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Etnografia ed Albanesità
Donato M. Mazzeo
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NJETËR BASILIKATË
Cronache, note e diari di viaggio
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LE GROTTE DI BARILE*    (1825)

Barile è un luogo desolato, abitato da una popolazione di circa tremila anime, che da diversi anni diminuisce continuamente. Ciò va attribuito al carattere inerte degli abitanti, che sembrano averlo ereditato dai loro antenati albanesi, insieme con qualche tratto della loro ferocia. Questi albanesi in origine si erano stabiliti a Melfi, nell’epoca in cui venne incoraggiata la fondazione di parecchie colonie dell’Epiro in varie parti del reame di Napoli; ma il loro carattere fiero e probabilmente rissoso, e forse la differenza di religione, fece di loro dei vicini o compaesani non troppo piacevoli, ed essi vennero gradualmente espulsi o si ritirarono dalle loro sedi primitive, rifugiandosi nelle caverne che la mano della natura ha scavato lungo l’intera base della montagna, compresi i territori di Atella e di Rionero. In queste due città tali grotte sono adibite a cantine; ma a Barile molte di esse servono ancora da dimora agli abitanti, che parlano e comprendono tutti il dialetto albanese; anzi, le classi inferiori non conoscono altra lingua. Una delle famiglie principali, di nome Mazucca, vanta di discendere da uno dei sette valorosi fratelli che accompagnarono Scanderbeg dall’Epiro nel reame di Napoli.

Gli abitanti sono principalmente occupati a coltivare, per la verità assai inettamente, un territorio che di anno in anno diminuisce di estensione e di valore, giacché gli abitanti della vicina Rionero, le cui attitudini operose contrastano singolarmente col carattere indolente di questa gente, sono tanto aumentati di numero e hanno acquistato una tale prosperità negli ultimi venti anni, che spesso sono in grado di comperare i terreni dei loro vicini più pigri e imprevidenti, la cui sussistenza finirà col dipendere completamente da loro.

Questi ultimi sono abbastanza intelligenti da prevedere questa fine, ma una strana mescolanza di orgoglio e di apatia contribuisce a mantenerli in tale stato deplorevole: ciononostante, essi sembrano felici e, nei rapporti tra di loro, pacifici e cordiali; ma dubito che provino questi sentimenti anche per i loro vicini, per i quali sembrano anzi nutrire un sovrano disprezzo.

Il suolo produce principalmente vino, giacché il paese è circondato da vigneti e da qualche uliveto; una gran parte degli abitanti più poveri è assiduamente occupata nella fabbricazione della polvere da sparo che, sebbene severamente proibita, avviene nella maniera più aperta nelle grotte che circondano il paese. Il loro amore per la caccia e il conseguente attaccamento ai loro fucili, che portano sempre con sé, spiegano questa passione. La gente di Barile compensa i difetti che le si rimproverano con una provata reputazione di probità e di coraggio.

Il luogo vanta pochi edifici in buono stato, tra i quali quello in cui presi alloggio spicca per dimensioni e relativa magnificenza. Il palazzo non era in origine proprietà della famiglia del mio ospite, il principe T., ma venne acquistato dal bisnonno dell’attuale proprietario, il cui figlio non badò a spese per renderlo abitabile secondo il gusto dell’epoca, che tuttavia non possedeva molte delle caratteristiche che oggi chiameremmo ornamentali. In un piccolo giardino rettangolare, accessibile dal cortile e da una stanza al pianterreno, è stato condotto un notevole volume di acqua eccellente, che non solo serve agli usi domestici della casa, ma è stata distribuita tramite tubature e condotti sotterranei a diverse fontane, così da render possibile lo spettacolo, in verità alquanto puerile, detto dei « giochi d’acqua ». Svariati oggetti e figure di legno e di latta vengono successivamente applicati all’orifizio del tubo e messi in moto dalla forza dello zampillo che ne fuoriesce, descrivendo numerose evoluzioni: questo spettacolo mandò in estasi la folla di spettatori ammessa insieme a me ad assistervi. I giochi d’acqua ebbero termine con un bagno generale: l’acqua di serbatoi invisibili venne improvvisamente spruzzata in alto, in forma di doccia rovesciata, sulla folla curiosa ed esultante.

Un uomo appositamente nominato riceve uno stipendio annuale dal principe per tener i tubi in ordine, ed è l’unica persona cui siano affidate le chiavi e che sia iniziata agli arcani del meccanismo e del suo funzionamento.

Un altro spettacolo, cui mi fu dato di assistere, e che trovai più degno di questo nome, fu una rappresentazione drammatica, interpretata dagli abitanti più rispettabili e dai loro figli, in un grande magazzino o deposito, che in poche ore venne sgombrato da diverse tonnellate di frumento e trasformato in teatro. Questo spettacolo venne proposto nell’intenzione di rompe-

re la monotonia delle lunghe serate autunnali, ma il lavoro non fu allestito per l’occasione, giacché era stato rappresentato alcuni mesi prima, e la scenografia e i costumi erano stati conservati, così come gli attori ricordavano le parti dall’epoca della prima rappresentazione.

L’esecuzione fu buona, e considerando che gli attori non avevano mai lasciato il luogo natale, quasi stupefacente; ma la circostanza più singolare fu che l’intera popolazione, ammessa gratuitamente, venne in teatro armata di tutto punto, con i fucili carichi e le cartucciere piene. Quando una deputazione in questo assetto venne a prendermi per accompagnarmi in teatro, sulle prime mi sentii lusingato per quello che erroneamente consideravo un onore reso alla mia persona; ma ben presto scoprii che si trattava di una consuetudine del luogo; e quando domandai il motivo di quelle precauzioni ostili, mi si rispose che il motivo non c’era, ma che era meglio esser sempre preparati. Qualunque fosse l’origine di questa abitudine, essa mi colpì come caratteristica dell’origine albanese di quella gente. Poco dopo venni invitato a un ben diverso svago, ossia a una caccia al cinghiale tra i boschi del monte Vulture. Io mi limitai però ad incontrare la brigata al luogo convenuto, che desideravo visitare, e la cui descrizione rimando a una prossima occasione.

 

* di Lord Riehard Keppel Craven. Tratto da “Viaggiatori stranieri nel Sud”, Ed. Comunità, 1964.

 

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" LA BASILICATA* "    (1862)

“...Fra men remote città, talune distrussero tremuoti: altre venner meno per migrazioni o incuria e disamore del luogo natìo: di intiere o intatte nissuna: strana contrada ove ogni loco e città, poca o molta, ha la sua appendice di ruine. Più riti vi hanno devoti, il cattolico e il greco-scismatico; e nel mezzo, quasi in grembo agli indigeni, v’hanno colonie greche-albanesi, con lingue e costumanze pertinacemente proprie. Vaghezza di favellii, colorito e immagini dell’oriente, modulazioni varie e melodie; solo indizio che ne rimanga di civiltà ed imperi de’ quali prima vennero meno gli archi, i templi e le città che non la lingua; nel secolo XV Ferdinando I d’Aragona era assediato in Barletta e il suo regno ormai tutto in mano degli Angioini: per liberarnelo, Papa Pio II inviò Giorgio Skanderbeg, principe d’Albania, a scendere in Italia; il quale con grande esercito sbarcò nelle Puglie, e colà insieme alle squadre di Alessandro Sforza di Cotignola, ruppe i nemici, li scacciò, onde Ferdinando riebbe il regno.

Quando poi col mutar della fortuna gli Albanesi nella patria loro furono soggiogati dagli Ottomani, migrarono in gran numero nel Reame, ov’ebbero umane accoglienze; finché, prima nel 1534 e di poi nel 1547, più colonie loro giunsero in Basilicata e s’attendarono ne’ luoghi ove poi sorsero San Costantino, Casalnovo, Barile, Maschito, Ginestra e Brindisi (di Montagna). Altri vorrebbero pur San Chirico Nuovo. Tale la fortunosa origine delle razze albanesi in questa regione. Nonostante il volger dei secoli e l’essersi moltiplicati gli abitanti, parlasi in que’ siti un albanese schietto e da ogni ordine di cittadini: ignoto ai più è l’idioma italico, sicchè, a mò d’esempio a Maschito, a San Paolo ed a San Costantino, non fu dato istituire fin’oggi una scuola femminile, per la difficoltà di rinvenire chi conoscesse l’idioma albanese, tanto da intendere le alunne, ed esserne intesa quando lor favelli in italiano.

Dicea Re Ferdinando II e gli facea eco la turba beghina de’ cortigiani suoi, che se Roma era a capo della religione, Napoli avea da esserne il cuore; non tollerò quindi mai culti estranei; abolì perfino e proscrisse quante più rinvenne chiese di rito scismatico; è da credere gli sfuggissero i paesi di San Costantino e Casalnuovo (oggi San Paolo, n.d.r.) ove abitano da quattro mila oriundi greci-albanesi e serbano il rito greco sotto la disciplina e gerarchia del vescovo (di Lungro, n.d.r.). Nel secolo XVII molti altri luoghi aveano il rito degli antichi padri, gli Epiroti: tali Ginestra e Maschito e Rionero allora umil casale, e Brindisi di Montagna (e Melfi, n.d.r.); poi un Vescovo di Melfi per nome Diodato Scaglia, indusse i primi tre a seguire il rito romano. Più arduo gli fu il convertire que’ di Barile: ma dove la persuasione non valse usò la violenza e gli riuscì”.

 

* di E. Pani Rossi.

 

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Da: Melphiensis ac Rapollensis Ecclesiarum Constitutiones Synodales AR.mo

Deodato Scalia praesule celebrata Anno MDCXXXV

Titulus Secundus

Cap. 2
 

Quia autem isti ut plurimum ritum Graecum pro fitentur, cum ex illis Graeciae orientalis, seu Aegypti regionibus aduenire asse rant valde anima-due rtendum est an quidquam con tra agant quod schismaticorum, & Maumetarum morem, vsumq. praeseferat: An Ecclesiae Sacramenta sumant, illaque vene rentur; an vnquam in Ecclesijs praecipue diebus festis Christianorum more Missae sacrificio, & diuinis officis intersint: An Quadra gesimae tempore coeterisque ieiunij diebus carne, & cibis vetitis vescantur: an superstitionibus, magijs, & sortilegijs praecipue ad rerum futurarum indaginem vtantur, cum plurimum generatio ista ijs artibus implicata videatur: & demum an vllo alio modo, aliaque vitae ratione publice fideles, & vere Christianos offendant. Quod si contra Ecclesiae Catholicae ritus, & institutas aliquid ab ipsis fieri compertum fuerit, & praesertim per quod haeresis nomine suspecti esse possint illos quam primum ad nos parochi deferant sub poenis quas supra in tit. de Haer. reuel. apposuimus, vt con tra eos grauiter pro culpae ratione agere possimus, inuocato etiam super hoc, si opus fuerit, ad eos e Ciuit, expellondos brachij secularis auxilio.

Nelle disposizioni sinodali dell’anno 1635, redatte da F. Deodato Scaglia, Vescovo di Melfi e Rapolla, punti fondamentali delle prescrizioni ed interdizioni nei confronti dei nomadi sono: a) la prova di una forte presenza zingara in questa regione dell’Italia meridionale; b) un problema più specificamente religioso, la paura di infiltrazioni di eretici e la reticenza nei confronti di coloro che praticavano il rito greco. È perciò verosimilmente che il Vescovo Scaglia mette in guardia i suoi parroci: «... valde animaduertendum est an quidquam con tra agant quod schismaticorum, & Maumetarum morem, vsumque praeseferat... ».

Lo storico Giacomo Racioppi, ci dà un’attenta ricostruzione delle differenti colonie di Albanesi e Greci che ripopolarono la Basilicata, in particolare Melfi e i dintorni: « La tradizione e la storia che spesso la rispecchia, riferiscono a Scanderbeg e alla sua lotta gloriosa contro i Turchi il passaggio dei coloni albanesi nel regno. (...) Morto che fu il grande Scanderbeg nel 1466, e prostrata l’Albania sotto il giogo dei turchi, i figli di esso, i loro clienti, nobili o popolani, vengono nel regno e si spargono per le terre che i re di Napoli danno in feudo ai Castriota. (...) Scutari fu presa dai Turchi nel 1464: una parte del popolo abbandona la patria e viene nel regno. Di costoro, (...) un gruppo si allogò nel paese di Barile. (...) Ma quando Corone della Morea cadde in mano ai Turchi nel 1534, Carlo V fece trasportare nel regno sul suo naviglio, quanti vollero abbandonare la patria soggiogata agli Ottomani, e la popolazione albanese crebbe di altri contingenti nella nostra regione. Allora cento famiglie vennero assegnate alla terra di Maschito, cinquantadue a Barile, trenta alla città di Melfi; altre a Brindisi di montagna. (...) Un ultimo contingente venne dalla Morea e alle terre di Barile e Maschito dalla città di Maina - povera erede dell’antica Sparta — e fu nel secolo XVII, verso il 1647. Tra i secoli XV e XVII abbiamo quindi nella regione tre differenti immigrazioni di Albanesi e Greci che ripopolarono alcuni paesi: Melfi (in minima parte), Barile, Maschito e Ginestra. Le lotte, le discriminazioni e le vere e proprie “faide” fra i latini ed i greco-albanesi sono chiaramente evidenziate dal Rodotà: “I vescovi latini ignorando l’origine, la santità ed i misteri del rito greco, l’abominavano come velenoso serpente”.

Una delle cause di rapida integrazione tra le popolazioni locali e i nuovi arrivati fu la soppressione del rito greco in questa zona, voluta proprio dal vescovo Deodato Scaglia. In un primo momento i due riti (quello greco e quello latino) si affiancarono, ma la convivenza fu motivo di molte discordie tra la popolazione a causa di ingiustizie e soprusi soprattutto nei confronti di coloro che professavano il rito greco: « le ultime notizie sono della chiesa di Rive ho in diocesi di Policastro e di Barile in quella di Melfi e Rapolla. Per Barile il vescovo Deodato Scaglia (1624-1644) non prima della metà del secolo XVII potè ridurre chiesa e popolo al rito latino, e non senza ostacoli e non senza violenza » riporta Gennaro Araneo.

 

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LA VITA A BARILE NEL VULTURE*    (1955)

* di E. Cristiani Castaldi. Dattiloscritto inedito gentilmente fornitomi dal Prof. Enzo Cervellino, preside della Scuola Media “Granata” di Rionero in Vulture.

 

I problemi relativi alla “Questione meridionale” dei quali tanto si parla e si scrive in questi ultimi anni, non sono sorti solo ai nostri giorni, in questo dopoguerra che ha messo completamente a nudo le necessità della nostra terra e della nostra gente.

Senza soffermarmi sulle tanto dibattute polemiche riguardanti il contrasto tra Italia del Nord ed Italia del Sud, tra razza aria e razza mediterranea, indicherò brevemente come nacque questo problema che è, senza dubbio, uno dei più palpitanti e più dolorosi della esistenza storica del nostro popolo.

Se per “Questione meridionale” s’intende lo squilibrio materiale, le differenze psicologiche e culturali tra Settentrione e Meridione d’Italia, per ri-trovarne i moventi dobbiamo risalire alle più remote epoche della Storia. Anche allora vi erano profonde divergenze di vita tra le due parti della terra Saturnia; ma la situazione era esattamente opposta a quella che oggi ci si presenta. Quando nell’Italia settentrionale gli uomini vivevano ancora allo stato primitivo, nutrendosi di caccia e di pesca e costruendosi villaggi palafitticoli, nello stesso periodo, le popolazioni del Sud, più favorite dal clima, si dedicavano all’agricoltura e alla pastorizia; in un secondo tempo mentre il Nord veniva occupato dalle rozze e nomadi genti galliche, il Sud si popolava di coloni greci i quali fondavano numerosissime città, ricche per i prodotti e floride per i commerci. Questo periodo così felice per l’Italia meridionale durò circa 500 anni; poi, nel III sec. av. Cr. molteplici cause determinarono la decadenza della Magna Grecia; infatti la conquista romana, l’introduzione di nuove forme agricole ed il flagello della malaria (recata da navi provenienti dall’Africa e dall’Oriente) fecero sì che il Mezzogiorno mari disse in breve volgere di tempo. Seguirono la dominazione Bizantina, l’Araba, la Normanna, quindi il governo Svevo, l’Angioino, l’Aragonese, lo Spagnuolo ed il Borbonico. Giungiamo così all’inizio del XIX secolo e, malgrado tanti eventi storici, il Mezzogiorno non riuscì, nemmeno temporaneamente, a riprendere l’antica posizione di privilegio, anzi mentre la parte centro-settentrionale della penisola perveniva gradatamente alla formazione di una industriosa civiltà moderna, il Meridione s’impoveriva sempre più. Fu Giustino Fortunato, che, per primo, nel 1880, fece conoscere la dura situazione del Mezzogiorno; anzi egli addirittura capovolse il punto di vista tradizionale, secondo cui il Meridione d’Italia, fin troppo favorito dalla natura, era decaduto solo per il debole carattere dei suoi abitanti. Il problema, in quel momento, era più che mai importante, in quanto, essendosi da poco formata l’unità nazionale, era necessario per una migliore convivenza tra le due parti del paese, raggiungere anche l’unità economica. Il Fortunato ebbe inoltre il merito di aver promosso studi che hanno radicalmente rinnovato la geologia, l’economia e la storiografia del Mezzogiorno; dalla sua azione tenace e costante, si può dire che abbia preso il via, il rinnovamento di questa parte d’Italia.

Ora però che il problema è chiaramente impostato, che la coscienza nazionale lo ha compreso e fatto suo, ora che le opere per la ripresa del Mezzogiorno sono in atto, mi chiedo quanti di noi veramente conoscano l’anima meridionale. Sarebbe bene che questa domanda ce la ponessimo tutti, e più degli altri, coloro che, per non essere nati o vissuti in questa parte della nostra Patria, non la conoscono o la conoscono male. Penso infatti che non sia possibile raggiungere il miglioramento economico e culturale del Sud, senza comprendere appieno lo spirito dei suoi abitanti. Bisognerebbe conoscere gli individui, le loro famiglie, i luoghi dove vivono, le fatiche quotidiane, le necessità, le aspirazioni ed i programmi.

Giunta per la prima volta nell’Italia meridionale, ho cercato di capire questo diverso spirito ed ho cominciato con lo scoprire Barile, un paesino della Lucania, una delle regioni meno conosciute della nostra penisola. Di questo paese intendo appunto trattare in queste pagine, senza la pretesa di risolvere con ciò il problema della comprensione e fusione spirituale delle regioni italiane, ma solo con il vivo desiderio di sollevare un lembo di vita contemporanea, descrivendo l’esistenza di un centro simile a cento altri, che, nell’insieme, costituiscono il cuore dell’Italia meridionale.

Barile, situato a 600 m. sul livello del mare, è tra i paesi del Vulture quello che avverte più da vicino l’ansito della montagna; direi che ne è tutto impregnato, tanto è appariscente il suo carattere montano. Il Vulture è un pò il vanto di Barile come pure dei vicini circondari di Atella, Rionero, Rapolla Melfi e Ripacandida. Esso sovrasta il paese e lo protegge con un folto bosco dalla violenza delle acque. Il caratteristico monte, cantato da Lucano e da Orazio, costituisce una zona di grande interesse turistico per la bellezza del paesaggio, per le sue selve odorose e per i due laghi su cui biancheggia, tra il verde, la Badia di S. Michele di Monticchio. Antichissimo vulcano, ardente quando il mare che copriva le appule pianure ne lambiva il piede, ed estinto dai tempi preistorici, mostra larghe vestigia dei suoi fuochi in tutta la regione che lo circonda; nel doppio cratere centrale del cono eruttivo giacciono ora due laghetti che, dalle dimensioni, prendono il nome di piccolo e di grande: essi sono divisi da uno stretto istmo sul quale si trovano le rovine della Badia di S. Ippolito abbandonata nel 500. Anche la Badia di S. Michele con grotte basiliane ricche di affreschi del sec. XI è ora disabitata, ma il luogo è sempre meta di pellegrinaggi e merita di essere valorizzato per il suo bosco (che raccoglie poco meno di 1000 specie di diverse piante), la fauna variatissima, l’abbondanza di acque ferruginose, calde e fredde, alcaline e iodiche.

Considerate le tante bellezze naturali del Vulture, l’aria salubre che vi si respira, gli ampi orizzonti verso cui da esso si spazia, le storie di briganti che scelsero a rifugio i suoi antri segreti, le leggende di tesori celati e dei demoni che li custodiscono, è comprensibile l’affetto ed il rispetto dei Barilesi per il loro monte. Qui negli spazi diradati e dissodati del bosco, in una tenuta dell’estensione di 5000 ettari, si iniziò il primo esperimento di colonizzazione della Lucania. La buona riuscita ditale esperimento, risulta evidente osservando la varietà di prodotti quali olio, vino, cereali, legumi e frutta che si coltivano oggi in abbondanza nella zona, in aggiunta alla vecchia produzione vinicola che da secoli ci dona i rinomati vini del Vulture.

La coltivazione della vite è l’occupazione principale degli abitanti di Barile; il nome stesso del paese lascia chiaramente intendere l’intimo connubio tra i suoi abitanti e il prodotto bacchico: dall’industria locale e da quella dei centri vicini, si ottengono vini gagliardi e gustosi, spiritosi e delicati. Assai conosciuti sono l’Aglianico, il Moscato e la Malvasia: l’Aglianico è un ottimo vino da pasto ed anche un gradevolissimo spumante rosso, gli altri due sono deliziosi spumanti dolci aromatici. Questi prodotti possono ben testimoniare come la grande quantità di vini prodotta nelle regioni meridionali vada sempre più differenziandosi e perfezionandosi; attualmente la tecnica di preparazione è aggiornata e questi vini si affacciano sui grandi mercati di consumo italiani ed esteri con ottime possibilità di successo.

Lo stemma di Barile presenta due alberi d’abete verdeggianti su di un colle in mezzo al quale posa un barile color rosso vino: al di sopra, in campo celeste, troneggia un grappolo d’uva matura.

Quali le origini dello stemma, e del nome?

Nel 1300 circa, Barile era un casale di Rapolla; in quell’epoca il villaggio era certamente abitato da gente italica, e, probabilmente, il piccolo nucleo era molto antico se si pensa che presso una delle vecchie terre che fiancheggiano il paese, vennero dissotterrate molte monete e medaglie consola-ri d’argento, indizio di qualche cassa militare ripostavi ai tempi della Repubblica, in occasione difatti d’arme tra gli Irpici e i Romani oppure tra questi ed i Cartaginesi.

Il nome di Barile deriva, verosimilmente, dal fatto che gli abitanti del centro primitivo erano falegnami e carpentieri, dediti, per l’a maggior parte, alla fabbricazione di tini, barili e botti.

Fin verso il declinare del XV sec. non si ricorda per Barile alcun fatto degno di rilievo. Nel 1478 cittadini albanesi, esuli dalla loro patria occupata dagli Ottomani, mossero verso l’Italia meridionale e si stabilirono in varie località. Fu allora che una parte di essi ampliarono i piccoli casali di Barile e Rionero ed edificarono poche miglia lontano Ginestra e Maschito. I profughi fermatisi a Barile occuparono le due estremità, settentrionale e meridionale, dell’attuale abitato: quest’ultima zona conserva tuttora il nome dei profughi ed è detta degli “Scutariani”. Qui si rinvengono le loro prime abitazioni scavate nel tufo della collina; alcune ditali dimore recano tracce di pochi adattamenti, cioè gli indispensabili per incastrarvi soltanto la porta, altre appaiono formate da una grotta e da una camera antistante rozzamente costruita. Parecchi anni dopo lo stanziamento della predetta colonia e precisamente nel 1534 cento famiglie greco-albanesi fuggite da Corone (Grecia) si stabilirono nella terra di Maschito, trenta famiglie nella città di Melfi ed altre cinquantadue vennero ad accrescere il centro di Barile. I nuovi arrivati occuparono la parte superiore del paese, sino al ruscello che divide l’attuale abitato.

Nel 1597, sorti dei contrasti tra i Coronei di Melfi ed i loro ospiti, i primi probabilmente indotti e spinti dall’autorità politica, decisero di abbandonare la città e se ne vennero in Barile a stabilirsi tra i propri connazionali che li accolsero favorevolmente. Nel 1647 infine, venne a stabilirsi a Barile la terza ed ultima colonia di greci-albanesi detta dei “Mainotti” perché emigrati dalla Laconia e da Maina. I nuovi coloni si collocarono sulla seconda collina divisa dalla prima dal corso del ruscello che incanalato poi e coperto da volta forma ora la piazza più grande del paese. I Mainotti fabbricarono capanne coperte di paglia e stoppie finché non poterono costruirsi delle case più comode e solide; il rione da loro occupato serba il ricordo ditale circostanza portando ancor oggi il nome di “Pagliari”.

Ecco dunque, in breve, la storia di Barile, paese che pur sentendosi italiano, parla ancora linguaggio albanese e dell’antica patria conserva caratteri e tradizioni. Pungolati dal panico della guerra, delle razzie, degli odi, gli albanesi scelsero le vie d’oltremare e giunsero qui dopo lungo migrare, carichi dei segreti e delle esperienze che insegnano le strade del mondo. Si è portati quasi a pensare che essi scelsero questi luoghi per loro dimora, irresistibilmente attratti dai folti boschi del Vulture che ricordavano loro un poco i nativi Carpazi.

Per potervisi stabilire dovettero stipulare col principe Torella, signore di Melfi e di Barile, un capitolato di patti e riconoscersi vassalli di lui. L’odierno latifondo lucano ha quindi un certo legame con l’ordinamento feudale della terra; ma anche quando l’abolizione del feudo permise la creazione della piccola e media proprietà, in alcune zone più impervie, tra cui appunto quelle lucane, dove mancarono condizioni che assicurassero ai coloni una certa partecipazione al possesso della terra, il latifondo sopravvisse. La ‘sua trasformazione è presentemente uno dei problemi più studiati e curati: col tempo e la buona volontà si giungerà certo a colture più frazionate e razionali che daranno un nuovo ritmo all’economia nazionale.

A Barile vivono attualmente 4350 abitanti, i Barilesi godono generalmente ottima salute e la percentuale dei longevi è molto alta. Come in tutto il Meridione le famiglie sono molto prolifiche ed il numero dei nati è di circa 100 all’anno, mentre quello dei morti si aggira intorno ai cinquanta. La forte preponderanza delle nascite sulle morti provocherebbe una preoccupante eccedenza di mano d’opera, se non si verificasse una costante emigrazione. Essa cominciò nel 1890 verso le Americhe, si arrestò nel ventennio, in seguito alla politica fascista, per riprendere dopo l’ultima guerra: ora un centinaio di Barilesi partono ogni anno verso l’Argentina, il Belgio, il Venezuela e l’Australia. Questi emigranti, attivi e capaci, sono ben accolti all’estero, aiutano le famiglie rimaste in Patria e mettono da parte il gruzzoletto; ma anche quando hanno impiantato il loro piccolo commercio e fatta un pò di fortuna, non dimenticano il paese d’origine; molti di loro tornano e vengono a scegliere le loro spose da queste parti.

Oggi a Barile vivono molte famiglie discendenti dirette del popolo schipetaro e non è raro incontrare individui che mostrano caratteri antropologici tipici della razza albanese, quali testa piccola, forma allungata della faccia, naso diritto, spesso aquilino, occhi e capelli neri, statura superiore alla media.

E se i caratteri fisici si riaffacciano inalterati nel corso dei secoli, ancor più si sono conservati l’indole, i sentimenti e le abitudini avite.

In genere, gli albanesi immigrati in Italia erano soldati o contadini: oggi gli abitanti di Barile sono, per lo più, braccianti, impiegati e liberi professionisti; ma l’istinto li porterebbe alla milizia, alla caccia, alle armi; il fucile è il loro idolo fin dalla fanciullezza, hanno ancora nel sangue l’amore per il loro eroe Scanderbeg e si tramandano l’eco delle vittorie del “Real Macedone”.

Le loro qualità più spiccate sono il sentimento d’onore, il coraggio, l’onesta, l’ingegno pronto, l’indole aperta e allegra, il tenore molto frugale della vita. Le feste ed i giochi hanno fra di essi molti seguaci, ma non per questo bisogna pensare che siano amici del dolce far niente. All’alba uomini e donne, scuri nelle vesti e nel volto, tutti eguali, partono per le cure dei campi e fanno loro compagnia i numerosi asinelli, piccoli, imperturbabili, dal passo feltrato. Al vedere la scena sempre uguale, malgrado il passare del tempo, si riconosce l’esattezza dei vocaboli coniati da Carlo Levi (per descriverli come “gente antica” fuori della storia e della ragione progressiva).

Dopo il 1910 fu introdotta anche da queste parti la conduzione agricola della mezzadria ed ora ben il 50% dei terreni sono coltivati secondo tale sistema. Mancano però ancora, le case coloniche, sparse in mezzo ai poderi, ed è per questo che, nella campagna ricamata di olivi e di viti, si nota una lacuna. Naturalmente, col variare del metodo agricolo, si è creata la necessità di costruire masserie, in modo che i contadini si trovino prossimi ai loro campi e non riuniti in agglomerati spesso lontanissimi dal luogo di lavoro.

Anche questo è un problema devoluto alla riforma del Mezzogiorno; i privati, infatti, si dicono pronti a costruire ma occorre loro l’aiuto dello Stato.

Quando questo programma sarà compiuto cambierà anche la fisionomia dell’abitato: resteranno silenziose le stradine periferiche lastricate di lava, freddi i grossi comignoli bianchi posti sul lato esterno della via, poiché molti focolari saranno deserti. Scompariranno le rosse file di peperoncini appese ad essiccare sulle facciate di queste caratteristiche abitazioni e i porcellini, ricchezza della famiglia, pigramente sdraiati al sole davanti agli usci delle case.

Tuttavia, se le necessità materiali con le innovazioni del progresso segneranno un rapido cambiamento nel sistema di vita del popolo di Barile, più lenta sarà la trasformazione dell’anima di questa gente.

La cellula della comunità albanese rimane sempre la famiglia; la venuta alla luce di un bambino è accolta con giubilo, la venuta di una bimba è accolta con un pò di sospiri: “ste femmine.., che vennero a fa’ “ e per rispondere al quesito segue una grattatina di capo in cui già spunta la preoccupazione del corredo.

Nelle eredità, a Barile, come nelle altre regioni del Mezzogiorno, vige la preferenza per i maschi e non di rado il diritto di primogenitura. La madre “va ardenn pe’ figli’, li ama seriamente, lavora ed è capace di compiere per essi qualunque sacrificio. Di solito è severa; ecco le sue massime fondamentali di educazione: “addnizzete vinghiettel quann’è teneriell” (drizza il vinco, finché è tenero), “mazz’ e panell fann’ i figli bell’ (mazza e pane fanno bene i figli). I figli hanno una grande influenza sulla condotta morale della madre ed anche quando il marito è emigrato da lungo tempo, la donna è tutta dedita ai figlioli che, in verità, ricambiano il suo affetto con gratitudine, tenerezza e rispetto.

Anche la parentela è tenuta in gran conto: “tagliami e sminuzzami, jettami nmiezz’ a li miei”. Si ha fiducia del proprio sangue, i parenti si uniscono e si difendono, condividono rancori ed amicizie.

Gli originari albanesi, bellicosi e focosi, portarono seco e mantennero nell’animo, negli atti e nelle armi, come impegno d’onore, il diritto, anzi, il dovere di farsi giustizia da sé. Un’offesa ricevuta nell’onore e nella persona o nella proprietà doveva farsi scontare a caro prezzo, si riconosceva la legge della montagna “occhio per occhio, dente per dente”. In seguito, la popolazione, mescolata ad italiani bonari, resa mite dalle donne e dalla fiducia in Dio, dimenticò in parte le tradizioni e modificò i propri sentimenti, rifuggì dal sangue e dalla rapina; tuttavia ancor oggi l’uomo è sommamente geloso dell’onore delle proprie donne ed è assai pericoloso attentare alla loro virtù.

Del resto la cosa non riuscirebbe facile: la donna è considerata una vera, intangibile, proprietà e l’uomo conta passi e sospiri della moglie e delle figlie. E quindi sospettoso, ma il sospetto non lo guasta, lo fa previdente:

“‘A ddu nun vai, salva niesti”.

Le fanciulle sono tenute lontane dal fidanzato anche alla vigilia delle nozze; quando il promesso sposo è stato accettato dalla famiglia della ragazza, può andarla a trovare, ma, naturalmente, i loro colloqui saranno sempre sorvegliati dai genitori, dai fratelli o dai parenti con una consegna rigorosissima. La giovane può esprimere i suoi desideri per quanto riguarda la futura casa e la mobilia ma non andrà mai a disporre il nido, secondo i propri gusti, ed anche nel caso in cui il fidanzato sia in viaggio, essa non si recherà mai nella casa di lui per far visita alla suocera od alle cognate.

Usa ancora il corteggiamento stile ottocento con tutte le sue romanticherie; lui passeggia a lungo sotto la finestra di lei che, preoccupata di essere scorta dai suoi, donnescamente spia da dietro le chiuse imposte.

La domenica delle Palme la suocera fa preparare per la fidanzata prossima agli sponsali, una palma fatta di confetti: su questo dolce ed augurale arboscello, benedetto durante l’ultima messa, sono legati con nastri i doni in oro che il fidanzato fa alla fidanzata ed ella, in cambio, preparerà un pane zuccherato e lo manderà alla famiglia di lui.

Due o tre giorni prima della cerimonia nuziale la sposina espone il corredo: “i quattro zivoli” che parenti ed amici corrono ad ammirare; quindi, in gran pompa, tutti gli oggetti vengono portati alla casa dello sposo ed esposti generalmente in canestri affinché anche i vicini possano prenderne visione. Con particolare cura ed evidenza vengono trasferiti da una casa all’altra i guanciali dei prossimi coniugi: sono già coperti con le loro federine e legati l’uno all’altro con nastri, entrambi poggiano su una copertina che servirà a coprire il bambinello frutto della nuova unione.

E finalmente arriva il giorno delle nozze: lo sposo con il padre, i parenti e gli amici va a prendere in trionfo la sposa che, nella sua casa attende, inghirlandata e velata, il momento del solenne distacco. Piangente s’inginocchia, abbraccia i genitori, chiede loro perdono e benedizione; essi la baciano, la benedicono e con parole di commozione l’affidano allo sposo. La sposina al braccio del compare è condotta al sacro rito ed il corteo passa tra archi trionfali di cortine e di fazzoletti serici disposti lungo il percorso. Incontriamo qui (come in quasi tutte le regioni del Mezzogiorno) un nuovo personaggio: il compare d’anello. Quando apparve la prima volta? Cosa rappresenta? Quasi nessuno lo sa, qualcuno mormora che l’usanza risale a tempi medioevali e che al compare era addirittura riservato lo “ius primae noctis”. Si tratta certamente di leggenda ma non si può fare a meno di sorridere, divertiti, all’idea. Proprio da queste parti aleggia questa storia? In questi paesi di così rigido puritanesimo?

Compiuta la cerimonia nuziale, la nuova coppia, finalmente unita, arriva a casa; sulla soglia, ad aspettare, sta la suocera che accoglie i giovani legando le loro teste con un fazzoletto a significare il giogo coniugale, quindi offre alla nuora un cartoccio di dolci e confetti che la sposa getta alle proprie spalle per far intendere che ciò che viene da Dio a Dio ritorna. I dolci sono accolti con gran giubilo dai numerosi bimbi presenti ed è seguito con attenzione il fanciullo che per primo troverà un confetto: se è un maschietto tale sarà il sesso del prossimo nascituro, se una femminuccia si pronosticherà la nascita di una bimba.

Poi tutto finisce in un banchetto ed anche i vicini partecipano all’avvenimento in quanto grandi piatti di tag1iatelle vengono loro donati in segno di allegria e di abbondanza. Talvolta gli sposi fanno un giro per il paese e questo è il loro viaggio di nozze, se possono procurarsi un’automobile vagano divertiti facendo il maggior chiasso possibile. A sera si rinchiudono in casa e lì, senza mai uscire, trascorrono i primi giorni, mentre al povero compare d’anello, rimane il compito di fare la ronda e di tenere simbolicamente lontani con spari di fucile in aria, i vecchi corteggiatori della donna, supposti, disturbatori della quiete domestica.

Terminata la settimana detta “vergognosa “ “a’ settemana d’a zita” nella domenica seguente, si ripete la festa a spese dei parenti della sposa che e ‘cac~iàta in santo” e dopo quel dì ha libera uscita; dopo quindici giorni il compare offre altra festa, dopo ventuno è la volta della comare...

Anche in caso di lutto vigono a Barile usanze particolari: quando muore il capo di casa il parente più prossimo usa sciogliere i capelli della vedova ed essa continua a tenerli così fino a tumulazione avvenuta. Generalmente si lascia il cadavere per un giorno ed una notte in casa con le finestre aperte; si crede che lo spirito non si diparta immediatamente dal corpo ma aleggi sulla salma, fra gli oggetti famigliari e fra i parenti. Tutti piangono a voce alta, straziante, e i parenti, come giungono alla spicciolata, si scarmigliano, piangono, chiedono perdono all’estinto anche di lievi dispiaceri procurati-gli in vita e gli affidano il saluto per altri cari morti. Spesso, a pagamento, intervengono donne che, come la praeficae romane, improvvisano “guaitimmi”. In questi lamenti viene rievocata la vita del defunto, le sue virtù, ma, talvolta, lo si incolpa di avere abbandonato troppo presto la famiglia. Le prezzolate, continuano ininterrottamente la loro cantilena durante tutto il funerale, ma, ad un certo punto, ci si accorge con sorpresa, che gareggiano quasi nei lamenti, compiacendosi delle inflessioni vocali. Nella bara si pongono, come ai tempi antichi, oggetti cari al defunto; dolci e giocattoli se si tratta di bimbi. I parenti e gli amici più affezionati portano per più giorni alla famiglia “‘u cuonsolo” (la consolazione) che consiste in caffè, cacao, cibi scelti, compagnia, conforto e aiuti.

Il lutto, come in tutta l’Italia meridionale, si prolunga per mesi ed anni, secondo il grado di parentela: per la vedova le gramaglie durano, generalmente, tutta la vita e lo scialle nero in testa non sarà mai tolto.

Meraviglia il fatto che questa popolazione così attaccata alle tradizioni, non abbia mantenuto, a differenza di tante località vicine, il costume popolare che starebbe tanto bene a queste agili donne. I Barilesi, invece, tengono più ad apparire moderni, anche se, taluno, conserva ancora gelosamente questi variopinti vestiti.

In un vecchio album di famiglia ho potuto vedere delle fotografie in costume fatte oltre dieci anni orsono durante una festa folkloristica albanese;

tra queste una è particolarmente attraente: un gruppo di giovinette canta mentre una di esse, biancovestita, danza movendo con leggiadria il suo lungo velo. Sembra quasi di udire le parole della loro “Canzone alla sposa”.
Eccone la versione italiana e albanese:
 

Vieni bel viso fresco come la neve

Perché dobbiamo andare a sposare

E non uscire con gli occhi velati di lagrime,

Perché tu sposi un bel giovane,

E lo sposi con pochi soldi.

Andiamo dunque che balleremo in montagna,

Non importa che sposi con un sol denaro,

Andiamo, andiamo, balleremo anche allo Scescio

Tu sposi un giovane che vale,

Voltati indietro e guarda

Tutta questa gente che ci ammira,

E come è allegra e ci invidia

E se c’è qualcuno che ci critica

Lo accorderemo con la ricotta fresca.

Vedi quanta lana ha il mio castrato?

Tanti fusi ho pieni di seta!

Tanti sacchi ho pieni di soldi!

Vedi quanti peli ha la mia capra?

Tante botti ho piene di vino malvasia!

Vedi quanti peli ha il mio asino?

Tanti cassoni ho pieni di grano!


Dilje jashet faqia dhèbore

se kat vema vume kurore;

mos me dilje me ljothet ta site (1)

ti me mora pe nje turès. (2)

(1 + 2 rit. + vema bemi nje valle te sheshe):

Ti me mora pe nénd kavallje (3)

vema bèmi njè valle te mallje. (rit.)

Gith kto giènd ce na murmuronjen

me gize te njome kat i dhumbomi;

sa(ne) qime ka nje delje

(k)aqe kashune me karuzelje;

sa(ne) qime ka nje dash

(k)aqe boshtra me mundasht!

Sa(ne) qime ka nje gajdur

(k)aqe kashuna pjote me gruar.

Sa(ne) qime ka nje dhi

(k)aqe vashilje me malvazi!

Dilje jashet faqia dheborè... (rit.)

 

Si cantano anche stornelli molti simili alla precedente canzone: sono composizioni in dialetto albanese, piene di grazia e di espressione: “Rì mire” stai bene, è il saluto comune tra gli abitanti di Barile e l’interpellato risponde:

“Me te shembni”, vai con la Madonna.

Nei brindisi e nei voti augurali: “Gjaku i shprischur jonsci” — al nostro sangue sparso — fa i Barilesi perennemente consapevoli delle loro origini mitologiche.

L’idioma albanese, per quanto corrotto dal tempo, non deve però, essere molto cambiato dalla lingua-madre; giovani rimasti prigionieri sul fronte albanese, durante l’ultima guerra, dicono che in pochi giorni riuscirono a capire e a farsi ben capire dai loro nemici.

La doppia lingua albanese ed italiana parlata a Barile, ha creato per molto tempo problemi non indifferenti per quanto riguarda l’insegnamento elementare. Fino ad alcuni anni fa pochi erano i bambini in grado di capire l’in-

segnante ed è per questo che venivano scelti maestri del luogo. Ora, quasi tutte le famiglie, pur continuando a parlare tra loro in albanese, conoscono anche l’italiano; i bimbi vanno tutti a scuola e non è raro che si iscrivano anche a corsi secondari nei paesi vicini. Si nota, insomma, un interesse allo sviluppo culturale, ma la vera preoccupazione per alunni e insegnanti è la mancanza di un edificio scolastico; tutte le lezioni vengono tenute in locali di fortuna assolutamente inadatti.

Si risente ancora il danno dei terremoti che si abbatterono su Barile:

terribili quelli del 1851, del 1857 e l’ultimo del 1930 di cui rimangono ancora segni e rovine.

Vagando per le nove contrade del paese si è sferzati dai famosi “volturni”; i Romani potevano, forse, non avere tutti i torti quando chiamarono in causa questi venti contrari per scagionarsi della disfatta di Canne. Chi, nonostante il gran vento, cammina impavido per le viuzze è il banditore locale:

con cappello militaresco e la sua piccola tromba informa popolo e comune degli avvenimenti del giorno.

Si vive bene a Barile, in un’atmosfera fervida di lavoro e di poesia. La situazione dell’ospite è tra le più invidiabili, si tratta di una ospitalità che non ha nulla di stereotipato perché è spontanea, profonda e sincera; la sua stessa essenza importata secoli fa dai Balcani è rimasta intoccata. Ognuno si occupa dell’invitato, gli cede il letto migliore, si preoccupa se ha troppo freddo o troppo caldo, se la cucina è di suo gusto. Vinta la prima diffidenza, ognuno lo fa entrare nella propria casa, nella casa dei cugini, degli zii, degli amici, vuole che l’ospite conosca tutti e che da tutti sia conosciuto.

Poiché la popolazione è mista di italiani, albanesi e greci, con prevalenza di questi ultimi, nella maggior parte delle chiese di Barile si officiava con rito greco. Dopo il 1627 si cominciò ad officiare con rito latino: la popolazione è molto religiosa, profondamente devota ai suoi Santi che onora con numerose cerimonie in occasione delle varie ricorrenze.

Protettrice del paese è la Madonna di Costantinopoli la cui chiesetta si trova a un chilometro dal paese, sulla rotabile che conduce a Rapolla e a Melfi. In origine l’immagine della venerata Madonna era dipinta sull’intonaco in fondo ad una grotta. La tradizione popolare rammenta che, avendo due uomini scelto quel luogo remoto per giocare a carte, uno di essi, perduta una somma, adirato, colpì con un coltello il dipinto e attonito vide sgorgare dalla ferita gocce di sangue. Allora venne edificata la chiesetta che rimonta al XVII sec. Poiché col tempo l’immagine si era deteriorata, venne dipinta un’altra Madonna ed il quadro fu posto sopra il vecchio dipinto. Circa 50 anni fa, un nuovo prodigio fece sì che la vecchia immagine fosse posta

nuovamente alla venerazione dei fedeli.

In occasione della festa della Madonna che ha luogo il martedì dopo Pasqua, si pratica un’antica costumanza locale che chiamano: “fare il compare della spina”. Consiste nello scegliere un lungo tralcio di rovo dalle siepi vicino alla chiesetta, tale tralcio, ancora sulla pianta, viene mondato dai ramoscelli teneri e spaccato per il lungo fin presso alla cima. Allora mentre un assistente alla cerimonia divarica le due bande del rovo, il compare v’intromette il figlioccio da una parte e gli fa attraversare lo spaccato, la corna-re ritira il fanciullo dall’altro lato. Quindi il compare combacia esattamente le parti distaccate del rovo, girandovi attorno, a spira, la corteccia di altro rovo e lo raccomanda alla protezione della Madonna. Se il ramo si riattacca e vegeta se ne trae buon auspicio pel ragazzo, cattivo, invece, se deperisce e dissecca.

In occasione della ricorrenza di S. Giuseppe si fanno grandi fuochi in mezzo alle strade, il popolo si dispone in circolo intorno a questi “fungarazz” e guarda lo spettacolo facendo scongiuri e cantando canzoni religiose; più tardi la brace, che si ritiene benedetta, viene portata nelle case.

La sera di S. Vito, dopo il ritorno dai campi, gli agricoltori si radunano in piazza dove avviene la benedizione degli animali, delle biade e del pane e la sera di 5. Giovanni si ripete un’altra cerimonia graziosa e interessante:

al vespro gran numero di fanciulli e fanciulle muovono dall’abitato, da più parti risalgono la collina e si recano alla cappella di S. Pietro appena fuori del paese. Vestite dei migliori abiti ed accompagnate da alcuni famigliari, le fanciulle recano tra le braccia delle pupattole ravvolte tra le fasce. Giunte allo spiazzo di S. Pietro scelgono a vicenda il compare e la comare e li invitano a battezzare i loro “neonati”. Allora, in ogni piccolo crocchio, la fanciulla madre, posa dolcemente a terra il suo pargoletto e i due comparelli tenendosi per mano, lo saltano per di sopra tre volte a piè pari, pronunciando la seguente formula in dialetto italiano-albanese.

 

“Pup’ d’ San Giuann’- Battezzam’ sti pann’

Sti pann’ sò bbattezzat’-Tutt’ cumpar’ sim’ chiamat’”

 

La cerimonia e la scena si chiude con una merenda consumata sui prati da ciascun gruppo.

Se in questa occasione la scampagnata è la festa dei piccoli, il giorno dopo la Santa Pasqua vi è la gita in campagna dei grandi. La “Pasquetta” di altre regioni italiane, si chiama qui “vlame” sintesi della frase albanese “sì vla ham” la cui tradizione letterale “come fratelli mangiamo” è bella e significativa.

Ma la cerimonia più importante di tutte è la processione del Venerdì Santo; la prima processione risale a poco più di 150 anni fa e fu importata da un vecchio sagrestano della Chiesa Madre che copiò fedelmente un’usanza di Genzano Lucano. Bisogna dire subito che nel corso degli anni la processione non ripete alla lettera il modello da cui deriva. Tutto il popolo desidera partecipare direttamente alla cerimonia e questo fatto ha portato alla creazione di un buon numero di nuovi personaggi; ma se in questa manifestazione di schietta pietà il Santo Uffizio troverebbe da condannare l’eresia deI poeta e il maestro i solecismi dell’arte, pure la cerimonia, così com’è, con i suoi personaggi, talvolta anacronistici, riesce a commuovere profondamente e durevolmente.

Come ho già accennato fanno parte della Sacra Rappresentazione personaggi storici ed immagini: troviamo figure mai incontrate nei Vangeli e persino la persona del Cristo si è scomposta e ci mostra tre momenti della Passione: il Cristo alla colonna, il Cristo con la canna ed il Cristo con la Croce. Non è raro incontrare accanto ai personaggi di maggior rilievo, altrettanti personaggi in miniatura assai compresi nella loro parte, fatto piuttosto unico nelle rappresentazioni di questo genere. Quelli che impersonano figure di “malvagi” portano occhiali da sole con l’ingenuo significato di apparire diversi dal loro essere abituale.

Già un mese prima della data stabilita per la processione, i principali protagonisti della Passione, iniziano penitenze e digiuni: per la personificazione della Madonna viene scelta una ragazza tra le più belle del paese e le figure dei tre Cristi sono per lo più impersonate da giovani del luogo che mantengono il segreto sulla propria identità e si sottopongono alla prova in cambio di grazie ricevute o desiderate. Nello stesso torno di tempo, verso sera, un centurione a cavallo, gira per il paese e si sofferma a suonare la tromba sotto le case dei vari personaggi; il più delle volte, approfitta del suo incarico per fare la serenata alla fanciulla del proprio cuore.

Il Sacro Corteo inizia con bimbi che recano in mano gli attrezzi della Passione, segue la madre di Giovanni con la brocca e la spugna, la Veronica che, con le mani impiastricciate di farina regge il fazzoletto con cui asciugò il volto del Redentore, indi bambine a lutto: una porta 33 denari, un’altra un galletto, un’altra una camicina. Non mancano la Samaritana con l’anfora sulla spalla, la zingarella e la zingara. Quest’ultimo personaggio, dai capelli lunghi e crespi, è letteralmente carico di ori: tutti i vicini contribuiscono con le proprie gioie affinché la pettorina della zingara sia più ricca possibile. Il costume luccica tra l’ammirazione dei fedeli e i carabinieri, in alta uniforme, scortano la donna e vegliano sul “tesoro comune”. La zingara mantiene un’aria superba, al braccio ha un panierino pieno di chiodi, con martello e tenaglie per crocifiggere Gesù; getta in terra chicchi di granturco in segno di scherno e nel frattempo mangia confetti e ceci serbati nelle cocche del grembiale.

Anche il Moro ed il Morettino, avvolti in un mantello nero, ornato di fiocchi bianchi, penne in testa, collane di coralli, giocano a palla davanti alla Madonna Addolorata.

Ed ecco avanza a piedi nudi, spesso con la neve, la dolorosa figura della Vergine, che è accompagnata da fanciulle vestite a lutto, recanti una piccola croce, una spada e una Sacra Sindone.

Tra i personaggi nuovi figura S. Marta, a seguito della quale, interamente nascosto da un camice, curvo sotto il peso della colonna, faticosamente procede la prima rappresentazione del Cristo; vicino a Lui sono Barabba, Giudici e Giudei.

Similmente vestito ed incappucciato, curvo e con catene ai piedi, segue l’Ecce Homo, il Cristo con la Canna; gli sono a fianco Giudici, Giudei e Ponzio Pilato. Anche Pilato è vestito di bianco, ha una sciabola al fianco, scarpette rosse e tiene aperto in mano, come se leggesse, il libro della legge; accanto gli trotterella Pilatino.

Infine, vestito di bianco, incappucciato e scalzo, passa il Cristo con la Croce: ha in capo la corona di spine, tre volte cade e prega lungo il percorso; lo seguono da presso Caifa, il Cireneo, i Giudei.

Dopo il Cristo con la croce, la figura centrale di tutta la rappresentazione, passa, avvolta in un manto azzurro, la Maddalena, quindi angioletti, bimbi a lutto, la Statua di Gesù morto e quella dell’Addolorata, infine il clero “in nigris”.

Un ultimo personaggio fa parte della processione: è il Malco, colui che schiaffeggiò Gesù. Questa figura è segreta, non ha un posto fisso nel corteo ma vaga qua e là; il Malco, dunque, si può identificare con l’Ebreo errante, colui che ancora vive, condannato fino al dì del Giudizio Universale, a girare di gente in gente, in affannoso viaggio senza sosta, né meta.

Passa la processione, sosta nelle chiese addobbate per il S. Sepolcro, i personaggi baciano la statua del Cristo morto; ma la zingara, il moro, i giudici e i giudei si voltano sdegnosamente a quella vista. Il popolo canta:

 

Sola sulìa,

e senza cumpagnia,

Maria va chiangenn

p’ la via.

Incontra n’ judeo

tutt vestit bianc:

“Che hai Madre Maria”

 

E una lunga suggestiva forma di dialogo che commenta l’azione: il popolo se l’è creata, foggiata a modo suo, la tiene cara, la ripete, la tramanda.

“Tutta la Lucania serba traccia ditali poesie folkloristiche; purtroppo assai pochi sono i documenti scritti che stanno a comprovarle. Si trovano invece canti umbro-abruzzesi simili a queste laudi lucane ed è facile comprenderne il perché; tra Abruzzo e Lucania vi furono sempre rapporti per quanto riguarda la pastorizia, giacché da queste due regioni scendevano in inverno gli armenti ai pascoli del Tavoliere di Puglia e, come dice il Toschi, i pastori sono un poco i poeti, gli artisti, i filosofi dei popoli”. Quello che più sorprende in questi canti è la fusione così intima del sacro col profano; difficilmente si riesce a scorgere dove finiscano la religione e la fede per dare inizio alla magia e ai pregiudizi.

Lo stesso strano accostamento si riscontra di fronte al male fisico e alla sua terapia; ove non giunge il ragionamento, supplisce la fantasia, cosicché accanto alla dottrina e alla scienza sopravvivono credenze antiche, misteriose preghiere, invocazioni, esorcismi, scongiuri e giaculatorie.

È credenza comune, presso quasi tutte le genti di campagna, e, specialmente nel Mezzogiorno, che persone nemiche o invidiose possano praticare la “magia nera” e procurare il “malocchio”. Questa fattura, secondo i Barilesi, si manifesta nell’individuo con forti nevralgie. Viene allora chiamata la fattucchiera che con la lingua tocca la fronte dell’ammalato; se la fronte è salata il malocchio è sicuro. La fattucchiera inizia allora la cura facendo segni di croce e sbadigliando rumorosamente, finché cessa il mal di capo che passa dal fatturato alla medichessa, la quale conosce il sistema per liberarsene.

Altre volte per curarsi dei mali è necessario bere dei decotti: le erbe curative si trovano, tutte, alle pendici del monte Vulture e la più importante è l’erba “marugg” che si prepara la sera e si lascia tutta la notte esposta al sereno, altrimenti non avrebbe efficacia. Pozione amarissima è usata indistintamente per tutti i mali, anche gravi, perché “marugg tutt mal fugg”.

Interessante è la cura dell’itterizia che, dovuta a pigmento biliare in circolo, provoca la colorazione gialla della cute e delle mucose. Questa malattia è generalmente conosciuta col nome di “mal d’arc” (il male dell’arcobaleno) ma si può dire che ogni paesino abbia i suoi rimedi particolari per curarla. Ci racconta il Levi come a Gagliano credano che l’arcobaleno cammini per il cielo e poggi sulla terra i due piedi, muovendoli qua e là per la campagna. Se avviene che i piedi dell’arco calpestino dei panni posti ad asciugare, chi indosserà quei panni, prenderà, attraverso la virtù che vi è stata infusa, i colori dell’arco e si ammalerà. Si dice anche che bisogna guardarsi dall’oninare contro l’arcobaleno. L’autore descrive il metodo di cura di quella località; ma senza spingersi fino ad un paesino in provincia di Matera come Gagliano, per comprendere l’ingenuità ed il semplicismo di queste popolazioni, basterà vedere come lo stesso male sia curato a Brindisi di Montagna, altro paese di origine albanese in provincia di Potenza. Secondo i Brindisini vi è un solo rimedio per guarire dall’itterizia: bisogna invitare nove donne, le nove Marie che tenendo in mano un crivello vuoto, si dispongono intorno al paziente. Le donne girano in circolo e recitano il seguente versetto:

 

Nove Marie sime

e nove crimi avime;

sto male d’arco levamo

e in terra lo jettamo.

 

In così dire una di esse fa cadere in terra il crivello e il ritornello, con l’operazione di getto, viene ripetuto nove volte, quante sono le Marie.

A Barile, invece, per diagnosticare se l’infermo è affetto o meno dal male dell’arco, lo stendono supino per terna. Se la misura presa dalla testa ai piedi non corrisponde a quella dell’apertura delle braccia, il male è certo. Si riempiono allora tre recipienti di orina dell’infermo e si vanno a mettere a tre crocicchi; con ciò il male dovrebbe trasferirsi al primo passante.

Comunque i pregiudizi sono fenomeni umani di psicologia sociale e forse di tutto un mondo morale che richiederebbe un particolare studio, e, per quanto scettici al riguardo, non si può fare a meno di notare come cure empiriche e fiducia nei mezzi magici abbiano una tale forza di suggestione da agire, molte volte, in maniera sorprendentemente propizia.

Quanto ho descritto riguarda il paese di Barile e la zona del Vulture, ma non bisogna pensare che queste notizie siano particolari solo a questa isola di ceppo greco-albanese. Alcuni aspetti e costumi e problemi sono propri del luogo, altri comuni a tutta l’Italia meridionale, altri ancona, ma con diverse manifestazioni, appartengono a paesi vicini. Ciò che ho cercato di dimostrare é come anche un piccolo centro, che, a tutta prima, non presenta motivo di singolare interesse, scopra, ad una meno superficiale indagine, le sue forme di vita, il suo cuore e racchiude, nel suo piccolo, le più vaste questioni che riguardano il Mezzogiorno.

 

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