<< precedente

BELLEZZA NOSTRA
a cura di Piero Frullini

successivo >>

LA GUERRA
 

Meno di un anno dopo l’entrata in guerra dell’Italia, dunque, gli avvenimenti costrinsero Peppino Fradusco a cambiare d’un colpo programmi e vita: essendo di carattere estraneo a qualsiasi entusiasmo militare, soprattutto perché considerava la “naia” una perdita di tempo prezioso, imprecando perché costretto ad interrompere un’attività redditizia, a ventisette anni, ormai uomo navigato e concreto, Peppino dovette calarsi nel ruolo del buon soldato per necessità.

La patria lo richiamò alle armi il quattro aprile del quarantuno. Destinazione immediata: zona di guerra, zona dove non c’era più odore di vittorie. Partenza, nuovamente in grigio verde, per l’Albania, dove sbarcò il venti maggio, in piena bagarre, mobilitato nel vecchio Reggimento, il 225~ di fanteria di stanza a Durazzo.

Peppino capì subito come andavano le cose: se aveva accettato il periodo della leva per orientarsi guardandosi in giro e approfittando delle circostanze di avere intorno gente nuova da cui imparare qualcosa, una volta arruolato per la guerra (e in zona di guerra), egli decise che bisognava riuscire ad “imporsi” in qualche modo, per non essere risucchiato nel mucchio degli anonimi destinati a finire nello sballottamento degli insignificanti.

Nel suo stesso plotone prestava servizio un suo “compare” paesano. Che sapeva leggere e scrivere. Ed era graduato.

Con il solito sistema del fare sornione, del non darla a capire, Peppino seppe sfruttare le capacità “scolastiche” del compare ed imparò alla svelta a scrivere abbastanza correttamente. Tanto da sentirsi legittimato per quel dichiarato grado d’istruzione della terza elementare.

Ma successe qualcosa di più importante: scoprì di essere capace di “organizzare” e “decidere” le attività altrui, oltre che le proprie.

L’esercito lo costrinse a frequentare “speciali” corsi di istruzione. Peppino riflettè e stabilì: “devo approfittarne!”.

Il 15 agosto del quarantuno ebbe i galloni di caporale, il 15 novembre quelli di caporal maggiore e il 16 giugno del quarantadue raggiunse il grado di sergente, dopo essere stato temporaneamente rimpatriato e assegnato all’inquadramento reclute presso il Deposito del suo Reggimento a Monopoli.

Ma il 4 agosto di quell’anno Peppino è nuovamente al fronte in Albania. Dove le vicende guerresche si mettevano male.

Era finita la campagna di Grecia, ma era scoppiata la guerriglia a nord di Durazzo, quella dei partigiani di Tito in Jugoslavia. I soldati italiani erano tra due fuochi, già sfiduciati e stanchi: i pericoli dalle montagne e la strafottenza dei tedeschi che cominciavano a non fidarsi più di loro.

Così la vita militare di Peppino diventò un tempo lungo senza entusiasmi, solo attento a non diventare uno nel numero dei molti morti per cause non naturali.

I bombardamenti, che gli alleati anglo-americani portavano anche in Albania, erano fatti concreti, non barzellette. Gli aspetti curiosi delle vicende fornivano soltanto motivi per distrarre la mente dalla paura continua di non riuscire a salvare la pelle. Peppino raccontava più tardi di un certo salvataggio operato con alcuni compagni dopo un’incursione: un povero cristo era rimasto sotterrato sotto macerie e terra. Aveva libera solo la testa. Con frenesia scavarono per liberarlo. Ma non finivano mai: quando riuscirono a tirarlo fuori dai guai ne presero le misure: era alto due metri e dieci! Ma nel racconto che Peppino faceva più tardi di quell’avventura non c’era l’ironia solita che riempiva le sue narrazioni di fatti curiosi, semplicemente il ricordo di stranezze e atrocità successe in un tempo maledetto che avevano cominciato a spezzare la normalità e la capacità della propria difesa.

La guerra andò avanti così, fra all’erta e pause nella paura. Con i tedeschi sempre più opprimenti con la loro presenza e la loro tracotanza. L’unico modo di superare il periodo che riteneva il più nero della sua vita Peppino lo scoprì — e lo tenne ben stretto — nel cameratismo che era riuscito a suscitare nelle relazioni con qualche famiglia di albanesi.

Ma questo non valse ad allontanare il vero pericolo più duro. Se avesse previsto il corso degli eventi forse Peppino Fradusco avrebbe escogitato la maniera di salvarsene, approfittando proprio delle amicizie che si era conquistato nella comunità del luogo.

Invece i fatti dell’8 settembre del quarantatre arrivarono a sorpresa, di colpo. Lo stesso giorno i tedeschi disarmarono i soldati italiani. Dalla sua condizione di fante graduato in guerra, Peppino diventò il prigioniero matricola numero 240636, sergente, internato dai nazisti in un campo di concentramento in Germania. Anzi in Polonia. Con lui era stato internato anche l’amico Antonio Bonicchi, sergente anche lui, prigioniero matricola numero 240551.

 

Home

introduzione

terre del sud

a Roma

le fotografie la guerra i prigionieri dopo il ritorno
una vita da costruttore le nozze e la famiglia salto di qualità
l'impresa e gli altri la casa al mare tempi difficili
anni di aspre battaglie cambiamenti i cantieri

 

 

 

 

[ Home ]    [ Scrivici ]

 

 

 

 

.

 


.

.