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BELLEZZA NOSTRA
a cura di Piero Frullini

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DOPO IL RITORNO
 

Dopo il bombardamento di San Lorenzo a luglio del quarantatre le giornate dei cittadini romani diventarono dense di paure e di preoccupazioni più stringenti. La città aperta non era più tale.

In quel clima, temendo il peggio, Nicola Longo vendette, come gli capitò e come poté, il forno di Peppino: piazza Vittorio era troppo vicino alla stazione delle ferrovie e Nicola temette che, tornando dalla guerra (se ce l’avesse fatta a tornare), il cognato avrebbe potuto trovare solo delle rovine. Qualche migliaio di lire in più, invece, gli avrebbero fatto comodo...

Il gruzzolo realizzato andò ad arricchire quanto Peppino gli aveva consegnato partendo. E quanto “massaro” Antonio aveva messo da parte per il figlio presso l’ufficio postale di Palazzo San Gervasio. Con regolarità il sergente Fradusco aveva mandato al padre, nel periodo tra la partenza per la Grecia e l’internamento a Wistritz, mille lire ogni tre mesi. “Massaro” Antonio fungeva da procuratore del figlio: l’investimento che i due ritenevano più adatto era uno solo, quello dell’acquisto di Buoni fruttiferi. Lo Stato era pur sempre lo Stato!

Durante il suo viaggio avventuroso per il rientro da Thorn a Roma Peppino aveva avuto un tempo lunghissimo per fantasticare sulle possibili iniziative che le somme accantonate prima della prigionia gli avrebbero consentito di assumere. Gli era presa una frenesia speciale che servì anche a non disperare in quel tormento di viaggio che lo riportava a casa dalla Polonia.

Dunque Peppino Fradusco rimise piede a Roma con tutti i suoi progetti individuati, schierati secondo la loro importanza, allestiti, pronti per essere eseguiti. Il primo da realizzare sarebbe stato quello di mettere su famiglia, anche perché ormai l’età era senz’altro quella giusta.

Quando era partito da Palazzo San Gervasio sul finire del trentasette, Peppino aveva promesso alla madre Lucia che, appena fatta fortuna in città, sarebbe tornato al paese per sposarsi: con nessun altra che con una ragazza del suo paese, come stava a cuore all’anziana donna che aveva pensato per una vita intera solo alla saldezza della famiglia e alla serenità dei figli.

Mamma Lucia non sapeva che il figlio aveva già in mente con chi si sarebbe sposato, pur senza aver fatto nessuna “avance” in proposito. Peppino cullava già dal tempo di

quella partenza una sua preferenza precisa. Allora la ragazza prescelta non aveva ancora compiuto diciassette anni.

Una volta dunque tornato a Roma dalla prigionia c’era solo da dare corpo a quel progetto: mettere su casa, sposarsi e poi ricominciare un cammino di benessere e di successo. Tutto questo faceva parte del bagaglio di fiducia in se stesso e di speranze nella benevolenza della fortuna in cui Peppino credeva senza incertezze.

Invece...

Più di mezzo milione di lire risparmiate prima del quarantuno, i risparmi inviati al padre e da questi investiti in buoni postali, il ricavato dalla vendita del forno, una montagna di sostanze pronte per l’impiego, tutto si era ridotto a carta straccia. Zero!

L’Italia che Peppino trovava al ritorno era una realtà del tutto diversa da quella lasciata alla partenza. In tutti i sensi. Più che mai per le condizioni dell’economia e della finanza.

Carta straccia, zero, tutto cancellato.

Ma le disillusioni e le prove degli ultimi quattro anni non erano bastate a fiaccare il carattere e la volontà di quel ragazzo del sud che aveva patito giorni di pene e di privazioni, scorza dura di uomo che aveva imparato da troppo tempo a ricominciare ad affrontare la vita ad ogni sorgere dell’alba.

La fortuna, al contrario, non aveva abbandonato il fratello Giovanni. Al quale, ad esempio, la campagna di guerra non era toccata.

Dopo l’emigrazione da Palazzo a Roma, già sposato e con un figlio piccolo, con la parte di dote che “massaro” Antonio gli aveva assegnato Giovanni aveva acquistato tre piccoli appartamenti in via Nolli a Torpignattara. Due li affittò e riservò il terzo per abitarvi con la famiglia.

Contare sempre sull’investimento più solido, quello del mattone, fu un chiodo fisso per Giovanni Fradusco. Avere dietro alle spalle la tranquillità di una rendita proveniente dagli immobili era un’aspirazione genetica per il fratello più grande di Peppino: un’aspirazione che egli mantenne per tutta la vita. Comprare, vendere,

ricomprare: ma sempre confidare in una riserva immobiliare che costituisse capitale e muro contro i bisogni.

In questa maniera di sposare un rapporto stretto con la proprietà resisté sempre una certa antitesi tra Giovanni e Peppino: l’uno abitò sempre (salvo un brevissimo periodo iniziale) in una casa di proprietà, il secondo fu sempre un accanito locatario.

Durante la guerra Giovanni aveva intrapreso un’attività che gli rese abbastanza ed era protetta da una buona richiesta di servizi da parte dei clienti: aveva comprato un motocarro e faceva il piccolo trasportatore. Quell’attività ebbe bisogno di un deposito per le merci da consegnare: per questo Giovanni aveva comprato anche un capannone con tanto di piccoli locali per un eventuale ufficio in via Ettore Giovenale nel quartiere Prenestino.

Fu l’esistenza di questo ambiente che, subito dopo il ritorno di Peppino dalla prigionia, legò le sorti dei due fratelli in tutte le loro attività da quel millenovecentoquarantacinque per quasi otto lustri, fino all’ottantatre, quando Giovanni che aveva compiuto settantaquattro anni, optò per l’effettivo pensionamento.

Due fratelli uniti da un affetto sviscerato, visibile, profondo: protettivo da parte di Giovanni nei confronti di Peppino, quasi paterno, espresso ogni tanto con atteggiamenti azzardati poiché impulsivi, protettivo da parte di Giuseppe verso Giovanni, espresso sempre con il ricorso ai suggerimenti della ragione, con il rispetto delle iniziative e con gli interventi diplomatici e discreti quando bisognava intervenire nel confronto sbrigativo (anche duro) di Giovanni verso i terzi. Due fratelli con caratteri completamente diversi, con caratteristiche differenti, rese integrate senza riserve quando si trattava di far camminare un progetto comune intrapreso.

La prima attività del sodalizio fraterno fu l’invenzione della fabbrica del sapone. Le esigenze della gente che tentava di uscire dalle ristrettezze e dalle privazioni del tempo di guerra, che si intestardiva di crearsi una cultura sopita, a un anno e più da quando in Italia le relazioni erano cambiate radicalmente, si dimostrarono nuove: il

bisogno del pane era quasi soddisfatto dall’intervento del piano di aiuti degli americani, dalla generosità patriottica del sindaco di New York Fiorello la Guardia e dalla ripresa faticosa delle produzioni agricole; quello degli spostamenti in città dalla trovata delle camionette adattate a mezzi di trasporto della gente e dalle prime apparizioni della “Vespa”; quello del divertimento dall’apertura delle innumerevoli sale da ballo e delle balere, come dal riesplodere dei teatri di rivista; quello delle speranze da realizzare in fretta dall’idea del “dodici” alla Sisal...

Ma c’era anche un altro interesse che stava comparendo e diventando pressante: anche la gente più emarginata cominciava ad esprimere la necessità di curarsi nella persona, nella pulizia della casa, nell’igiene da garantire a tutti.

Peppino Fradusco capì al volo che quella esigenza da soddisfare offriva grosse possibilità di riuscita per chi avesse tentato di mettersi in gioco su quel versante di attività.

Giovanni possedeva il locale e il motocarro, Peppino le idee, lo spirito d’invenzione, la predisposizione al sacrificio e all’avventura. Così nel capannone di via Ettore Giovenale i due fratelli misero in piedi uno stabilimento artigiano per la produzione del sapone.

Comprarono una caldaia piccola, tanto per saggiare il terreno; poi anche una grande caldaia, quando furono certi che il loro prodotto stava conquistando il mercato della città.

Peppino aveva contattato un “chimico”, uno che si intendeva di misture: perché controllasse dosi e tempi per l’ebollizione della soda caustica e dell’olio di cocco. Ma il “chimico” servì per poco tempo, perché Peppino i segreti li scoprì presto. Come al solito, di notte dormiva pochissimo e pensava molto. Aveva imparato a giudicare la bontà di un impasto umettando la punta di un dito da saggiare con la lingua, per misurare la giusta acidità.

Aveva studiato la forma geometrica e il peso migliori per l’offerta del pezzo di sapone ai rivenditori, esplorando i desideri delle donne di casa con l’indagine personale nei mercati cittadini dove contattava con fare sornione e astuto gli utenti finali. Aveva scelto un primo “marchio di fabbrica” escogitando una forma somigliante (attento a non essere accusato di plagio) a quello della concorrenza, che a Roma voleva dire a quello del sapone “Scala” del Commendator Annunziata. Correva personalmente fino a Napoli per acquistare prima di altri l’olio di cocco al momento degli arrivi in porto delle navi che lo trasportavano. Studiava di notte le confezioni adatte per ingombro e peso alle esigenze dei commercianti a cui il prodotto era destinato. Ed ebbe l’idea fulminante di arricchire il prodotto con qualche goccia di essenza di profumo (e di colore), che rese il sapone dei Fradusco diverso da tutti gli altri che si vendevano allora sulle piazze di Roma e dintorni.

Durante i viaggi per Napoli e nelle soste obbligate lungo il porto Peppino si innamorò di quella città, dei suoi abitanti, del loro modo di parlare e delle loro canzoni.

In fabbrica lavoravano Antonio Saponara, un giovanotto paesano di grossa volontà, il figlio di Giovanni, Antonio, che aveva appena dieci-undici anni (ed era costretto a mettercela tutta per non sfigurare) e un altro prezioso operaio, Pasquale, che accompagnò poi i Fradusco per lunghi anni nelle altre attività.

Giovanni pensava alle consegne e alle riscossioni.

Un’azienda di famiglia che diede i suoi buoni risultati economici nel breve periodo in cui fu tenuta in piedi: quattro anni, fino al cinquanta.

Perché già in quell’anno, quando il quadro dell’economia nazionale e cittadina si presentò alle riflessioni notturne di Peppino Fradusco con possibilità ed esigenze diverse, quando anche le condizioni finanziarie erano di nuovo solide e utili per altre prospettive, egli decise di fare un altro passo in altra direzione.

Quando viaggiava per Napoli, ogni volta Peppino percorreva le strade che passavano lungo la costa laziale. Nettuno, Anzio erano ancora terra di rovine e di macerie dal tempo della guerra. Si affacciava nella vita sociale un bisogno più grande ed importante: era costituito dalla richiesta di case per strati sempre più vasti della popolazione. E il fenomeno dell’immigrazione di massa dai paesi del sud alla capitale rendeva quel problema più pressante.

La nuova strada da percorrere era quella dell’edilizia abitativa.

Peppino Fradusco studiava i suoi progetti, faceva i conti, immaginava i risultati, si esaltava al solo pensiero di poter diventare un imprenditore di salde realtà da conquistare, un creatore di qualcosa di durevole anche per altri. Che avrebbero dovuto dire: questo lo ha fatto Peppino Fradusco!

Il fratello Giovanni non pensava neppure di contrastare quelle idee. Sé Peppino vedeva una strada e proponeva di percorrerla, da lui poteva venire soltanto la voglia del “fare insieme.

Così nel 1949 ebbe inizio la storia più importante per Giovanni e Giuseppe Fradusco. Quella dei fratelli costruttori.

 

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