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BELLEZZA NOSTRA
a cura di Piero Frullini

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A ROMA
 

Quando Peppino Fradusco fu congedato dal regio esercito il maggiore dei fratelli, Savino, era già emigrato in Argentina; Giovanni, più grande di Peppino per cinque anni, si era sposato, gli era nato il primo figlio, Antonio, e aveva ottenuto dal padre di lasciare la masseria per seguire a Roma il marito della sorella Angela, Nicola Longo che aveva aperto un forno a Torpignattara.

Il Sud si stava spopolando da tempo, la fortuna era altrove; e i vecchi aggrappati alle pietre dei paesi e ai tronchi degli antichi alberi risecchiti sulle rive di torrenti sempre più avari d’acqua e di richiami non avevano più la forza di tenere saldi i legami delle famiglie alle tradizioni e alle pene sempre più inutilmente patite.

Anche Peppino chiese permesso al padre di lasciare la masseria per diventare un “emigrante” nazionale.

Il lavoro nei campi di Casaleni Sottani rendeva, ma era sempre lo stesso il risultato:

fatica e orizzonti chiusi.

Dal contatto con qualche commilitone e dai discorsi intrattenuti con intenzione o per gioco il giovinotto aveva tirato certe conclusioni: che, ormai, erano le città che potevano offrire opportunità enormi per chi avesse dimostrato volontà di ferro e capacità di sacrificio. Meglio che l’America, tutte le città. Figurarsi Roma! E volontà di ferro e capacità di sacrificio non facevano davvero difetto a Peppino Fradusco.

“Massaro” Antonio, il padre arcigno ma saggio, si limitò a richiamare il figlio alla necessità assoluta dell’onestà e al valore enorme del risparmio, per arrivare a qualsiasi specie di successo. Poi, con grande senso di giustizia nel riconoscere con quanto il giovinotto aveva contribuito al buon andamento della masseria, con atto del notaio Pietro Nicola Marangelli in Venosa, il 25 settembre del trentasette (Peppino aveva ormai ventitre anni) gli consegnò in donazione “la somma contanti di lire dodicimila”. Che era una gran bella donazione, tale disposta dal padre — si ritiene — anche perché la famiglia non aveva dovuto ancora sostenere costi per il matrimonio del figlio!

Così Peppino, ringraziando il padre per i consigli, per il permesso e per la donazione, ringraziando la madre Lucia per le raccomandazioni di rito e per qualche altro soldo ch’ella aggiunse a quelli del marito, tenne dietro al fratello Giovanni in una delle più sgangherate periferie della città capitale.

Dopo di che cominciarono a snodarsi disuguali e preziose le giornate per una nuova specie di fatica, senza più progetti da mettere in piedi ma sopportate con più allegria perché nelle tasche di Peppino cominciarono a tintinnare monete più consistenti dei sogni del fanciullo pastore o dell’adolescente contadino; e perché si allargò enormemente la possibilità di conoscere persone e occasioni nuove.

Con una fiducia in se stesso ogni giorno più spavalda e verificata. Perché si formò in quel periodo nuovo uno dei punti di forza della personalità di Giuseppe Fradusco: osservare con puntigliosità curiosa le attività del prossimo, i comportamenti in relazione ai fatti di tutti i giorni, le abitudini e le anomalie, i bisogni minimi e le aspirazioni; riflettere sulle osservazioni e studiare possibili modalità per qualche risposta interessante intesa a soddisfare esigenze altrui ma a portare concretezza di risultati al proprio personale progetto di crescita. Come dire: cogliere occasioni da stimoli esterni.

Anche Peppino, una volta a Roma, si era appoggiato al generoso Nicola Longo. Il quale non teneva carattere né di imprenditore né di commerciante.

Ma per il giovanotto, arrivato fresco dal paese con le intenzioni più serie di cogliere il successo, l’esperienza del lavoro nel forno del cognato diventò preziosa: per imparare un mestiere del tutto nuovo (che non fu gran che difficile) e per scoprire direttamente con le orecchie bene aperte gli umori della gente.

Il pane, di quei tempi, rappresentava la necessità primaria per gli abitanti di Torpignattara e dintorni. Baresi, calabresi, lucani, pochi abruzzesi formavano lo strato sociale delle zone nuove verso cui si estendeva la città.

Acqua Bullicante, Portonaccio, Torpignattara, Prenestino nascevano con i segni evidenti delle culture del meridione e delle minime aspirazioni per la sopravvivenza portate da lontano; dove il numero dei figli di ogni famiglia faceva crescere sempre più urgente il bisogno giornaliero di quel che si produceva nei forni.

Peppino osservava intorno e tirava le sue conclusioni.

Fu per quella analisi semplice che il giovane emigrato aprì un suo forno nei pressi di piazza Vittorio. E si dedicò con passione anche a questa sua nuova attività. Proprio

perché finalmente aveva qualcosa da creare per se stesso.

Dormiva sempre di meno. Nelle ore dell’alba quando mai aveva dormito? Aveva più tempo disponibile per analizzare le richieste delle donne di casa e i modi per soddisfarle. Dedicava al lavoro la fatica personale, quella fisica, per preparare prodotti innovativi: ricette e forme. Una volta sfornato il pane, Peppino sferragliava con un vecchio sidecar per le zone abitate dai clienti ad effettuare da sé le consegne.

Per risparmiare su tutto si era sistemato a dormire per le poche ore della notte in un sottoscala vicino al forno.

Il risultato di questa intrapresa fu lusinghiero, un successo testimoniato dal fatto che nel marzo del quarantuno, quando Peppino Fradusco fu richiamato alle armi, egli lasciò in consegna al cognato Nicola la somma enorme di cinquecentomilalire, oltre alla procura per vendere l’attività di piazza Vittorio se si fosse presentata una qualche necessità.

 

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