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Etnografia ed Albanesità
Donato M. Mazzeo
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NOTE DI VIAGGIO TRA GLI ALBANESI DI BASILICATA*   (1985)

 *  scritte da E. Sigalotti.

 

Delle 12 etnie esistenti in Italia, una delle più cospicue è rappresentata dalla Comunità Arbèreshe, cioè degli Albanesi d’Italia. I loro paesi, arroccati, per lo più, su alti monti, si spargono dall’Abruzzo alla Sicilia.

Organizzare un viaggio di studio in questa parte d’Italia, alla ricerca del patrimonio culturale e folkloristico di queste popolazioni, è risultato abbastanza impegnativo ma anche gratificante sul piano dell’esperienza umana e dei risultati.

La nostra attenzione, questa volta, è andata ai cinque Comuni arbèreshe più importanti della Basilicata: Barile, Ginestra e Maschito, nella zona del monte Vulture: San Paolo Albanese e San Costantino Albanese alle falde del Monte Pollino, ai confini con la Calabria.

 

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BARILE

 

Si dice che gli Arbèreshe, venuti in Italia al seguito del condottiero Skanderbeg e per sfuggire alla conquista e alla dominazione dei Turchi, siano stati spesso allontanati dai residenti a causa del loro carattere fiero e rissoso e per la differenza di religione; e che si siano gradualmente ritirati in luoghi di difficile accesso, prendendo talora dimora in caverne naturali. A Barile, il primo paese del nostro itinerario, esistono ancora simili grotte, ora adibite a cantine per l’Aglianico, l’ottimo vino rosso, vigoroso e profumato, che, assieme all’olio di oliva, costituisce la migliore risorsa di questa terra.

Donato Mazzeo, giornalista arbèreshe del luogo, assai conosciuto e stimato, ci guida nel bellissimo borgo vecchio, (lo Sheshe) cui fa da contrappunto una zona nuova, che appare, in più edifici, poco rispettosa del paesaggio e delle tipologie edilizie già esistenti.

Le prime case, costruite in pietra tenuta insieme da un miscuglio di malta e terriccio, hanno il fascino delle cose precarie che sfidano il tempo. E i davanzali in pietra, i portali lavorati e i balconi abbelliti da magnifiche ringhiere in ferro fuso, raffiguranti per lo più intrecci di serpenti o fiori o cornucopie straripanti frutta, ci danno l’immagine di un paese di un’altra epoca e civiltà.

Percorriamo le strade affiancati da persone che cordialmente ci salutano e si informano sul nostro lavoro. Conversiamo, fotografiamo, chiediamo informazioni. Tutti collaborano, merito senz’altro di Donato, che, parlando in albanese, li mette a proprio agio.

Lo zampillio di una Fontana ci ricorda la nostra sete, ma lo sguardo scorre dalla vasca di pietra ai volti mascherati eruttanti acqua fresca, allo stemma del paese anch’esso terminante con un volto mascherato. Si tratta di figurazioni suggestive che richiamano la cultura arbèreshe. Ci dicono che la fontana, detta dello Steccato, un tempo era posta in mezzo alla piazza e bambini e adulti vi si ritrovavano la sera a chiacchierare. Il signorotto del luogo, disturbato dal chiasso, ordinò di spostare la Fontana su un lato della piazza, ove tuttora si trova.

Ma ecco il sacrestano che, chiamato, si presta ad aprirci la chiesa dedicata a S. Rocco e S. Attanasio. In stile barocchetto, essa presenta tre grandi dipinti sul soffitto; in uno si notano, sullo sfondo, il paese di Barile ed il Monte Vulture.

Il tempio è di rito latino e non più greco-bizantino, giacché quest’ultimo, come a Ginestra e a Maschito, è stato soppresso con la violenza nel secolo XVII.

Usciamo al sole e dopo aver dato un’occhiata alla maestosa stele fatta erigere da un Gramshi nel 1713, seguiamo la scia di un dolce profumo di vino. Ci ritroviamo in una piccola cantina. La famiglia Carnevale sta terminando la vendemmia e, con la cordialità tipica di questa gente, ci offre una borsa d’uva e alcune bottiglie di vino aglianico e di spumante. Ringraziamo, commossi da tanta gentilezza.

Ormai scende la sera, ripercorriamo le strade lentamente. Molte di esse sono intitolate a personaggi e località albanesi (via Skanderbeg, via Scuterani, via Majna, via Corone). Numerose persone ci salutano in albanese, soprattutto gli anziani, che sono i naturali depositari della tradizione. Ma una notevole riscoperta dei suoi valori si avverte ora — ci dice Donato — anche tra i giovani, che hanno dato vita, a gruppi di ricerca e folcloristici: hanno ricostruito, per le feste importanti, antichi costumi; e collaborano a giornali locali come “Basilicata-Comunità Anbèreshe”.

Ci vorrebbe, in chiusura, una passeggiata fuori- del paese — dice il nostro amico mai stanco; e suggerisce la zona della chiesa della Madonna di Costantinopoli. Sul prato antistante — ci racconta — quando ricorreva la festa, venivano organizzati giochi e merende, con musiche e balli fino al tramonto. Ora, il prato non c’è più. Il suo posto è stato preso da una grande cava che ha roso la montagna fin dietro la chiesa e un mare di fango ricopre l’erba di un tempo. Ci allontaniamo in fretta, anche perché comincia a cadere una pioggia sottile. Siamo stanchi, forse; ma con qualcosa di più vivo dentro.

La semplicità, la cordialità, la spontanea amicizia e la gentilezza di questa gente ci sprona a continuare il nostro lavoro e, mentre è ormai buio, ripercorriamo la superstrada, non possiamo fare a meno di fermarci a guardare Barile, che, disteso ai piedi del monte, sembra un presepe illuminato. Forse la stessa immagine deve aver convinto Pier Paolo Pasolini a girare, in questo luogo quasi dimenticato, alcune scene del suo film “Il Vangelo secondo Matteo".

 

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GINESTRA

 

Il giorno dopo partiamo per la seconda tappa del nostro itinerario. Dopo un’infinità di curve, ci appare il cartello bilingue: Ginestra/Xhinestra.

Il nome sembra preannunciane maree di fiori gialli ondeggianti al vento ma di reale troviamo solo il vento: forte, pungente, fastidioso.

Il paese è piccolo, tutto in salita ma ben raccolto. Ci incamminiamo piano, senza una meta precisa, osservati con curiosità dalle poche persone, anziane per lo più, che percorrono l’unica ampia strada che attraversa il paese. Ci inoltriamo nel piccolo centro storico. I vicoli, stretti labirinti che si insinuano tra le case vecchie di pietra scura, hanno anche qui una nomenclatura tipica: via Skanderbeg, via Morea, via Schipetani, via Borgo Scutari, via Epino...

La zona vecchia sembra disabitata e i nostri passi risuonano sul lastricato di piccole pietre bianche, disposte a figure geometriche che si snodano armoniose e svelte. Improvvisamente un’ombra si materializza accanto a noi: è un vecchietto arzillo, con tanta voglia di farci da guida. Con lui osserviamo un antico palazzo nobiliare ancora puntellato per il recente terremoto; i portali delle case, alcuni dei quali lavorati; le piccole scale di pietra quasi nascoste da grandi cataste di legna, destinate ben presto a rimpicciolirsi con l’avanzare dell’inverno.

Il paese, ci spiega il nostro amico, è sorto perché la popolazione di Ripacandida, comune confinante che aveva inizialmente accolto i profughi albanesi, stanca delle continue liti e baruffe tra le due etnie, allontanò, nel 1478, gli albanesi, che, rifugiatisi sulle vicine colline, fondarono l’attuale Ginestra.

Dobbiamo ammettere che la storia di questo popolo ha del fascino. Gente fiera, orgogliosa, gelosa della propria identità e cultura, insofferente a costrizioni, tesa a padroneggiare il proprio destino.

Esaurito il breve giro del paese, ci dedichiamo a rintracciare la signora Fiorina Petagine, che ci è stata indicata come preziosa depositaria, nella zona, di un importante patrimonio di canti popolari.

La rintracciamo solo a sera, di ritorno da Maschito.

Ci accoglie come se ci conoscesse da sempre e ci mostra, con fierezza e orgoglio, un grosso album di fotografie che la ritraggono mentre canta o partecipa a manifestazioni folcloristiche. Ci indica, sulle immagini, persone ed abiti, alcuni dei quali ricavati addirittura da antichi copriletti e modellati su quelli tradizionali.

È vivo, nelle sue parole, il senso di un modo di vita di cui lei si sente testimone e custode ma che tende, inesorabilmente, a scomparire, almeno nei paesi del Vultune, lingua, abiti tradizionali, la musica stessa: frammenti della vecchia cultura che galleggiano sul mare di una “nuova” identità che, in mancanza di iniziative e spinte alternative, tende ad uniformansi a quella, indifferenziata, dei paesi vicini non albanesi. Non riusciamo a far cantare la signora Fiorina. Ha un lutto recente ed è anche il giorno dei morti. Inoltre non c’è, né riesce a trovarsi, un locale appartato, al riparo da orecchie malevole, né altri cantoni che l’accompagnino.

Non può offrirci nulla se non dolciumi e liquori, resi più graditi dalla sua affabilità e dalla luce scura dei suoi occhi, vivaci e buoni. Alla fine si scusa e ci abbraccia quasi commossa; una umanità intensa, una presenza umana significativa che vorremmo ritrovare in un’altra occasione.

 

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MASCHITO

 

Da Ginestra ci avviamo a Maschito attraverso distese di vigneti e olivi, boschi ben curati ed altissimi, fila di campi scuri, che a prima vista crediamo bruciati ma che, ad un’osservazione più attenta, si rivelano di terra nera e pietrosa.

Alcune mucche, incuranti della nostra presenza, ci attraversano con calma la strada. Ad un bivio notiamo una lapide alla quale mani pietose hanno deposto fiori. È una lastra metallica scura e rettangolare, con una scritta in vernice bianca a ricordo di contadini morti, nel 1953, combattendo contro il latifondo, per il diritto alla terna e al lavoro. La dedica, semplice e fiera, è delle “loro mogli”.

Scorgiamo già la pianura pugliese e di Maschito neppure l’ombra. Siamo un pò perplessi. Finalmente vediamo un cartello di benvenuto, ma sul cartello nessun nome. Ci informiamo; siamo arrivati a Maschito.

Rintracciamo facilmente Antonio Pescuma, insegnante e animatore culturale arbèresh, che volentieri si presta a farci da guida.

Suggestivo è il centro storico, con la prima casa costruita nel paese (peraltro alterata da interventi successivi), che ci accoglie con l’affabilità della famiglia Scaringella, la cui giovane nipote, Rosa, è vicesindaco ed esponente di rilievo della comunità albanese.

Le ringhiere dei balconi, in ferro fuso, che si affacciano su stretti e tortuosi vicoli; i bui sottopassaggi che sfociano in piccoli spiazzi; le case di grosse pietre scure e le strade lastricate ci ricordano una tipologia edilizia che abbiamo già visto a Barile e Ginestra. Egualmente comune è il particolare che le case vecchie presentano due strati di coppi prima della copertura del tetto. Ci sembra, questo, un espediente decorativo semplice e poco costoso, che poteva essere adottato da chiunque costruisse.

Numerosi i portali in pietra lavorati artisticamente. Alcuni presentano maschere o, cosa più singolare ed inconsueta, volti umani di profilo.

Un busto in pietra scura troneggia sul davanzale di una terrazza coperta: la leggenda vi vuole raffigurato Giorgio Castriota Skanderbeg.

Le chiese, con le guglie orientaleggianti, a cipolla, sembrano interessanti ma dobbiamo accontentarci di guardarle dal di fuori perché chiuse o puntellate per il recente terremoto.

Passando per la via principale, Antonio ci mostra una lapide dettata da Giustino Fortunato per i fratelli Giura, Rosario e Luigi, figli illustri di Maschito.

Anche per l’ora inconsueta — il primo pomeriggio — e il tempo incerto — minaccia di piovere — c’è poca gente in giro. Sono invece numerosi, ad ogni angolo di strada, i cani. E vediamo anche qualche mulo e cavallo di ritorno dal lavoro dei campi.

A contrasto con la tipicità dell’ambiente urbano, che richiama, nel suo nucleo centrale, l’etnia di origine, a Maschito si parla poco la lingua albanese.

Alcuni — ci dice Antonio — non riescono a mettere insieme una frase e la realtà è comunque tale che molti, specie tra i giovani, hanno perso perfino la memoria storica delle proprie origini ed altri stanno perdendola. La responsabilità va soprattutto alla scuola monolingue, all’emigrazione, al pendolarismo, ai mass-media e anche a un processo di modernizzazione unilaterale in atto tra la popolazione.

Ultimamente, comunque — aggiunge Antonio — c’è stata una riscoperta dei valori della tradizione; si sono organizzati corsi di lingua e storia albanese; si è dato vita a gruppi di ricerca e di riproposizione folcloristica; e anche tra i giovani c’è stata una risposta confortante.

Ci accorgiamo che comincia a farsi tardi e poiché dobbiamo tornare a Ginestra a cercare la signora Fiorina, allunghiamo il passo. Non possiamo però non fermarci a guardare, ai piedi di una scala e come fosse stata messa a guardia dei polli che nella gabbia accanto stanno tranquillamente mangiando, una stele di antica origine romana, raffigurante una donna con mantello e colomba, forse proveniente dalla vicina Venosa.

Lasciato alle spalle il borgo secolare, accompagniamo Antonio, che abita nella zona nuova del paese. Ci accoglie la moglie e assieme brindiamo alla nuova amicizia con una bottiglia di Aglianico, vino eccellente, del quale la famiglia Pescuma ci offre un cospicuo ricordo.

 

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SAN PAOLO ALBANESE

 

Non lo vogliamo ammettere, ma l’aver lasciato il Vulture, l’ospitalità dei suoi abitanti ed i nuovi amici, ci ha tolto un pò della nostra iniziale allegria. Il viaggio è lungo e solo a notte arriviamo nella zona del Monte Pollino. Il mattino seguente ci avviamo per San Paolo, il paese più alto della Comunità albanese in Basilicata. Non facciamo altro che salire per chilometri, tutti tornanti e curve strettissime, che ci fanno un pò perdere il panorama meraviglioso dei boschi, splendidamente variopinti di rosso. All’improvviso ecco apparire il paesino: lindo, ordinato, fatto di case basse dalle ripide scale di pietra.

Per quanto un viso forestiero debba essere raro a vedersi in questa stagione, la gente ci rivolge appena uno sguardo, con discrezione e rispetto. Ci sembra di essere tonnati indietro nel tempo. Le donne anziane vestono ancora il costume tradizionale, semplice e decoroso, e portano un fazzoletto bianco annodato al capo.

Tutto si è conservato intatto, in special modo le case, che Angela Camodeca, addetta culturale del Comune, che siamo andati a trovare in Municipio e che abbiamo letteralmente rapita come preziosa accompagnatrice, ci fa attentamente osservare. Alcune sono disabitate, altre in via di restauro e sede futura del Museo della Civiltà Arbèreshe. Sui davanzali, formati da una spessa lastra di pietra nera, vasi di fiori sfidano il vento freddo che si sta alzando.

Notiamo, sulla soglia di una casa, una vispa vecchietta intenta a conversare con il marito. Ci avviciniamo. La donna veste l’abito di tutti i giorni: calze bianche, gonna arricciata, grembiule a fiorellini allegri, un semplice scialletto sulle spalle ed il tipico fazzoletto bianco in testa. Aperta al colloquio, spiritosa e allegra, accondiscende a farci visitare la casa. Mentre il marito, con premura, attizza il fuoco nel camino, ella ci spiega che prima era un’unica stanza, come, del resto, quasi tutte le abitazioni del paese. Ora hanno potuto dividerla e ricavare la camera da letto separata, che ci mostra con orgoglio. Un bellissimo letto in ferro troneggia in una stanza piena di cose umili e varie, quasi a simboleggiare, nello stesso tempo, la povertà e la civiltà di queste persone. La loro gentilezza arriva fino ad invitarci a mangiare un boccone insieme. Purtroppo non possiamo; il tempo, in queste occasioni, ci è nemico; ma promettiamo una prossima bevuta in compagnia. Riprendiamo il nostro giro con Angela che pazientemente ci porta per vicoli i cui nomi arbèreshe ci sono ormai noti. Anche i portali decorati con facce mascherate, stilizzate o realistiche; le ringhiere in ferro fuso a motivi floreali o geometrici; ed i letti delle case con le due decorazioni di coppi, ci sono famigliari. Notiamo però che tutto ha qui un sapone di autenticità più diretto e profondo: sicuramente questi lavori sono più antichi, o comunque meglio conservati, di quelli che abbiamo visto finora altrove.

Ci farebbe piacere vedere e fotografare anche qualche costume di festa, ma, ci dice Angela, per ragioni pratiche (difficoltà di trovare sul momento una ragazza disposta ad indossarlo; complessità della vestizione, che richiede ore) dovremo accontentarci del costume in miniatura che indossano le bambole che una signora di San Paolo veste con bravura e rispetto della verità (i piccoli abiti sono tutti ricamati a mano). Non siamo fortunati. Durante le festività di novembre molti paesani sono assenti e così la nostra signora.

Ulteriore importante tappa è la Biblioteca comunale, che è anche sede provvisoria del museo. L’impiegata ci accompagna al piano superiore e ci mostra numerosi oggetti artigianali un tempo d’uso quotidiano. Riparato da coperte tessute a mano, scopriamo un telaio ancona funzionante; su una madia, un arcolaio per filare la fibra di ginestra; su un rustico tavolino, una grattugia gigantesca; accanto ad essa fanno bella mostra capi di abbigliamento dai delicati ed elaborati ricami. Cose di autentico valore storico e culturale, raccolte grazie all’apporto degli anziani, che rappresentano la parte prevalente della popolazione e che sono gli autentici depositari della tradizione arbèreshe di San Paolo. L’iniziativa del Museo, e numerose altre analoghe assunte dall’Amministrazione Comunale, contribuiscono a sensibilizzare Autorità ed opinione pubblica sui problemi del piccolo paese, che ha una vita economica stentata e che tende a spopolarsi.

Con Angela ritorniamo sui nostri passi, prendendo accordi per una nuova visita in serata, tempo permettendo. Quando, nel primo pomeriggio, ripercorriamo la salita che porta a San Paolo, una pioggia gelida ed insistente batte i vetri della macchina e siamo indecisi se proseguire. A farci decidere è anche lo spettacolo che ci si presenta dietro una curva, di una donna che cammina davanti a noi a fatica, con un pesante sacco sulle spalle. Non possiamo non fermarci per darle un passaggio. Si chiama Rosina ed i lineamenti e l’accento denotano nettamente l’origine albanese. Il sacco che ha con sé è pieno di ghiande. Abita in cima al paese e, arrivati, insiste perché entriamo a prendere qualcosa di caldo. Ci racconta di sé, della famiglia (il marito è barbiere a Noepoli, il figlio disoccupato), del suo mestiere duro di bracciante agricola, delle sue angustie e speranze. E ci mostra i suoi lavori all’uncinetto, elaborazioni pazienti e preziose ditemi decorativi antichi ed eleganti. Ci è grata per averle dato un passaggio; ci sente amici, vicini e solidali, come se tra noi il diaframma dell’estraneità si fosse rotto per sempre; e prima di salutarci ci regala alcuni dei suoi lavori; ed esige, con commovente cordialità, la promessa di scrivenle e di tornare a trovarla.

Termina così la nostra visita a San Paolo.

 

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SAN COSTANTINO ALBANESE

 

San Costantino è l’ultimo paese arbèreshe della Basilicata che visitiamo. A differenza di San Paolo, dal quale lo dividono il fiume Sarmento dall’ampio greto e folti boschi di castagni, San Costantino ci appare come un discreto centro non privo di un cento sviluppo, almeno edilizio.

Incontriamo il sindaco nel nuovo Municipio, alle soglie del paese. Nicola Chiaffitella ci parla della sua comunità, ne espone i problemi che sono, in sostanza, gli stessi che affliggono le zone limitrofe: vita economica asfittica, agricoltura di pura sussistenza, emigrazione, disoccupazione giovanile. Il diminuire della popolazione attiva residente rende problematico, in prospettiva, anche il mantenimento degli usi e costumi arbèreshe che pure qui, come a San Paolo, sono saldamente radicati. Una lingua e una civiltà vivono nel tempo se la comunità prospera, se i suoi membri non sono costretti a lasciarla e ad integrarsi altrove. Il Comune punta soprattutto sul progetto di Parco Nazionale del Monte Pollino, come occasione non solo di salvaguardia della bellezza dei luoghi ma anche di crescita economica e sociale, con la razionale utilizzazione delle risorse naturali. E c’è un’interessante linea di lotta comune con i paesi del versante calabrese del Pollino, con i quali si vorrebbe creare un’unica Comunità Montana, sopra le divisioni regionali.

Nel salutarci, il sindaco mette a nostra disposizione, per una visita guidata al paese, due ragazzi, Claudio e Lorenzo, che ci conducono, dalla piazza principale, nei suggestivi vicoli del centro storico e in altre piazzette nascoste e silenziose, lastricate a grosse pietre, dove, nel passato, si svolgeva gran parte della vita sociale del vicinato, si conversava, si faceva musica, si ballava.

La vecchietta che riposa seduta sulla soglia di casa non teme il freddo nèlla sua camicetta bianca dai delicati pizzi ma è restia a farsi fotografare. La lingua natìa, che Lorenzo usa con naturalezza, la convince ad accettare; e finisce per salutarci sorridendo.

Un piccolo camino che emerge dalla parete di una casa attira la nostra attenzione. Fa parte di un forno pensile esterno, spesso usato nelle abitazioni più antiche, per comprensibili ragioni di spazio. Siamo curiosi di vedere anche l’interno della casa, ora disabitata. Lorenzo, che conosce la padrona, fa in modo che essa soddisfi la nostra curiosità. È un unico ampio locale dove c’è da un lato il forno con il curioso camino e dall’altro la cucina annerita. Tutta la vita della famiglia si svolgeva in questo ambiente, che era allora affollato di mobili e masserizie ed ospita ora solo un polveroso tavolo e qualche seggiola sconnessa. Ma c’è anche un mobile importante, che la padrona ci mostra con orgoglio: un bauletto di antica fattura, costruito in legno rivestito di una banda metallica finemente lavorata; le era servito, tra le altre cose, per riporvi parte del corredo di sposa.

Chiediamo di poter fotografare dei costumi femminili, che sappiamo bellissimi, e di poter registrare delle musiche e canzoni arbéreshe.

La nostra richiesta viene accolta da alcuni componenti del gruppo folcloristico “Vèllamja”, che si è costituito da alcuni anni ed è composto da circa trenta elementi, tutti giovani, che ripropongono, con passione filologica ma anche con spirito e sensibilità moderni, canti e danze della loro etnia. C’è in questi ragazzi, in gran parte studenti ma anche diplomati e laureati, per lo più in cerca di lavoro, l’orgoglio della loro specificità arbèreshe, la consapevolezza dell’importanza di custodire amorosamente le proprie radici, di farle durare nel tempo e di diffonderle come un elemento prezioso della cultura popolare del nostro paese.

Due ragazze, Maristella Ferrara e Rossella Ciminelli, si offrono di indossare i costumi con i quali si esibiscono negli spettacoli del gruppo. Ma pioviggina e sembra che l’umidità eccessiva non consenta di stirar bene i delicati pizzi che adornano i vestiti. Cominciamo a disperare ma nel pomeriggio un pallido sole filtra ad illuminare le pareti scure delle case. La vestizione quindi è possibile. Dura più di un’ora ma la nostra attesa è davvero ripagata.

Quando Maristella e Rossella, che abbiamo visto prima in pantaloni e maglione, ci appaiono davanti in costume arbèreshe, un’emozione intensa ci coglie. Restiamo incantati dallo splendore dei vestiti, dalla loro smagliante bellezza di linee, colori, elaborati ricami. È come se la parte più festosa e bella di una civiltà trascorsa ci si presentasse davanti, corposa e miracolosamente viva.

Uno dei vestiti è molto antico e tessuto con filato di ginestra, come era uso un tempo tra la popolazione albanese. La gonna rossa arricciata è abbellita da fasce orizzontali ricamate. Una cintura riccamente lavorata e un corto giacchetto, ricamato a motivi animali e floreali, ferma la camicetta candida dai fantasiosi pizzi fatti a mano. Un grazioso cappellino, che si apre a ventaglio dietro la nuca ed è tenuto fermo sul davanti da due spilloni argentati, dà il tocco finale a questo vestito da festa.

L’altro, da sposa, confezionato in tempi più recenti, ha fattezze analoghe, ma la gonna è meno ricca e lavorata più semplicemente.

Tornate, con nostro rammarico, in abiti moderni, Maristella e Rossella si uniscono ad altri tre componenti del coro, tra cui il nostro accompagnatore Lorenzo, e all’animatrice del gruppo, la giovane insegnante Anna D’Amato, che ci ospita tutti nella sua casa. Eseguono canti rituali, di matrimonio e di feste cicliche, e canzoni popolari arbéreshe, melodie tenere o allegre o nostalgiche. Per quanto la lingua ci risulti poco comprensibile, restiamo coinvolti dal potere evocatore della musica, dal clima che le voci e gli arpeggi delle chitarre suscitano. È il canto di un popolo esule ma anche vitale e ottimista. Vorremmo trattenerci ancora ma ormai s’è fatta notte e purtroppo il viaggio di ritorno è lungo. Dobbiamo quindi partire. Lasciamo i nostri nuovi amici ma portiamo con noi il ricordo di queste giornate. Ed è confortante aver constatato che, alle falde del Monte Pollino, la cultura e la civiltà arbèreshe sono patrimonio non solo degli anziani ma anche dei giovani, dei ragazzi, come una pianta salda che continua a mettere nuovi germogli accanto ai rami vecchi. Concludiamo con un arrivederci, per un approfondimento della nostra documentazione. Noi lo desideriamo e i nostri amici arbèreshe lo meritano.

 

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