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LA PROCESSIONE
Gaetano Dimatteo
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ERA LA PROCESSIONE A RACCONTARE LA STORIA DELLA MIA TERRA

Faceva caldo quel giorno d’agosto... né un filo di vento...

né un’oasi d’ombra. La terra, gli ulivi e le sterpaglie si ripetevano sempre uguali senza sussulti, spenti nella loro fissità. Non era stato facile portare in Lucania dei forestieri (e tra questi Gaetano Dimatteo) a me cari ma l’immortalità di quel mondo rendeva ancor più incomprensibile il mio legame con una terra che sembrava creata da un dio povero e annoiato. Cielo e terra si impastavano di blu, e rossi, e macchie brune, accendendosi e scomparendo tra le rughe di una terra antica. Cercavo qui e lì qualcosa da mostrare ai miei visitatori attoniti, la linea blu del mare, un intrepido uccello, dei contadini affannati in un campo assolato, ma solo qualche cicala stremata spegneva ogni tanto un silenzio assordante. Mi ero illuso che, raggiunto il Basento, le sue acque avrebbero portato via l’arsura dalle nostre menti ma non c’erano che poche gocce di sudore sul greto del fiume. Rimasi in silenzio anch’io con i miei ospiti. incapace di raccontar loro ciò che quel deserto apparentemente vuoto mi aveva segretamente sussurrato. Arrivammo a Pisticci a pomeriggio inoltrato, con il sole che, suo malgrado, rotolava pian piano giù dal monte. Un vecchio silenzioso ci fissava stranito. Il suo sguardo rubava pudico ogni nostro piccolo gesto, ogni bisbiglio. Non c’era nessuno per strada, ma era così facile immaginare che mille e mille occhi ammiccassero dietro gli usci e le persiane, destati dal loro torpore dal rumore del forestiero. Solo a tarda sera si uscì di nuovo in strada, l’aria fresca e umida, mirando i paesi che in quel buio lontano parevano stelle. L’indomani il silenzio lasciò il posto ad uno strano fervore. Era il giorno di San Rocco quello, e pensai che, a girar per le strade e le case, avrei raccontato ai miei ospiti più di mille parole. Le donne, i ragazzi, persino i gatti s’affrettavano lungo le vie, passandoci accanto incuranti, con l’aria secca che s andava mescolando ad antiche fragranze, mentre noi, ospiti invisibili, partecipammo da un terrazzino nell’ombra. Pochi uomini portavano la statua, ma anche delle curve vecchine parevano stancarsi e soffrire nell’accompagnarla. Nemmeno San Rocco sembrava di vera cartapesta tanto il suo volto, nelle fattezze e nei colori, si confondeva con quello dei presenti. A me che guardavo lontano, quel raccoglimento devoto risuonava non più come un canto sommesso, ma come un urlo di disperata speranza affidato da tutti ad una Storia avara. Non

c’era meno vigore nei vecchi, né i giovani meno accorati. Erano lì tutti insieme, con passo lento, ciascuno col volto fresco, e al contempo segnato da linee aspre e virili. Gli sguardi stranieri parevano rapiti da quella dolce fierezza, colorata a volte di rosso e a volte di blu, dalle labbra sottili e bruciate dal sole, dagli occhi neri e sognanti. Era la processione a raccontare la storia della mia terra e quel suo canto struggente l’eco di un mondo lontano da tutto, che di nuovo rivive nel segno e nei colori di Gaetano Dimatteo.

 

Bernalda 1998

Nicola Barnabà

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