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Ceneri di Civiltà Contadina in Basilicata
GIUSEPPE NICOLA MOLFESE

CETI SOCIALI

I paesi della Lucania, generalmente situati ad una certa distanza tra loro, ospitavano ed ospitano comunità simili per usi e costumi.
La differenza di classe, mentre nei grandi centri, nelle città, non era facilmente individuabile, nei piccoli centri, al contrario, era molto sentita in ogni quotidiana manifestazione della vita.
La distinzione dei ceti sociali era poi particolarmente tenuta in considerazione nel matrimonio, dal momento che, di regola, non era consentito ad una persona appartenente al ceto « basso » contrarre matrimonio con persona di ceto « più elevato ».
Costituiva scandalo la violazione della regola di contrarre matrimonio se non « tra pari ».
Non sono pochi í casi in cui famiglie hanno « ripudiato » i propri figli perché, contro la volontà dell'intero parentado, avevano contratto matrimonio con un « cafone », dal momento che con il matrimonio generalmente si doveva « salire il gradino e non scenderlo » (tutto ciò in senso metaforico e riferito al censo ed alla classe sociale).
Costituiva la diminuizione (o la perdita) della « condizione », dello « status », unirsi in matrimonio con persona appartenente ad una famiglia di condizione inferiore.
La condizione sociale veniva fra l'altro individuata da come il figlio chiamava il padre. Il figlio del « cafone » chiamava il padre « tatto » mentre il figlio del « galantuomo » lo chiamava « papà ». Sono tuttora memore del disagio in cui si trovavano coloro i quali, abituati a chiamare il padre « tatt », una volta raggiunte diverse condizioni economiche e sociali non potevano più convenientemente perseverare a chiamare il padre « tatt ».
La differenza di classe e di censo quindi si poteva avvertire in ogni manifestazione quotidiana della vita ed era ancora più rimarcata da coloro che, per eventi a loro favorevoli, erano diventati ricchi: questi esercitavano nel loro ambito un'azione di potere.
Ciò accadeva specie per il « cafone » (1) arricchito che, raggiunto un certo censo, godeva di piccole soddisfazioni che ostentava e faceva « pesare » alla restante popolazione rimasta « cafone ».
Nei confronti dei « galantuomini » il « cafone » arricchito, anche se alla pari per censo, occupava nella classe sociale un gradino inferiore, per cui doveva o mostrava di dovere ai primi rispetto che durava sino a quando il « galantuomo » non fosse ridotto in miseria.
Nella divisione dei ceti sociali all'apice infatti vi erano i « galantuomini », in genere proprietari di una estensione di terreno piuttosto grande (senza che questa potesse costituire latifondo) di provenienza a volte postfeudale, a volte legata ad eventi favorevoli.
I « galantuomini » si distinguevano tra:
« galantuommene de chiù sciammereche » (2),
« galantuommene de prime sciammereche » e
« galantuommene de mezze sciammereche ».
Sono « galantuomini di più sciammeriche » coloro che da più generazioni sono stati considerati tali sia per i beni posseduti e sia per il prestigio di cui godevano i componenti della famiglia.
Sono « galantuomini di prima sciammerica » coloro che sono stati introdotti nel rango dei « galantuomini » da una sola generazione o di recente.
Sono « galantuomini di mezza sciammerica » coloro i quali sono riusciti ad elevarsi da « cafone » a « galantuomo » solo dal punto di vista economico e patrimoniale.
I « galantuomini » abitavano in case decorose ornate con un certo sfarzo anche se modesto, accuditi da un certo numero di domestiche e servitori (mulattieri, uomini di fatica, ecc.).
Il nome di battesimo dei componenti la famiglia del « galantuomo » era sempre preceduto dal « Don » che costituiva pubblico e spontaneo riconoscimento di appartenenza ad un grado sociale e di classe di primo piano nella comunità paesana.
Tale « privilegio », che si tramandava da più generazioni, veniva attribuito ai « galantuomini » , ai professionisti, agli impiegati statali o comunali di un certo livello purché figli di « galantuomini », ai maestri elementari. La selezione che operava il popolo nella concessione del « Don » era molto severa per cui mai accadeva che si desse il « Don » a chi non fosse in grado e degno di riceverlo.
« Galantuomini » e « cafoni » indistintamente venivano individuati prima con il nome di battesimo e poi con il soprannome che poteva essere patronimico o matronimico o poteva anche riferirsi al mestiere o a qualche difetto fisico o ad aneddoto o ad altro.
Il lavoro del « galantuomo » consisteva soltanto nell'amministrare i propri beni, nel difendere la proprietà, nel curare i cani, utilissimi all'esercizio della caccia in cui era impegnato tutti i giorni della settimana.
Vi erano poi dei « galantuomini » professionisti i quali esercitavano la loro professione non tralasciando, naturalmente, gli svaghi cui erano dediti gli altri « galantuomini ».
La caccia era la determinante occupazione del « galantuomo », il quale custodiva di persona i cani e preparava i fucili che erano ad avancarica e poi successivamente a retrocarica (3) .
La selvaggina era numerosa e varia; in tempi molto remoti vi erano anche cervi, caprioli. I cinghiali (ricordo personalmente il ritorno dei cacciatori dall'ultima battuta al cinghiale, avvenuta dopo la fine dell'ultima guerra, durante il quale vidi portare a dorso di muli tre o quattro cinghiali), le lepri, le pernici e le beccacce sono scomparsi di recente.
Ogni cacciatore portava con sé cani e « bacchettieri » ossia battitori (4); aveva un proprio seguito più o meno numeroso, secondo il censo ed il prestigio.
I « galantuomini » si ospitavano a vicenda nelle proprie masserie e si recavano anche nelle masserie dei « galantuomini » dei paesi limitrofi, scambiandosi, naturalmente, cortesie ed ospitalità.
E’ il caso di notare che a tavola si rispettava la separazione delle classi: alla tavola dei « galantuomini » sedevano soltanto « galantuomini », alle restanti tavole sedevano gli artigiani, i massari e poi i « cafoni ».
Questa usanza classista aveva luogo non solo durante la caccia, ma in tutte le manifestazioni in cui si trovavano insieme persone di rango diverso. In alcuni casi era interdetto alle donne di sedersi a tavola con gli uomini.
Alle donne appartenenti alla famiglia del « galantuomo » non era permesso uscire da sole; dovevano essere sempre accompagnate dalla cameriera o da altre donne di compagnia.
Seguiva nella « gerarchia » sociale la classe dei commercianti che, indipendentemente dal loro censo, non venivano considerati « galantuomini », poi c'erano gli agricoltori, detti « massari » (5), ed infine gli artigiani, chiamati anche « maestri ».
Vi erano poi i coloni o mezzadri modesti, gli affittuari di piccoli fondi, i contadini in proprio, i braccianti, i salariati fissi, i pastori. Tutti gli appartenenti a queste categorie costituivano l'ultimo ceto sociale: « i cafoni ».
A quest'ultimo ceto sociale, il più negletto nei secoli scorsi, rivolgerò la mia attenzione adoperandomi di descriverne le usanze, i costumi, il sistema di coltivazione dei campi, l'allevamento del bestiame, le feste tradizionali e le pratiche magiche, in definitiva la vita quotidiana, così come ho avuto occasione di osservarla sino a quando ho lasciato il mio paese d'origine per continuare in Roma il mio lavoro.
È opportuno notare che profonde modificazioni si sono avute in questa società paesana dall'inizio del secolo con il verificarsi del fenomeno dell'emigrazione prevalentemente verso le Americhe (specie tra la prima e la seconda guerra mondiale) e con il notevole progresso che si è avuto in seguito alla costruzione di strade di comunicazione, le quali hanno favorito gli scambi con i paesi limitrofi e con i grandi centri Potenza, Matera, Napoli, Taranto.
Prima d'allora, per poter raggiungere l'altra sponda dell'Agri, fiume che bagna il mio paese, bisognava attraversarlo a dorso di cavalcatura, rischiando molte volte di morire annegati dal momento che d'inverno, con le piene, l'alveo del fiume si allargava e si approfondiva.
Ricordo sin da quando ero bambino che i vecchi del mio paese narravano i tragici episodi avvenuti prima della costruzione del ponte sull'Agri, che costituì un evento straordinario, non soltanto per il mio paese ma anche per quelli che gravitano nella valle omonima.
Le migliorate condizioni di viabilità incrementarono il commercio (scambio di prodotti e di idee) e soprattutto favorirono i contatti umani, che determinarono un notevole sviluppo dopo la seconda guerra mondiale.
Ci fu così una ventata di idee nuove, le quali migliorarono le condizioni sociali ed economiche dei contadini che, comunque, a tutt'oggi non hanno raggiunto una « condizione » veramente civile.
L'auspicio è che le classi povere possano, entro breve termine, godere di quei vantaggi essenziali e non che godono oggi i popoli progrediti (6). E’ una speranza ed una esortazione.
Riterrò compensato questo mio lavoro quando saprò che il più umile dei contadini del mio paese avrà un lavoro ben retribuito, una casa decorosa e una assistenza sanitaria e sociale in gioventù e in vecchiaia, e condurrà una vita simile a quella che già conducono i popoli più progrediti.
Il contadino solo così potrà forse dimenticare la indecorosa miseria, il dolore, le rinunzie, l'umiliazione sofferta da lui stesso oltre che dai suoi avi.

NOTE

1) Vi sono stati diversi tentativi per cercare di trovare l'etimologia o la genesi della parola « cafone ». Io non sono d'accordo con coloro i quali attribuiscono alla parola « cafone » la derivazione dall'etimo « ca fune » (con la fune) anche se numerosi sono gli aneddoti che si raccontano per rendere valida detta etimologia; non mi sembrano attendibili altre etimologie. Io credo invece che la parola « cafone » derivi da « cafare la terra », quindi da « cafa terra ». Per abbreviazione al « caf » si è aggiunto il suffisso « one » che, come è noto, è un suffisso accrescitivo (a volte dispregiativo) di aggettivi, per lo più di sostantivati e di sostantivi; quindi da « cafa terra » per abbreviazione si è pervenuti, nel secolo scorso, alla parola « cafone » che significa « zappa terra ».
2) Sciammereca = giamberga, nome popolare dell'abito maschile a lunghe falde; dallo spagnolo chamberga usato come attributo di una casacca introdotta in Spagna dal generale F. A. di Shomberg (1650).
Aggiungiamo altresì che sciammereca ha assunto il significato di compimento di atto sessuale. In gergo si dice: « io mi sono fatto una sciammereca con la signora tizia ».
3) I primi anni del secolo scorso costituì fatto eccezionale l'acquisto, da parte di un « galantuomo » di un fucile Damasco calibro 16 a retrocarica con canne attorcigliate, caratteristica questa che rendeva quasi impossibile lo scoppio anche se si fosse raddoppiata o triplicata la carica di polvere.
L'unica arma del « cafone » era la zappa mediante la quale difendeva la sua maggiore miseria e difendeva il possesso del padrone.
4) Dall'uso continuo di usare la bacchetta per caricare i fucili e le pistole avancarica. I bacchettieri aiutavano i cani nello scovare selvaggina nel folto di un bosco.
5) In quanto conduttori di masseria.
6) Tale concetto è stabilito dall'art. 3 capoverso della Costituzione della Repubblica Italiana.

 
L'EMIGRAZIONE

Posso ben comprendere il dramma degli emigrati essendo stato anch'io, sin dall'età di dieci anni, costretto ad allontanarmi dal mio paese d'origine per recarmi altrove per iniziare la scuola media. Ho vissuto le amarezze degli emigranti a Pavia, nel periodo in cui ho frequentato l'Università tra la fine degli anni cinquanta e i primi degli anni sessanta.
Se il mio è stato un dramma, quello dei miei compaesani, dei Lucani e di tutti coloro che hanno dovuto abbandonare la loro terra per trovare lavoro all'estero, senza esagerare, può definirsi « tragedia ».
Il simbolo, o l'inizio della « tragedia », è il famoso passaporto rosso, mediante il quale emigrarono, a caro prezzo (1), una miriade di italiani, lucani in particolare.
L'incremento demografico eccessivo rispetto alla disponibilità delle risorse, lo scontro sociale tra proprietari terrieri e contadini, i quali rivendicavano le terre demaniali (2), la miseria endemica ed altre cause, numerose ma che non intendo specificare in questa sede, costituirono l'impulso dell'emigrazione (3).
I proprietari terrieri erano profondamente contrari all'emigrazione perché sottraeva le braccia al lavoro della terra determinando un notevole rialzo del costo del lavoro; infatti l'Onorevole Antonibon, riportando il contenuto di una lettera di emigranti (12 2 1880) alla Camera, ripeteva, volendo sottolineare l'insuccesso della emigrazione contadina nelle Americhe: « Siamo peggio dei cani legati alla catena. Dite al padrone che sarei più felice in Italia nel suo porcile che in una reggia in America ».
Naturalmente questo era il frutto di una politica di parte settaria; anche se tale, ha messo in luce la grande miseria. L'emigrazione aveva salvato il meridione da tumulti, brigantaggio, vendita di bambini e aveva trasferito dette miserie in altro continente. Il dolore dell'emigrante iniziava con la partenza, lasciava un dolore per andare incontro ad un altro dolore.
Gli emigranti partivano stipati su carri ferroviari, dopo lunghissime attese ai porti di Napoli e di Genova, dove a volte erano costretti a sostare per molti giorni prima della partenza. La maggior parte delle volte dette attese erano preordínate dagli agenti di viaggio per far guadagnare albergatori ed osti: costoro setacciavano il più recondito angolo dell'Italia Meridionale per reclutare emigranti e riempire in modo smisurato le stive delle navi.
La prima legge sull'emigrazione, che fu una legge di Polizia non di tutela dell'emigrante, fu quella di Francesco Crispi. In questa atmosfera si levò la voce di un ecclesiastico, Mons. G. B. Scalabrini, il quale perorò la causa degli emigranti sino a quando nel 1901 fu promulgata una legge organica per la tutela dell'emigrazione. Dai porti italiani non solo Italiani partivano ma miseri Polacchi, Ungheresi, Ebrei, una marea di gente affranta dal dolore e dalla miseria.
Le navi erano stracariche; gli esseri umani s'accampavano sulla tolda delle navi e solo in caso di tempesta scendevano nelle stive o sottocoperta senza aria e senza luce.
Il cibo veniva distribuito in modo indecoroso e senza alcuna garanzia di igiene; gli emigranti mangiavano più o meno come possono mangiare oggi le bestie. In queste condizioni parlare di igiene era assurdo e frequenti erano i casi di malattie infettive a bordo. Gli emigranti arrivavano nella città che avrebbe dovuto ospitarli defedati e ridotti in cattivo stato di salute e inadatti ad esercitare qualsiasi lavoro.
Molti emigranti dopo un certo periodo di soggiorno, per tutta una serie di motivi, desideravano ritornare in patria. Per questo venivano chiamati « Byrds of passage » che significa « uccelli di passaggio », oppure « goloundrinas » che significa « rondine ».
Ritornavano con qualche soldo che sarebbe dovuto servire per realizzare qualche loro sogno (casa o terreno). Il Lucano, se lascia il proprio paese, ha sempre intenzione di ritornarvi con la speranza di acquistare la casa o il campicello che ha sognato partendo e che, certamente, per conto del proprietario ha lavorato faticosamente.
A volte il ritorno era coatto; ciò accadeva quando malati e inabili, per malattie contratte a causa di faticosi lavori, venivano rimpatriati così come venivano rimpatriati i delinquenti pericolosi.
Gli emigranti italiani, ed in particolare quelli dell'Italia Meridionale, erano i meno intellettualmente preparati, analfabeti; dopo gli Italiani, nei primi anni dell'emigrazione venivano i Russi, i Greci, i Bulgari e gli altri popoli della Balcania.
Fu promulgata il 4 giugno 1911 la legge n. 487 sull'istruzione al fine di evitare che fosse così eclatante la inferiorità culturale dei nostri connazionali.
I nostri emigranti, ed i lucani in particolare, sono stati fonte di ricchezza nel passato e lo sono nel presente per i paesi che li hanno ospitati, per laboriosità, intelligenza e per intuito che, dell'ingegno, è la più tangibile manifestazione.
Il Lucano in genere è scontroso, un po' appartato, schivo di mettersi in mostra, modesto, umile ed orgoglioso, desideroso di lavorare e di apprendere. L'unica ricchezza che portava con sé era la forza delle braccia e l'intelligenza. E questo chiedeva in particolare la società americana, la quale affidava agli emigranti incolti e senza mestiere lavori pesanti e negletti dagli altri. La loro attività di agricoltori, di contadini veniva abbandonata per fare qualsiasi genere di lavoro, per guadagnare subito e mandare il dollaro o la pesetas alla famiglia lontana.
Tutte le opere maggiori dell'America del Nord e del Sud sono state realizzate per l'umile opera degli emigranti, sempre disprezzati per la loro lingua, il loro accento e l'ignoranza. Spesso, pur di guadagnare di più, accettavano lavori faticosi e in condizioni di vita molto dura. Sacrificavano la propria esistenza ed il riposo addensandosi in baracche gremite di persone, nei vagoni ferroviari abbandonati o abitavano in quella « Little Italy » famigerata per miseria negli anni del grande esodo verso l'America del Nord.
L'emigrante aveva l'ossessione del risparmio; talvolta gli faceva venir meno anche quel pudore custodito nel paese natio. All'estero era costretto a vivere in promiscuità, senza distinzione di sesso e di età, con conseguenze deleterie per la salute psichica e morale.
L'emigrante lucano, schivo di ogni contatto con operai o emigranti di altre nazionalità, si racchiudeva nella cerchia dei suoi « paesani » dove poteva trovare conforto ed aiuto, consigli e proposte di lavoro. Non possiamo tacere che la Nazione ha tratto profitto dalle rimesse degli emigranti in ogni epoca ed anche di recente.
Il Lucano ha portato sempre con sé la fede religiosa (4) e tradizionale, la superstizione e tutto ciò che costituiva modo di vivere del suo paese che in una parola sintetizziamo come « folklore ».
È con orgoglio che desidero accennare ad un emigrante, anzi ad un figlio di emigranti di Sant'Arcangelo, l'unico italo americano eletto al Senato degli Stati Uniti. E’ Johnn Pastore, nato a Rhode Island, dove abita, a circa tre ore da Nuova York (5) e molto vicina a Providence di cui ne subisce l'influenza.
Il Rhode Island ha una lunga e complicata storia: per molti decenni rifiutò di aderire agli Stati Uniti, perché favoriva la massima libertà religiosa. Si trova in una zona dove vivono ricche famiglie di antica tradizione inglese tanto che è chiamato « Nuova Inghilterra ». Il potere è sfuggito ai yankees, ai discendenti dei coloni inglesi, passando gradatamente nelle mani degli immigrati italo americani.
Il padre di johnn Pastore era di Sant'Arcangelo, la madre di Teano. Sbarcarono in America tra la fine del secolo scorso ed i primi di questo secolo. Padre e madre lavoravano come sarti: questo è ancora uno dei mestieri più diffusi tra gli emigrati italiani sulla costa atlantica.
Il senatore Pastore da ragazzo ha fatto l'operaio in un laboratorio di orificeria e successivamente si è laureato in legge ed ha fatto l'avvocato. A trent'anni è diventato Governatore del suo Stato: il primo italo americano che ha raggiunto questa grande carica. Nel 1950 a quarantadue anni è stato eletto senatore.
I Senatori sono l'aristocrazia parlamentare degli Stati Uniti: due per ogni Stato, novantasei in tutto. Hanno una grande autorità, un forte prestigio e l'esercitano attraverso la partecipazione ai Comitati che investigano e controllano l'attività pubblica (Pastore nel 1958 faceva parte della più importante: il controllo dell'energia atomica).
Il Senatore Pastore è forse del tutto ignorato a Sant'Arcangelo e in Basilicata. Molti altri nostri concittadini hanno onorato il nostro Paese in Italia e nel mondo ma sono stati presto dimenticati nel nostro paese.

NOTE

1) Il passaporto rosso nel 1901 costava 2 lire, successivamente salì ad 8 lire. Con questi soldi il Governo si proponeva di costruire asili per gli emigranti, si riprometteva altresì di dare assistenza e tutela all'estero. (L'altra Italia Storia fotografica della grande emigrazione Italiana nelle Americhe [ 1880 1915] ).
2) Il brigantaggio meridionale degli anni successivi al 1860, oltre agli aspetti politici ed economici, è stato causato dalla lotta tra proprietari terrieri e contadini per il possesso di terre demaniali.
3) Non conosciamo nei dettagli il fenomeno dell'emigrazione dopo l'ultima guerra, quanto riportato si riferisce al periodo che va dalla fine dell’800 alla seconda guerra mondiale. II fenomeno migratorio italiano incominciò ad essere considerevole dopo il 1860 e assunse vaste proporzioni nel 1867; in questo anno l'emigrazione iniziò a dirigersi verso i paesi stranieri, specialmente nei paesi del Sud America che hanno favorito, mediante la loro politica, l'emigrazione anche in altri paesi. Con il 1876 l'emigrazione assunse notevole sviluppo, tanto da richiamare l'attenzione di politici e studiosi.
4) Sono note negli Stati Uniti le processioni e le feste religiose guidate e organizzate dai missionari scalabriniani i quali crearono una serie di Parrocchie e di Comunità Religiose. Monsignor Scalabrini, Vescovo di Piacenza, fondò nel 1887 una congregazione di missionari con il proposito di portar aiuto e conforto agli emigranti italiani in America.
5) Corriere della Sera 6/3/1958: « Quelli che han fatto strada », di Domenico Bartoli.
 

ZONE AGRICOLE E URBANE

Il territorio di Sant'Arcangelo si può dividere (se si può parlare di divisione in quanto non è assoluto il criterio adottato ma ha soltanto carattere indicativo) in tre zone: una pianeggiante, una collinare e una montana. La maggior parte delle terre che compongono il territorio erano coperte di boschi che nei secoli sono stati, buona parte, tagliati in modo inconsulto (1).
Attualmente, nella parte pianeggiante, le culture sono a grano e in genere cereo agricole o erbacee o arboree (ulivo ed anche vite).
In questa zona, poi, la parte che confina con il fiume è tutta destinata alla cultura di ortaggi e frutteti; sono terreni irrigui situati sotto il livello del fiume chiamati in dialetto ische (2). In alcune parti riparate dal vento e dalla tramontana vengono piantati e coltivati anche gli agrumi.
Nelle zone collinari scarseggia la vite ma i terreni vengono adibiti a seminativi, oliveti e pascolo. Nella zona di montagna, anch'essa dedicata soltanto a seminativo e pascolo, i prodotti della terra sono scarsissimi in quanto i rigori del freddo e l'accidentalità del suolo non permettono raccolti convenienti sia per quantità che per qualità dei prodotti.
Come altrove avremo occasione di dire, la proprietà fondiaria è molto frazionata; la maggior parte dei contadini ha un pezzo di terra che gli proviene dalle quotazioni demaniali operate nel secolo scorso o a causa di frazionamenti in seguito a divisioni ereditarie. In genere il genitore dona al figlio uno o più pezzi di terra in occasione del matrimonio.
Gli appezzamenti di terra di cui sopra vengono coltivati direttamente e, se in quantità insufficiente al sostentamento della famiglia, ne vengono presi altri in fitto o a mezzadria.
Il bestiame, generalmente ovino e caprino, è allevato o direttamente, con l'aiuto di pastori salariati, o in partecipazione, mediante contratto di soccida o più ancora di pedatico (contratti questi tutt'ora esistenti). L'erbaggio sia vernotico che statonico, qualora i pascoli siano insufficienti per il mantenimento delle mandrie, viene preso in locazione per un tempo di circa sei mesi e generalmente viene corrisposto un fitto, parte in moneta e parte in natura.
Ogni proprietario, e specie il contadino, è legato non solo economicamente ma soprattutto sentimentalmente al suo « fazzoletto » di terra, quindi non è disposto a cedere ad altri appezzamenti di una certa estensione; non si può quindi parlare di piccola proprietà coltivatrice, né di latifondo ma di media proprietà, tanto è vero che nella zona di Sant'Arcangelo all'epoca della riforma non ha operato l'Ente di Riforma Fondiaria. Molti proprietari hanno il possesso di questi terreni da secoli, derivanti o dalla feudalità o da vecchie censuazioni o dall'acquisto di beni ecclesiastici avvenuti nei secoli passati. Alcuni sino a qualche decennio fa pagavano un canone enfiteutico alla Chiesa o alle Cappelle, altri invece, arricchiti per varie ragioni, hanno costituito un patrimonio in epoca molto recente. Vi è notevole frazíonamento di terreno disposto a volte in località diverse del tenimento, determinando, ovviamente, per il possessore un inutile dispendio di energia per raggiungere il campo.
Le terre sono scarsamente produttive ed in tanto danno quel poco di frutto in quanto il contadino vi dedica tutte le sue energie, la sua vita.
Per sopperire alla scarsa produttività si rende necessaria una rotazione agraria che si compie generalmente nell'arco di tre anni.
Le terre sono molto franose in quanto per lo più formate da argilla. Dove una volta vi era bosco ora è nuda terra cosparsa da qualche raro albero rimasto per far ombra al contadino d'estate. Il terreno argilloso, imbevuto di acqua durante le piogge, provoca continui smottamenti sui terreni circostanti e sottostanti determinando così le frane. Molto di frequente l'enorme massa di terreno che si sposta travolge terreni coltivati, alberi, case, strade, rovinando persino paesi interi (verso la metà o la fine del Seicento una frana a Pisticci uccise circa cinquecento persone; Campomaggiore fu distrutto completamente dalla frana). Nel mese di aprile del 1902 in Sant'Arcangelo alla contrada Piazzolla sono crollate più di 50 case e la Chiesa di S. Maria degli Angeli (3).
Nel 1904 il Governo Giolitti approvò (legge 31 marzo 1904 n. 140 G.U. 20 4 1904, n. 93) provvedimenti speciali a favore della Basilicata, cioè una legge la quale prevedeva il vincolo forestale su tutti i terreni franosi o supposti tali (4).
La legge inoltre emanava direttive per la sistemazione idraulica, il consolidamento delle frane ed il risanamento degli abitati (fornitura di acqua potabile, fogne e strade). La norma di legge perseguiva degli ottimi propositi che, con il passare del tempo e per la mancata attuazione, si sono vanificati.
Specie d'inverno le acque piovane, non convogliate in alvei, non trattenute dalla flora del sottobosco e dalle foglie, invadono rapidamente fossi e torrenti i quali naturalmente alimentano i fiumi, i cui argini, non potendo contenere il volume di acqua e i detriti (alberi, pietre, ecc.), si rompono provocando ingenti danni a causa dello straripamento.
In primavera quando le acque si ritirano nel letto del fiume si osserva che quello che era il bello e vegeto giardino non è che una sterile ed inutile pietraia.
Queste inondazioni che si verificano annualmente (soltanto nel 1969 70 sono stati costruiti gli argini del fiume Agri) privavano intere famiglie dell'orto che molte volte rappresentava l'unica risorsa. Il colmo era poi rappresentato dal fatto che su queste terre, alcune portate via addirittura dalla corrente del fiume per avulsione o alluvione, venivano comunque pagate le imposte fondiarie.
In montagna ed in collina invece l'acqua piovana nei diversi secoli ha lentamente provocato delle erosioni che hanno mutato l'aspetto fisico nonché il paesaggio.
Volgendo lo sguardo dalla piazza principale di Sant'Arcangelo si vede intorno una plaga cretosa con vegetazione quasi assente che rassomiglia, in alcune ore del giorno e specie d'estate, ad un paesaggio lunare. Il paese è tutto circondato da calanchi (5) formati da argilla; su questo terreno sterile nasce soltanto qualche pianta di gramigna o qualche filo d'erba inutile al pascolo e rari cespugli (« sautuscene »); nei calanchi si creano poi fossi e cunicoli lunghissimi (albergo di volpi) che, crollando, formano dirupi « garamme », alcune tristemente note quale è quella di « Pitriciello » cosiddetta perché pare che vi morì un bambino di nome Pietro.
Vi è un altro burrone situato ad oriente dove una volta si trovava la Chiesa di S. Maria degli Angeli, distrutta anch'essa da una frana, come già detto.
Diverse sono le storie legate alle frane e alle « garamme »; una merita di essere raccontata: una mattina una pia donna a nome Viola di Marzio si era recata in Chiesa per ascoltare la Messa lasciando in casa (nel rione « Piazzolla ») nella culla il figlio. Durante la sua assenza improvvisamente si verificò nel rione uno smottamento che provocò il crollo di numerose case, alcune delle quali andarono tutte a finire in fondo al burrone.
Disperata e sgomenta alla vista del disastro, la donna di corsa scese nel burrone al fondo del quale trovò il figlio salvo, la casa così come l'aveva lasciata e persino la pignatta sul fuoco ancora acceso. La casa era scivolata, pian piano trascinando nel declivio le mura senza farle crollare. All'epoca si parlò di miracolo.
Sant'Arcangelo è tutto circondato da frane, è situato in una posizione piuttosto elevata su di un crinale di argilla eroso dalle acque piovane.
Dalle numerose ricerche ed osservazioni fatte « in loco » è da presumere che i primi abitatori di Sant'Arcangelo si stabilirono nella zona dove attualmente si trova la borgata di S. Brancato. Soltanto successivamente iniziarono a stabilirsi dove oggi si trova il rione Casale (6). Ciò, presumibilmente, fu causato dalla insalubrità dell'aria, trovandosi detta zona molto vicina al fiume infestato dalla malaria ed essendo, pertanto, meno salubre della parte alta.
Dal Casale, che si trova oggi nella parte bassa del paese, le costruzioni furono eseguite sempre più in alto lungo la costa, dove oggi è il rione Convento, sino al Castello. Notizie attendibili, ma sino ad oggi non documentate, mi fanno ritenere che dove oggi si trova il burrone detto « briglia » è esistito un castello. La zona è tutt'ora molto franosa e forse il Castello è andato in rovina, in epoca imprecisata, a causa delle frane. Il rione, tuttavia, ancora oggi conserva il nome di Castello.
Il Castello certamente non esisteva nella prima metà del 1600: infatti, verso il 1630 (7), in Sant'Arcangelo i principi Carafa La Marra fecero costruire un palazzo chiamato burgensatico (8) tutto a mattoni. Prima del 1630 i principi Carafa La Marra, quando si recavano a Sant'Arcangelo, abitavano nel palazzo ora posseduto dalla famiglia Molfese.

Proprietà fondiaria e condizioni economiche.

I contadini di Sant'Arcangelo in genere sono proprietari di un pezzo di terra, di giardino, « salicara », ma di così piccola estensione, essendo molto frazionata la proprietà fondiaria, che non permette loro di avere un reddito sufficiente per vivere decorosamente.
Non esiste il latifondo essendo, anche le aziende, di una grandezza media. Tutti ricavano quel poco per pagare le tasse e per non morire di fame.
Il contadino lucano, il « cafone », ha dato sempre tutto alla terra e sempre poco ne ha ricevuto.
Anche i « galantuomini », come i contadini, hanno una vita improntata al risparmio, ad una continua austerità, a rinuncia.
Tutti i ceti sociali avevano in comune, anche se con diverso grado di intendimenti, un unico atteggiamento, il risparmio, detto in gergo dialettale « u sparagne » (10), inteso cioè come un risparmio di diversi gradi d'intensità e talvolta spinto sino all'inverosimile. Spinge al risparmio anche il timore che il futuro « craie » (11) domani possa essere peggiore del presente già ingiustamente improvvido.
Naturalmente con la differenza che i contadini devono rinunciare a volte anche al necessario, mentre gli altri, che hanno appena il necessario per vivere, devono sottoporsi a notevoli sacrifici.
La vera agiatezza è una rara eccezione.
Il senso del risparmio era insito nel contadino, lo si avvertiva anche nelle piccole cose, in quelle cose che dovevano procurare piacere o divertimento.
Non era parco quando aveva con sé un ospite o quando « doveva comparire » cioè quando aveva dei doveri verso qualcuno.
Molto parco era invece in ciò che riguardava se stesso, nel vestire, nelle sue necessità, nei suoi svaghi. Spesse volte ho visto fumare il sigaro posto in bocca al verso contrario, con il fuoco nella bocca, perché in tal modo, si credeva che il sigaro si risparmiasse.
La sera, non spegneva completamente il fuoco, ma copriva i tizzoni accesi con la cenere, per l'indomani risparmiare il fiammifero per accendere, dato che durante la nottata il fuoco non si spegneva completamente.
Ovviamente sono questi riferimenti sporadici, per fortuna un ricordo del passato, essendo le condizioni economiche e sociali notevolmente migliorate.
Le cause della povertà sono tante; non è in questa sede il caso di esaminarle tutte.
La povertà deriva anche dal fatto che manca lo spirito associativo e quando qualcuno intende unire a sé persone per il perseguimento di fini comuni viene con indifferenza lasciato solo.
Il timore e la diffidenza reciproca, insieme ad altre cause, vanificano, a volte, delle iniziative che avrebbero potuto procurare del reddito o aumentare quello posseduto. Ogni uomo è un'isola. Di contro ognuno cerca di ottenere « il posto fisso »; si ha una particolare predilezione « a mangiare il pane del governo », poco ma sicuro. Il lucano si accontenta di poco, ama la sicurezza.


1) GIOVANNI Masi, Le Origini della Borghesia Lucana, Bari 1953, pag. 101 e rif. bibl.
2) Detta isck dal greco
iscw terra vicino l'acqua, dove stagna l'acqua cioè irrigua oppure iscazadoz fico secco.
3) GERARDO GIOCOLI Notizie storiche di S. Arcangelo, Lagonegro, Tipografia Lucana, 1902, pag. 13.
4) Nonostante molti studiosi, agronomi, geologi e tecnici specializzati negli studi della terra, del suolo e della flora, abbiano rivolto la loro attenzione alla Basilicata, nessuno ha mai seriamente promosso ed attuato un piano di rimboschimento al fine di restituire l'habitat naturale.
5) Dal greco calaw pf. kecalakk = discendere, smottare.
6) Ancora oggi vi è una località chiamata « petto del mattino » e che da S. Brancato porta al rione Casale.
7) GERARDO Giocoli, Notizie storiche di S. Arcangelo, Tipografia Lucana, Lagonegro 1902, pag. 53.
8) Nel Medio Evo erano così dette quelle parti di proprietà che non erano soggette a nessun vincolo, in quanto non facevano parte né del demanio regio, né del demanio feudale, né di quello ecclesiastico o civico.
9) L'argilla di Sant'Arcangelo è eccezionale per costruire mattoni.
10) Dal tedesco sparanjan.
11) Dal latino « cras » = domani; post cras = « pscraie » = dopodomani; il giorno successivo si dice « pscrille ».
 

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