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Ceneri di Civiltà Contadina in Basilicata
GIUSEPPE NICOLA MOLFESE

LA MASSERIA

Nel tenimento di ogni paese sono sparse delle costruzioni spesso isolate costruite su fondi della estensione di alcune decine di ettari (all'incirca 50 ettari e più) che vengono chiamate masserie.
La masseria (1) assolve il duplice scopo sia di abitazione e sia di azienda agricola cerealicola pastorale armentizia. È condotta dal proprietario raramente o da un affittuario « massaro », il quale, alle sue dipendenze, ha salariati fissi e personale avventizio per i lavori stagionali. Tra i salariati fissi, oltre l'organico rappresentato per lo più da uno o più gualani, dal porcaro, dal pastore, vi sono gli « annaruli », cioè quelli che prestano la loro opera per un anno intero e che vengono adibiti al disbrigo dei lavori più urgenti, ed i « mesaruli », i quali prestano la loro opera per uno o più mesi, generalmente nel periodo della semina e del raccolto. Vi è poi il « quatrascone », giovanotto di 14 18 anni che presta, in genere, la sua opera ad anno, ed « o guagnune », ragazzi dagli 8 ai 14 anni, anch'essi ingaggiati ad anno e generalmente adibiti ad aiutare il pastore o ad allevare le scorte vive (tacchini, capretti, agnelli) (2).
Il nome di masseria viene anche usato per estensioni minori di terreno purché abbiano le stesse caratteristiche di cui sopra e siano fornite di una casa anche se modesta.
Le costruzioni che costituiscono la masseria differiscono enormemente le une dalle altre.
La casa è generalmente formata da un piano terreno composto di un unico grande locale fornito di « focagna », focolare dove alloggiano i salariati e gli avventizi con le loro famiglie. Attigua a questo locale vi è sempre la stalla così da poter sorvegliare, anche di notte, gli animali ivi custoditi.
Vicina alla stalla vi è la « pagliera », dove viene riposta la paglia o il fieno, mentre sempre a pianterreno, ma diversamente orientati, vi sono i magazzini dove vengono conservate le sementi e i prodotti della terra.
Al primo piano è situata l'abitazione del mezzadro, composta generalmente di due stanze, sul tetto delle quali vi è una colombaia, « a palummara », costituita da una specie di torretta tutta forata.
Attigua alla casa del mezzadro vi è la casa del proprietario, composta generalmente da più stanze, ben pavimentate e ben intonacate.
Nelle vecchie masserie i pavimenti sono ancora in pietra, in quelle rimodernate sono stati sostituiti da mattoni.
La masseria, in genere, è ubicata in una zona elevata, esposta ai venti i quali ostacolano il fumo a fuoriuscire liberamente, motivo per cui il fumaiolo, « cimminera », viene notevolmente elevato tanto da sembrare una vedetta, una torre.
Il fumaiolo, costruito in mattoni, ha forma di parallelepipedo vuoto internamente e con dei fori di varia grandezza alla parte terminale. Il fumaiolo è anche il barometro della casa o della masseria; infatti dal fumo del camino si può prevedere il tempo: se il fumo sale verticalmente significa che l'aria è asciutta, e quindi si spera bel tempo, se il fumo si allarga invece significa che l'aria è satura di umidità, e quindi ci sarà la pioggia.
Sulle mura della masseria, e a volte anche su quelle di alcune case del paese, vi erano dei fori della lunghezza di circa 30 35 cm. e larghi quanto potesse entrare la canna di un fucile, detto « saittere ». Detti fori permettevano di difendersi dai briganti senza essere colpiti; molte volte avevano anche la forma delle cosiddette « bocche di lupo ».
Disseminati intorno alla masseria, sempre in muratura, vi sono altri locali indispensabili alle necessità dell'azienda. Vi è il porcile, disposto sempre un po' distante dal nucleo aziendale dal momento che i maiali emanano cattivo odore, che si compone di due parti: in una parte vi sono degli scomparti in legno, le « rolle », occupate dalle scrofe figliate e dai maialetti appena nati, in un'altra parte, separata dalla prima, dimorano i maiali maschi e femmine per l'ingrasso. Di frequente a porcile viene adibita una grotta scavata in un masso arenario dove, si dice, i maiali vengono allevati meglio.
Nella masseria generalmente è praticato l'allevamento ovino e caprino. Gli ovili e l'adiaccio, « iazzo » (3), sono disposti in località un po' distante dal centro aziendale e ciò per varii motivi: sia perché l'adiaccio deve essere posto in declivio per fare fuoriuscire i liquami nonché i residui animali e vegetali, sia perché, per credenza popolare, il pastore quando caglia deve essere lontano da occhi indiscreti in quanto il malocchio potrebbe non far cagliare bene il prodotto del mattino, « la matinata ».
L'ovile in genere è costruito in muratura, necessariamente esposto a mezzogiorno e visibile dalla masseria.
Esiste una distinzione tra « iazzo » e « scarazzo » (4): il primo è l'ovile all'aperto in parte coperto ed avente per recinto una siepe che impedisce agli animali di fuggire, il secondo invece è il riparo al chiuso degli animali, fornito di porta e generalmente usato nei mesi freddi. Fuori dello « iazzo » vi è il mungitoio, formato da quattro pali infissi nel terreno coperti da foglie o, più raramente, da embrici; al centro del mungitoio vi è un grosso macigno ove siede il pastore quando munge.
Il mungitoio è situato tra due recinti formati da siepi di spine, con due entrate, una comunicante con il « iazzo » e l'altra con il recinto ove sta seduto il pastore quando munge.
Da questo secondo varco gli animali caprini e ovini possono entrare uno alla volta; questi, sospinti dal pastorello, passano il varco e vanno davanti al pastore seduto, il quale li munge; subito dopo gli animali, messi in libertà, rientrano nel « iazzo ».
Il pastore, fra l'altro responsabile della salute e della alimentazione del gregge, gestisce e cura in maniera particolare alcune zone che costituiscono, possiamo dire, un « corredo » del « iazzo ». In tali appezzamenti di terreno, detti « menzane », si portano a pascolare ovini e caprini in periodo di magra. Il pastore custodisce anche altri appezzamenti di terreno detti « pantoni » dove, stagnando l'acqua, cresce più facilmente erba tenera.
Oltre ai terreni seminativi vi sono le « frattine » (5), pezzi di terra incolti e ben definiti.
Vi è poi la casa, detta « casone », ove il pastore, che è anche mandriano, abita e dove manipola i prodotti ricavati dal latte.
Il « casone » è la casa del pastore ed il suo laboratorio; nell'interno, tutte le suppellettili attengono al suo mestiere, sono gli arnesi che usa per la produzione del formaggio. Di personale vi sono soltanto un letto molto ampio e alto, come, peraltro, tutti i letti della Lucania, ed una cassa.
Dal tetto del casone pendono stomaci di capretti e agnelli pieni di latte acido, il « caglio », a forma di sacco, legati sia dalla parte dell'esofago e sia dalla parte dell'intestino. Sono posti nei pressi della « focagna » per farli maturare. La fuliggine si deposita sui cagli rendendoli arsi e neri; il pastore, con parsimonia, li usa per far coagulare il latte.
Sistemato fuori la porta vi è sempre uno « scalandrone » (6), un tronco di albero infisso nel terreno ai cui rami, non tagliati completamente, vengono appesi tutti gli arnesi (caccavo, scrupolo, puzinetto, ecc.) necessari per la lavorazione dei prodotti ricavati dal latte.
Dove è piantato uno scalandrone vi è sempre un pastore.
Attiguo alla casa del pastore vi è un locale ove il pastore « cura », cioè fa stagionare il formaggio, « le matinate », su dei ripiani in legno o in muratura.
Il recipiente dove viene munto il latte si chiama « secchia »; da questo esso viene trasferito in un altro recipiente di rame detto « caccavo » (7), una specie di catile greca con due manici laterali che permettono di sospenderlo al « monaco » e di porlo al fuoco. Il « monaco » è un arnese tutto costruito con l'accetta dal pastore, e montato ad incastri; ha la forma del telaio di un'arpa o meglio di un triangolo che, per esemplificazione, definiamo rettangolo. Il cateto maggiore si impernia e gira su due cardini infissi nel muro con un vertice poggiato a terra, il cateto minore funge da braccio su cui viene sospeso il caccavo, l'ipotenusa ha la funzione di sostegno. Tale attrezzo serve per agevolare il pastore a spostare il caccavo dal fuoco con celerità e senza bisogno di aiuto alcuno.
È detto « monaco » perché la parte che fuoriesce dal cardine superiore è tondeggiante e brunita, raffigurante l'aspetto di un monaco.
Il latte viene agitato con lo « scrupolo », che è un arnese di legno con una delle estremità ingrossata e tondeggiante, della lunghezza di 50 70 cm., molto simile ad un grosso bastone.
Dal latte di pecora o di capra (8) o da entrambi in varia proporzione si ricava il formaggio, le cui forme sono dette « matinate » o « pezze »; è il prodotto ricavato dalla cagliatura del latte raccolto la sera dopo una giornata di pascolo ed al mattino presto. La « matinata », chiamata così perché frutto della mattinata (si caglia sempre la mattina presto), ancora gocciolante di acqua e di siero, viene posta in una « fuscella » di forma cilindrica e di varia grandezza dove viene compressa con le mani dal pastore. La misura della « matinata » varia a seconda della quantità del latte prodotto nel giorno precedente (9).
La produzione casearia non sempre veniva assorbita dal mercato paesano cosicché una parte veniva esportata altrove e specialmente a Moliterno, località dove erano particolarmente esperti a curare il formaggio.
La consegna avveniva nella masseria dove una « rétina » di muli condotta da un mulattiere (la « rétina » di muli è costituita da tre muli che possono essere adibiti o sotto il traino o con l'imbasto) passava unitamente al « casigno » (10) ogni dieci giorni con inizio dalla prima decade di gennaio, sino alla seconda decade di maggio, con un'interruzione in occasione della settimana Santa.
Il formaggio, quando non veniva venduto fuori paese, veniva curato in appositi ambienti adatti alla cura.
Il formaggio fresco prima veniva coperto di sale e così rimaneva per circa quindici giorni; successivamente veniva lavato con acqua tiepida, salato nuovamente e riposto nella « fuscella ». Quando il formaggio « rifiutava » il sale allora veniva unto con olio e conservato, in quanto completamente maturo. Tralasciamo le cosiddette tecniche raffinate che solo pochissimi in paese usavano (es. l'uso della fuliggine).
Non possiamo terminare questo discorso senza ricordare che una volta, quando si tagliava una « pezza » di formaggio, questa « piangeva », cioè cacciava più lacrime (11); oggi purtroppo il formaggio è molto arido, non lacrima.
Dal latte si ricava inoltre la « filiciata » (12), la ricotta, che tutti conosciamo, ed il « ricuttalo » che è una ricotta la cui pasta è un po' più dura e che si conserva con il sale. Con i rimasugli di latte rimasto nella secchia da poco indurito e manipolato a forma di palla si fa il « piluso » o « pilusiello ». Si tenga presente che la secchia ove il pastore depone il latte mentre munge in greco si chiama ????? mentre ????? significa companatico; è come dire che « piluso » è il companatico che il pastore trae pulendo la secchia.
Le fuscelle, ove viene posta la tuma e la ricotta, vengono fatte a mano. dal pastore con giunco intrecciato, mentre guarda le pecore.
La ricotta viene posta in un intreccio a forma di cono tronco, mentre la « matinata » viene posta in un intreccio di forma cilindrica.
Nel fare il formaggio il pastore è l'operatore, direi, protagonista, ma collaborano con lui la moglie e, specie in passato, un pastorello che imparava appunto il mestiere seguendo il pastore.
La figura del pastorello è oggi quasi scomparsa in quanto, finalmente, la quasi totalità dei cittadini si è convinta di avviare i figli agli studi per lo meno sino ad una certa età.
Ci preme richiamare alla memoria che molti ragazzi, quelli avviati ai lavori dei campi e alla pastorizia, non hanno conosciuto l'età dei giochi. I genitori, costretti dalla miseria, avviavano il figlio, ancora fanciullo, a un lavoro affinché producesse un reddito, anche misero, per aiutare la famiglia. Alcuni, appena adolescenti, venivano « accunsati », ossia affidati ad un « massaro » con la qualifica di « guaglione », cioè garzone per la guardia delle pecore, capre, maiali. Una vita durissima resa ancora più dura dalla giovane età.
Il ragazzo, a volte ancora bambino, era costretto ad alzarsi prima dell'alba e iniziare subito la giornata insieme al « massaro » o al pastore. Dormiva su un letto costituito da un sacco pieno di paglia o di foglie di granturco poggiato a terra su una « littera », cioè tavole inchiodate a forma di letto.
Il ragazzo nell'aiutare il pastore diuturnamente imparava l'arte.
Aiutava a mungere le bestie, a fare i preparativi per « quagliare », cioè mettere il « caccavo », caldaia per bollire il latte, sul « monaco », preparava la legna da ardere e attingeva l'acqua dal pozzo per lavare i recipienti. Non appena terminati i lavori, quando le tenebre iniziavano a schiarirsi, il ragazzo, mentre il pastore quagliava, sollecitava le bestie con il bastone e le spingeva al pascolo, e durante tutto il giorno era costretto a correre loro dietro.
Nel condurre le pecore al pascolo doveva stare attento a che il gregge non invadesse i terreni seminati, nel qual caso doveva correre a « parare », cioè ad allontanare le pecore dal seminato.
Il lavoro diveniva più pesante nel periodo in cui nascevano gli agnelli e i capretti; infatti, quando le pecore partorivano mentre erano al pascolo, era il pastore che prendeva gli agnelli e doveva portarli a spalle all'ovile, non trascurando naturalmente la sorveglianza di tutto il gregge.
Dopo una giornata di duro lavoro il ragazzo arrivava al casolare, sistemava le bestie nell'ovile, aiutava il pastore a mungere e, soltanto dopo avere assolto i suoi doveri, poteva togliersi la giacca ed asciugarla al fuoco, se bagnata, e scaldarsi con un unico piatto caldo quando era possibile.
Al focolare veniva relegato ad un angolo, veniva « arrasato » (13), e lì rimaneva sino a quando il sonno non gli consigliava di andare a letto.
Il pastorello doveva sopportare insieme al pastore la neve e la pioggia, il caldo e la sete e spesso anche la fame.
Iniziava, anche se bambino, a subire le pene, amare, molto amare, di una vita fatta di rinuncia, di privazione e si consolava suonando il flauto o il fischietto di canna che si era preparato da solo nei pochi momenti di pausa.
Per tutto il lavoro svolto percepiva un misero salario e restava analfabeta, dal momento che l'unica scuola era quella della vita, di una vita durissima di cui, ancora adolescente, diventava maestro.
Il pastorello si avviava al mattino portando a tracollo il tascapane, « la vertola », che conteneva quanto gli era necessario durante la giornata: colazione, pranzo e merenda, il tutto costituito da una salacca, o un po' di lardo, qualche frutto e tanto pane duro.
Arnese inseparabile era sempre la scure, con la quale si esercitava durante il giorno tagliando legna per fare il fuoco e riscaldarsi per attutire, almeno in parte, i rigori del freddo o per asciugarsi dalla pioggia. L'accetta gli serviva, altresì, per fare la « frasca » per gli animali, cioè tagliare qualche ramo verde e far sì che le capre o le pecore mangiassero le foglie quando non si potevano cibare dell'erba, bagnata o coperta di neve.
Spesso il pastorello era orfano e veniva affidato alle cure del pastore. Se era orfano di madre, era la matrigna, « la matreia » (14), ad allontanarlo di casa. Non tutte le matrigne, in verità, si comportavano così con i ragazzi figli della prima moglie.
D'inverno il pastore e il pastorello indossavano un indumento caratteristico, « il pellizzone », una specie di pastrano, senza maniche, lungo sino al ginocchio, fatto di pelle di pecora conciata (15). A protezione dei pantaloni indossavano gli « nnanze cauze », fatti di pelle di capra e di « zimmaro », maschio della capra (16), rivoltata in modo da avere il pelo all'interno. Tale indumento copriva la parte anteriore dei calzoni ed era trattenuto da lacci alla vita, alla coscia, al polpaccio; i lacci erano ricavati da pelli di cane, conciati, ed erano detti « crisciuoli ». Tali legacci erano usati anche come lacci per scarpe.
L'espressione « allisciare il pillizzone » ovvero « allisciare il pilo », cioè percuotere una persona, trova la sua origine nel quotidiano comportamento che aveva il pastore nel trasferire l'unico messaggio pedagogico al pastorello mediante ceffoni, calci e punizioni corporali. Poteva accadere, ed accadeva spesso, che il pastore pretendesse che il povero pastorello dicesse « salute » al pastore ogni qualvolta questi facesse un peto. Era questa una pretesa, specialmente tra pastori, il cui mancato rispetto poteva provocare una sanzione consistente in calci e schiaffi. Si era, talvolta, costretti ad aderire alle assurde, primitive pretese e abitudini del pastore senza alcuna ribellione o lamentela. Bisognava subire e piangere in silenzio. I giochi e gli scherzi tra pastori erano violenti, triviali e a volte crudeli.
Questo vivere durava dal 15 settembre di un anno, data in cui iniziava il rapporto di lavoro, al 14 settembre dell'anno successivo. Poteva cambiare il luogo di lavoro, cioè la masseria, o la contrada dove era ubicata, ma il lavoro e il vivere erano sempre gli stessi.
Non vi era molta differenza tra il lavoro dell'inverno e quello dell'estate. Le gioie che quest'ultima stagione arreca ai ragazzi non erano interamente godute dal pastorello.
Infatti d'estate, dopo la mietitura, il pastore seguito dal pastorello lasciava la sua casa per fare la « gruttaglia »: ogni giorno si spostava ed alla sera piantava le reti in circolo dove raccoglieva le greggi dopo il pascolo mentre egli, insieme al pastorello, dormiva in un capanno anch'esso trasportabile a forma conica fatto di cannuccie di fiume, giunchi e paglia, su pelli di pecora deposte sulla nuda terra.
Fuori dal capanno, durante la notte, ardeva il fuoco sia per scaldarsi, sia per tener lontani i lupi, i quali, com'è noto, temono il fuoco. Mentre il pastore dormiva i cani vegliavano il gregge per evitare l'assalto, una volta frequente, dei lupi, e meno frequente dei ladri di bestiame. I cani portavano al collo « la chioppa » che è un collare sulla cui parte esterna sporgono dei lunghi aculei terminanti a punta come difesa in caso di lotta con i lupi, i quali, durante l'aggressione, cercano di scannare azzannando al collo l'avversario o la preda.
Questa diuturna transumanza, entro i confini della masseria, serviva per poter concimare organicamente i terreni con gli escrementi degli animali e per sfruttare più organicamente i pascoli che, d'estate, data l'assoluta mancanza di acqua, erano scarsi.
Fuori del capanno c'era sempre lo « scalandrone » per appendere tutte le masserizie.
Il pastorello durante la notte dormiva senza svestirsi e, per una estate intera, poche erano le notti in cui dormiva in un letto: solo quando si recava in paese per la festa patronale, che cadeva nel mese di agosto, dopo il raccolto, o in occasione di qualche altra importante festa religiosa.
Alla levata del sole doveva essere pronto per menare le greggi al pascolo e trasferirle prima sull'argine del fosso, per farle abbeverare, e poi sotto una quercia all'ombra, durante le ore calde, poiché durante la calura gli animali non hanno desiderio di mangiare.
Il pastore godeva di un po' di libertà soltanto durante la siesta degli animali; dedicava il suo tempo a cose personali o ad intagliare con il coltello e la scure qualche arnese per il lavoro o qualche oggetto di ornamento per la sua casa.
Il pastore metteva una cura particolare nell'intagliare con il coltello « a crocce » cioè il bastone che portava sempre con sé in campagna ed in paese. Il bastone rappresentava un po' lo scettro, il potere che godeva nell'ambito dove operava. Ostentava, in tal modo, la sua capacità di intagliare il legno ed il prestigio che godeva fra gli altri pastori. Il vero pastore era orgoglioso della sua « crocce », non la cedeva se non in circostanze molto particolari. Conservo ancora il ricordo di alcune « crocce » bellissime.

Il massaro

Con questa parola può intendersi genericamente o il salariato fisso che cura la semina e gli animali da lavoro, buoi, cavalli, muli, asini, o colui il quale sopraintende a tutti i salariati fissi ivi compreso (ma in determinati casi escluso) il pastore.
Parlando del massaro bisogna fare una distinzione se l'azienda è data a mezzadria o a fitto « chiuso ».
Nel caso di mezzadria vi è un « padrone » detto « u sopadrone » il quale dal paese, raramente in azienda, dirige la conduzione dell'azienda stessa. Sul posto rimane diuturnamente il massaro il quale è, per dirla in gergo moderno, il direttore generale dell'azienda. Egli sovraintende a tutti i dipendenti, impartisce ordini, dà le direttive per quanto riguarda le culture, dopo averle concordate con il padrone proprietario dell'azienda, e cura, sul piano tecnico, l'esecuzione dei lavori.
L'affittuario invece, detto anch'esso massaro, non ha alcun rapporto con il proprietario del fondo, al quale corrisponde una rendita o in denaro o in natura ed è l'arbitro insindacato della conduzione dell'azienda.
Sia il primo che il secondo hanno l'obbligo di non alterare o distruggere le cose stabili costituenti il corredo dell'azienda (fabbricati, alberi, pozzi, aie).
Alle dipendenze di questi vi sono i salariati fissi.
Tempo addietro il 14 settembre di ogni anno, a S. Croce, le diverse aziende agricole si alternavano e si scambiavano, con l'assenso del salariato, i salariati fissi. Il padrone che ingaggiava il nuovo salariato fisso affidava a quest'ultimo una cavalcatura affinché andasse a prendere le proprie masserizie, « o ntogne », e le trasferisse sul nuovo posto di lavoro. Al salariato fisso veniva riconosciuta una indennità detta « scasaturo » che gli veniva corrisposta o al momento in cui lasciava il posto di lavoro o durante determinate date prestabilite dell'anno. Quando faceva le « gruttaglie », e questo uso valeva solo per il pastore, l'indennità, o « scasaturo », era costituita dal diritto di prendere per sé tutto il prodotto di una mattina. Una indennità dello stesso tipo veniva corrisposta anche al porcaro: era detta « a nforchia » ed era costituita dal diritto di prendere per sé un maialino ogni 13 (o 21) maiali nati. Il numero mutava secondo gli accordi.
E’ opportuno precisare che: ai salariati fissi, « fresi », a seconda delle specifiche mansioni che esplicano, viene assegnato un nome che così li qualifica.
Il « gualano » è addetto alla custodia degli animali ovini, alla aratura, alla semina ed è gerarchicamente inferiore al massaro, dal quale prende ordini. Così, per esempio, il « porcaro », l'« ainaro » e il « vicciaro » sono addetti alla custodia del maiale, degli agnelli, dei tacchini. « U garavaniere », invece, custodisce gli animali da lavoro: buoi, vacche, cavalli. Tutti questi animali vengono menati al pascolo allo stato brado.
Mai le donne sono salariate fisse, di frequente, invece, giornaliere di campagna.
Il massaro dei buoi, che può essere una persona distinta dal « gualano » o la stessa persona, inizia la sua giornata quando ancora in cielo è la « poddara », cioè la stella polare; è ancora notte quando si reca a foraggiare gli animali i quali, durante il giorno che segue, dovranno arare la terra.
Si alza verso le tre, (una volta l'orologio era un lusso; il canto del gallo e le stelle, il raggio del sole o la campana della Chiesa (17) regolavano il tempo nelle masserie, nei lavori di campagna e nel paese), dopo aver foraggiato gli animali, libera la stalla della lettiera e, appena inizia l'alba, conduce le, bestie all'abbeveratoio, al « pilaccio ». Conduce successivamente « sull'ante » i buoi, li « incapola » (contrario di « scapolare » che significa terminare il lavoro) (18) ed inizia la semina.
Verso le dieci interrompe per una mezz'ora per farsi la « fella », cioè la colazione, generalmente a base di pane e cipolla o pane e formaggio, fichi o frutta varia a seconda della stagione. Dopo la « fella » riprende di nuovo il lavoro, che conclude quando iniziano a scendere le tenebre. Durante il lavoro non vi è riposo se non per mangiare; d'inverno mangia due volte, tre in primavera, cinque durante la mietitura.
Dopo aver « scapolato » conduce gli animali di nuovo ad abbeverarsi; dopo averli raccolti e contati li conduce alla stalla.
Soltanto la sera quando è già notte buia, alla luce di una miccia imbevuta di olio, prepara la cena, molto frugale; la prepara da solo a meno che in campagna viva con la famiglia, nel quale caso la cena viene preparata dalla moglie.
Mentre i cibi cuociono, con il « rallato », cioè il raschiatoio (19), si toglie la creta dalle scarpe, dai pantaloni e a volte dalla sua stessa persona. Attende a quelle faccende personali che al mattino vengono trascurate essendo impegnato e quindi impossibilitato a farle con calma (lavarsi il viso, farsi la barba una o due volte la settimana).
Se la moglie del salariato non vive con lui in campagna, questi ogni 15 giorni si reca a piedi, « a zate a zate », in paese, per cambiarsi gli indumenti intimi e per lavarsi. « A zate a zate » significa a piedi, solo, senza neppure la cavalcatura o bestia da soma, solo con la « vertola » (tascapane). Il termine trova la sua origine nel fatto che, nel secolo scorso, i salariati usavano coprirsi i piedi con pelli legate da lacci formanti un grosso involucro; in senso scherzoso una « zattera ». In senso metaforico si diceva « a zate a zate » derivato da « a zattera a zattera » per naturale trasformazione ed evoluzione della parola.
Il salario (20) che percepiva verso la metà del secolo in corso era costituito da un litro di olio al mese, un chilo di sale, una somma di denaro, a seconda dei tempi, un tomolo di grano al mese, detto « mangiamento », 12 tomoli di grano netto ed un certo numero di some di legna. I giornalieri percepivano una paga in denaro per ogni giorno, che era diversa se « alla scarsa », cioè senza che il datore di lavoro desse loro da mangiare, o « con spese », cioè con il cibo oppure con il « companaggio e vino », companatico e vinello.
Durante la mietitura vigeva l'uso « di fare sempre le spese ». Il salariato aveva la facoltà di seminare nell'azienda da due a cinque tomoli di grano, biada, fave, però al raccolto era tenuto a dare al proprietario, come terratico (cioè come corrispettivo dell'uso della terra per semina), su ogni tomolo di estensione seminato un tomolo di prodotto raccolto.
Non godeva assolutamente di ferie ed era tenuto a lavorare quasi tutti i giorni dell'anno, talvolta anche quando era indisposto. Non veniva rispettato il riposo settimanale. Il salariato veniva lasciato libero nei giorni di fiera, di festa del paese (la festa del Santo Patrono e qualche altra importante ricorrenza che cadeva in genere in agosto).
Tutta la contabilità in ordine al salario, ai prodotti della terra, al numero degli animali veniva tenuta mediante « taglia ». La taglia era un pezzo di legno spaccato in due; una parte la teneva l'interessato e l'altra parte il controinteressato. Durante gli incontri per la contabilità si univano le parti e con il coltello venivano fatte delle tacche in numeri romani che avevano un preciso significato numerico.
Il protagonista della masseria è il massaro. La più vigile collaboratrice del massaro, massaro inteso come imprenditore e non come dipendente, è la moglie di costui, la quale sovraintende a tutte le attività aziendali ma, in particolare, ha cura della cucina e degli animali, diciamo così, di bassa corte, provvedendo al loro mantenimento ed alla loro cura.

Mietitura

Una volta le forze del lavoro dell'azienda non bastavano da sole a provvedere alla mietitura (21). Venivano dalla vicina Puglia, e precisamente da Lecce e provincia o dai paesi di montagna, squadre, ognuna formata da cinque persone che costituivano una « paranza », quattro delle quali erano mietitori ed una « legante ». Ogni massaro ingaggiava due, tre o più « paranze » per mietere, in aiuto alle forze esistenti nell'azienda.
È ancora vivo nelle campagne il ricordo della abilità e della forza dei mietitori leccesi e altrettanto vivo è il ricordo del loro appetito. Fui sorpreso dal fatto che, dopo la mietitura, tutte le forchette avevano i denti allargati. Non riuscendomi a rendere conto del motivo, chiesi spiegazioni e mi fu riferito che facevano ciò per infilzare maggior quantità di cibo.
Tuttora infatti, durante la mietitura, i mietitori mangiano cinque volte al giorno: al mattino, appena alzati, si fa la prima colazione detta « ruppadisciune » o « u muzzicone », tra le otto e le dieci si fa una seconda colazione detta « fella », verso mezzogiorno la colazione viene detta « u mienziuorne » detta anche « sc canta padrone » cioè spaventa padrone (22), prima del vespro si mangia un'altra volta « a murenna », la sera si consuma il tradizionale pasto. I veri pasti, a base di vivande cucinate, sono quelli di mezzogiorno e sera. Negli altri pasti vengono consumati pane, cipolla, uova, formaggio, sarache (sarde) o alose. In genere la cipolla e le conserve per il loro alto contenuto di sali aiutano notevolmente i mietitori a sopportare la eccessiva temperatura e la fatica.
I mietitori vagavano, di masseria in masseria per eseguire il lavoro, a piedi, così come erano venuti, ritornavano al loro paese con il gruzzolo che si erano fatto. Erano pagati sia in denaro che in natura.
La loro abilità permetteva di fare contratti a cottimo. Una « paranza », ben affiatata, era infatti capace di mietere, in un giorno, più di una « versura », cioè molto più di un ettaro, precisamente pari a tre tomoli di terra.
Conducevano nell'arco di tempo della mietitura, che durava 30 45 giorni, una vita da bestie; dormivano sulla paglia, da soli lavavano i pochi indumenti che avevano addosso, e nell'arco della giornata dopo « u mienziuorne » era concessa loro un'ora di riposo.
Per loro non c'era stanchezza; erano uomini duri, cotti dal sole e dal sudore, lavoravano e cantavano.
Nel mese di giugno, dall'alba al tramonto, con la testa piegata, versavano a terra il sudore, incompresi, a volte umiliati e mal pagati; adoperavano la falce con una speditezza unica.
I quattro mietitori formavano « o sciermete » (piccoli mazzi di spighe) che lasciavano per terra e che il quinto « u legante » raccoglieva e legava in « gregne », cioè covoni, al loro seguito.
Lavoravano per un mese e più, per tutta l'estate, per guadagnare, forse, quanto loro facevano bastare per un intero anno; il loro guadagno era misero al punto di meritare compassione dai miseri.
Il lavoro della mietitura era pesante, sia perché doveva essere eseguito sotto il sole di giugno, sia perché si doveva stare sempre piegati « modus ferae », tutto il giorno a giostrare con la falce, secondo un ritmo che non poteva essere interrotto, in quanto avrebbe determinato disagio agli altri mietitori ed al legante. Sul posto di lavoro vi era una persona addetta a porgere loro l'acqua, ogni volta che veniva chiesta, ed il vino ad ore prestabilite. Vi è una canzone ad « aria » che dice:
« pi llu vine si mete lu grane
pe ll'acqua macina 'u muline »

« con il vino si miete il grano
con l'acqua macina il mulino ».

Ogni mietitore, poi, era tenuto a completare il lavoro non eseguito o mal eseguito dal compagno di paranza. C'e un proverbio in proposito dove si afferma che colui il quale non sa compiere un mestiere (24) incolpa gli arnesi che usa:

« a llu male metitore
l'introppecane o cannielle »

« al cattivo mietitore
sono d'intralcio i cannuli ».

I mietitori, per prevenire gli infortuni, usavano introdurre alle dita della mano sinistra dei cilindretti fatti di canna tutti legati con un filo fermato con un nodo al polso. I polsi erano muniti di grossi bracciali di cuoio, il sinistro per proteggerlo da eventuali tagli, il destro per imprimergli maggior forza ed evitare tendiniti, molto frequenti nei mietitori.
I mietitori avventizi si sceglievano i loro compagni e con essi in « paranza », itinerando, andavano nelle diverse masserie a mietere.
Durante il periodo della mietitura, come in quello della trebbiatura, nella masseria era, ogni sera, festa; con organetti, pifferi fatti di canne o altri strumenti contadini veniva intonata musica e si ballava senza sosta. Sembrava che in essi la stanchezza fosse stata subito fugata dalla cena e dal vino bevuto a garganella. Il massaro prendeva anch'egli parte alla festa e per un momento dimenticava la « malannata » (il raccolto quasi sempre scarso) (25) passata e sperava in quella presente.
La danza era la tarantella ballata a coppie sia dagli uomini che dalle donne, con una grazia, con un ritmo misurato, con una mimica appena accennata tanto da non potersi definire ballo, ma danza; il ritmo e le movenze assunte dai danzatori evocavano figure che è possibile supporre essere state tramandate dagli antichi antenati greci.

Pisatura ovvero Trebbiatura

Le messi mietute sotto forma di covoni vengono lasciate nell'appezzamento di terreno mietuto, detto « cugno », ad asciugare. I covoni vengono posti in ordine con le spighe rivolte verso l'alto in numero di 10 12 e sono detti « gusiella ».
Terminata la mietitura le messi vengono trasportate sull'aia dal carro o dalla « traglia » tirata da buoi. Nella raccolta e nel, trasporto dei « guisielle » vengono in genere adibiti « o guagnune » oppure « u quadrascone », cioè ragazzi sui 15 anni. Il massaro «squadra » un pezzo di terra su cui devono poggiare i covoni legati per fare la bica. Il luogo dove erigere la bica deve essere di facile accesso per la trebbia e in vista della masseria per evitare incendi dolosi, colposi o casuali. Per questo ultimo motivo traccia, intorno al terreno scelto, con l'aratro quattro o cinque cerchi concentrici dal momento che attraverso il terreno nudo senza « ristuccio » (26) un eventuale incendio non può propagarsi.
Aggiusta con la « furca » (27) i covoni che man mano vengono trasportati sino a formare una grossa (o piccola a seconda le stagioni) bica coperta alla sommità dagli stessi covoni a mo' di tetto spiovente per evitare l'infiltrazione di acqua in caso di pioggia (28). Sulla sommità della bica si colloca il « santomartino ». Il santomartino è una composizione formata da un insieme di mazzetti di spighe, legati tra loro sino al collo in modo che le ariste di ciascun mazzetto formino un ventaglio o un ciuffo. All'interno, nella parte intrecciata, vengono appesi dei piccoli manufatti, di diversa forma geometrica, intrecciati soltanto con lo stelo o culmo. Il santomartíno si pone come buon augurio per un abbondante raccolto.
Dopo aver terminato le biche di grano, biada, orzo, cicerchia, ceci, si inizia il vaglio delle fave. Il vaglio è simile o quasi simile per tutti i prodotti. Si pone nell'aia in cerchio una certa quantità di prodotto che l'occhio esperto del massaro giudica sufficiente e si allestisce così la « pisatura ». Il massaro si pone al centro del cerchio e conduce tre o quattro animali equini: cavalli, giumente, asini, o muli, intorno al cerchio, dopo aver loro bendato gli occhi. Gli animali, per un periodo sufficiente di tempo,, vengono fatti correre nella « pisatura » e con il calpestio spulano i prodotti.
Prima o dopo che sulla « pisatura » sono passati gli equini, viene legata al giogo portato da due buoi una grossa pietra la quale, strisciando sul prodotto già privo di pula, lo rende ancora più pulito, ma ancora non sufficientemente pulito da poterlo deporre in magazzino. Il prodotto viene poi ventilato con il ventilabro (arnese a forma di pala per ventilare grano ed altro onde allontanare la pula) o con il crivello (29) e soltanto allora, diventato pulito, viene misurato con il mezzo tomolo, messo nei sacchi e quindi immagazzinato (30).
Il problema è il vento, dal momento che d'estate spesso manca; a volte si attende per ore che spiri un alito di vento tanto da permettere di pulire « una pisatura ». Il massaro sta sempre sull'aia in attesa e, se durante il giorno il vento non spira, deve attendere la sera. Notevole difficoltà procura l'arrivo della pioggia quando la « pisatura » è ancora nell'aia. Il lavoro così si raddoppia (31).
Il massaro dopo aver riposto il raccolto nel magazzino custodisce la paglia, formando una grossa bica, e il fieno che dovrà servire come foraggio secco e per lettime per gli animali nel periodo invernale.
Durante il raccolto la giornata del massaro è senza riposo. Si alza prima dell'alba quando ancora è buio, va a foraggiare gli animali ed insieme al « gualano », il suo aiutante, libera la stalla dal letame. Al primo chiarore dell'alba si fanno uscire dalla stalla i buoi e le cavalcature e si spingono all'abbeveratoio. Una parte degli animali bovini va al pascolo seguita dal « gualano », mentre altri vengono « impaiati », cioè accoppiati sotto il giogo, per iniziare il lavoro.
Terminato il raccolto anche delle scorte si provvede a preparare gli attrezzi ed il campo per la prossima semina.

Attrezzi agricoli (32).

ARATRO

In Lucania ancora oggi si usa, anche se va scomparendo, lo stesso aratro che usava Cincinnato o i suoi contemporanei. È formato da un legno ad angolo ottuso il quale è il timone dell'aratro e la cui parte terminale costituisce il manico, « bure ». Incastrato al « bure » vi è il « vomere », formato da una punta di ferro senza coltro, senza ruote.
La profondità è regolata dall'inclinazione che il contadino dà all'aratro; questi dà anche il verso e la direzione in mancanza di timone. Naturalmente non vi è versoio né scoticatore.
L'aratro è di una semplicità primordiale.

ERPICE

Una volta il terreno veniva livellato con un fascio di rami secchi di notevole grandezza, su cui venivano posti enormi macigni affinché si esercitasse una pressione tale da permettere il livellamento del terreno. Questa fascina veniva trainata dai buoi sui terreni seminati dopo essere stata legata al giogo.
Un'altra forma di erpice è un pezzo di legno, dentato o liscio, trascinato dai buoi sul terreno seminato.
Non descrivo i moderni erpici perché andrei oltre i miei propositi.

TREGGIA

La « traglia » o treggia (33) è composta da due grossi tronchi di albero striscianti al suolo. Agli estremi di questi due tronchi striscianti è collegata una delle due parti di un ramo di albero fatto a forcella detto « timone ».
L'estremità della forcella viene attaccata al giogo posto sul collo dei due buoi. Sui due tronchi striscianti viene posto un basamento in legno detto « letto » da cui partono quattro pezzi di legno riuniti tutti e quattro in un apice a forma di piramide.
Questi quattro pezzi hanno la funzione di tenere uniti i due pezzi striscianti ed il basamento su cui viene poggiata la merce da trasportare che, a volte, è di alcuni quintali.
Detto attrezzo serve esclusivamente per i trasporti nell'ambito dei terreni della masseria. È, senza dubbio, un veicolo che trova origini antichissime, se non addirittura preistoriche, tuttavia usato ancora oggi.
 

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NOTE

1) La parola « masseria » trova la sua origine nella parola « mansus » che sta a identificare il terreno affidato a colonizzatori agricoli. Il « manso » sta ad indicare una determinata e definita proprietà terriera, una specie di unità catastale di cui era proprietaria una certa persona.
Rispetto all'estensione si pagavano delle prestazioni in natura. I « mansi » potevano essere ingenuili, allodiali, servili; questa distinzione è fatta in riferimento alle persone che avevano in coltivazione il terreno costituente il manso.
Successivamente la parola ha avuto diversi significati riferiti all'evoluzione dei tempi. Per uno approfondito studio rimandiamo alla consultazione dei numerosi testi della Storia del Diritto Italiano.
2) Lo « staff » non si limita alle persone indicate o che verranno indicate in seguito; nelle grandi masserie è composto da altre unità con mansioni specifiche. La descrizione si limita ad una masseria « media ».
3) Dal basso latino « iassum » che indica un ovile aperto.
4) Dal greco skiaroz (skiarox) = ombroso, coperto di alberi.
5) Dal greco jraktoz del verbo jrassw = luogo delimitato.
6) Dal greco scalizaocalidoz = pertica, palo a più forcelle.
7) Dal greco kakkabh pentola usata da pastori.
8) Il latte di capra, si ritiene, prevenga i tumori.
9) Le mandrie di vacche non erano frequenti perché, a causa dell'elevato frazionamento della. proprietà fondiaria, non vi era sempre l'estensione sufficiente per allevare una mandria galattogena. La vacca veniva usata come « mezzo di lavoro » e di riproduzione. Il suo latte non veniva usato, se non in rare eccezioni, per la produzione del formaggio. Noi qui, parlando di latte, ci riferiamo a quello di pecora e di capra. Dobbiamo ricordare, tuttavia, i formaggi prodotti dal latte di vacca: caciocavollo, manteca o butirro (dal greco bouzooz = bue, vacca e turoz = cacio).
10) « Casigno » è colui il quale acquista il formaggio, lo cura e, dopo averlo curato, lo vende. Ricordiamo che il formaggio si chiama « caso ».
11) Il formaggio era tanto grasso che, al momento del taglio, tale grasso veniva espulso sotto forma di lacrima.
12) Latte cagliato che affiora per primo e che viene raccolto e offerto in foglie di felci.
13) Forse dal greco arassa = allontanare, percuotere.
14) Dal greco mhtruia = matrigna.
15) Le pelli venivano conciate dal pastore con cenere, sale, allume e grasso animale (sego) e manipolate, « gramminate » , più volte a distanza di tempo.
16) Dal greco cumaroz maschio della capra.
17) La campana svegliava la parte ancora addormentata del paese. Dai suoi tocchi si poteva evincere se la campana annunciava notizie liete o meste. Se vi era un matrimonio suonava a festa, se invece vi era una morte i tocchi erano mesti. Il suono della campana del mattino per i morti era uguale per i ricchi e per i poveri, non la stessa cosa accadeva durante il funerale in quanto per il ricco c'era un lungo scampanio, per il povero pochi lugubri tocchi. Per i funerali dei bambini i tocchi erano mesti ma con un ritmo più accelerato, « a pelliccielle ».
18) Derivazione latina che significa letteralmente: « incapolare » mettersi il cappio, « scapolare » liberarsi dal cappio (capulus in latino significa cappio).
19) Dal tardo latino « ralla » raschiare.
20) La parola salario trova la sua origine nel fatto che nella retribuzione era compreso un chilo di sale al mese. L'origine è romana: ai legionari veniva data come retribuzione una certa quantità di sale da cui deriva « salarium »; il sale veniva distribuito gratuitamente per favorire lo sforzo fisico in quanto, come è noto, lo zucchero e il sale sono un ottimo nutrimento per i muscoli.
21) La mietitura a quei tempi era fatta a mano; attualmente, con la tecnica moderna, questa sommaria descrizione entra nella leggenda e serve a ravvivare i ricordi di coloro che hanno vissuto quei tempi.
22) A questa espressione si dà una duplice interpretazione: si spaventa dal suono dell'ora di mezzogiorno perché avrebbe avuto un notevole consumo per dar da mangiare ai lavoratori di gran buon appetito. Oppure: il padrone si spaventa che di già è passata mezza giornata, si approssima la fine della giornata lavorativa.
23) L'ettaro era formata da due tomoli e mezzo di terreno. Vi era il tomolo, il mezzo tomolo, il quarto, lo stoppello, la scodella. Queste sono misure di capacità che hanno poi la stessa funzione di misure di estensione.
L'unità di estensione è il tomolo, ossia il grano contenuto in un tomolo (considerato come recipiente) può essere seminato in un'estensione di terreno di circa 4.000 mq.
Il tomolo corrispondeva a circa 45 Kg. di grano.
Il sistema monetario aveva « il grano » come unità di misura che era la decima parte del carlino e questo la decima parte del ducato.
20) Il muratore scadente detto « mezza cucchiara » quando si vuole giustificare per avere alzato un muro storto esclama: « a lenza è lenza! u cchiumm è cchiumm! u mure è stuorte? ». Perché?
25) Sempre, da quando sono nato, ho sentito lamentare il massaro. Ogni anno è « malannata », o per un verso o per un altro non riesce a guadagnare tanto quanto possa condurre una vita decorosa.
26) « Ristuccio » è quella parte di stelo infisso nel terreno che resta dopo la mietitura e che è materiale facilmente combustibile.
27) Attrezzo agricolo costituito da un lungo manico terminante in due o più denti che si chiamano « rebbi ».
28) La bica può avere forma di torre cilindrica terminante con una calotta sferica (la forma più elementare che effettua il massaro inesperto), oppure forma di parallelepipedo sormontata da un prisma triangolare in modo che una faccia laterale del prisma coincida con la faccia superiore del parallelepipedo.
29) Il prodotto veniva definitivamente pulito con « ariale » un crivello a forma circolare di diametro un metro circa sospeso a un treppiedi fatto di lunghi pali. Il nome viene dal greco: airew scelgo.
30) Quanto in precedenza descritto veniva eseguito prima della esistenza della trebbiatrice.
31) Prima degli anni trenta, si trebbiava solo nel modo descritto.
32) Accenno solo la descrizione degli attrezzi che presentano la caratteristica di vetustà.
33) E’ un veicolo che precede la scoperta della ruota.

 

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