LA MASSERIA
Nel tenimento di ogni paese sono sparse delle costruzioni spesso isolate
costruite su fondi della estensione di alcune decine di ettari (all'incirca
50 ettari e più) che vengono chiamate masserie.
La masseria (1) assolve il duplice scopo sia di abitazione e sia di azienda
agricola cerealicola pastorale armentizia. È condotta dal proprietario
raramente o da un affittuario « massaro », il quale, alle sue dipendenze, ha
salariati fissi e personale avventizio per i lavori stagionali. Tra i
salariati fissi, oltre l'organico rappresentato per lo più da uno o più
gualani, dal porcaro, dal pastore, vi sono gli « annaruli », cioè quelli che
prestano la loro opera per un anno intero e che vengono adibiti al disbrigo
dei lavori più urgenti, ed i « mesaruli », i quali prestano la loro opera
per uno o più mesi, generalmente nel periodo della semina e del raccolto. Vi
è poi il « quatrascone », giovanotto di 14 18 anni che presta, in genere, la
sua opera ad anno, ed « o guagnune », ragazzi dagli 8 ai 14 anni, anch'essi
ingaggiati ad anno e generalmente adibiti ad aiutare il pastore o ad
allevare le scorte vive (tacchini, capretti, agnelli) (2).
Il nome di masseria viene anche usato per estensioni minori di terreno
purché abbiano le stesse caratteristiche di cui sopra e siano fornite di una
casa anche se modesta.
Le costruzioni che costituiscono la masseria differiscono enormemente le une
dalle altre.
La casa è generalmente formata da un piano terreno composto di un unico
grande locale fornito di « focagna », focolare dove alloggiano i salariati e
gli avventizi con le loro famiglie. Attigua a questo locale vi è sempre la
stalla così da poter sorvegliare, anche di notte, gli animali ivi custoditi.
Vicina alla stalla vi è la « pagliera », dove viene riposta la paglia o il
fieno, mentre sempre a pianterreno, ma diversamente orientati, vi sono i
magazzini dove vengono conservate le sementi e i prodotti della terra.
Al primo piano è situata l'abitazione del mezzadro, composta generalmente di
due stanze, sul tetto delle quali vi è una colombaia, « a palummara »,
costituita da una specie di torretta tutta forata.
Attigua alla casa del mezzadro vi è la casa del proprietario, composta
generalmente da più stanze, ben pavimentate e ben intonacate.
Nelle vecchie masserie i pavimenti sono ancora in pietra, in quelle
rimodernate sono stati sostituiti da mattoni.
La masseria, in genere, è ubicata in una zona elevata, esposta ai venti i
quali ostacolano il fumo a fuoriuscire liberamente, motivo per cui il
fumaiolo, « cimminera », viene notevolmente elevato tanto da sembrare una
vedetta, una torre.
Il fumaiolo, costruito in mattoni, ha forma di parallelepipedo vuoto
internamente e con dei fori di varia grandezza alla parte terminale. Il
fumaiolo è anche il barometro della casa o della masseria; infatti dal fumo
del camino si può prevedere il tempo: se il fumo sale verticalmente
significa che l'aria è asciutta, e quindi si spera bel tempo, se il fumo si
allarga invece significa che l'aria è satura di umidità, e quindi ci sarà la
pioggia.
Sulle mura della masseria, e a volte anche su quelle di alcune case del
paese, vi erano dei fori della lunghezza di circa 30 35 cm. e larghi quanto
potesse entrare la canna di un fucile, detto « saittere ». Detti fori
permettevano di difendersi dai briganti senza essere colpiti; molte volte
avevano anche la forma delle cosiddette « bocche di lupo ».
Disseminati intorno alla masseria, sempre in muratura, vi sono altri locali
indispensabili alle necessità dell'azienda. Vi è il porcile, disposto sempre
un po' distante dal nucleo aziendale dal momento che i maiali emanano
cattivo odore, che si compone di due parti: in una parte vi sono degli
scomparti in legno, le « rolle », occupate dalle scrofe figliate e dai
maialetti appena nati, in un'altra parte, separata dalla prima, dimorano i
maiali maschi e femmine per l'ingrasso. Di frequente a porcile viene adibita
una grotta scavata in un masso arenario dove, si dice, i maiali vengono
allevati meglio.
Nella masseria generalmente è praticato l'allevamento ovino e caprino. Gli
ovili e l'adiaccio, « iazzo » (3), sono disposti in località un po' distante
dal centro aziendale e ciò per varii motivi: sia perché l'adiaccio deve
essere posto in declivio per fare fuoriuscire i liquami nonché i residui
animali e vegetali, sia perché, per credenza popolare, il pastore quando
caglia deve essere lontano da occhi indiscreti in quanto il malocchio
potrebbe non far cagliare bene il prodotto del mattino, « la matinata ».
L'ovile in genere è costruito in muratura, necessariamente esposto a
mezzogiorno e visibile dalla masseria.
Esiste una distinzione tra « iazzo » e « scarazzo » (4): il primo è l'ovile
all'aperto in parte coperto ed avente per recinto una siepe che impedisce
agli animali di fuggire, il secondo invece è il riparo al chiuso degli
animali, fornito di porta e generalmente usato nei mesi freddi. Fuori dello
« iazzo » vi è il mungitoio, formato da quattro pali infissi nel terreno
coperti da foglie o, più raramente, da embrici; al centro del mungitoio vi è
un grosso macigno ove siede il pastore quando munge.
Il mungitoio è situato tra due recinti formati da siepi di spine, con due
entrate, una comunicante con il « iazzo » e l'altra con il recinto ove sta
seduto il pastore quando munge.
Da questo secondo varco gli animali caprini e ovini possono entrare uno alla
volta; questi, sospinti dal pastorello, passano il varco e vanno davanti al
pastore seduto, il quale li munge; subito dopo gli animali, messi in
libertà, rientrano nel « iazzo ».
Il pastore, fra l'altro responsabile della salute e della alimentazione del
gregge, gestisce e cura in maniera particolare alcune zone che
costituiscono, possiamo dire, un « corredo » del « iazzo ». In tali
appezzamenti di terreno, detti « menzane », si portano a pascolare ovini e
caprini in periodo di magra. Il pastore custodisce anche altri appezzamenti
di terreno detti « pantoni » dove, stagnando l'acqua, cresce più facilmente
erba tenera.
Oltre ai terreni seminativi vi sono le « frattine » (5), pezzi di terra
incolti e ben definiti.
Vi è poi la casa, detta « casone », ove il pastore, che è anche mandriano,
abita e dove manipola i prodotti ricavati dal latte.
Il « casone » è la casa del pastore ed il suo laboratorio; nell'interno,
tutte le suppellettili attengono al suo mestiere, sono gli arnesi che usa
per la produzione del formaggio. Di personale vi sono soltanto un letto
molto ampio e alto, come, peraltro, tutti i letti della Lucania, ed una
cassa.
Dal tetto del casone pendono stomaci di capretti e agnelli pieni di latte
acido, il « caglio », a forma di sacco, legati sia dalla parte dell'esofago
e sia dalla parte dell'intestino. Sono posti nei pressi della « focagna »
per farli maturare. La fuliggine si deposita sui cagli rendendoli arsi e
neri; il pastore, con parsimonia, li usa per far coagulare il latte.
Sistemato fuori la porta vi è sempre uno « scalandrone » (6), un tronco di
albero infisso nel terreno ai cui rami, non tagliati completamente, vengono
appesi tutti gli arnesi (caccavo, scrupolo, puzinetto, ecc.) necessari per
la lavorazione dei prodotti ricavati dal latte.
Dove è piantato uno scalandrone vi è sempre un pastore.
Attiguo alla casa del pastore vi è un locale ove il pastore « cura », cioè
fa stagionare il formaggio, « le matinate », su dei ripiani in legno o in
muratura.
Il recipiente dove viene munto il latte si chiama « secchia »; da questo
esso viene trasferito in un altro recipiente di rame detto « caccavo » (7),
una specie di catile greca con due manici laterali che permettono di
sospenderlo al « monaco » e di porlo al fuoco. Il « monaco » è un arnese
tutto costruito con l'accetta dal pastore, e montato ad incastri; ha la
forma del telaio di un'arpa o meglio di un triangolo che, per
esemplificazione, definiamo rettangolo. Il cateto maggiore si impernia e
gira su due cardini infissi nel muro con un vertice poggiato a terra, il
cateto minore funge da braccio su cui viene sospeso il caccavo, l'ipotenusa
ha la funzione di sostegno. Tale attrezzo serve per agevolare il pastore a
spostare il caccavo dal fuoco con celerità e senza bisogno di aiuto alcuno.
È detto « monaco » perché la parte che fuoriesce dal cardine superiore è
tondeggiante e brunita, raffigurante l'aspetto di un monaco.
Il latte viene agitato con lo « scrupolo », che è un arnese di legno con una
delle estremità ingrossata e tondeggiante, della lunghezza di 50 70 cm.,
molto simile ad un grosso bastone.
Dal latte di pecora o di capra (8) o da entrambi in varia proporzione si
ricava il formaggio, le cui forme sono dette « matinate » o « pezze »; è il
prodotto ricavato dalla cagliatura del latte raccolto la sera dopo una
giornata di pascolo ed al mattino presto. La « matinata », chiamata così
perché frutto della mattinata (si caglia sempre la mattina presto), ancora
gocciolante di acqua e di siero, viene posta in una « fuscella » di forma
cilindrica e di varia grandezza dove viene compressa con le mani dal
pastore. La misura della « matinata » varia a seconda della quantità del
latte prodotto nel giorno precedente (9).
La produzione casearia non sempre veniva assorbita dal mercato paesano
cosicché una parte veniva esportata altrove e specialmente a Moliterno,
località dove erano particolarmente esperti a curare il formaggio.
La consegna avveniva nella masseria dove una « rétina » di muli condotta da
un mulattiere (la « rétina » di muli è costituita da tre muli che possono
essere adibiti o sotto il traino o con l'imbasto) passava unitamente al «
casigno » (10) ogni dieci giorni con inizio dalla prima decade di gennaio,
sino alla seconda decade di maggio, con un'interruzione in occasione della
settimana Santa.
Il formaggio, quando non veniva venduto fuori paese, veniva curato in
appositi ambienti adatti alla cura.
Il formaggio fresco prima veniva coperto di sale e così rimaneva per circa
quindici giorni; successivamente veniva lavato con acqua tiepida, salato
nuovamente e riposto nella « fuscella ». Quando il formaggio « rifiutava »
il sale allora veniva unto con olio e conservato, in quanto completamente
maturo. Tralasciamo le cosiddette tecniche raffinate che solo pochissimi in
paese usavano (es. l'uso della fuliggine).
Non possiamo terminare questo discorso senza ricordare che una volta, quando
si tagliava una « pezza » di formaggio, questa « piangeva », cioè cacciava
più lacrime (11); oggi purtroppo il formaggio è molto arido, non lacrima.
Dal latte si ricava inoltre la « filiciata » (12), la ricotta, che tutti
conosciamo, ed il « ricuttalo » che è una ricotta la cui pasta è un po' più
dura e che si conserva con il sale. Con i rimasugli di latte rimasto nella
secchia da poco indurito e manipolato a forma di palla si fa il « piluso » o
« pilusiello ». Si tenga presente che la secchia ove il pastore depone il
latte mentre munge in greco si chiama ????? mentre ????? significa
companatico; è come dire che « piluso » è il companatico che il pastore trae
pulendo la secchia.
Le fuscelle, ove viene posta la tuma e la ricotta, vengono fatte a mano. dal
pastore con giunco intrecciato, mentre guarda le pecore.
La ricotta viene posta in un intreccio a forma di cono tronco, mentre la «
matinata » viene posta in un intreccio di forma cilindrica.
Nel fare il formaggio il pastore è l'operatore, direi, protagonista, ma
collaborano con lui la moglie e, specie in passato, un pastorello che
imparava appunto il mestiere seguendo il pastore.
La figura del pastorello è oggi quasi scomparsa in quanto, finalmente, la
quasi totalità dei cittadini si è convinta di avviare i figli agli studi per
lo meno sino ad una certa età.
Ci preme richiamare alla memoria che molti ragazzi, quelli avviati ai lavori
dei campi e alla pastorizia, non hanno conosciuto l'età dei giochi. I
genitori, costretti dalla miseria, avviavano il figlio, ancora fanciullo, a
un lavoro affinché producesse un reddito, anche misero, per aiutare la
famiglia. Alcuni, appena adolescenti, venivano « accunsati », ossia affidati
ad un « massaro » con la qualifica di « guaglione », cioè garzone per la
guardia delle pecore, capre, maiali. Una vita durissima resa ancora più dura
dalla giovane età.
Il ragazzo, a volte ancora bambino, era costretto ad alzarsi prima dell'alba
e iniziare subito la giornata insieme al « massaro » o al pastore. Dormiva
su un letto costituito da un sacco pieno di paglia o di foglie di granturco
poggiato a terra su una « littera », cioè tavole inchiodate a forma di
letto.
Il ragazzo nell'aiutare il pastore diuturnamente imparava l'arte.
Aiutava a mungere le bestie, a fare i preparativi per « quagliare », cioè
mettere il « caccavo », caldaia per bollire il latte, sul « monaco »,
preparava la legna da ardere e attingeva l'acqua dal pozzo per lavare i
recipienti. Non appena terminati i lavori, quando le tenebre iniziavano a
schiarirsi, il ragazzo, mentre il pastore quagliava, sollecitava le bestie
con il bastone e le spingeva al pascolo, e durante tutto il giorno era
costretto a correre loro dietro.
Nel condurre le pecore al pascolo doveva stare attento a che il gregge non
invadesse i terreni seminati, nel qual caso doveva correre a « parare »,
cioè ad allontanare le pecore dal seminato.
Il lavoro diveniva più pesante nel periodo in cui nascevano gli agnelli e i
capretti; infatti, quando le pecore partorivano mentre erano al pascolo, era
il pastore che prendeva gli agnelli e doveva portarli a spalle all'ovile,
non trascurando naturalmente la sorveglianza di tutto il gregge.
Dopo una giornata di duro lavoro il ragazzo arrivava al casolare, sistemava
le bestie nell'ovile, aiutava il pastore a mungere e, soltanto dopo avere
assolto i suoi doveri, poteva togliersi la giacca ed asciugarla al fuoco, se
bagnata, e scaldarsi con un unico piatto caldo quando era possibile.
Al focolare veniva relegato ad un angolo, veniva « arrasato » (13), e lì
rimaneva sino a quando il sonno non gli consigliava di andare a letto.
Il pastorello doveva sopportare insieme al pastore la neve e la pioggia, il
caldo e la sete e spesso anche la fame.
Iniziava, anche se bambino, a subire le pene, amare, molto amare, di una
vita fatta di rinuncia, di privazione e si consolava suonando il flauto o il
fischietto di canna che si era preparato da solo nei pochi momenti di pausa.
Per tutto il lavoro svolto percepiva un misero salario e restava analfabeta,
dal momento che l'unica scuola era quella della vita, di una vita durissima
di cui, ancora adolescente, diventava maestro.
Il pastorello si avviava al mattino portando a tracollo il tascapane, « la
vertola », che conteneva quanto gli era necessario durante la giornata:
colazione, pranzo e merenda, il tutto costituito da una salacca, o un po' di
lardo, qualche frutto e tanto pane duro.
Arnese inseparabile era sempre la scure, con la quale si esercitava durante
il giorno tagliando legna per fare il fuoco e riscaldarsi per attutire,
almeno in parte, i rigori del freddo o per asciugarsi dalla pioggia.
L'accetta gli serviva, altresì, per fare la « frasca » per gli animali, cioè
tagliare qualche ramo verde e far sì che le capre o le pecore mangiassero le
foglie quando non si potevano cibare dell'erba, bagnata o coperta di neve.
Spesso il pastorello era orfano e veniva affidato alle cure del pastore. Se
era orfano di madre, era la matrigna, « la matreia » (14), ad allontanarlo
di casa. Non tutte le matrigne, in verità, si comportavano così con i
ragazzi figli della prima moglie.
D'inverno il pastore e il pastorello indossavano un indumento
caratteristico, « il pellizzone », una specie di pastrano, senza maniche,
lungo sino al ginocchio, fatto di pelle di pecora conciata (15). A
protezione dei pantaloni indossavano gli « nnanze cauze », fatti di pelle di
capra e di « zimmaro », maschio della capra (16), rivoltata in modo da avere
il pelo all'interno. Tale indumento copriva la parte anteriore dei calzoni
ed era trattenuto da lacci alla vita, alla coscia, al polpaccio; i lacci
erano ricavati da pelli di cane, conciati, ed erano detti « crisciuoli ».
Tali legacci erano usati anche come lacci per scarpe.
L'espressione « allisciare il pillizzone » ovvero « allisciare il pilo »,
cioè percuotere una persona, trova la sua origine nel quotidiano
comportamento che aveva il pastore nel trasferire l'unico messaggio
pedagogico al pastorello mediante ceffoni, calci e punizioni corporali.
Poteva accadere, ed accadeva spesso, che il pastore pretendesse che il
povero pastorello dicesse « salute » al pastore ogni qualvolta questi
facesse un peto. Era questa una pretesa, specialmente tra pastori, il cui
mancato rispetto poteva provocare una sanzione consistente in calci e
schiaffi. Si era, talvolta, costretti ad aderire alle assurde, primitive
pretese e abitudini del pastore senza alcuna ribellione o lamentela.
Bisognava subire e piangere in silenzio. I giochi e gli scherzi tra pastori
erano violenti, triviali e a volte crudeli.
Questo vivere durava dal 15 settembre di un anno, data in cui iniziava il
rapporto di lavoro, al 14 settembre dell'anno successivo. Poteva cambiare il
luogo di lavoro, cioè la masseria, o la contrada dove era ubicata, ma il
lavoro e il vivere erano sempre gli stessi.
Non vi era molta differenza tra il lavoro dell'inverno e quello dell'estate.
Le gioie che quest'ultima stagione arreca ai ragazzi non erano interamente
godute dal pastorello.
Infatti d'estate, dopo la mietitura, il pastore seguito dal pastorello
lasciava la sua casa per fare la « gruttaglia »: ogni giorno si spostava ed
alla sera piantava le reti in circolo dove raccoglieva le greggi dopo il
pascolo mentre egli, insieme al pastorello, dormiva in un capanno anch'esso
trasportabile a forma conica fatto di cannuccie di fiume, giunchi e paglia,
su pelli di pecora deposte sulla nuda terra.
Fuori dal capanno, durante la notte, ardeva il fuoco sia per scaldarsi, sia
per tener lontani i lupi, i quali, com'è noto, temono il fuoco. Mentre il
pastore dormiva i cani vegliavano il gregge per evitare l'assalto, una volta
frequente, dei lupi, e meno frequente dei ladri di bestiame. I cani
portavano al collo « la chioppa » che è un collare sulla cui parte esterna
sporgono dei lunghi aculei terminanti a punta come difesa in caso di lotta
con i lupi, i quali, durante l'aggressione, cercano di scannare azzannando
al collo l'avversario o la preda.
Questa diuturna transumanza, entro i confini della masseria, serviva per
poter concimare organicamente i terreni con gli escrementi degli animali e
per sfruttare più organicamente i pascoli che, d'estate, data l'assoluta
mancanza di acqua, erano scarsi.
Fuori del capanno c'era sempre lo « scalandrone » per appendere tutte le
masserizie.
Il pastorello durante la notte dormiva senza svestirsi e, per una estate
intera, poche erano le notti in cui dormiva in un letto: solo quando si
recava in paese per la festa patronale, che cadeva nel mese di agosto, dopo
il raccolto, o in occasione di qualche altra importante festa religiosa.
Alla levata del sole doveva essere pronto per menare le greggi al pascolo e
trasferirle prima sull'argine del fosso, per farle abbeverare, e poi sotto
una quercia all'ombra, durante le ore calde, poiché durante la calura gli
animali non hanno desiderio di mangiare.
Il pastore godeva di un po' di libertà soltanto durante la siesta degli
animali; dedicava il suo tempo a cose personali o ad intagliare con il
coltello e la scure qualche arnese per il lavoro o qualche oggetto di
ornamento per la sua casa.
Il pastore metteva una cura particolare nell'intagliare con il coltello « a
crocce » cioè il bastone che portava sempre con sé in campagna ed in paese.
Il bastone rappresentava un po' lo scettro, il potere che godeva nell'ambito
dove operava. Ostentava, in tal modo, la sua capacità di intagliare il legno
ed il prestigio che godeva fra gli altri pastori. Il vero pastore era
orgoglioso della sua « crocce », non la cedeva se non in circostanze molto
particolari. Conservo ancora il ricordo di alcune « crocce » bellissime.
Il massaro
Con questa parola può intendersi genericamente o il salariato fisso che cura
la semina e gli animali da lavoro, buoi, cavalli, muli, asini, o colui il
quale sopraintende a tutti i salariati fissi ivi compreso (ma in determinati
casi escluso) il pastore.
Parlando del massaro bisogna fare una distinzione se l'azienda è data a
mezzadria o a fitto « chiuso ».
Nel caso di mezzadria vi è un « padrone » detto « u sopadrone » il quale dal
paese, raramente in azienda, dirige la conduzione dell'azienda stessa. Sul
posto rimane diuturnamente il massaro il quale è, per dirla in gergo
moderno, il direttore generale dell'azienda. Egli sovraintende a tutti i
dipendenti, impartisce ordini, dà le direttive per quanto riguarda le
culture, dopo averle concordate con il padrone proprietario dell'azienda, e
cura, sul piano tecnico, l'esecuzione dei lavori.
L'affittuario invece, detto anch'esso massaro, non ha alcun rapporto con il
proprietario del fondo, al quale corrisponde una rendita o in denaro o in
natura ed è l'arbitro insindacato della conduzione dell'azienda.
Sia il primo che il secondo hanno l'obbligo di non alterare o distruggere le
cose stabili costituenti il corredo dell'azienda (fabbricati, alberi, pozzi,
aie).
Alle dipendenze di questi vi sono i salariati fissi.
Tempo addietro il 14 settembre di ogni anno, a S. Croce, le diverse aziende
agricole si alternavano e si scambiavano, con l'assenso del salariato, i
salariati fissi. Il padrone che ingaggiava il nuovo salariato fisso affidava
a quest'ultimo una cavalcatura affinché andasse a prendere le proprie
masserizie, « o ntogne », e le trasferisse sul nuovo posto di lavoro. Al
salariato fisso veniva riconosciuta una indennità detta « scasaturo » che
gli veniva corrisposta o al momento in cui lasciava il posto di lavoro o
durante determinate date prestabilite dell'anno. Quando faceva le «
gruttaglie », e questo uso valeva solo per il pastore, l'indennità, o «
scasaturo », era costituita dal diritto di prendere per sé tutto il prodotto
di una mattina. Una indennità dello stesso tipo veniva corrisposta anche al
porcaro: era detta « a nforchia » ed era costituita dal diritto di prendere
per sé un maialino ogni 13 (o 21) maiali nati. Il numero mutava secondo gli
accordi.
E’ opportuno precisare che: ai salariati fissi, « fresi », a seconda delle
specifiche mansioni che esplicano, viene assegnato un nome che così li
qualifica.
Il « gualano » è addetto alla custodia degli animali ovini, alla aratura,
alla semina ed è gerarchicamente inferiore al massaro, dal quale prende
ordini. Così, per esempio, il « porcaro », l'« ainaro » e il « vicciaro »
sono addetti alla custodia del maiale, degli agnelli, dei tacchini. « U
garavaniere », invece, custodisce gli animali da lavoro: buoi, vacche,
cavalli. Tutti questi animali vengono menati al pascolo allo stato brado.
Mai le donne sono salariate fisse, di frequente, invece, giornaliere di
campagna.
Il massaro dei buoi, che può essere una persona distinta dal « gualano » o
la stessa persona, inizia la sua giornata quando ancora in cielo è la «
poddara », cioè la stella polare; è ancora notte quando si reca a foraggiare
gli animali i quali, durante il giorno che segue, dovranno arare la terra.
Si alza verso le tre, (una volta l'orologio era un lusso; il canto del gallo
e le stelle, il raggio del sole o la campana della Chiesa (17) regolavano il
tempo nelle masserie, nei lavori di campagna e nel paese), dopo aver
foraggiato gli animali, libera la stalla della lettiera e, appena inizia
l'alba, conduce le, bestie all'abbeveratoio, al « pilaccio ». Conduce
successivamente « sull'ante » i buoi, li « incapola » (contrario di «
scapolare » che significa terminare il lavoro) (18) ed inizia la semina.
Verso le dieci interrompe per una mezz'ora per farsi la « fella », cioè la
colazione, generalmente a base di pane e cipolla o pane e formaggio, fichi o
frutta varia a seconda della stagione. Dopo la « fella » riprende di nuovo
il lavoro, che conclude quando iniziano a scendere le tenebre. Durante il
lavoro non vi è riposo se non per mangiare; d'inverno mangia due volte, tre
in primavera, cinque durante la mietitura.
Dopo aver « scapolato » conduce gli animali di nuovo ad abbeverarsi; dopo
averli raccolti e contati li conduce alla stalla.
Soltanto la sera quando è già notte buia, alla luce di una miccia imbevuta
di olio, prepara la cena, molto frugale; la prepara da solo a meno che in
campagna viva con la famiglia, nel quale caso la cena viene preparata dalla
moglie.
Mentre i cibi cuociono, con il « rallato », cioè il raschiatoio (19), si
toglie la creta dalle scarpe, dai pantaloni e a volte dalla sua stessa
persona. Attende a quelle faccende personali che al mattino vengono
trascurate essendo impegnato e quindi impossibilitato a farle con calma
(lavarsi il viso, farsi la barba una o due volte la settimana).
Se la moglie del salariato non vive con lui in campagna, questi ogni 15
giorni si reca a piedi, « a zate a zate », in paese, per cambiarsi gli
indumenti intimi e per lavarsi. « A zate a zate » significa a piedi, solo,
senza neppure la cavalcatura o bestia da soma, solo con la « vertola »
(tascapane). Il termine trova la sua origine nel fatto che, nel secolo
scorso, i salariati usavano coprirsi i piedi con pelli legate da lacci
formanti un grosso involucro; in senso scherzoso una « zattera ». In senso
metaforico si diceva « a zate a zate » derivato da « a zattera a zattera »
per naturale trasformazione ed evoluzione della parola.
Il salario (20) che percepiva verso la metà del secolo in corso era
costituito da un litro di olio al mese, un chilo di sale, una somma di
denaro, a seconda dei tempi, un tomolo di grano al mese, detto « mangiamento
», 12 tomoli di grano netto ed un certo numero di some di legna. I
giornalieri percepivano una paga in denaro per ogni giorno, che era diversa
se « alla scarsa », cioè senza che il datore di lavoro desse loro da
mangiare, o « con spese », cioè con il cibo oppure con il « companaggio e
vino », companatico e vinello.
Durante la mietitura vigeva l'uso « di fare sempre le spese ». Il salariato
aveva la facoltà di seminare nell'azienda da due a cinque tomoli di grano,
biada, fave, però al raccolto era tenuto a dare al proprietario, come
terratico (cioè come corrispettivo dell'uso della terra per semina), su ogni
tomolo di estensione seminato un tomolo di prodotto raccolto.
Non godeva assolutamente di ferie ed era tenuto a lavorare quasi tutti i
giorni dell'anno, talvolta anche quando era indisposto. Non veniva
rispettato il riposo settimanale. Il salariato veniva lasciato libero nei
giorni di fiera, di festa del paese (la festa del Santo Patrono e qualche
altra importante ricorrenza che cadeva in genere in agosto).
Tutta la contabilità in ordine al salario, ai prodotti della terra, al
numero degli animali veniva tenuta mediante « taglia ». La taglia era un
pezzo di legno spaccato in due; una parte la teneva l'interessato e l'altra
parte il controinteressato. Durante gli incontri per la contabilità si
univano le parti e con il coltello venivano fatte delle tacche in numeri
romani che avevano un preciso significato numerico.
Il protagonista della masseria è il massaro. La più vigile collaboratrice
del massaro, massaro inteso come imprenditore e non come dipendente, è la
moglie di costui, la quale sovraintende a tutte le attività aziendali ma, in
particolare, ha cura della cucina e degli animali, diciamo così, di bassa
corte, provvedendo al loro mantenimento ed alla loro cura.
Mietitura
Una volta le forze del lavoro dell'azienda non bastavano da sole a
provvedere alla mietitura (21). Venivano dalla vicina Puglia, e precisamente
da Lecce e provincia o dai paesi di montagna, squadre, ognuna formata da
cinque persone che costituivano una « paranza », quattro delle quali erano
mietitori ed una « legante ». Ogni massaro ingaggiava due, tre o più «
paranze » per mietere, in aiuto alle forze esistenti nell'azienda.
È ancora vivo nelle campagne il ricordo della abilità e della forza dei
mietitori leccesi e altrettanto vivo è il ricordo del loro appetito. Fui
sorpreso dal fatto che, dopo la mietitura, tutte le forchette avevano i
denti allargati. Non riuscendomi a rendere conto del motivo, chiesi
spiegazioni e mi fu riferito che facevano ciò per infilzare maggior quantità
di cibo.
Tuttora infatti, durante la mietitura, i mietitori mangiano cinque volte al
giorno: al mattino, appena alzati, si fa la prima colazione detta «
ruppadisciune » o « u muzzicone », tra le otto e le dieci si fa una seconda
colazione detta « fella », verso mezzogiorno la colazione viene detta « u
mienziuorne » detta anche « sc canta padrone » cioè spaventa padrone (22),
prima del vespro si mangia un'altra volta « a murenna », la sera si consuma
il tradizionale pasto. I veri pasti, a base di vivande cucinate, sono quelli
di mezzogiorno e sera. Negli altri pasti vengono consumati pane, cipolla,
uova, formaggio, sarache (sarde) o alose. In genere la cipolla e le conserve
per il loro alto contenuto di sali aiutano notevolmente i mietitori a
sopportare la eccessiva temperatura e la fatica.
I mietitori vagavano, di masseria in masseria per eseguire il lavoro, a
piedi, così come erano venuti, ritornavano al loro paese con il gruzzolo che
si erano fatto. Erano pagati sia in denaro che in natura.
La loro abilità permetteva di fare contratti a cottimo. Una « paranza », ben
affiatata, era infatti capace di mietere, in un giorno, più di una « versura
», cioè molto più di un ettaro, precisamente pari a tre tomoli di terra.
Conducevano nell'arco di tempo della mietitura, che durava 30 45 giorni, una
vita da bestie; dormivano sulla paglia, da soli lavavano i pochi indumenti
che avevano addosso, e nell'arco della giornata dopo « u mienziuorne » era
concessa loro un'ora di riposo.
Per loro non c'era stanchezza; erano uomini duri, cotti dal sole e dal
sudore, lavoravano e cantavano.
Nel mese di giugno, dall'alba al tramonto, con la testa piegata, versavano a
terra il sudore, incompresi, a volte umiliati e mal pagati; adoperavano la
falce con una speditezza unica.
I quattro mietitori formavano « o sciermete » (piccoli mazzi di spighe) che
lasciavano per terra e che il quinto « u legante » raccoglieva e legava in «
gregne », cioè covoni, al loro seguito.
Lavoravano per un mese e più, per tutta l'estate, per guadagnare, forse,
quanto loro facevano bastare per un intero anno; il loro guadagno era misero
al punto di meritare compassione dai miseri.
Il lavoro della mietitura era pesante, sia perché doveva essere eseguito
sotto il sole di giugno, sia perché si doveva stare sempre piegati « modus
ferae », tutto il giorno a giostrare con la falce, secondo un ritmo che non
poteva essere interrotto, in quanto avrebbe determinato disagio agli altri
mietitori ed al legante. Sul posto di lavoro vi era una persona addetta a
porgere loro l'acqua, ogni volta che veniva chiesta, ed il vino ad ore
prestabilite. Vi è una canzone ad « aria » che dice:
« pi llu vine si mete lu grane
pe ll'acqua macina 'u muline »
« con il vino si miete il grano
con l'acqua macina il mulino ».
Ogni mietitore, poi, era tenuto a completare il lavoro non eseguito o mal
eseguito dal compagno di paranza. C'e un proverbio in proposito dove si
afferma che colui il quale non sa compiere un mestiere (24) incolpa gli
arnesi che usa:
« a llu male metitore
l'introppecane o cannielle »
« al cattivo mietitore
sono d'intralcio i cannuli ».
I mietitori, per prevenire gli infortuni, usavano introdurre alle dita della
mano sinistra dei cilindretti fatti di canna tutti legati con un filo
fermato con un nodo al polso. I polsi erano muniti di grossi bracciali di
cuoio, il sinistro per proteggerlo da eventuali tagli, il destro per
imprimergli maggior forza ed evitare tendiniti, molto frequenti nei
mietitori.
I mietitori avventizi si sceglievano i loro compagni e con essi in « paranza
», itinerando, andavano nelle diverse masserie a mietere.
Durante il periodo della mietitura, come in quello della trebbiatura, nella
masseria era, ogni sera, festa; con organetti, pifferi fatti di canne o
altri strumenti contadini veniva intonata musica e si ballava senza sosta.
Sembrava che in essi la stanchezza fosse stata subito fugata dalla cena e
dal vino bevuto a garganella. Il massaro prendeva anch'egli parte alla festa
e per un momento dimenticava la « malannata » (il raccolto quasi sempre
scarso) (25) passata e sperava in quella presente.
La danza era la tarantella ballata a coppie sia dagli uomini che dalle
donne, con una grazia, con un ritmo misurato, con una mimica appena
accennata tanto da non potersi definire ballo, ma danza; il ritmo e le
movenze assunte dai danzatori evocavano figure che è possibile supporre
essere state tramandate dagli antichi antenati greci.
Pisatura ovvero Trebbiatura
Le messi mietute sotto forma di covoni vengono lasciate nell'appezzamento di
terreno mietuto, detto « cugno », ad asciugare. I covoni vengono posti in
ordine con le spighe rivolte verso l'alto in numero di 10 12 e sono detti «
gusiella ».
Terminata la mietitura le messi vengono trasportate sull'aia dal carro o
dalla « traglia » tirata da buoi. Nella raccolta e nel, trasporto dei «
guisielle » vengono in genere adibiti « o guagnune » oppure « u quadrascone
», cioè ragazzi sui 15 anni. Il massaro «squadra » un pezzo di terra su cui
devono poggiare i covoni legati per fare la bica. Il luogo dove erigere la
bica deve essere di facile accesso per la trebbia e in vista della masseria
per evitare incendi dolosi, colposi o casuali. Per questo ultimo motivo
traccia, intorno al terreno scelto, con l'aratro quattro o cinque cerchi
concentrici dal momento che attraverso il terreno nudo senza « ristuccio »
(26) un eventuale incendio non può propagarsi.
Aggiusta con la « furca » (27) i covoni che man mano vengono trasportati
sino a formare una grossa (o piccola a seconda le stagioni) bica coperta
alla sommità dagli stessi covoni a mo' di tetto spiovente per evitare
l'infiltrazione di acqua in caso di pioggia (28). Sulla sommità della bica
si colloca il « santomartino ». Il santomartino è una composizione formata
da un insieme di mazzetti di spighe, legati tra loro sino al collo in modo
che le ariste di ciascun mazzetto formino un ventaglio o un ciuffo.
All'interno, nella parte intrecciata, vengono appesi dei piccoli manufatti,
di diversa forma geometrica, intrecciati soltanto con lo stelo o culmo. Il
santomartíno si pone come buon augurio per un abbondante raccolto.
Dopo aver terminato le biche di grano, biada, orzo, cicerchia, ceci, si
inizia il vaglio delle fave. Il vaglio è simile o quasi simile per tutti i
prodotti. Si pone nell'aia in cerchio una certa quantità di prodotto che
l'occhio esperto del massaro giudica sufficiente e si allestisce così la «
pisatura ». Il massaro si pone al centro del cerchio e conduce tre o quattro
animali equini: cavalli, giumente, asini, o muli, intorno al cerchio, dopo
aver loro bendato gli occhi. Gli animali, per un periodo sufficiente di
tempo,, vengono fatti correre nella « pisatura » e con il calpestio spulano
i prodotti.
Prima o dopo che sulla « pisatura » sono passati gli equini, viene legata al
giogo portato da due buoi una grossa pietra la quale, strisciando sul
prodotto già privo di pula, lo rende ancora più pulito, ma ancora non
sufficientemente pulito da poterlo deporre in magazzino. Il prodotto viene
poi ventilato con il ventilabro (arnese a forma di pala per ventilare grano
ed altro onde allontanare la pula) o con il crivello (29) e soltanto allora,
diventato pulito, viene misurato con il mezzo tomolo, messo nei sacchi e
quindi immagazzinato (30).
Il problema è il vento, dal momento che d'estate spesso manca; a volte si
attende per ore che spiri un alito di vento tanto da permettere di pulire «
una pisatura ». Il massaro sta sempre sull'aia in attesa e, se durante il
giorno il vento non spira, deve attendere la sera. Notevole difficoltà
procura l'arrivo della pioggia quando la « pisatura » è ancora nell'aia. Il
lavoro così si raddoppia (31).
Il massaro dopo aver riposto il raccolto nel magazzino custodisce la paglia,
formando una grossa bica, e il fieno che dovrà servire come foraggio secco e
per lettime per gli animali nel periodo invernale.
Durante il raccolto la giornata del massaro è senza riposo. Si alza prima
dell'alba quando ancora è buio, va a foraggiare gli animali ed insieme al «
gualano », il suo aiutante, libera la stalla dal letame. Al primo chiarore
dell'alba si fanno uscire dalla stalla i buoi e le cavalcature e si spingono
all'abbeveratoio. Una parte degli animali bovini va al pascolo seguita dal «
gualano », mentre altri vengono « impaiati », cioè accoppiati sotto il
giogo, per iniziare il lavoro.
Terminato il raccolto anche delle scorte si provvede a preparare gli
attrezzi ed il campo per la prossima semina.
Attrezzi agricoli (32).
ARATRO
In Lucania ancora oggi si usa, anche se va scomparendo, lo stesso aratro che
usava Cincinnato o i suoi contemporanei. È formato da un legno ad angolo
ottuso il quale è il timone dell'aratro e la cui parte terminale costituisce
il manico, « bure ». Incastrato al « bure » vi è il « vomere », formato da
una punta di ferro senza coltro, senza ruote.
La profondità è regolata dall'inclinazione che il contadino dà all'aratro;
questi dà anche il verso e la direzione in mancanza di timone. Naturalmente
non vi è versoio né scoticatore.
L'aratro è di una semplicità primordiale.
ERPICE
Una volta il terreno veniva livellato con un fascio di rami secchi di
notevole grandezza, su cui venivano posti enormi macigni affinché si
esercitasse una pressione tale da permettere il livellamento del terreno.
Questa fascina veniva trainata dai buoi sui terreni seminati dopo essere
stata legata al giogo.
Un'altra forma di erpice è un pezzo di legno, dentato o liscio, trascinato
dai buoi sul terreno seminato.
Non descrivo i moderni erpici perché andrei oltre i miei propositi.
TREGGIA
La « traglia » o treggia (33) è composta da due grossi tronchi di albero
striscianti al suolo. Agli estremi di questi due tronchi striscianti è
collegata una delle due parti di un ramo di albero fatto a forcella detto «
timone ».
L'estremità della forcella viene attaccata al giogo posto sul collo dei due
buoi. Sui due tronchi striscianti viene posto un basamento in legno detto «
letto » da cui partono quattro pezzi di legno riuniti tutti e quattro in un
apice a forma di piramide.
Questi quattro pezzi hanno la funzione di tenere uniti i due pezzi
striscianti ed il basamento su cui viene poggiata la merce da trasportare
che, a volte, è di alcuni quintali.
Detto attrezzo serve esclusivamente per i trasporti nell'ambito dei terreni
della masseria. È, senza dubbio, un veicolo che trova origini antichissime,
se non addirittura preistoriche, tuttavia usato ancora oggi.
lll
NOTE
1) La parola « masseria » trova la sua origine nella parola « mansus » che
sta a identificare il terreno affidato a colonizzatori agricoli. Il « manso
» sta ad indicare una determinata e definita proprietà terriera, una specie
di unità catastale di cui era proprietaria una certa persona.
Rispetto all'estensione si pagavano delle prestazioni in natura. I « mansi »
potevano essere ingenuili, allodiali, servili; questa distinzione è fatta in
riferimento alle persone che avevano in coltivazione il terreno costituente
il manso.
Successivamente la parola ha avuto diversi significati riferiti
all'evoluzione dei tempi. Per uno approfondito studio rimandiamo alla
consultazione dei numerosi testi della Storia del Diritto Italiano.
2) Lo « staff » non si limita alle persone indicate o che verranno indicate
in seguito; nelle grandi masserie è composto da altre unità con mansioni
specifiche. La descrizione si limita ad una masseria « media ».
3) Dal basso latino « iassum » che indica un ovile aperto.
4) Dal greco skiaroz
(skiarox)
= ombroso, coperto di alberi.
5) Dal greco jraktoz
del verbo jrassw
= luogo delimitato.
6) Dal greco scaliz
‑ aocalidoz
= pertica, palo a più forcelle.
7) Dal greco kakkabh
pentola usata da pastori.
8) Il latte di capra, si ritiene, prevenga i tumori.
9) Le mandrie di vacche non erano frequenti perché, a causa dell'elevato
frazionamento della. proprietà fondiaria, non vi era sempre l'estensione
sufficiente per allevare una mandria galattogena. La vacca veniva usata come
« mezzo di lavoro » e di riproduzione. Il suo latte non veniva usato, se non
in rare eccezioni, per la produzione del formaggio. Noi qui, parlando di
latte, ci riferiamo a quello di pecora e di capra. Dobbiamo ricordare,
tuttavia, i formaggi prodotti dal latte di vacca: caciocavollo, manteca o
butirro (dal greco bouz‑ooz
= bue,
vacca e
turoz = cacio).
10) « Casigno » è colui il quale acquista il formaggio, lo cura e, dopo
averlo curato, lo vende. Ricordiamo che il formaggio si chiama « caso ».
11) Il formaggio era tanto grasso che, al momento del taglio, tale grasso
veniva espulso sotto forma di lacrima.
12) Latte cagliato che affiora per primo e che viene raccolto e offerto in
foglie di felci.
13) Forse dal greco
arassa = allontanare, percuotere.
14) Dal greco mhtruia
= matrigna.
15) Le pelli venivano conciate dal pastore con cenere, sale, allume e grasso
animale (sego) e manipolate, « gramminate » , più volte a distanza di tempo.
16) Dal greco cumaroz
maschio della capra.
17) La campana svegliava la parte ancora addormentata del paese. Dai suoi
tocchi si poteva evincere se la campana annunciava notizie liete o meste. Se
vi era un matrimonio suonava a festa, se invece vi era una morte i tocchi
erano mesti. Il suono della campana del mattino per i morti era uguale per i
ricchi e per i poveri, non la stessa cosa accadeva durante il funerale in
quanto per il ricco c'era un lungo scampanio, per il povero pochi lugubri
tocchi. Per i funerali dei bambini i tocchi erano mesti ma con un ritmo più
accelerato, « a pelliccielle ».
18) Derivazione latina che significa letteralmente: « incapolare » mettersi
il cappio, « scapolare » liberarsi dal cappio (capulus in latino significa
cappio).
19) Dal tardo latino « ralla » raschiare.
20) La parola salario trova la sua origine nel fatto che nella retribuzione
era compreso un chilo di sale al mese. L'origine è romana: ai legionari
veniva data come retribuzione una certa quantità di sale da cui deriva «
salarium »; il sale veniva distribuito gratuitamente per favorire lo sforzo
fisico in quanto, come è noto, lo zucchero e il sale sono un ottimo
nutrimento per i muscoli.
21) La mietitura a quei tempi era fatta a mano; attualmente, con la tecnica
moderna, questa sommaria descrizione entra nella leggenda e serve a
ravvivare i ricordi di coloro che hanno vissuto quei tempi.
22) A questa espressione si dà una duplice interpretazione: si spaventa dal
suono dell'ora di mezzogiorno perché avrebbe avuto un notevole consumo per
dar da mangiare ai lavoratori di gran buon appetito. Oppure: il padrone si
spaventa che di già è passata mezza giornata, si approssima la fine della
giornata lavorativa.
23) L'ettaro era formata da due tomoli e mezzo di terreno. Vi era il tomolo,
il mezzo tomolo, il quarto, lo stoppello, la scodella. Queste sono misure di
capacità che hanno poi la stessa funzione di misure di estensione.
L'unità di estensione è il tomolo, ossia il grano contenuto in un tomolo
(considerato come recipiente) può essere seminato in un'estensione di
terreno di circa 4.000 mq.
Il tomolo corrispondeva a circa 45 Kg. di grano.
Il sistema monetario aveva « il grano » come unità di misura che era la
decima parte del carlino e questo la decima parte del ducato.
20) Il muratore scadente detto « mezza cucchiara » quando si vuole
giustificare per avere alzato un muro storto esclama: « a lenza è lenza! u
cchiumm è cchiumm! u mure è stuorte? ». Perché?
25) Sempre, da quando sono nato, ho sentito lamentare il massaro. Ogni anno
è « malannata », o per un verso o per un altro non riesce a guadagnare tanto
quanto possa condurre una vita decorosa.
26) « Ristuccio » è quella parte di stelo infisso nel terreno che resta dopo
la mietitura e che è materiale facilmente combustibile.
27) Attrezzo agricolo costituito da un lungo manico terminante in due o più
denti che si chiamano « rebbi ».
28) La bica può avere forma di torre cilindrica terminante con una calotta
sferica (la forma più elementare che effettua il massaro inesperto), oppure
forma di parallelepipedo sormontata da un prisma triangolare in modo che una
faccia laterale del prisma coincida con la faccia superiore del
parallelepipedo.
29) Il prodotto veniva definitivamente pulito con « ariale » un crivello a
forma circolare di diametro un metro circa sospeso a un treppiedi fatto di
lunghi pali. Il nome viene dal greco:
airew scelgo.
30) Quanto in precedenza descritto veniva eseguito prima della esistenza
della trebbiatrice.
31) Prima degli anni trenta, si trebbiava solo nel modo descritto.
32) Accenno solo la descrizione degli attrezzi che presentano la
caratteristica di vetustà.
33) E’ un veicolo che precede la scoperta della ruota. |