<< precedente

BELLEZZA NOSTRA
a cura di Piero Frullini

successivo >>

SALTO DI QUALITA'
 

Quando non erano ancora terminati i lavori nei cantieri del Quadraro Gianni e Aureggi avevano già progettato i grandi fabbricati al Prenestino nuovo. Si trattava di stabili intensivi per quasi duecento unità immobiliari distribuiti su nove piani.

Peppino aveva fatto apportare ai progetti le sue opportune modifiche, fidando nell’esperienza e ascoltando pareri e consigli.

Le strade erano ancora “vie di Piano Regolatore” ed erano quelle tracciate sulle mappe comunali del 1931, in attesa del Piano del sessantadue. Quando i fabbricati sarebbero stati costruiti, a fine lavori quelle strade avrebbero ricevuto una loro connotazione nella toponomastica della città: piazza Irpinia, viale Irpinia, via Aquilonia, via Fontana Rosa.

Nel cantiere dei Fradusco fecero la loro comparsa le prime gru e le nuove macchine che la tecnologia portava in campo per la preparazione dei materiali a piè d’opera. Il numero degli operai occupati crebbe con ritmo giornaliero. Iniziò in quel tempo a collaborare con l’impresa per una sorta di ufficio del personale curato dall’esterno il Ragionier Zanni, con una mansione che sarebbe continuata fino al 1973.

Zanni era un uomo preciso e molto pratico, quasi asettico nel rapporto con gli operai. Era quel che occorreva in quel tempo di prime agitazioni di piazza. Si creava una specie di paratia tra la mano d’opera e il datore di lavoro, che permetteva a Peppino di stare abbastanza tranquillo. Zanni

difettava talvolta di puntualità: quando gli capitava di aver perso sonno e denaro per star dietro alle corse dei cavalli e alle scommesse. Peppino ci passava sopra, persino rispettoso di quel difetto; e gli capitava di doverlo difendere scherzosamente quando la moglie andava a lamentarsi dei soldi che non arrivavano a casa ma si fermavano presso gli allibratori. Ma Zanni era un tipo attivo, che conosceva il suo mestiere; e questo era sufficiente per il suo rapporto con l’impresa.

Le gru, dunque, svettavano, e ogni tanto erano sormontate da una bandiera tricolore; le macchine assordavano le giornate; gli operai rendevano il cantiere una fornace di iniziative e di opere; Giovanni correva dappertutto fra materiali da controllare e impalcature da verificare; Peppino diventava ogni giorno più certo che ormai la strada si era aperta. Ma ogni giorno egli era più prudente nell’amministrare le sostanze e accantonare le risorse.

Bisognava vendere con celerità una volta che le case erano pronte.

Quel problema, che avrebbe creato difficoltà a molti per la mole della quantità che al tempo giusto doveva andare sul mercato, al contrario stimolò l’iniziativa di Peppino, che si improvvisò mediatore tra i beni dell’Azienda e i clienti da reperire.

In quel periodo non esistevano le grosse organizzazioni degli Agenti immobiliari; c’erano invece molti intermediari impreparati e pasticcioni, talvolta irresponsabili, capaci di combinare più guai che risultati. Peppino li snobbava, perché il mestiere del venditore l’aveva già affinato durante l’esperienza del saponificio.

Peppino amava da tempo la città e le virtù dei partenopei. Nei suoi frequenti viaggi a Napoli al tempo della produzione del sapone aveva avuto modo di indagare sull’estrosità dei commercianti di quell’ambiente unico. Ne aveva carpito anche una buona dose di espressioni dialettali che adoperava poi sempre nei suoi particolari momenti di euforia o di scherzosa dialettica.

Per quel compito di affrontare il problema della vendita delle case al Prenestino ricorse ai sistemi che Napoli gli aveva insegnato: stuzzicare il desiderio altrui di appagare un bisogno, scegliendo i soggetti che ne erano più colpiti e si mostravano più pronti ai sacrifici per soddisfare un desiderio profondo: le donne di casa, le madri di famiglia.

Peppino sostava ore e ore in mezzo alla via Prenestina, all’Acqua Bullicante, a Tor dè Schiavi, a Casal Bertone, davanti alla Viscosa, spostandosi rapidamente con la sua “cinquecento”.

Conquistava l’attenzione delle donne con il sorriso e la proposta pronta buttata là come per caso.

“Signò, à vulite accattà ‘na casa?”

“Magari!”

Chi non aveva un alloggio decente di suo, che avrebbe dovuto rispondere? “Ve la vendo io!”

“Ma non abbiamo soldi per comprarla...”

“E che sarà mai!? Avete duecentomilalire? Il resto me lo date in dieci, quindici anni... Molte volte il gioco era fatto. Altri incontri, le visite agli appartamenti puliti di fresco, le trattative concluse con la stretta di mano del capofamiglia, l’incasso della caparra, la montagna delle cambiali firmate (con i bolli pagati dall’Impresa e con gli interessi, naturalmente) e le chiavi in mano.

La parola data, la stretta di mano e il rispetto dei patti conclusi con la sola voce guardandosi dritto negli occhi. Peppino sapeva che per lui un contratto era un contratto sempre definitivo, comunque concordato. Amava ripetere: quando si deve firmare una carta per un accordo concluso, se la penna non ha più l’inchiostro spilliamo una goccia di sangue da una vena e si firma con il sangue, rispettando la parola da galantuomini.

Con quel sistema di vendita, l’Impresa guadagnava due volte: dalla differenza tra ricavi e costi e dal flusso mensile degli interessi applicati alle dilazioni. Così le sostanze per le attività future si consolidavano e le offerte delle Banche all’uso del denaro che erano disponibili ad anticipare rimanevano proposte gentilmente non accettate...

Durante la fase finale dei lavori per i fabbricati di viale Irpinia e via Aquilonia ci fu il modo di tirar su un altro stabile di minor mole dal lato opposto di via Prenestina, a via Attilio Hortis. Per quel cantiere i Fradusco adottarono per la prima volta la forma partecipata di una società creata ad hoc, la SCER a responsabilità limitata. Era un primo passo per disporre di nuove strategie per future determinazioni, sempre attento Peppino alle novità in cammino.

Prima che quel cantiere fosse smontato, tenuto conto dei programmi a venire, considerando che Giovanni non poteva sostenere gli impegni degli approvvigionamenti con i relativi controlli, della sorveglianza dei lavori giorno dopo giorno, delle prime manutenzioni da curare e di qualche scontro con i dipendenti che arricchivano la fatica di qualche giornata, Peppino pensò di procurarsi un buon Assistente di cantiere.

Lo prelevò da un Impresa del Tuscolano, dove Fioravante Galli, il mitico “Fiorello”, si era fatto le ossa.

Fiorello cominciò la sua collaborazione durata venti anni dall’operazione “viale Scalo San Lorenzo” nel millenovecentocinquantotto. Quel giovanottone di un metro e ottanta, largo di spalle e svelto di gambe sui ponteggi e sopra i solai, di animo generoso nella severità dei contrasti diretti con le maestranze, abile nel mestiere e capace di iniziative, si conquistò subito la fiducia di Peppino e la benevolenza di Giovanni che ne fece il proprio beniamino.

I lavori al quartiere San Lorenzo cominciarono male. Si doveva costruire in uno spazio contenuto, in presenza di un traffico pesante per la vicinanza della tramvia, con poche soluzioni per lo stoccaggio dei materiali. E in vicinanza di un ambiente già turbolento per cento motivi.

Già prima di dare mano all’opera Peppino aveva dovuto convincere i suoi progettisti della bontà di quell’iniziativa edilizia. Per loro costituiva un azzardo, ai fini della riuscita dell’impresa, tirar su quasi cento unità immobiliari in un terreno ubicato vicino al cimitero della città.

Pensavano che dai famosi balconi delle cucine del palazzo le donne avrebbero contemplato i lumini accesi sulle tombe, con il rischio di suscitare un clima da “paura dei fantasmi notturni”.

Ma Peppino non credeva alle superstizioni o ai timori senza fondamento nella realtà: ragionava invece sulla circostanza che dopo le rovine dei bombardamenti del quarantaquatre quel quartiere aveva necessità di rinnovarsi.

Fu eseguito un vasto scavo per i locali sotteranei e per le fondazioni. Dalla parte del viale lo sterro lambì il collettore fognario della città, mettendolo praticamente a nudo. Peppino ordinò di proteggere quella parte con una palizzata robusta. Ma, ora, di notte dormiva meno di prima. Al guardiano dette disposizione di svegliarlo al telefono a qualsiasi ora se avesse osservato qualcosa di allarmante dal lato della fognatura.

Il guardiano non fece in tempo a notare delle anormalità, perché il collettore scoppiò di botto, a metà di una nottata di pioggia furibonda; e il cantiere diventò un laghetto melmoso.

Peppino accorse, accorse Aureggi direttore dei lavori. L’ingegnere era disperato, nuovo del tutto a certe evenienze. Giovanni chiamò a raccolta Assistente e operai. Peppino non perse la calma. Si ritrovò a comandare da sergente di fanteria un plotone di soldati addetti alle trincee. Deviarono un tratto della fognatura verso l’angolo più basso del cantiere, alzarono una paratia più resistente e colarono calcestruzzo per un

buon tratto; deviarono di nuovo la fognatura più a monte ed alzarono un altro tratto di muro, rinforzando con sostacchine e tavolato più fitto la protezione della muraglia: sperando che il flusso dei rifiuti liquidi procedesse la corsa con minore violenza. Nel timore continuo che qualcuno sollecitasse l’intervento dei pompieri e che i lavori nel cantiere venissero sospesi. Ma le staccionate intorno al terreno erano abbastanza alte, le case abitate abbastanza distanti e nessuno degli operai raccontò qualcosa della paura e del sudore.

Dopo una settimana dalla falla il cantiere riprese il ritmo normale, ma Peppino dormiva sempre di meno. Si abituò allora a fare un breve riposo dopo pranzo, abbandonato su di una poltrona: come di notte anche nel breve rilassamento pomeridiano lo assalivano gli incubi che venivano dal lontano campo di Thorn e dalla campagna di guerra in Albania.

Il cantiere di San Lorenzo filò avanti tranquillamente. Nel sessantuno il fabbricato fu terminato e cominciarono le vendite per gli atti notarili del dottor Dragonetti.

La Ditta tornò a costruire al quartiere Prenestino il grande complesso di duecento unità immobiliari di via Monteforte Irpino.

Ormai, nel versante a sud est della città, Peppino e Giovanni Fradusco costituivano un’Impresa leader.

In quel periodo io conobbi i due fratelli. Dirigevo a Centocelle un’azienda edile di dimensioni contenute. Che intendeva acquistare un lotto di terreno edificabile dai Fradusco, poco più di un relitto adatto per una palazzina, adiacente alla fabbrica di via Monteforte Irpino.

Trattai l’affare con qualche difficoltà, perché Peppino Fradusco era svelto quando doveva comprare, ma tosto quando doveva vendere. Quando lui capì che noi, piccoli imprenditori rispetto alla sua importanza, non eravamo meno seri di altri, le difficoltà si dileguarono e si arrivò facilmente alla conclusione.

Ci conoscemmo e non ci frequentammo più per qualche anno, anche se il nostro cantiere era contiguo a quello della “Gemma del Prenestino’~ Questo era il nome nuovo della società tra i due fratelli: la prima denominazione importante che Peppino aveva scovato nei suoi dormiveglia notturni. Una denominazione che indicava luminosità, trasparenza, preziosità. Come le altre che vennero partorite in seguito dalla mente di quel poeta dell’Impresa: la Gemma del Tuscolano, la Stella del Sud, Santa Lucia, la Pineta del Sud, Valle d’Oro, la Gemma del Sud: il meridione e la terra nativa che con insistenza si affacciavano a far compagnia nel divagare soddisfatto dei pensieri e della memoria quando su Roma nasceva il sole di ogni giorno e un uomo innamorato delle sue fatiche rifletteva su quanto fosse bello e gratificante lavorare sodo per i figli, per dare una casa anche ai figli degli altri e lavoro a molta gente venuta dal medesimo sud.

 

Home

introduzione

terre del sud

a Roma

le fotografie la guerra i prigionieri dopo il ritorno
una vita da costruttore le nozze e la famiglia salto di qualità
l'impresa e gli altri la casa al mare tempi difficili
anni di aspre battaglie cambiamenti i cantieri

 

 

 

 

[ Home ]    [ Scrivici ]

 

 

 

 

.

 


.

.