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Carmine Curcio

Picerno

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STORIE DI SANTI, DI EROI E DI EMIGRANTI

"LA PORTA DI SAN NICOLA A PICERNO"

 

Carmine Curcio

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INDICE

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CAPITOLO 

L’EMIGRAZIONE ITALIANA

LA GRANDE EMIGRAZIONE

Verso la fine dell’ 800, un italiano anonimo, rispondendo a un Ministro che consigliava di non emigrare, formulava la seguente domanda: «Cosa intende per nazione signor ministro? È una massa di infelici? Piantiamo grano, ma non mangiamo pane bianco. Coltiviamo la vite, ma non beviamo il vino. Alleviamo animali, ma non mangiamo la carne. Ciò nonostante voi ci consigliate di non abbandonare la nostra Patria? Ma è una patria la terra dove non si riesce a vivere del proprio lavoro?» (32-33 -fonti bibliografiche e sitografiche). Questa testimonianza puntualizza con efficace eloquenza lo stato di grave povertà e di diffuso malessere di una larga fascia della popolazione di allora che, sommata alla voglia di riscatto, giunse a provocare quell’imponente fenomeno di massa che fu “La grande emigrazione italiana”. Se ne distinguono due periodi: il primo dall’unità d’Italia fino alla fine degli anni ‘20, il secondo dalla fine della seconda guerra mondiale in poi (34-35 -fonti bibliografiche e sitografiche). Nel primo periodo, cioè nella seconda metà dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento, l’emigrazione si diresse in gran parte verso gli USA, il Brasile e l’Argentina e in misura molto minore verso il Canada, l’Uruguay e il Venezuela. Piccole colonie si formarono anche in Cile, Perù e Messico oltre che nella lontana Australia. Nel secondo dopoguerra l’emigrazione italiana si è diretta in prevalenza verso i paesi dell’Europa occidentale. Dalla seconda metà degli anni ‘50 in poi, diventano importanti anche le migrazioni interne dal Sud al Nord dell’Italia. Dopo un periodo di quiescenza di qualche decennio, negli ultimi anni si sta assistendo a una ripresa del fenomeno migratorio soprattutto tra i giovani con elevato livello di istruzione. Quello degli italiani è stato uno dei più grandi esodi migratori della storia contemporanea (32-36 -fonti bibliografiche e sitografiche). Oltre 25 milioni di emigranti, al lordo di quelli che espatriarono e rientrarono anche più volte, hanno lasciato l’Italia in poco più di un secolo. Attualmente si stima che siano oltre 60 milioni i discendenti di emigranti italiani nel mondo. Praticamente un’altra Italia fuori dai confini della Patria. Anche dalla Basilicata furono in tanti ad emigrare e tanti anche da Picerno.
Emigrare è una esperienza dolorosa anche nelle migliori delle condizioni. La speranza di una vita migliore non è infatti quasi mai sufficiente ad alleviare il lacerante trauma dello sradicamento, soprattutto per l’emigrante stabile, ma anche per chi emigra solo temporaneamente. Per questa sostanziale ragione, l’aver lasciato la propria terra, gli affetti più cari, le proprie radici, la propria lingua, la propria identità, il proprio tutto, per andare incontro all’ignoto e alla solitudine, spesso con la sola forza della speranza, deve essere considerato un atto di grande coraggio e di grande generosità compiuto da parte di quei nostri connazionali che senza nulla chiedere in cambio, si caricarono sulle spalle il proprio destino e se ne andarono, lasciando a chi rimaneva il proprio spazio e le proprie cose e contribuendo con rinunce e sacrifici a costruire un futuro migliore per l’intera comunità d’origine. Sono stati loro i veri eroi del nostro tempo. Benefattori della nazione sotto molteplici aspetti, non meno di quanti furono costretti a rischiare la vita sui campi di battaglia.
Il viaggio verso l’America del Nord durava fino a 30-40 giorni e spesso costava la vita a non pochi emigranti a causa delle condizioni igieniche e al sovraffollamento sulle navi. Morivano per fame, avvelenamento, asfissia, malaria, polmonite, scabbia e altre malattie. L’arrivo non era meno traumatico e doloroso della partenza e del viaggio. I controlli medici e burocratici all’arrivo in America erano durissimi, specialmente a Ellis Island, soprannominata per questo l’isola delle lacrime. Tra quelli che non avendo superato i controlli venivano reimbarcati per l’Italia, alcuni in preda alla disperazione, si buttavano nelle acque gelide della baia, dove solitamente andavano incontro alla morte. Nel Museo dell’emigrazione a New York ci sono ancora le valige con le suppellettili e il misero abbigliamento di quei nostri sfortunati connazionali
(37 -fonti bibliografiche e sitografiche). Dopo aver superato i controlli, soprattutto per i più deboli, le disavventure non si potevano considerare finite. C’era la difficoltà di inserimento in un mondo tanto diverso dal piccolo paese di provenienza, le difficili condizioni abitative e igieniche, i lavori umili, massacranti e malpagati. Molti si ammalavano. In tanti contrassero la tubercolosi e tanti altri finirono nei manicomi sia ordinari che criminali. In tanti morirono anche sul lavoro, singolarmente o in tragedie collettive.
Quelli che sopravvissero, ovviamente la gran maggioranza, furono gli iniziatori di quel percorso travagliato fatto di grandi sacrifici, umiliazioni, rischi, rinunce, ma soprattutto di quella grande mole di lavoro, di iniziative e attività d’impresa di ogni genere su cui si fondano l’indiscutibile successo e la compiuta americanizzazione delle ultime generazioni dei loro discendenti. Anche dalla Basilicata l’emigrazione fu imponente. Si è arrivati a stimare che nel quarantennio tra il 1871 e il 1911 ben 361.000 lucani emigrarono
(38 -fonti bibliografiche e sitografiche) scegliendo come meta preferita gli Stati Uniti, il Brasile e l’Argentina (39 -fonti bibliografiche e sitografiche). Una stima esagerata e a mio parere molto inverosimile, che forse non tiene conto non solo di quanti emigrarono e rientrarono più volte, ma neanche dei dati forniti dai censimenti della popolazione lucana eseguiti a ridosso di quel periodo. Nel primo censimento eseguito dopo l’unificazione, nel 1861, la popolazione lucana risultò di 492.959 abitanti (40 -fonti bibliografiche e sitografiche). Nel successivo censimento del 1901, la popolazione censita era di 490.705 abitanti, sostanzialmente la stessa di quarant’anni prima. Se fosse vero che nel quarantennio tra il 1871 e il 1911 emigrarono 361.000 lucani, questo numero, messo a confronto con i risultati dei due censimenti, starebbe a indicare due cose: la prima, che l’incremento di popolazione lucana in quel periodo fu di circa 361.000 persone, la seconda, che tutto l’incremento fu interamente annullato dall’emigrazione. Oggettivamente un incremento di 361.000 unità dal 1861 al 1901, partendo da una popolazione iniziale di 492.959 abitanti è assai improbabile. Significherebbe il quasi raddoppio della popolazione iniziale in soli quarant’anni, contro un incremento di solo 71.000 unità nel corso del quarantennio precedente, dal censimento del 1824 a quello del 1861. Sulla base di queste semplici considerazioni, come è stato già detto, una sovrastima del numero dei lucani che emigrarono in quel periodo sembra del tutto verosimile, anche se è fuor di dubbio che l’esodo fu imponente.
L’emigrazione fu il fenomeno che più di ogni altro mutò il volto della Basilicata. «Questo enorme movimento migratorio, che non ebbe precedenti nella storia italiana», osserva Francesco Nitti, «costituì la causa modificatrice più profonda dell’assetto economico, morale e sociale del meridione, all’infuori di ogni influenza del governo e della borghesia»
(38-41 -fonti bibliografiche e sitografiche). Le cause di tale esodo massivo furono molteplici e tutte ruotavano intorno alla miseria. La Basilicata si spopolò soprattutto di maschi adulti e fu quindi privata delle sue forze più produttive. Tale perdita fu per fortuna alleviata dalle cospicue rimesse che gli emigranti inviarono alle proprie famiglie rimaste in patria, come viene confermato dall’inchiesta che Francesco Saverio Nitti eseguì nei primi anni del novecento sulle condizioni dei contadini in Basilicata e Calabria. In quell’inchiesta, l’autore arrivò a concludere che in Basilicata e Calabria l’industria più fiorente in quel periodo dal punto di vista delle entrate fu l’emigrazione (41 -fonti bibliografiche e sitografiche). I flussi migratori verso le Americhe si arrestarono con la prima guerra mondiale per riprendere intensamente subito dopo, ma solo per pochi anni. Dalla seconda metà degli anni venti l’emigrazione subì di nuovo un forte rallentamento sia per la politica antiemigratoria del governo fascista, sia per le restrizioni poste dal governo americano all’immigrazione. Ripresero di nuovo dopo la seconda guerra mondiale, per esaurirsi completamente negli anni sessanta, con l’avvento di quello che fu chiamato il miracolo economico italiano.

L’EMIGRAZIONE DOPO LA II° GUERRA MONDIALE E L’EMIGRAZIONE DA PICERNO

Dopo la seconda guerra mondiale i flussi migratori ripresero in maniera massiccia, diretti in grande prevalenza verso paesi europei in crescita quali Francia, Germania, Belgio e Svizzera e regioni italiane del nord quali Lombardia e Piemonte. I treni a lunga percorrenza che collegavano il Sud con Milano,Torino, Lione, Parigi, Bruxelles, Berna, Zurigo, Monaco, Francoforte, Colonia e tanti altri centri dell’Italia del nord e dell’Europa centrale erano sempre stracarichi di emigranti e delle loro famiglie in entrambe le direzioni, specialmente in concomitanza con le festività e le ferie. Milioni e milioni di meridionali ma anche di veneti e friulani varcarono il confine in cerca di lavoro. Ne emigrarono tre milioni nella sola Germania. Negli anni cinquanta furono in tanti a partire anche da Picerno, alcuni con tutta la famiglia, altri da soli, chi in maniera temporanea e chi per sempre. Ne conservo viva la memoria avendo vissuto gli anni della mia infanzia e adolescenza a stretto contatto con molti di quelli che poi emigrarono. A quel tempo mio padre e tre dei suoi fratelli possedevano in contrada Palazzo una piccola azienda di tipo misto, in parte agricola e in parte artigianale. Oltre alla coltivazione della terra e all’allevamento del bestiame, l’azienda gestiva una fornace che era stata impiantata a suo tempo da mio nonno Nicola Maria e che fabbricava a mano mattoni, embrici e mattonelle per pavimenti; prendeva inoltre appalti per la costruzione di case rurali e per tagli di boschi, faceva trasporto a dorso di muli; possedeva anche macchinari per la trebbiatura del grano e possenti buoi per trainarli da un’aia all’altra, contro le asperità e i dislivelli dell’impervia campagna appenninica. Erano buoi magnifici, forti, pazienti, silenziosi, con una certa solennità nei loro sguardi e nei loro atteggiamenti. Ricordo ancora i loro nomi: Barlettano, Cappuccino, Innamorato. Il più possente era Barlettano. Affrontava i grandi sforzi con testarda caparbietà e in quelle circostanze gli si leggeva negli occhi un’espressione quasi umana. Verso la fine degli anni cinquanta furono sostituiti dall’assordante e inanime trattore. Grazie a queste molteplici attività, nella masseria di contrada Palazzo ci fu per anni un notevole via vai di persone impegnate nelle più varie mansioni: braccianti agricoli, garzoni addetti ai muli e al bestiame, lavoratori e lavoratrici giornalieri, manovali, operai e artigiani di ogni genere, insomma un gran numero di persone che io ricordo come una grande famiglia. L’intera contrada, oggi quasi deserta, a quel tempo era invece popolata di uomini e di animali al pari di un dipinto di Breughel e l’aria della valle echeggiava di suoni, di rumori, di muggiti, di belati, di ragli, di richiami, di voci, di canti. Poi uno alla volta incominciarono ad andarsene, finché nel giro di pochi anni non se ne andarono tutti. Emigrarono per lo più in Svizzera, Germania e Italia del nord, in numero minore in Francia e in Belgio, oltre che in Canada, Sud America e Australia. Per alcuni si trattò di emigrazione definitiva, per altri di emigrazione temporanea. Sia gli uni che gli altri diedero un enorme contributo alla crescita economica e sociale non solo delle proprie famiglie ma anche di tutto il paese. Come ho già accennato nel paragrafo precedente, il Meridione deve molto alla generosità dei propri emigranti. Con questo intendo riferirmi non tanto alle grandi donazioni elargite da alcuni dei più fortunati, quanto a tutta la grande massa di emigranti che con i loro sacrifici, le rinunce, i risparmi e le rimesse, contribuirono a costruire in vari modi un futuro migliore per l’intera comunità di origine. Picerno ha avuto la fortuna di usufruire sia della diffusa generosità di massa che della generosità di singoli grandi benefattori, rievocata nel bassorilievo della porta da due importanti e significative donazioni: il bell’edificio della scuola elementare “Oscar Pagano” e il campo sportivo “Donato Curcio”.

Contrada Palazzo - La vecchia masseria di mio nonno in muro di pietra e calce, a iniziare dai primi anni cinquanta, attraverso rifacimenti e aggiunte successive, è stata trasformata nell’attuale grande caseggiato, dove non abita più nessuno

L’edificio scolastico venne donato al Comune di Picerno nell’anno 1929 dal concittadino Prospero Nicola Felice Pagano in memoria del figlio Oscar, deceduto per malattia all’età di 20 anni. Il nuovo campo sportivo è stato donato nel 2007 dal concittadino Donato Curcio. Il primo emigrò in Argentina alla fine dell’Ottocento, il secondo emigrò agli inizi degli anni ‘60, prima in vari paesi europei e poi in Nordamerica. Due figure simboliche del grande successo del lavoro italiano all’estero in epoche diverse.


PROSPERO NICOLA FELICE PAGANO

Nicola Felice Pagano fu un grande realizzatore e promotore di benessere per se stesso e per le comunità in cui visse e operò; uno che, senza saperlo, seguì alla lettera la massima latina audaces fortuna iuvat e costruì un’immensa fortuna grazie all’ingegno, al proprio straordinario spirito di iniziativa e all’impareggiabile operosità. La sua biografia, non pubblicata, è stata scritta da Graciela Alvarez Perretta, italo-argentina, avvocato, scrittrice e ricercatrice di questioni e problematiche giuridiche e storiche (42 -fonti bibliografiche e sitografiche). Nicola nacque a Picerno nel 1872. All’età di 13 anni raggiunse il padre in Brasile e ne aveva 14 quando la famiglia si spostò dal Brasile all’Argentina. Andarono ad abitare prima a Buenos Aires e poi a San Miguel del Monte, in provincia. Insieme al padre, Nicola si occupava di costruzioni edili e fabbricazione di mosaici. A 21 anni sposò una ragazza che ne aveva 18, Angela Bonavita. Sebbene ancora giovane, era abile nel suo lavoro, ambizioso e con una gran voglia di realizzare, e San Miguel del Monte gli stava stretta. Racconta Emilio Zuccarini nel suo libro intitolato “Il lavoro degli Italiani nella Repubblica Argentina dal 1516 al 1910” (43 -fonti bibliografiche e sitografiche), che «Nicola Pagano risedette per molti anni a San Miguel, ma avendo un temperamento sanguigno-passionale ed esuberante, presto sentì la necessità di un ambiente più adatto alle proprie aspirazioni, di un centro di affari dove la trasformazione urbana procedesse con rapidità, dove la vita collettiva si svolgesse tra molteplici attività…». Per questa ragione tornò a Buenos Aires e subito dopo si trasferì con la famiglia e i fratelli a Bahìa Blanca , circa 600
Km a sud di Buenos Aires, sulla costa atlantica, località in piena fase di sviluppo, dove fiutò di poter realizzare progetti ambiziosi. Era l’anno 1901 e Nicola aveva 29 anni. A Bahia Blanca il nome Prospero rivelò subito la sua carica bene-augurale. Fin da subito infatti incominciarono a prosperare sia la sua impresa di costruzioni alla quale associò anche un fratello, che la propria famiglia. Di pari passo crebbe il suo ruolo sociale e politico. Si aggiudicò subito l’appalto per la costruzione di una grande opera pubblica, il Palazzo Municipale di Bahia Blanca. Successivamente costruì gran parte di quello che divenne il patrimonio architettonico della città. Costruì banche, alberghi, ospedali, edifici pubblici e privati di ogni genere e abitazioni a centinaia. Con la moglie Angela formò una numerosa famiglia. Ai primi due figli che erano nati a San Miguel se ne aggiunsero altri cinque. Si impegnò nell’ambito sociale e politico, ebbe parte attiva nelle organizzazioni degli immigrati italiani e per molti anni fu presidente del Circolo Italiano di Bahia Blanca. Prestò assistenza alle famiglie di connazionali richiamati in Italia durante la Grande Guerra. Sottoscrisse inoltre per mezzo milione di lire nel prestito di guerra. Come riconoscimento per l’apporto dato alla patria e ai propri connazionali gli venne conferita la Croce di Cavaliere della Corona d’Italia.
Arrivarono purtroppo anche i lutti. Nel 1916 morì la moglie e intorno alla metà degli anni ‘20 morì il figlio Oscar Nicola Pagano che aveva contratto la tubercolosi a New York dove frequentava la facoltà di ingegneria. Riferiscono le fonti che Nicola, il quale aveva già dovuto attraversare la grave crisi causata dalla perdita della moglie, faticò a rassegnarsi a quella di Oscar e prese la drastica decisione di abbandonare l’attività e di tornarsene a Picerno. Aveva all’incirca 55 anni. Tornato in Italia comprò una villa a Sant’Agnello di Sorrento. A Picerno donò i fondi per il restauro e l’arredo della chiesa parrocchiale e il restauro del palazzo Mancini. Per onorare la memoria del figlio morto prematuramente fece costruire e donò al Comune lo stupendo edificio della scuola elementare “Oscar Pagano”, inaugurata il 19 Ottobre del 1929
(44 -fonti bibliografiche e sitografiche). Nel discorso inaugurale, Nicola elogiò l’operosità, l’onestà e la costanza, i valori che raccontò di aver appreso da bambino a scuola dai propri maestri, e che nel tempo avevano fatto da guida alle proprie azioni.

L’edificio della scuola elementare “Oscar Pagano” a lavori ultimati

Inaugurata la scuola, Nicola se ne tornò in Argentina, dove riprese le sue attività nonostante avesse iniziato ad avere problemi di salute. Morì a Buenos Aires nel 1932, all’età di 60 anni. Ne seguì le orme il primo figlio Adalberto, anche lui come il padre un grande promotore di benessere e una forza propulsiva inarrestabile. Ingegnere e costruttore all’inizio della sua carriera, divenne in seguito Governatore della Provincia di Rio Negro che portò in pochi anni allo sviluppo e al benessere mediante le sue numerose e importanti realizzazioni.
L’emigrante Prospero Nicola Pagano sviluppò dunque al meglio il proprio talento in Argentina dove realizzò molte grandi opere architettoniche e molta ricchezza. Si dedicò intensamente anche alle attività sociali, aiutò i propri connazionali in difficoltà, mantenne sempre vivo il rapporto con il suo paese natale al quale fece varie e generose donazioni. La più importante fu l’edificio della scuola elementare “Oscar Pagano”.


LA SCUOLA ELEMENTARE “OSCAR PAGANO”

Costruita in un caldo stile georgiano, la scuola è uno dei più bei gioielli del patrimonio architettonico di Picerno. Lo stile georgiano fiorì in Gran Bretagna sotto i quattro monarchi di nome Giorgio (da Giorgio I a Giorgio IV) che si succedettero dal 1720 al 1840. È uno stile neoclassico ispirato all’architettura palladiana. Le sue caratteristiche basilari sono la perfetta simmetria e regolarità basate sull’utilizzo di precise misurazioni e proporzioni matematiche per stabilire i rapporti tra le varie componenti strutturali, l’uso sia di mattoni che di pietre e un lessico decorativo di ispirazione classica. Tutti elementi riscontrabili nel nostro edificio scolastico. Oltre alla bella linea architettonica, un ambiente interno luminoso e caldo grazie alle grandi finestre e al riscaldamento centralizzato installato fin dall’inizio, moderni servizi igienici e persino l’impianto fognario di cui il paese è rimasto sprovvisto fino a qualche decennio dopo. Insomma quell’edificio del 1929 offriva una confortevolezza ambientale che nel resto del paese sarebbe mancata ancora per molti anni. Quando iniziai a frequentare la scuola elementare, nel 1949, l’edificio aveva appena vent’anni. La scuola era bella come un tempio e come in un tempio si avvertiva la sensazione di qualcosa che andava oltre i muri e oltre gli spazi fisici, ma di Prospero Nicola Felice Pagano imparammo solo ciò che riportavano le lapidi commemorative perché nessuno degli insegnanti pur bravi di allora, ci raccontò nulla di più. Non posso ovviamente escludere che qualcuno lo abbia fatto, ma non mi sovviene di iniziative programmate della scuola dirette ad approfondire il significato pedagogico e il valore formativo di quella esemplare esperienza di vita e di lavoro e a trarne insegnamenti per i propri alunni.

Panoramica aerea del centro storico. La scuola "Oscar Pagano", un tempo all’estrema periferia dell’abitato, in zona "ravanga", prospiciente l’omonima discarica denominata "carbunar’e r’e la ravanga", è ora situata in pieno centro storico. Partendo dal basso, si può osservare la notevole mole della Chiesa Madre con il giardino, seguono il palazzo Pignatelli-Salvia, il palazzo Borriello e Piazza Plebiscito con il palazzo Mancini alla sua destra. Lungo il corso: il grande palazzo Carelli-Lazzari sulla destra e più avanti, sulla sinistra, il palazzo Figliola e poi la torre medioevale nella forma attuale e il palazzo Capece. Procedendo oltre, si incontra piazza Statuto con il palazzo Caivano e svoltando a sinistra si arriva finalmente alla scuola "Oscar Pagano", la cui armonia strutturale, tipica dello stile georgiano, viene messa ancor più in evidenza dal confronto immediato e diretto con le altre costruzioni.

Foto archivio APT Basilicata

Occorre domandarsi in quale modo, in una comunità qualsiasi, i comportamenti virtuosi possano mai diventare patrimonio valoriale comune, se la scuola non li valorizza e non li propaga. Per fortuna, in tempi più recenti, a questa distrazione della comunità nei riguardi del proprio passato, hanno in parte rimediato il volume su Picerno di Giuseppina Caivano Bianchini del 1977, le numerose pubblicazioni di vari altri autori e l’impegno di amministratori comunali e operatori culturali degli ultimi decenni.

DONATO CURCIO

In tempi recenti, l’altra importante donazione, il campo sportivo, è stata fatta da Donato Curcio, nato a Picerno nel 1942 da Vito ed Elvira Giosa. Anche lui, come Nicola Pagano, un emigrante di successo che con impegno e chiarezza di obbiettivi ha utilizzato il proprio talento e l’esperienza maturata in varie parti del mondo per realizzare a Buffalo, in USA, una fabbrica per la progettazione e la produzione di macchine ad elevato contenuto tecnologico. Poiché Donato e io oltre ad essere coetanei siamo anche cugini e ci conosciamo da quando eravamo in fasce, stavo per scrivere che lo conosco a memoria. Ho fatto però subito marcia indietro perché a memoria è difficile conoscere anche se stessi. Stavo per scrivere poi che conosco a memoria la sua storia, però anche la storia di una persona è difficile da conoscere a fondo e a memoria. Si possono magari conoscere delle sequenze di fatti e avvenimenti che la riguardano, ma la storia è un’altra cosa. Alla fine ho deciso di limitarmi a raccontare poche cose che credo di conoscere e poche altre che ho chiesto a lui stesso. Tra tutte, ho scelto quelle che mi sono sembrate più idonee a rendere spiegabile il suo successo. Ho già parlato in uno dei paragrafi precedenti dell’emigrazione di massa degli anni ‘50, costituita in prevalenza da Donato Curcio manodopera povera. Negli anni ‘60 invece, per le mutate condizioni sociali ed economiche del paese, incominciarono ad emigrare persone variamente qualificate, non più motivate da bisogni primari, ma sospinti dalla ricerca di situazioni più adatte alle proprie ambizioni e allo sviluppo del proprio talento. Donato è stato uno di questi. Emigrò nel 1961 con in tasca un diploma da meccanico specializzato e in mente un preciso obbiettivo, quello di costruirsi una fortuna. Andò prima in Francia dove lavorò in officina e poi in Svizzera dove svolgendo la propria attività in un ufficio tecnico di progettazione meccanica, acquisì le conoscenze che gli servirono in seguito per progettare in proprio. L’azienda l’aveva destinato ad aprire una sede in Italia e per questa
ragione lo aveva anche inviato presso una propria consociata inglese a Londra, perché arricchisse la propria preparazione tecnico-gestionale. Donato non si sentiva però tagliato per un ruolo subalterno a vita e le allettanti proposte dell’azienda in cui stava lavorando non furono sufficienti a fargli cambiare idea. Un giorno gli capitò per caso di passare davanti al consolato canadese di Berna, entrò per curiosare e ne uscì convinto che fosse il Canada la sua terra promessa, la terra dell’opportunità di cui era alla ricerca. Due settimane dopo lavorava già a Toronto. In Canada rimase otto anni durante i quali lavorò a una serie di progetti che gli permisero di crescere in conoscenza e perizia e nello stesso tempo di prepararsi al grande passo che da sempre era stato il suo obbiettivo primario, la realizzazione di un’azienda tutta sua. Li ricordo bene quegli anni in quanto lavorando io a New York e lui a Toronto, ci sentivamo spesso e ci incontravamo. Erano i primi anni ‘70 e avevamo entrambi circa trent’anni. Io stavo imparando a fare il chirurgo e lui cercava di progettare una particolare bottiglia di plastica. Il suo momento arrivò intorno alla metà degli anni ‘70. Di ciò che avvenne dopo, preferisco affidare la narrazione alle sue stesse parole tradotte da una sua testimonianza in lingua inglese: «...Dopo otto anni di esperienza in Canada, misi gli occhi sugli Stati Uniti dove le opportunità erano a più ampio spettro. A Buffalo, nello stato di New York, con cinquemila dollari avuti in prestito da un amico e una forza lavoro costituita da tre dipendenti, impiantai la United Silicone Inc., un’azienda che si occupava della progettazione e produzione di macchine per decorare prodotti di plastica tramite stampa a caldo. L’azienda crebbe aldilà delle più rosee prospettive fino ad occupare oltre 250 dipendenti e a diventare una multinazionale con più di 50 punti di rappresentanza e distribuzione sia in America che in altri paesi del
mondo. Ciò che si dispiegava davanti a me era una storia, la mia, che assomigliava molto a quello che in tanti chiamano il sogno americano». A Buffalo Donato conobbe subito Nancy Zuchowski. Dalla loro unione nacquero l’una dopo l’altra quattro splendide figlie. La famiglia crebbe con la stessa rapidità dell’azienda. Circa 20 anni dopo averla impiantata, in piena fase di successo e capacità produttiva, Donato cedette l’azienda a una multinazionale gigante. Fu la scelta fredda e saggia di chi ha imparato a conoscere molto bene le dinamiche aziendali e quelle dei mercati internazionali. Nonostante il successo economico e gli impegni derivanti dal lavoro e dalla numerosa famiglia, Donato ha continuato a mantenere stretti e frequenti rapporti con Picerno dove è rimasto per tutti quello che era sempre stato, una persona disponibile, affabile e gioviale, un carattere allegro e di buona compagnia, generoso al momento giusto e per le cause di suo interesse, come è avvenuto per la sponsorizzazione della Polisportiva Picerno di cui è presidente onorario e la donazione al Comune del nuovo campo sportivo a lui stesso intitolato. A Buffalo, dove risiede, Donato non è stato da meno. Ha sempre partecipato attivamente alla vita della città e in particolare a quella della comunità italo-americana e delle relative associazioni, incluse quelle benefiche. Recentemente ha contribuito in maniera determinante alla realizzazione di un film sulla emigrazione italiana negli Stati Uniti, un documento storico di notevole pregio intitolato “La Terra promessa”, diretto dai registi Joey Giambra & Mark Odien. Il film è stato prodotto dalla Federazione delle Società Italo-Americane dell’area occidentale dello stato di New York (The Federation of Italian-American Societies of Western New York) in occasione della ricorrenza del suo primo secolo di vita, allo scopo di conferire alla celebrazione del centenario una nota di grandiosità. Il presidente della federazione Donald A. Alessi nel discorso di chiusura della celebrazione del centenario così si esprime: «...Ancora una volta abbiamo avuto la fortuna di avere amici cari e volenterosi che hanno condiviso con noi la passione per la commemorazione della nostra storia, della cultura, delle tradizioni e dei nostri antenati, e la ferma volontà di fare di tutto questo il tema centrale di una celebrazione del centenario di insuperata grandezza. Non potrò mai ringraziare abbastanza Donato Curcio per la sua generosità, l’entusiasmo, la business leadership e la sua saggezza nell’esercizio delle funzioni di responsabile della gestione finanziaria, e per il suo grande contributo all’enorme successo di questo evento. La celebrazione, infatti, ha veramente incominciato a decollare solo quando Donato è salito a bordo...». Quella di Donato è stata dunque una bella storia. Avrei detto anche una grande storia, se non avessi avuto il timore di sconfinare nella retorica. È stata fortuna? Niente affatto. Si è trattato di una storia costruita e fortissimamente voluta fin dall’inizio. Donato ritenendo di avere del talento, anziché arrendersi alle difficoltà oggettive della propria terra e al fatalismo, come fanno in molti, si è messo a cercare come e dove svilupparlo al meglio per farne una forza realizzatrice. Tutto quello che ha fatto dopo, lo ha fatto con grandissimo impegno, costanza e determinazione, ponendo il suo traguardo sempre molto lontano e facendo tutto il necessario per poterlo raggiungere, senza mai accontentarsi di risultati intermedi. È stato questo il punto centrale di tutto il suo percorso e del suo successo. Il talento è stato ovviamente una precondizione molto importante, ma si sa che una qualche forma di talento ce l’hanno tutti o in tanti. Ciò che non tutti hanno è la volontà di darsi obbiettivi impegnativi che richiedono studio, sforzi, sacrifici e tempo per realizzarli. Sono queste le forze
trainanti del successo. In loro assenza, il talento, da solo, è destinato a rimanere una risorsa personale sprecata.


Il nuovo campo sportivo “Donato Curcio”   -  Foto Videotop di Capece Rocco

 

IL PANNELLO 7°

Su questo pannello lo scultore ha rappresentato nel triangolo in basso scene dinamiche di partenze di emigranti: qualcuno seduto su pile di valige, altri in movimento con il bagaglio sulle spalle, in vicinanza di una stazione ferroviaria che richiama quella di Picerno, e di un porto marittimo con attraccata una grande nave scolpita nei più piccoli dettagli.


Pannello 7° - L’emigrazione   -   Foto Raffaele Martino

Nel triangolo in alto sono raffigurate le due donazioni più consistenti fatte da emigranti al Comune di Picerno: il campo di calcio “Donato Curcio” e la scuola “Oscar Pagano”. Il campo di calcio viene raffigurato con la tribuna affollata da tifosi, un guardalinee e un calciatore in primo piano ai bordi del campo. A fianco, il magnifico edificio della scuola “Oscar Pagano”, visto da piazza Statuto, con la sua linea armonica ed elegante.

 

 

 

 

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