CAPITOLO
V°
L’EMIGRAZIONE ITALIANA
LA GRANDE EMIGRAZIONE
Verso la fine dell’ 800, un italiano
anonimo, rispondendo a un Ministro che consigliava di non emigrare,
formulava la seguente domanda: «Cosa intende per nazione signor
ministro? È una massa di infelici? Piantiamo grano, ma non mangiamo pane
bianco. Coltiviamo la vite, ma non beviamo il vino. Alleviamo animali,
ma non mangiamo la carne. Ciò nonostante voi ci consigliate di non
abbandonare la nostra Patria? Ma è una patria la terra dove non si
riesce a vivere del proprio lavoro?»
(32-33
-fonti bibliografiche e sitografiche).
Questa testimonianza puntualizza con efficace eloquenza lo stato di
grave povertà e di diffuso malessere di una larga fascia della
popolazione di allora che, sommata alla voglia di riscatto, giunse a
provocare quell’imponente fenomeno di massa che fu “La grande
emigrazione italiana”. Se ne distinguono due periodi: il primo
dall’unità d’Italia fino alla fine degli anni ‘20, il secondo dalla fine
della seconda guerra mondiale in poi
(34-35
-fonti bibliografiche e sitografiche).
Nel primo periodo, cioè nella seconda metà dell’Ottocento e nei primi
decenni del Novecento, l’emigrazione si diresse in gran parte verso gli
USA, il Brasile e l’Argentina e in misura molto minore verso il Canada,
l’Uruguay e il Venezuela. Piccole colonie si formarono anche in Cile,
Perù e Messico oltre che nella lontana Australia. Nel secondo dopoguerra
l’emigrazione italiana si è diretta in prevalenza verso i paesi
dell’Europa occidentale. Dalla seconda metà degli anni ‘50 in poi,
diventano importanti anche le migrazioni interne dal Sud al Nord
dell’Italia. Dopo un periodo di quiescenza di qualche decennio, negli
ultimi anni si sta assistendo a una ripresa del fenomeno migratorio
soprattutto tra i giovani con elevato livello di istruzione. Quello
degli italiani è stato uno dei più grandi esodi migratori della storia
contemporanea
(32-36
-fonti bibliografiche e sitografiche).
Oltre 25 milioni di emigranti, al lordo di quelli che espatriarono e
rientrarono anche più volte, hanno lasciato l’Italia in poco più di un
secolo. Attualmente si stima che siano oltre 60 milioni i discendenti di
emigranti italiani nel mondo. Praticamente un’altra Italia fuori dai
confini della Patria. Anche dalla Basilicata furono in tanti ad emigrare
e tanti anche da Picerno.
Emigrare è una esperienza dolorosa anche nelle migliori delle condizioni.
La speranza di una vita migliore non è infatti quasi mai sufficiente ad
alleviare il lacerante trauma dello sradicamento, soprattutto per
l’emigrante stabile, ma anche per chi emigra solo temporaneamente. Per
questa sostanziale ragione, l’aver lasciato la propria terra, gli
affetti più cari, le proprie radici, la propria lingua, la propria
identità, il proprio tutto, per andare incontro all’ignoto e alla
solitudine, spesso con la sola forza della speranza, deve essere
considerato un atto di grande coraggio e di grande generosità compiuto
da parte di quei nostri connazionali che senza nulla chiedere in cambio,
si caricarono sulle spalle il proprio destino e se ne andarono,
lasciando a chi rimaneva il proprio spazio e le proprie cose e
contribuendo con rinunce e sacrifici a costruire un futuro migliore per
l’intera comunità d’origine. Sono stati loro i veri eroi del nostro
tempo. Benefattori della nazione sotto molteplici aspetti, non meno di
quanti furono costretti a rischiare la vita sui campi di battaglia.
Il viaggio verso l’America del Nord durava fino a 30-40 giorni e spesso
costava la vita a non pochi emigranti a causa delle condizioni igieniche
e al sovraffollamento sulle navi. Morivano per fame, avvelenamento,
asfissia, malaria, polmonite, scabbia e altre malattie. L’arrivo non era
meno traumatico e doloroso della partenza e del viaggio. I controlli
medici e burocratici all’arrivo in America erano durissimi, specialmente
a Ellis Island, soprannominata per questo l’isola delle lacrime. Tra
quelli che non avendo superato i controlli venivano reimbarcati per
l’Italia, alcuni in preda alla disperazione, si buttavano nelle acque
gelide della baia, dove solitamente andavano incontro alla morte. Nel
Museo dell’emigrazione a New York ci sono ancora le valige con le
suppellettili e il misero abbigliamento di quei nostri sfortunati
connazionali
(37
-fonti bibliografiche e sitografiche).
Dopo aver superato i controlli, soprattutto per i più deboli, le
disavventure non si potevano considerare finite. C’era la difficoltà di
inserimento in un mondo tanto diverso dal piccolo paese di provenienza,
le difficili condizioni abitative e igieniche, i lavori umili,
massacranti e malpagati. Molti si ammalavano. In tanti contrassero la
tubercolosi e tanti altri finirono nei manicomi sia ordinari che
criminali. In tanti morirono anche sul lavoro, singolarmente o in
tragedie collettive.
Quelli che sopravvissero, ovviamente la gran maggioranza, furono gli
iniziatori di quel percorso travagliato fatto di grandi sacrifici,
umiliazioni, rischi, rinunce, ma soprattutto di quella grande mole di
lavoro, di iniziative e attività d’impresa di ogni genere su cui si
fondano l’indiscutibile successo e la compiuta americanizzazione delle
ultime generazioni dei loro discendenti. Anche dalla Basilicata
l’emigrazione fu imponente. Si è arrivati a stimare che nel quarantennio
tra il 1871 e il 1911 ben 361.000 lucani emigrarono
(38
-fonti bibliografiche e sitografiche)
scegliendo come meta preferita gli Stati Uniti, il Brasile e l’Argentina
(39
-fonti bibliografiche e sitografiche).
Una stima esagerata e a mio parere molto inverosimile, che forse non
tiene conto non solo di quanti emigrarono e rientrarono più volte, ma
neanche dei dati forniti dai censimenti della popolazione lucana
eseguiti a ridosso di quel periodo. Nel primo censimento eseguito dopo
l’unificazione, nel 1861, la popolazione lucana risultò di 492.959
abitanti
(40
-fonti bibliografiche e sitografiche).
Nel successivo censimento del 1901, la popolazione censita era di
490.705 abitanti, sostanzialmente la stessa di quarant’anni prima. Se
fosse vero che nel quarantennio tra il 1871 e il 1911 emigrarono 361.000
lucani, questo numero, messo a confronto con i risultati dei due
censimenti, starebbe a indicare due cose: la prima, che l’incremento di
popolazione lucana in quel periodo fu di circa 361.000 persone, la
seconda, che tutto l’incremento fu interamente annullato
dall’emigrazione. Oggettivamente un incremento di 361.000 unità dal 1861
al 1901, partendo da una popolazione iniziale di 492.959 abitanti è
assai improbabile. Significherebbe il quasi raddoppio della popolazione
iniziale in soli quarant’anni, contro un incremento di solo 71.000 unità
nel corso del quarantennio precedente, dal censimento del 1824 a quello
del 1861. Sulla base di queste semplici considerazioni, come è stato già
detto, una sovrastima del numero dei lucani che emigrarono in quel
periodo sembra del tutto verosimile, anche se è fuor di dubbio che
l’esodo fu imponente.
L’emigrazione fu il fenomeno che più di ogni altro mutò il volto della
Basilicata. «Questo enorme movimento migratorio, che non ebbe precedenti
nella storia italiana», osserva Francesco Nitti, «costituì la causa
modificatrice più profonda dell’assetto economico, morale e sociale del
meridione, all’infuori di ogni influenza del governo e della borghesia»
(38-41
-fonti bibliografiche e sitografiche).
Le cause di tale esodo massivo furono molteplici e tutte ruotavano
intorno alla miseria. La Basilicata si spopolò soprattutto di maschi
adulti e fu quindi privata delle sue forze più produttive. Tale perdita
fu per fortuna alleviata dalle cospicue rimesse che gli emigranti
inviarono alle proprie famiglie rimaste in patria, come viene confermato
dall’inchiesta che Francesco Saverio Nitti eseguì nei primi anni del
novecento sulle condizioni dei contadini in Basilicata e Calabria. In
quell’inchiesta, l’autore arrivò a concludere che in Basilicata e
Calabria l’industria più fiorente in quel periodo dal punto di vista
delle entrate fu l’emigrazione
(41
-fonti bibliografiche e sitografiche).
I flussi migratori verso le Americhe si arrestarono con la prima guerra
mondiale per riprendere intensamente subito dopo, ma solo per pochi
anni. Dalla seconda metà degli anni venti l’emigrazione subì di nuovo un
forte rallentamento sia per la politica antiemigratoria del governo
fascista, sia per le restrizioni poste dal governo americano
all’immigrazione. Ripresero di nuovo dopo la seconda guerra mondiale,
per esaurirsi completamente negli anni sessanta, con l’avvento di quello
che fu chiamato il miracolo economico italiano.
L’EMIGRAZIONE DOPO LA II° GUERRA
MONDIALE E L’EMIGRAZIONE DA PICERNO
Dopo la seconda guerra mondiale i
flussi migratori ripresero in maniera massiccia, diretti in grande
prevalenza verso paesi europei in crescita quali Francia, Germania,
Belgio e Svizzera e regioni italiane del nord quali Lombardia e
Piemonte. I treni a lunga percorrenza che collegavano il Sud con
Milano,Torino, Lione, Parigi, Bruxelles, Berna, Zurigo, Monaco,
Francoforte, Colonia e tanti altri centri dell’Italia del nord e
dell’Europa centrale erano sempre stracarichi di emigranti e delle loro
famiglie in entrambe le direzioni, specialmente in concomitanza con le
festività e le ferie. Milioni e milioni di meridionali ma anche di
veneti e friulani varcarono il confine in cerca di lavoro. Ne emigrarono
tre milioni nella sola Germania. Negli anni cinquanta furono in tanti a
partire anche da Picerno, alcuni con tutta la famiglia, altri da soli,
chi in maniera temporanea e chi per sempre. Ne conservo viva la memoria
avendo vissuto gli anni della mia infanzia e adolescenza a stretto
contatto con molti di quelli che poi emigrarono. A quel tempo mio padre
e tre dei suoi fratelli possedevano in contrada Palazzo una piccola
azienda di tipo misto, in parte agricola e in parte artigianale. Oltre
alla coltivazione della terra e all’allevamento del bestiame, l’azienda
gestiva una fornace che era stata impiantata a suo tempo da mio nonno
Nicola Maria e che fabbricava a mano mattoni, embrici e mattonelle per
pavimenti; prendeva inoltre appalti per la costruzione di case rurali e
per tagli di boschi, faceva trasporto a dorso di muli; possedeva anche
macchinari per la trebbiatura del grano e possenti buoi per trainarli da
un’aia all’altra, contro le asperità e i dislivelli dell’impervia
campagna appenninica. Erano buoi magnifici, forti, pazienti, silenziosi,
con una certa solennità nei loro sguardi e nei loro atteggiamenti.
Ricordo ancora i loro nomi: Barlettano, Cappuccino, Innamorato. Il più
possente era Barlettano. Affrontava i grandi sforzi con testarda
caparbietà e in quelle circostanze gli si leggeva negli occhi
un’espressione quasi umana. Verso la fine degli anni cinquanta furono
sostituiti dall’assordante e inanime trattore. Grazie a queste
molteplici attività, nella masseria di contrada Palazzo ci fu per anni
un notevole via vai di persone impegnate nelle più varie mansioni:
braccianti agricoli, garzoni addetti ai muli e al bestiame, lavoratori e
lavoratrici giornalieri, manovali, operai e artigiani di ogni genere,
insomma un gran numero di persone che io ricordo come una grande
famiglia. L’intera contrada, oggi quasi deserta, a quel tempo era invece
popolata di uomini e di animali al pari di un dipinto di Breughel e
l’aria della valle echeggiava di suoni, di rumori, di muggiti, di
belati, di ragli, di richiami, di voci, di canti. Poi uno alla volta
incominciarono ad andarsene, finché nel giro di pochi anni non se ne
andarono tutti. Emigrarono per lo più in Svizzera, Germania e Italia del
nord, in numero minore in Francia e in Belgio, oltre che in Canada, Sud
America e Australia. Per alcuni si trattò di emigrazione definitiva, per
altri di emigrazione temporanea. Sia gli uni che gli altri diedero un
enorme contributo alla crescita economica e sociale non solo delle
proprie famiglie ma anche di tutto il paese. Come ho già accennato nel
paragrafo precedente, il Meridione deve molto alla generosità dei propri
emigranti. Con questo
intendo riferirmi non tanto alle grandi donazioni elargite da alcuni dei
più fortunati, quanto a tutta la grande massa di emigranti che con i
loro sacrifici, le rinunce, i risparmi e le rimesse, contribuirono a
costruire in vari modi un futuro migliore per l’intera comunità di
origine. Picerno ha avuto la fortuna di usufruire sia della diffusa
generosità di massa che della generosità di singoli grandi benefattori,
rievocata nel bassorilievo della porta da due importanti e significative
donazioni: il bell’edificio della scuola elementare “Oscar Pagano” e il
campo sportivo “Donato Curcio”.
|
Contrada Palazzo - La vecchia masseria di
mio nonno in muro di pietra e calce, a iniziare dai primi anni
cinquanta, attraverso rifacimenti e aggiunte successive, è stata
trasformata nell’attuale grande caseggiato, dove non abita più
nessuno |
L’edificio scolastico venne donato al
Comune di Picerno nell’anno 1929 dal concittadino Prospero Nicola Felice
Pagano in memoria del figlio Oscar, deceduto per malattia all’età di 20
anni. Il nuovo campo sportivo è stato donato nel 2007 dal concittadino
Donato Curcio. Il primo emigrò in Argentina alla fine dell’Ottocento, il
secondo emigrò agli inizi degli anni ‘60, prima in vari paesi europei e
poi in Nordamerica. Due figure simboliche del grande successo del lavoro
italiano all’estero in epoche diverse.
PROSPERO NICOLA FELICE PAGANO
Nicola
Felice Pagano fu un grande realizzatore e promotore di benessere per se
stesso e per le comunità in cui visse e operò; uno che, senza saperlo,
seguì alla lettera la massima
latina audaces fortuna iuvat e costruì un’immensa fortuna grazie
all’ingegno, al proprio straordinario spirito di iniziativa e
all’impareggiabile operosità. La sua biografia, non pubblicata, è stata
scritta da Graciela Alvarez Perretta, italo-argentina, avvocato,
scrittrice e ricercatrice di questioni e problematiche giuridiche e
storiche
(42
-fonti bibliografiche e sitografiche).
Nicola nacque a Picerno nel 1872. All’età di 13 anni raggiunse il padre
in Brasile e ne aveva 14 quando la famiglia si spostò dal Brasile
all’Argentina. Andarono ad abitare prima a Buenos Aires e poi a San
Miguel del Monte, in provincia. Insieme al padre, Nicola si occupava di
costruzioni edili e fabbricazione di mosaici. A 21 anni sposò una
ragazza che ne aveva 18, Angela Bonavita. Sebbene ancora giovane, era
abile nel suo lavoro, ambizioso e con una gran voglia di realizzare, e
San Miguel del Monte gli stava stretta. Racconta Emilio Zuccarini nel
suo libro intitolato “Il lavoro degli Italiani nella Repubblica
Argentina dal 1516 al 1910”
(43
-fonti bibliografiche e sitografiche),
che «Nicola Pagano risedette per molti anni a San Miguel, ma avendo un
temperamento sanguigno-passionale ed esuberante, presto sentì la
necessità di un ambiente più adatto alle proprie aspirazioni, di un
centro di affari dove la trasformazione urbana procedesse con rapidità,
dove la vita collettiva si
svolgesse tra molteplici attività…». Per questa ragione tornò a Buenos
Aires e subito dopo si trasferì con la famiglia e i fratelli a Bahìa
Blanca , circa 600
Km a sud di Buenos Aires, sulla costa atlantica, località in piena fase di
sviluppo, dove fiutò di poter realizzare progetti ambiziosi. Era l’anno
1901 e Nicola aveva 29 anni. A Bahia Blanca il nome Prospero rivelò
subito la sua carica bene-augurale. Fin da subito infatti incominciarono
a prosperare sia la sua impresa di costruzioni alla quale associò anche
un fratello, che la propria famiglia. Di pari passo crebbe il suo ruolo
sociale e politico. Si aggiudicò subito l’appalto per la costruzione di
una grande opera pubblica, il Palazzo Municipale di Bahia Blanca.
Successivamente costruì gran parte di quello che divenne il patrimonio
architettonico della città. Costruì banche, alberghi, ospedali, edifici
pubblici e privati di ogni genere e abitazioni a centinaia. Con la
moglie Angela formò una numerosa famiglia. Ai primi due figli che erano
nati a San Miguel se ne aggiunsero altri cinque. Si impegnò nell’ambito
sociale e politico, ebbe parte attiva nelle organizzazioni degli
immigrati italiani e per molti anni fu presidente del Circolo Italiano
di Bahia Blanca. Prestò assistenza alle famiglie di connazionali
richiamati in Italia durante la Grande Guerra. Sottoscrisse inoltre per
mezzo milione di lire nel prestito di guerra. Come riconoscimento per
l’apporto dato alla patria e ai propri connazionali gli venne conferita
la Croce di Cavaliere della Corona d’Italia.
Arrivarono purtroppo anche i lutti. Nel 1916 morì la moglie e intorno alla
metà degli anni ‘20 morì il figlio Oscar Nicola Pagano che aveva
contratto la tubercolosi a New York dove frequentava la facoltà di
ingegneria. Riferiscono le fonti che Nicola, il quale aveva già dovuto
attraversare la grave crisi causata dalla perdita della moglie, faticò a
rassegnarsi a quella di Oscar e prese la drastica decisione di
abbandonare l’attività e di tornarsene a Picerno. Aveva all’incirca 55
anni. Tornato in Italia comprò una villa a Sant’Agnello di Sorrento. A
Picerno donò i fondi per il restauro e l’arredo della chiesa
parrocchiale e il restauro del palazzo Mancini. Per onorare la memoria
del figlio morto prematuramente fece costruire e donò al Comune lo
stupendo edificio della scuola elementare “Oscar Pagano”, inaugurata il
19 Ottobre del 1929
(44
-fonti bibliografiche e sitografiche).
Nel discorso inaugurale, Nicola elogiò l’operosità, l’onestà e la
costanza, i valori che raccontò di aver appreso da bambino a scuola dai
propri maestri, e che nel tempo avevano fatto da guida alle proprie
azioni.
|
L’edificio della scuola elementare “Oscar
Pagano” a lavori ultimati |
Inaugurata la scuola, Nicola se ne
tornò in Argentina, dove riprese le sue attività nonostante avesse
iniziato ad avere problemi di salute. Morì a Buenos Aires nel 1932,
all’età di 60 anni. Ne seguì le orme il primo figlio Adalberto, anche
lui come il padre un grande promotore di benessere e una forza
propulsiva inarrestabile. Ingegnere e costruttore all’inizio della sua
carriera, divenne in seguito Governatore della Provincia di Rio Negro
che portò in pochi anni allo sviluppo e al benessere mediante le sue
numerose e importanti realizzazioni.
L’emigrante Prospero Nicola Pagano sviluppò dunque al meglio il proprio
talento in Argentina dove realizzò molte grandi opere architettoniche e
molta ricchezza. Si dedicò intensamente anche alle attività sociali,
aiutò i propri connazionali in difficoltà, mantenne sempre vivo il
rapporto con il suo paese natale al quale fece varie e generose
donazioni. La più importante fu l’edificio della scuola elementare
“Oscar Pagano”.
LA SCUOLA ELEMENTARE “OSCAR PAGANO”
Costruita in un caldo stile georgiano,
la scuola è uno dei più bei gioielli del patrimonio architettonico di
Picerno. Lo stile georgiano fiorì in Gran Bretagna sotto i quattro
monarchi di nome Giorgio (da Giorgio I a Giorgio IV) che si succedettero
dal 1720 al 1840. È uno stile neoclassico ispirato all’architettura
palladiana. Le sue caratteristiche basilari sono la perfetta simmetria e
regolarità basate sull’utilizzo di precise misurazioni e proporzioni
matematiche per stabilire i rapporti tra le varie componenti
strutturali, l’uso sia di mattoni che di pietre e un lessico decorativo
di ispirazione classica. Tutti elementi riscontrabili nel nostro
edificio scolastico. Oltre alla bella linea architettonica, un ambiente
interno luminoso e caldo grazie alle grandi finestre e al riscaldamento
centralizzato installato fin dall’inizio, moderni servizi igienici e
persino l’impianto fognario di cui il paese è rimasto sprovvisto fino a
qualche decennio dopo. Insomma quell’edificio del 1929 offriva una
confortevolezza ambientale che nel resto del paese sarebbe mancata
ancora per molti anni. Quando iniziai a frequentare la scuola
elementare, nel 1949, l’edificio aveva appena vent’anni. La scuola era
bella come un tempio e come in un tempio si avvertiva la sensazione di
qualcosa che andava oltre i muri e oltre gli spazi fisici, ma di
Prospero Nicola Felice Pagano imparammo solo ciò che riportavano le
lapidi commemorative perché nessuno degli insegnanti pur bravi di
allora, ci raccontò nulla di più. Non posso ovviamente escludere che
qualcuno lo abbia fatto, ma non mi sovviene di iniziative programmate
della scuola dirette ad approfondire il significato pedagogico e il
valore formativo di quella esemplare esperienza di vita e di lavoro e a
trarne insegnamenti per i propri alunni.
|
Panoramica aerea del centro storico. La
scuola "Oscar Pagano", un tempo all’estrema periferia dell’abitato,
in zona "ravanga", prospiciente l’omonima discarica denominata
"carbunar’e r’e la ravanga", è ora situata in pieno centro storico.
Partendo dal basso, si può osservare la notevole mole della Chiesa
Madre con il giardino, seguono il palazzo Pignatelli-Salvia, il
palazzo Borriello e Piazza Plebiscito con il palazzo Mancini alla
sua destra. Lungo il corso: il grande palazzo Carelli-Lazzari sulla
destra e più avanti, sulla sinistra, il palazzo Figliola e poi la
torre medioevale nella forma attuale e il palazzo Capece. Procedendo
oltre, si incontra piazza Statuto con il palazzo Caivano e svoltando
a sinistra si arriva finalmente alla scuola "Oscar Pagano", la cui
armonia strutturale, tipica dello stile georgiano, viene messa ancor
più in evidenza dal confronto immediato e diretto con le altre
costruzioni.
Foto archivio APT Basilicata |
Occorre domandarsi in quale modo, in
una comunità qualsiasi, i comportamenti virtuosi possano mai diventare
patrimonio valoriale comune, se la scuola non li valorizza e non li
propaga. Per fortuna, in tempi più recenti, a questa distrazione della
comunità nei riguardi del proprio passato, hanno in parte rimediato il
volume su Picerno di Giuseppina Caivano Bianchini del 1977, le numerose
pubblicazioni di vari altri autori e l’impegno di amministratori
comunali e operatori culturali degli ultimi decenni.
DONATO CURCIO
In
tempi recenti, l’altra importante donazione, il campo sportivo, è stata
fatta da Donato Curcio, nato a Picerno nel 1942 da Vito ed Elvira Giosa.
Anche lui, come Nicola Pagano, un emigrante di successo che con impegno
e chiarezza di obbiettivi ha utilizzato il proprio talento e
l’esperienza maturata in varie parti del mondo per realizzare a Buffalo,
in USA, una fabbrica per la progettazione e la produzione di macchine ad
elevato contenuto tecnologico. Poiché Donato e io oltre ad essere
coetanei siamo anche cugini e ci conosciamo da quando eravamo in fasce,
stavo per scrivere che lo conosco a memoria. Ho fatto però subito marcia
indietro perché a memoria è difficile conoscere anche se stessi. Stavo
per scrivere poi che conosco a memoria la sua storia, però anche la
storia di una persona è difficile da conoscere a fondo e a memoria. Si
possono magari conoscere delle sequenze di fatti e avvenimenti che la
riguardano, ma la storia è un’altra cosa. Alla fine ho deciso di
limitarmi a raccontare poche cose che credo di conoscere e poche altre
che ho chiesto a lui stesso. Tra tutte, ho scelto quelle che mi sono
sembrate più idonee a rendere spiegabile il suo successo. Ho già parlato
in uno dei paragrafi precedenti dell’emigrazione di massa degli anni
‘50, costituita in prevalenza da Donato Curcio manodopera povera. Negli
anni ‘60 invece, per le mutate condizioni sociali ed economiche del
paese, incominciarono ad emigrare persone variamente qualificate, non
più motivate da bisogni primari, ma sospinti dalla ricerca di situazioni
più adatte alle proprie ambizioni e allo sviluppo del proprio talento.
Donato è stato uno di questi. Emigrò nel 1961 con in tasca un diploma da
meccanico specializzato e in mente un preciso obbiettivo, quello di
costruirsi una fortuna. Andò prima in Francia dove lavorò in officina e
poi in Svizzera dove svolgendo la propria attività in un ufficio tecnico
di progettazione meccanica, acquisì le conoscenze che gli servirono in
seguito per progettare in proprio. L’azienda l’aveva destinato ad aprire
una sede in Italia e per questa
ragione lo aveva anche inviato presso una propria consociata inglese a
Londra, perché arricchisse la propria preparazione tecnico-gestionale.
Donato non si sentiva però tagliato per un ruolo subalterno a vita e le
allettanti proposte dell’azienda in cui stava lavorando non furono
sufficienti a fargli cambiare idea. Un giorno gli capitò per caso di
passare davanti al consolato canadese di Berna, entrò per curiosare e ne
uscì convinto che fosse il Canada la sua terra promessa, la terra
dell’opportunità di cui era alla ricerca. Due settimane dopo lavorava
già a Toronto. In Canada rimase otto anni durante i quali lavorò a una
serie di progetti che gli permisero di crescere in conoscenza e perizia
e nello stesso tempo di prepararsi al grande passo che da sempre era
stato il suo obbiettivo primario, la realizzazione di un’azienda tutta
sua. Li ricordo bene quegli anni in quanto lavorando io a New York e lui
a Toronto, ci sentivamo spesso e ci incontravamo. Erano i primi anni ‘70
e avevamo entrambi circa trent’anni. Io stavo imparando a fare il
chirurgo e lui cercava di progettare una particolare bottiglia di
plastica. Il suo momento arrivò intorno alla metà degli anni ‘70. Di ciò
che avvenne dopo, preferisco affidare la narrazione alle sue stesse
parole tradotte da una sua testimonianza in lingua inglese: «...Dopo
otto anni di esperienza in Canada, misi gli occhi sugli Stati Uniti dove
le opportunità erano a più ampio spettro. A Buffalo, nello stato di New
York, con cinquemila dollari avuti in prestito da un amico e una forza
lavoro costituita da tre dipendenti, impiantai la United Silicone Inc.,
un’azienda che si occupava della progettazione e produzione di macchine
per decorare prodotti di plastica tramite stampa a caldo. L’azienda
crebbe aldilà delle più rosee prospettive fino ad occupare oltre 250
dipendenti e a diventare una multinazionale con più di 50 punti di
rappresentanza e distribuzione sia in America che in altri paesi del
mondo. Ciò che si dispiegava davanti a me era una storia, la mia, che
assomigliava molto a quello che in tanti chiamano il sogno americano». A
Buffalo Donato conobbe subito Nancy Zuchowski. Dalla loro unione
nacquero l’una dopo l’altra quattro splendide figlie. La famiglia crebbe
con la stessa rapidità dell’azienda. Circa 20 anni dopo averla
impiantata, in piena fase di successo e capacità produttiva, Donato
cedette l’azienda a una multinazionale gigante. Fu la scelta fredda e
saggia di chi ha imparato a conoscere molto bene le dinamiche aziendali
e quelle dei mercati internazionali. Nonostante il successo economico e
gli impegni derivanti dal lavoro e dalla numerosa famiglia, Donato ha
continuato a mantenere stretti e frequenti rapporti con Picerno dove è
rimasto per tutti quello che era sempre stato, una persona disponibile,
affabile e gioviale, un carattere allegro e di buona compagnia, generoso
al momento giusto e per le cause di suo interesse, come è avvenuto per
la sponsorizzazione della Polisportiva Picerno di cui è presidente
onorario e la donazione al Comune del nuovo campo sportivo a lui stesso
intitolato. A Buffalo, dove risiede, Donato non è stato da meno. Ha
sempre partecipato attivamente alla vita della città e in particolare a
quella della comunità italo-americana e delle relative associazioni,
incluse quelle benefiche. Recentemente ha contribuito in maniera
determinante alla realizzazione di un film sulla emigrazione italiana
negli Stati Uniti, un documento storico di notevole pregio intitolato
“La Terra promessa”, diretto dai registi Joey Giambra & Mark Odien. Il
film è stato prodotto dalla Federazione delle Società Italo-Americane
dell’area occidentale dello stato di New York (The Federation of
Italian-American Societies of Western New York) in occasione della
ricorrenza del suo primo secolo di vita, allo scopo di conferire alla
celebrazione del centenario una nota di grandiosità. Il presidente della
federazione Donald A. Alessi nel discorso di chiusura della celebrazione
del centenario così si esprime: «...Ancora una volta abbiamo avuto la
fortuna di avere amici cari e volenterosi che hanno condiviso con noi la
passione per la commemorazione della nostra storia, della cultura, delle
tradizioni e dei nostri antenati, e la ferma volontà di fare di tutto
questo il tema centrale di una celebrazione del centenario di insuperata
grandezza. Non potrò mai ringraziare abbastanza Donato Curcio per la sua
generosità, l’entusiasmo, la business leadership e la sua saggezza
nell’esercizio delle funzioni di responsabile della gestione
finanziaria, e per il suo grande contributo all’enorme successo di
questo evento. La celebrazione, infatti, ha veramente incominciato a
decollare solo quando Donato è salito a bordo...». Quella di Donato è
stata dunque una bella storia. Avrei detto anche una grande storia, se
non avessi avuto il timore di sconfinare nella retorica. È stata
fortuna? Niente affatto. Si è trattato di una storia costruita e
fortissimamente voluta fin dall’inizio. Donato ritenendo di avere del
talento, anziché arrendersi alle difficoltà oggettive della propria
terra e al fatalismo, come fanno in molti, si è messo a cercare come e
dove svilupparlo al meglio per farne una forza realizzatrice. Tutto
quello che ha fatto dopo, lo ha fatto con grandissimo impegno, costanza
e determinazione, ponendo il suo traguardo sempre molto lontano e
facendo tutto il necessario per poterlo raggiungere, senza mai
accontentarsi di risultati intermedi. È stato questo il punto centrale
di tutto il suo percorso e del suo successo. Il talento è stato
ovviamente una precondizione molto importante, ma si sa che una qualche
forma di talento ce l’hanno tutti o in tanti. Ciò che non tutti hanno è
la volontà di darsi obbiettivi impegnativi che richiedono studio,
sforzi, sacrifici e tempo per realizzarli. Sono queste le forze
trainanti del successo. In loro assenza, il talento, da solo, è destinato
a rimanere una risorsa personale sprecata.
Il nuovo campo sportivo “Donato Curcio” - Foto
Videotop di Capece Rocco
IL PANNELLO 7°
Su questo pannello lo scultore ha
rappresentato nel triangolo in basso scene dinamiche di partenze di
emigranti: qualcuno seduto su pile di valige, altri in movimento con il
bagaglio sulle spalle, in vicinanza di una stazione ferroviaria che
richiama quella di Picerno, e di un porto marittimo con attraccata una
grande nave scolpita nei più piccoli dettagli.
Pannello 7° - L’emigrazione - Foto
Raffaele Martino
Nel triangolo in alto sono raffigurate
le due donazioni più consistenti fatte da emigranti al Comune di
Picerno: il campo di calcio “Donato Curcio” e la scuola “Oscar Pagano”.
Il campo di calcio viene raffigurato con la tribuna affollata da tifosi,
un guardalinee e un calciatore in primo piano ai bordi del campo. A
fianco, il magnifico edificio della scuola “Oscar Pagano”, visto da
piazza Statuto, con la sua linea armonica ed elegante.
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