo la fiumara la coltivazione degli ortaggi, destinati ad alimentare il mercato potentino.


Picerno nel passato. Foto panoramica di Picerno intorno al 1880.
La stazione ferroviaria sembra ultimata, ma la ferrovianon è ancora attiva.
È una foto sottoposta a profondo restauro e ritocco da Raffaele Martino.
La torre, riferisce il fotografo, nell’originale appariva diroccata.

Gli orti subentrarono alla coltivazione del tabacco. Nelle campagne le case in muratura erano rare. Al loro posto c’erano i “pagliari” che erano abitacoli costruiti con tetti e pareti di paglia appoggiati su una base perimetrale di muro in pietra. L’asino era l’animale da trasporto più comune. Oltre all’economia agricola e pastorale, c’era un artigianato povero rappresentato da fabbri-maniscalchi, calderaistagnini, carbonai, fabbricatori, scalpellini, falegnami, scarpari, cucitori, bastai, bottai, “cernecchiari” (artigiani che costruivano setacci e crivelli per la cernita del grano e della farina). Fino agli ultimi decenni dell’Ottocento ci fu anche una tintoria e, lungo la fiumara, delle manifatture per la lavorazione della seta, della lana e del lino. Accanto a questi ceti produttivi complessivamente poveri, prosperò, dalla seconda metà del Settecento in poi, una borghesia urbano-commerciale dalle molteplici attività economiche, animata da spirito innovativo e sensibile anche all’emancipazione dell’intera comunità. Qualche anno più tardi, intorno al 1820, molti di quei borghesi (primi fra tutti Saverio Carelli, Luigi Calenda e Benedetto Capece) si autotassarono per finanziare la costruzione del ponte sull’Otranto, consentendo il completamento della strada rotabile da Picerno al bivio (16 -fonti bibliografiche e sitografiche). Uno spaccato realistico di come vivevano i picernesi all’inizio dell’ottocento lo fornisce con abbondanza di dettagli il relatore dell’inchiesta fatta eseguire da Gioacchino Murat nel 1811: «A Picerno... Il pane e la verdura formano l’ordinario nutrimento della classe numerosa... fassi uso di pane di frumento che si vende a 22 centesimi al Rotolo (circa 900 grammi), e talvolta di polenta cotta con olio e sale. Tutte le classi fanno uso continuo di carne. I contadini solamente di quella di animali infermi o morti naturalmente» (20 -fonti bibliografiche e sitografiche). Dunque nel 1811, per comprare 900 grammi di pane occorrevano 22 centesimi, l’equivalente di mezza giornata di lavoro di un uomo e di una intera giornata di lavoro di una donna. «La miseria influiva talmente sulle classi sociali più povere che non solo era causa di infermità per scarso nutrimento, ma non metteva quegli ammalati in condizione di guarire per incapacità organica. Ammalarsi significava spesso morire», scrive Franco Sabia (19 -fonti bibliografiche e sitografiche). È vero che nel corso dei decenni successivi, per varie ragioni, quali l’abolizione della feudalità, lo sviluppo della rete viaria, Potenza capoluogo e il dinamismo economico della borghesia locale, Picerno conobbe condizioni un pò più favorevoli; ma è pur vero che la gran maggioranza della popolazione rimase in miseria e più tardi prese in massa la via dell’emigrazione. Per quanto riguarda l’architettura urbana, se così si poteva chiamare, l’autore della già citata inchiesta murattiana del 1811 riferisce che ad eccezione dei pochi palazzi dei galantuomini, le abitazioni erano costituite da «… bassi formati di pietra, arena e calce. Essi sono sicuri ma sono mal custoditi dal freddo e dall’umido, e sono senza nettezza e proporzionata decenza, coabitandosi coi polli, col porco e coll’asino» (20 -fonti bibliografiche e sitografiche). In aggiunta a questo, l’assenza delle fogne, la sporcizia e la presenza di letamai ai bordi delle strade cittadine. Situazioni che per alcuni aspetti sono rimaste tali fino a pochi decenni fa, tanto da entrare a far parte dei ricordi d’infanzia di quelli della mia generazione e oltre. Fino agli anni cinquanta infatti, una gran parte delle case del paese erano ancora corredate di stalle per il maiale, per l’asino o il mulo o la giumenta, oltre a capre, pecore e pollame. Le stalle supplivano anche alla grave carenza di servizi igienici. Per queste funzioni si utilizzavano anche luoghi all’aperto come le cosiddette “chiagge” (terreni alberati dell’immediata periferia dell’abitato), i “carbunar’e” che erano discariche di rifiuti a ridosso delle ultime case del paese, e naturalmente i vasi da notte, i “pisciaturi”. Il tanfo che esalava da tutto questo si può solo immaginare, perché alla puzza l’olfatto si abitua e nella memoria non ne rimane che una labile traccia. Così, o più o meno così, era Picerno fino mezzo secolo fa. La fame non mancò almeno fino alla fine degli anni cinquanta. Quanto alla sensazione della sazietà, era un’esperienza non comune ed erano in tanti a non averla mai provata.
 


I PERSONAGGI ILLUSTRI: FORLENZA

Nei tempi non facili che ho fin qui raccontato, non furono pochi a Picerno gli uomini di ingegno che riuscirono a dispiegare in varie forme il proprio talento e le proprie grandi capacità. La figura di maggiore spicco fu quella di Giuseppe Nicolò Leonardo Biagio Forlenza, chirurgo oculista di grande talento, che si distinse in Francia e in Europa nel periodo a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento21. Non si può tuttavia fare a meno di ricordare alcuni altri uomini d’ingegno e di notevole spessore intellettuale quali- Carlo Tirone, Giuseppe Antonio Gaimari, Tommaso Cappiello, Tommaso Caivano, Giovanni Capasso (22 -fonti bibliografiche e sitografiche), Attilio Cerruti, Vito Marcantonio e molti altri più vicini ai giorni nostri che raggiunsero ciascuno nel proprio campo livelli di notevole prestigio (23-24 -fonti bibliografiche e sitografiche). Né si possono ignorare tanti altri picernesi, meno noti ma ugualmente di valore, i cui nomi sono inclusi nei lunghi elenchi di protagonisti dei fatti del 1799 riportati sia da Giuseppina Caivano Bianchini10 che da Tommaso Pedio (25 -fonti bibliografiche e sitografiche). Il chirurgo Forlenza seppe gestire la propria formazione e creare il proprio successo in maniera impareggiabile. La sua biografia presenta insieme aspetti straordinari e misteriosi. Straordinaria la carriera di questo figlio di povera gente, nato a Picerno verso la metà del settecento in una misera casa appartenente ai nonni materni, e divenuto a Parigi chirurgo oculista di fama europea. Misteriose, anche se non del tutto, le ragioni per le quali un uomo il cui prestigio raggiunse in Europa un livello così alto, sia rimasto per lungo tempo quasi ignoto nella sua terra di origine. Preferisco raccontare prima le cose sicuramente straordinarie e poi quelle in apparenza misteriose. Forlenza nacque il 3 Febbraio del 1757 a Picerno da Felice e Vita Pagano. Terzo di otto figli. A tutti gli altri i genitori diedero due nomi, solo a Giuseppe quattro, quasi un segno premonitore. Felice faceva il bracciante e non avendo una casa propria abitava con la sua famiglia in casa dei suoceri. Probabilmente il padre sognava per Giuseppe Nicolò, suo primo figlio maschio, un progetto di vita che lo riscattasse dalla miseria, perché ben presto lo mandò a Ruoti dai suoi fratelli Sebastiano e Gennaro, per frequentarvi la “Scuola di Catechismo,” l’equivalente di una scuola elementare (21 -fonti bibliografiche e sitografiche). A quel tempo non erano in tanti a preoccuparsi dell’istruzione dei figli, soprattutto tra le famiglie povere. La scuola pubblica non c’era, anche se proprio in quegli anni re Ferdinando IV di Borbone con l’editto del 28 luglio 1769 provvedeva a formulare un piano per la nascita di una scuola diretta alla formazione della gente “alta e bassa”. A Ruoti, frequentando la scuola elementare, o di catechismo che dir si voglia, fondata dalla famiglia dei principi Capece-Minutolo, il giovane Giuseppe ebbe modo di farsi apprezzare dal principe Ferdinando per la sua intelligenza e vivacità e per il grande attaccamento allo studio, agevolato dal fatto che gli zii Sebastiano e Gennaro frequentavano abitualmente la famiglia dei principi, dei quali erano barbieri e flebotomisti di fiducia oltre che vicini di casa. I barbieri che ne avevano l’autorizzazione in quei tempi esercitavano anche come flebotomisti, cioè facevano i salassi, eseguivano autopsie sui cadaveri di morti per cause violente, ed erano anche in grado di eseguire piccoli interventi chirurgici. Giuseppe mostrò grande interesse per la professione esercitata dagli zii tanto che qualche anno più tardi, i principi Capece-Minutolo, su sollecitazione della famiglia Forlenza che non ne aveva i mezzi, provvidero a mandarlo a Napoli per frequentare la Scuola di Chirurgia. Non si laureò in Medicina, come risulta da ricerche meticolose presso il Grande Archivio di Stato di Napoli (21 -fonti bibliografiche e sitografiche), ma non c’è da meravigliarsi. La formazione del chirurgo nel 1700, non richiedeva la laurea in Medicina. È vero che nelle università si insegnava anche la chirurgia, ma i migliori chirurghi provenivano dai grandi ospedali dove si frequentavano corsi di chirurgia pratica e non dalle aule universitarie dove si passava gran parte del tempo a dissertare. Fu tuttavia proprio in quel secolo che incominciarono a nascere le grandi scuole da cui originò la moderna chirurgia. Parallelamente si assistette alla progressiva scomparsa della chirurgia vagabonda ed empirica dei praticoni e dei barbieri-chirurghi e all’affrancamento del chirurgo dallo stato di inferiorità nei confronti del medico (26-27 -fonti bibliografiche e sitografiche). Con ogni probabilità la formazione chirurgica di Forlenza avvenne in un grande ospedale ed è senz’altro questa la ragione per cui il suo nome non risulta tra i laureati dell’università di Napoli. Dopo Napoli Forlenza trascorse dei periodi di studio in Sicilia, nell’isola di Malta e in alcune isole greche prima di approdare in Francia, a Parigi (21 -fonti bibliografiche e sitografiche). Non si conosce l’anno in cui emigrò a Parigi, si sa però con certezza che nel 1792 Forlenza era già un esperto oculista nella Clinica Chirurgica diretta da Desault, come si può desumere dalla testimonianza di Salvatore De Renzi, grande storico della medicina dell’800, riportata nelle pagine che seguono (28 -fonti bibliografiche e sitografiche). Per quanto riguarda le notizie sugli inizi della sua carriera, fondamentale è anche la testimonianza del Passigli (29-30 -fonti bibliografiche e sitografiche) che nel suo Dizionario Biografico Universale scrive: «Chirurgo oculista, per cura di un suo zio materno ebbe la sua prima educazione, e fu poi mandato a compiere gli studi chirurgici a Parigi sotto Desault, che lo ebbe come suo più caro discepolo, applicò l’ingegno in particolare alla cura degli occhi e nel 1799 fu nominato dal governo chirurgo oculista degli Invalidi dove bene meritò dalla patria nel curare i soldati tornati dall’Egitto gravemente offesi negli occhi». Sulla base di quanto ci riferisce Salinardi circa la situazione economica della famiglia Forlenza, appare assai improbabile che a Parigi Forlenza fosse stato mandato da uno zio materno, che non ne avrebbe avuto i mezzi. Molto più verosimilmente ci andò per sua scelta. Dato che la chirurgia viveva proprio in quegli anni il grande momento storico della transizione dal passato al futuro (26.27 -fonti bibliografiche e sitografiche) si potrebbe anche supporre che Forlenza considerasse obsoleta la formazione chirurgica ricevuta fino a quel momento e che avvertisse la necessità di un approfondimento delle proprie conoscenze. C’erano sufficienti ragioni per scegliere Parigi. Nel 1700 Parigi era il fulcro della cultura europea, e ove questo non bastasse, nel 1731 vi era stata fondata la prima Accademia Reale di Chirurgia, uno dei punti di partenza della moderna chirurgia (26 -fonti bibliografiche e sitografiche). Inoltre nel 1743 un decreto reale aveva finalmente elevato la dignità del chirurgo alla pari di quella del medico distinguendo definitivamente il vero chirurgo dal chirurgo-barbiere. E c’è in fine da considerare la grande attrazione che esercitavano in quegli anni sugli aspiranti chirurghi le lezioni di patologia chirurgica di Petit e di anatomia chirurgica di Desault (31 -fonti bibliografiche e sitografiche), tra i fondatori di queste discipline. Ce n’era abbastanza per attrarre un giovane dotato, intraprendente e, per come si rivelò successivamente, anche molto ambizioso, qual’era Forlenza. Desault esercitò sicuramente una grande influenza sulla formazione di Forlenza sia dal punto di vista professionale che umano. Pertanto ritengo che conoscere meglio Desault ci possa aiutare a conoscere meglio anche Forlenza. Pierre Joseph Desault nacque nel 1744 in Francia, nel villaggio di Magny-Vernois non lontano dal confine colla Svizzera e la Germania, da famiglia povera (31 -fonti bibliografiche e sitografiche). I genitori lo avevano destinato alla carriera ecclesiastica ma lui essendo interessato alla medicina, ben presto abbandonò il seminario e si mise a seguire un chirurgo-barbiere del suo paese. Subito dopo iniziò un apprendistato presso l’ospedale militare di Belfort, non lontano da Magny-Vernois, dove apprese le prime nozioni di anatomia e chirurgia militare. All’età di vent’anni andò a Parigi dove seguì corsi di anatomia, di chirurgia e di pratica ospedaliera e all’età di ventidue anni, nel 1766, aprì una scuola di anatomia sotto il nome di un altro.

Ritratto dell’oculista Forlenza dipinto da J. A. Vallin. National Gallery di Londra.
Dal libro di Gerardo Salinardi "Da Picerno a Parigi - Giuseppe Nicolò Biagio, Leonardo Forlenza"
stampato a cura dell’amm. Com. di Picerno e Comunità Montana del Meandro

«Il suo insegnamento era così chiaro, lineare, completo e innovativo che fu presto seguito da centinaia di studenti provenienti sia dalla Francia che dai paesi vicini. Man mano che illustrava le parti del corpo umano, indicava per ciascuna di esse le patologie e la relativa terapia chirurgica » (31 -fonti bibliografiche e sitografiche). Il suo successo non mancò, come spesso avviene, di suscitare le ire e l’invidia degli accademici ufficiali che lo consideravano un outsider e le tentarono tutte per fargli chiudere la scuola. Desault non solo vinse la sua battaglia, ma nel 1776 divenne membro del Collegio di Chirurgia e della Reale Accademia di Chirurgia. Nel 1782 fu nominato chirurgo maggiore all’ospedale de la Charitè e nel 1788 a l’Hotel-Dieu dove istituì l’insegnamento di clinica chirurgica. Era il chirurgo più prestigioso di Parigi, la sua scuola attraeva folle di studenti da ogni parte e attrasse verosimilmente
anche Forlenza. Nel 1791 fondò il Journal de chirurgie, edito dai suoi allievi. Nel 1793 denunciato da un rivale al comitato di salute pubblica fu arrestato durante una lezione e detenuto per tre giorni in carcere. Lo sdegno generale fu tale che Desault venne subito rilasciato e reintegrato nei suoi incarichi. Morì di polmonite nel 1795 a soli 51 anni. Non mancarono i sospetti di avvelenamento. Di lui non restano scritti significativi. Gran parte dei suoi contributi scientifici sono contenuti nel journal de chirurgie. Fu senza dubbio una figura straordinaria di uomo e di scienziato fin dalla giovane età, un impareggiabile innovatore, un autodidatta che il talento naturale, la passione e l’impegno trasformarono in uno dei più grandi maestri della chirurgia moderna oltre che maestro di vita per Forlenza. Di tanto maestro, il nostro Forlenza «fu il più caro allievo», secondo quanto riferisce Passigli
(29 -fonti bibliografiche e sitografiche). Se questo è vero, basta di per sé a darci una misura del suo valore. Non si diventa il più caro allievo di un grande maestro senza avere grandi qualità e grandi meriti. Desault e Forlenza partivano da situazioni personali e familiari abbastanza simili. Entrambi provenienti da piccoli paesi e da famiglie povere, entrambi appresero i primi rudimenti della chirurgia e dell’anatomia da barbieri-chirurghi, entrambi si erano dati da fare per curare la propria formazione emigrando il primo a Parigi il secondo a Napoli. Non è pertanto da escludere che Desault vedesse in Forlenza se stesso di qualche anno addietro, e che per questa ragione provasse una naturale simpatia nei suoi confronti. Questo però non sarebbe bastato a farlo diventare il più caro discepolo di Desault, occorrevano altre doti, da quelle intellettuali a quelle attitudinali, dal comportamento alla capacità e volontà di impegnarsi, tutte qualità che al nostro Forlenza di certo non mancavano. Sulle sue eccezionali doti di clinico e di chirurgo, Salvatore De Renzi, grande storico della medicina dell’Ottocento, così scrive: «...Importanti sono soprattutto le sue osservazioni su’ciechi nati, sulle pupille artifiziali e sulle cataratte, ed alcune di esse di tanta singolarità, che Fournier pieno di ammirazione, le trascrive nel suo articolo Cas rares. Uno di questi casi rari riguarda l’estrazione della cataratta vacillante, eseguita da Forlenza nel 1792 in presenza di Desault...». La descrizione dell’intervento, ricca di dettagli tecnici, mette in risalto la conoscenza, la perizia, la manualità e la creatività del grande chirurgo (28 -fonti bibliografiche e sitografiche). Quando Desault nel 1795 prematuramente morì, Forlenza perdette insieme un amico, un maestro e forse anche un potente protettore, ma ormai aveva imparato a muoversi da solo. Deve essere stato tutt’altro che facile, in mezzo alle turbolenze e alle atrocità della rivoluzione francese, superare indenne il setaccio del terrore. Come si è detto, lo stesso Desault aveva corso un grave rischio per la denuncia da parte di un rivale invidioso. Forlenza tirò dritto. La fama della sua perizia continuò a crescere negli anni, tanto che nel 1799 il governo repubblicano lo nominò chirurgo oculista nell’Ospedale Nazionale degli Invalidi e subito dopo anche nell’ospedale principale di Parigi. L’Ospedale Nazionale degli Invalidi era un grande ospedale fondato da Luigi XIV più di un secolo prima, alla fine del 1600, per assicurare aiuto ed assistenza ai soldati anziani o invalidi. La struttura è ancora oggi un grande complesso architettonico, un po’ ospedale un po’ museo e un po’ luogo di culto. Sotto la sua grandiosa cupola dorata c’è la cappella che fu un tempo cappella privata di Luigi XIV e che ora ospita la tomba di Napoleone Bonaparte. Forlenza, sebbene già quarantaduenne, e quindi non più tanto giovane per quell’epoca, considerò l’incarico di chirurgo oculista presso quel prestigioso ospedale un punto di partenza anziché un punto d’arrivo e si dedicò alla sua professione in maniera instancabile e con grande determinazione.

Il monumentale complesso dell’Ospedale Nazionale degli Invalidi a Parigi,
dove Forlenza esercitò come primario oculista.
Spicca la grande cupola dorata della cappella di Luigi XIV, dove ora c’è la tomba di Napoleone

La prima grande sfida che dovette affrontare nel nuovo ruolo fu il rientro della spedizione di Napoleone dalla campagna d’Egitto, con un gran numero di soldati affetti da tracoma. «L’opera di Forlenza in questo contesto, quale chirurgo oculista dell’Ospedale degli Invalidi, si dimostrò veramente determinante per curare, alleviare ed il più delle volte guarire un gran numero di tracomatosi» riferisce Salinardi (21 -fonti bibliografiche e sitografiche). Non fu solo una grande sfida ma anche una grande opportunità che Forlenza non mancò di utilizzare e sfruttare a fondo, cosa che come vedremo in seguito, sapeva fare con perizia non priva di disinvoltura. Non molto tempo dopo, approfittando del prestigio acquisito per l’enorme impegno profuso nella cura dei tracomatosi, chiese e ottenne dal ministro degli interni di poter operare gratuitamente gli indigenti affetti da cataratta in tutti gli ospedali della Francia.
Fu senz’altro un atto di grande generosità e dedizione ma anche un’abile manovra per assicurarsi un privilegio senza precedenti, quello di poter girare tutti i dipartimenti francesi visitando e operando con il patrocinio delle istituzioni prepostevi. Una occasione ineguagliabile che gli consentiva di sviluppare ulteriormente la sua conoscenza e la sua esperienza in tutte le patologie della vista.
Ma tutto questo ancora non gli bastava. Non gli bastava saper fare, occorreva anche farlo sapere, e a quel tempo, si sa, non c’erano adeguati mezzi di informazione di massa. Non si può escludere che sia stata proprio questa la ragione per cui chiese al ministro il permesso di portare a Parigi tre ragazzi appartenenti a famiglie povere, nati ciechi, per poterli operare alla sua presenza
(21 -fonti bibliografiche e sitografiche). Per quale altra ragione se non quella di utilizzare il ministero come cassa di risonanza? È ovviamente una mia supposizione, ma anche le supposizioni possono servire a far luce sul personaggio. Non gli andò bene. Il ministro non gli rispose nonostante la cospicua fornitura di burro che Forlenza gli aveva inviato per ingraziarselo. Ripeté il tentativo col direttore generale del ministero, promettendo anche a lui un certo quantitativo di burro, ma aspettando a inviarlo. Scottato dall’esperienza precedente non volle correre il rischio di sprecare altro burro e adottò una linea di maggiore prudenza. Di nuovo non ebbe successo. Non sapremo mai se il ministro ignorò la richiesta perché intendeva salvaguardare la propria integrità morale o se la ignorò perché il burro era poco. Ancora una volta Forlenza tirò dritto e nel 1806 ricevette un nuovo prestigioso incarico. Fu nominato, con decreto del segretario di stato, chirurgo oculista dei licei, delle scuole secondarie, degli ospizi civili e di tutti gli stabilimenti di beneficenza dei dipartimenti dell’impero. La sua popolarità già grande, subì una ulteriore impennata con gli interventi alla cataratta eseguiti sul ministro Portalis e il poeta Lebrun che gli dedicò persino dei versi in una sua ode dedicata alle conquiste dell’uomo sulla natura (21 -fonti bibliografiche e sitografiche). Negli anni successive continuò senza sosta la sua opera instancabile di chirurgo oculista tra successi e onorificenze. Nel 1829, all’età di 72 anni, non ancora pago di tutto quello che aveva realizzato, chiese e ottenne dall’amministrazione generale degli stabilimenti di utilità pubblica e dei soccorsi generali di essere autorizzato ad ispezionare tutti quei dipartimenti che da vari anni non visitava. Effettuò in quegli anni vari viaggi in Europa ed operò a Roma e in Inghilterra dove fu insignito dalla Corona Britannica della prestigiosa onorificenza dell’ordine di S. Michele, che andava ad aggiungersi alla decorazione di Cavaliere della Legione d’Onore ricevuta a Parigi alcuni anni prima. Pubblicò due lavori, uno sulla pupilla artificiale30 e un
altro intitolato “Esperienze metafisiche, o sviluppamento del lume e delle sensazioni”. L’opera descrive il lento processo di adattamento alla nuova realtà in un cieco nato che aveva acquistato la vista dopo un intervento di estrazione di cataratta da lui eseguito
(21 -fonti bibliografiche e sitografiche). Forlenza godette di buona salute tutta la vita. Morì di ictus cerebrale nel 1833, all’età di 76 anni, al Cafè de Foy, che da anziano usava frequentare tutte le sere. Il Cafè de Foy a Parigi non era un caffè come tanti, era bensì un importante centro di riferimento della vita politica parigina. Si trovava al piano terra del Palais Royal, il palazzo reale che Luigi XIV, circa un secolo prima, aveva ceduto a suo fratello Filippo d’Orleans, preferendo per sé la reggia di Versailles. Nel 1784, Filippo Egalitè e suo figlio, il futuro Luigi Filippo I d’Orleans, re di Francia dal 1830 in poi, per ripianare i debiti della famiglia, aprirono il palazzo reale al pubblico, adibendone il piano terra a gallerie per locali commerciali e anche per qualche luogo di perdizione. Oltre a varie altre attività, vi si sistemarono ben 25 caffè, tra i quali lo storico Cafè de Foy, che, come si è detto, era un punto di riferimento primario per la vita politica e culturale di Parigi, particolarmente attivo durante la rivoluzione. Fu da quel caffè che la sera del 13 luglio del 1789 partì l’ordine di attaccare la Bastiglia il giorno dopo. Non sappiamo se Forlenza frequentò il Cafè de Foy solo da anziano come racconta la scarna biografia o anche da giovane. Mi sembra però improbabile che la scelta di quel caffè sia stata casuale e non dettata da sue ben definite inclinazioni culturali e politiche. Quanto all’ipotesi che Forlenza frequentò il Cafè de Foy perché quel nome pronunciato in italiano gli ricordava il monte Li Foi di Picerno e Ruoti, mi sembra del tutto dissonante rispetto alla biografia del personaggio. Forlenza concluse dunque la propria esistenza in uno storico caffè di Parigi. Non sappiamo se in solitudine, che è altra cosa rispetto all’essere solo. Aveva dedicato la sua vita interamente e unicamente alla sua professione di oculista che esercitò con grande dedizione e con un forte spirito missionario e non gli era rimasto tempo per programmare una sua famiglia. Non si sposò e né ci sono notizie o documenti circa convivenze, amicizie particolari ed eventuali figli naturali.*

* Nel corso di un recente convegno sull’illustre chirurgo tenutosi a Picerno il 28 Marzo del 2009, uno dei discendenti ha riferito che nella famiglia Forlenza si tramanda l’informazione circa una figlia parigina del suo antenato Nicolò. Il dottor Robert Heitz, uno studioso francese che sta conducendo nel suo paese una ricerca sui viaggi di Forlenza e sullo stato della medicina in Francia a quel tempo, al quale mi sono rivolto per una verifica, riferisce che si tratta di una notizia priva di fondamento.

Quanto ai rapporti con la sua terra di origine, è presumibile che a poco a poco si allentarono fino a diventare del tutto inesistenti. Nella testimonianza del Passigli, le origini di Forlenza vengono lasciate nel vago. Forse fu lui stesso a volerlo. Si fa riferimento a un fantomatico zio materno che lo avrebbe mantenuto agli studi anziché all’aiuto costante e consistente fornitogli dai principi Capece-Minutolo. Nessuna traccia di gratitudine per questi ultimi e nessuna menzione dei genitori e della famiglia di origine. E come avrebbe potuto! Lui che aveva condiviso gli ideali e lo spirito della rivoluzione francese, che aveva fatto carriera sotto le insegne della Repubblica Napoleonica e che aveva grande dimestichezza con il potere e con l’aristocrazia e i salotti buoni di Parigi; lui che frequentava il Cafè de Foy e chissà da quando. Quella non era gente alla quale si poteva impunemente raccontare di essere stato mantenuto agli studi da accaniti anti repubblicani quali i principi Capece-Minutolo. Per quanto riguarda infine la sua famiglia, due dei suoi fratelli, accesi sanfedisti, avevano asssassinato due concittadini ruotesi di sentimenti repubblicani ed erano stati a loro volta uccisi (21 -fonti bibliografiche e sitografiche). Due sorelle avevano avuto figli illegittimi e una cugina era stata incolpata di infanticidio. C’era dunque tra il suo mondo e quello delle sue origini un’enorme distanza sotto ogni profilo, vuoi culturale, vuoi sociale, etico, politico, e quant’altro. Se a questo si aggiungono la lontananza e il costante sovraccarico di impegni del chirurgo Forlenza, diventa assai verosimile l’ipotesi di una progressiva e totale cessazione di rapporti tra quest’ultimo e i suoi congiunti lucani con i quali non aveva più nulla in comune, neanche la patria, che per Forlenza era ormai la Francia (29-30 -fonti bibliografiche e sitografiche). Anche in tarda età, benché senza famiglia propria, non fece alcun tentativo di cercarsi un erede tra i parenti ruotesi e picernesi, a cui lasciare il suo cospicuo patrimonio che finì per confluire nelle casse dello stato francese. Sarà dunque pur vero che Picerno per tanto tempo ha quasi ignorato la memoria di questo suo illustre concittadino del passato, ma è altrettanto vero che Forlenza tenne in poco conto la terra delle proprie radici. Se questo toglie qualcosa alla sua grandezza, non saprei dirlo. Forse no. Comunque sia, Giuseppe Nicolò Leonardo Biagio Forlenza fu un uomo straordinario e un chirurgo di grande talento che in un ambiente tutt’altro che facile, com’era quello parigino degli anni del terrore, seppe avanzare fino ai più alti livelli della carriera nella sua disciplina con le uniche leve del sapere, della perizia, dell’impegno e della totale dedizione alla professione che esercitò con la curiosità dello scienziato e lo spirito del missionario. I picernesi non possono che essere orgogliosi di condividere con lui la comune origine dalla stessa stirpe.

 

IL PANNELLO 6

Su questo pannello, dedicato al passato, chiesi allo scultore di scolpire da una parte figure che ricordassero le attività economiche del tempo, tipicamente agro-pastorali e artigianali, dall’altra parte un personaggio illustre di allora, adatto a simboleggiare l’eccellenza intellettuale. Per quanto riguarda la realtà economico-sociale, è stato abbastanza agevole individuare delle immagini rappresentative da tradurre nel bassorilievo della porta. Avevo in realtà suggerito di rappresentare l’agricoltura con una coppia di buoi aggiogati al tiro dell’aratro oppure di un carro, come nei dipinti del macchiaiolo Fattori e la pastorizia con immagini che ricordassero anche la transumanza. L’artista ha realizzato il bassorilievo secondo la propria ispirazione, come è giusto che sia, mantenendosi fedele alla propria scelta operativa iniziale di non affollare i pannelli con troppe immagini a discapito della resa scultorea complessiva. Nel pannello i buoi aggiogati non compaiono per ragioni di spazio. È presente invece una bella mandria di vacche podoliche al pascolo, non lontano dal casone, la casa comune di pastori e vaccari dediti all’attività della transumanza. Nelle vicinanze, una giovane contadina con l’asino e il maiale, entrambi animali simboli dell’economia agricola del tempo. Per rappresentare l’attività artigianale lo scultore ha scelto, tra le varie possibilità, la figura di uno scalpellino, colpito forse dalle numerose testimonianze di questo mestiere presenti ovunque nell’architettura degli antichi palazzi e delle chiese, come nei portali di alcune vecchie case del paese. Stabilire quale figura scegliere tra gli uomini illustri del passato, è stato invece piuttosto indaginoso. I candidati erano tanti. Suggerii la figura del chirurgo Forlenza per la sua impareggiabile dimensione professionale e umana, rinunciando a malincuore all’inserimento di personaggi dello stesso periodo storico e di spessore intellettuale e umano pure elevato, quali Tommaso Cappiello e Giuseppe Antonio Gaimari (10 -fonti bibliografiche e sitografiche).*


Pannello 6 - Picerno nel passato     -     Foto Raffaele Martino

* Tommaso Cappiello (1778-1840) si laureò in Medicina all’Università di Salerno ad appena 20 anni. Giovane brillante e intraprendente, coinvolto dai fatti della Repubblica Partenopea nel 1799, fu nominato appena ventunenne capo amministrativo della guarnigione del Castel dell’Ovo. Caduta la Repubblica riparò in Francia. Durante il viaggio incontrò a Lione Napoleone Bonaparte col quale ebbe un breve colloquio e dal quale ottenne soldi e lasciapassare per andare a Parigi a continuare gli studi di chirurgia. L’anno dopo partecipò alla battaglia di Marengo come medico. In seguito si stabilì a Milano dove ebbe stretti rapporti con Vincenzo Cuoco. Durante quel periodo pubblicò “La confutazione del sistema medico di Brown”, basata quest’ultima sulla teoria del “Vitalismo” che dilagava in quel tempo in Europa. Conseguì la specializzazione in chirurgia a Salerno nel 1802 e nello stesso anno rientrò a Picerno dove esercitò la sua professione di medico dedicandosi anche attivamente alla politica fino alla sua morte. Ha lasciato una “Storia di Picerno” inedita, patrimonio della Biblioteca Caivano.
Giuseppe Antonio Gaimari (1779-1838). Si laureò in Medicina e Filosofia a Salerno nel 1803 e fu nominato chirurgo di 1a classe nel 1807 a seguito di concorso pubblico. Partecipò alla campagna di Russia con la carica di chirurgo maggiore degli Ussari (corpo speciale della cavalleria napoleonica), e fu decorato con la stella d’onore. Tornato in Italia fondò una cattedra di insegnamento di chirurgia (allora c’erano le cosiddette scuole libere di medicina ) che gli consentì di trasferire ai suoi allievi la grande esperienza chirurgica acquisita in guerra. Esercitò con successo la professione medica a Napoli e fu docente in quella università. Grande medico e grande studioso con interessi in vari campi. Scrisse numerosi lavori scientifici e altri ne tradusse da varie lingue, soprattutto dal Francese. Durante l’epidemia di colera che nel 1835
colpì il regno di Napoli, contribuì ad approfondirne le cause e a suggerire misure terapeutiche. Ritiratosi a Picerno a vita privata nel 1837, morì l’anno dopo per broncopolmonite, in circostanze che appaiono non del tutto chiare, a causa della mancanza di informazioni precise sulle date. Fu prelevato dalla sua abitazione di campagna da due notabili potentini per essere accompagnato al capezzale di un loro congiunto a Potenza, non si sa bene in che data (forse il 17 ottobre); si suppone in stato di pieno benessere fisico, altrimenti non si sarebbe messo in viaggio, tanto più che la carrozza era traballante e il tempo freddo e piovoso. Fu riaccompagnato moribondo a casa non si sa in che giorno, forse lo stesso della sua morte, il 19 ottobre 1838.

Sul pannello Forlenza viene raffigurato nell’atto di esaminare una paziente. Dietro a lei altri pazienti in fila. Sullo sfondo la grande cupola dell’ospedale degli invalidi di Parigi.

 

 

 

 

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