10. Il 1799
I giovani della Provincia che risiedevano a Napoli per motivi di studio
rimasero impressionati dalle notizie relative agli avvenimenti
rivoluzionari francesi del 1789. Certamente influì notevolmente sulla
loro formazione il movimento massonico, che in Basilicata ebbe impulso
per la presenza dei Liberi Muratori (93) fra i quali si annoveravano il
Preside dell'Udienza di Matera, Giovanni de Gemmis, e a Potenza
l'allievo del Genovesi, Leonardo Cortese. Quest'ultimo teneva frequenti
riunioni a cui partecipavano, provenienti dai vari paesi, uomini
desiderosi di conoscere le nuove idee e, con gli amici più interessati e
fidati, costituì una Loggia Massonica. Le Logge si diffusero ovunque in
Basilicata; i giovani che studiavano a Napoli, affiliati alla
Massoneria, rientrando in paese erano ascoltati con interesse e
curiosità e spesso riuscivano a raccogliere nuovi adepti.
A Napoli gli studenti della Basilicata, in particolare i trivignesi, si
riunirono intorno al sacerdote Francesco Pomarici di Anzi e a Vincenzo
Sarli di Abriola, che era stato affiliato alla Massoneria dal cognato
Nicola Sassano, dottore in utroque jure e alto dignitario della Loggia
dei Liberi Muratori di Trivigno. Francesco Pomarici e il suo gruppo si
qualificavano giacobini avendo accettato il programma della Societé
Fraternelle che prevedeva l'abbattimento con ogni mezzo, se necessario
anche violento, del dispotismo così come era avvenuto in Francia.
Ferdinando IV di Borbone salì al trono alla morte del padre Carlo III nel
1759, consapevole del profondo malcontento presente nelle province del
Regno, emanò il 23 febbraio del 1792 la Prammatíca de administratione
Universitatum che, senza ledere i diritti dei Baroni, dava facoltà alle
Università di sottrarre ai possessori dei feudi una parte dei demani
soggetti agli usi civici per assegnarla in enfiteusi (94) ai contadini
sprovvisti di terra, nella misura in cui potessero coltivarla. La
Prammatica non ebbe gli effetti sperati perché fortemente contrastata
dai Baroni che vedevano in pericolo i propri possessi (fig. 7).
Per quanto riguarda Trivigno il Principe Carafa, che aveva già tentato di
impadronirsi dei territori demaniali di Anzi giungendo a pretendere la
legna secca raccolta nel bosco (95), nel 1793 si affrettò a mettere a
coltura 300 tomoli del bosco Torricelle per evitare che fossero concessi
ai cittadini quale demanio soggetto agli usi civici (96).
Molti ostacoli all'attuazione del provvedimento vennero anche dai
galantuomini irritati per essere stati posposti ai contadini nella
concessione del diritto di usufruire delle terre, avendo interesse ad
acquisire terreni per il pascolo dei propri animali.
Il malcontento non fu dissipato, i fermenti rivoluzionari vennero
alimentati dai nuovi eventi; fra questi importante fu il riconoscimento
della Repubblica francese da parte del Sovrano. In conseguenza di ciò la
flotta francese si stabilì nel porto di Napoli con l'inevitabile
incontro degli ufficiali con gli elementi più qualificati della
Massoneria Napoletana. Nell'estate del 1793 alcuni esponenti di spicco
della Massoneria, tra cui Francesco Pomarici di Anzi, Vincenzo Sarli e
Luigi Verga di Abriola, Girolamo Vaccaro di Avigliano con altri giovani
lucani si riconobbero giacobini e costituirono la Società Patriottica,
distribuita in diverse sezioni o clubs che si diffusero anche in
Basilicata. Gli adepti giurarono di rovesciare il Borbone, se
necessario, anche con atti rivoluzionari, di realizzare un governo
popolare repubblicano, di riproporre i diritti dell'Uomo, di sopprimere
gli abusi, di abiurare alla religione, ritenendola estranea agli ordini
naturali, voluta dal Papato e dai Principi per garantire la stabilità
del loro potere. La polizia borbonica, venuta a conoscenza della
preparazione di un moto rivoluzionario, operò degli arresti facendo
fallire il progetto eversivo.
L'Inquisitore non riuscì ad avere un quadro preciso del movimento
giacobino per la perfetta organizzazione della Società Patriottica.
Nessuno dei lucani al momento fu inquisito, si persero le tracce di
Francesco Pomarici, mentre Sarli e Verga rientrarono indisturbati ad
Abriola. La polizia nel 1795 riprese ad indagare in Basilicata sulle
Logge Massoniche e sui Clubs giacobini.
Furono inquisite 107 persone fra cui Vincenzo Sarli e le autorità, pur
avendo elementi comprovanti la loro adesione alla Setta dei Giacobini,
non sottoposero ad alcun giudizio i Sassano di Trivigno, gli Albanese di
Tolve, i Siani e gli Addone di Potenza, i Venitucci di Picerno, i
Mennuni di Genzano, i Ciccotti e i D'Errico di Palazzo San Gervasio
(97).
Gli uomini, che avevano aderito alla Società Patriottica e avevano
cospirato contro la Monarchia, non furono veri giacobini violenti e
rivoluzionari anche se si ritenevano e qualificavano come tali. Essi
erano stati sempre fedeli ai Borboni ma, perduta la speranza di una
evoluzione in senso illuminista della Monarchia, sostenevano
l'uguaglianza tra gli uomini, la difesa dei deboli e degli oppressi
senza forse neppure comprenderne pienamente il profondo significato.
Nonostante l'attenta azione della polizia nelle province del Regno, furono
sempre più accentuate le reazioni, le ribellioni e le rivendicazioni del
popolo; a Napoli le idee di libertà continuarono ad essere tenute sempre
vive dai Clubs giacobini e dai liberali; fra questi erano presenti
l'illustre Giureconsulto Francesco Mario Pagano di Brienza e molti
giovani lucani.
Il succedersi degli eventi, quali l'incauta occupazione dello Stato
Pontificio e la caotica ritirata dell'esercito napoletano incalzato
dalle truppe del generale francese Championnet, nonché la precipitosa
fuga dei Sovrani verso la Sicilia con le navi inglesi dell'Ammiraglio
Nelson il 23 dicembre 1798, diede ai giacobini il coraggio di proclamare
la Repubblica Napoletana il 21 gennaio del 1799.
Il 23 gennaio fu costituito un governo provvisorio, di esso fece parte
Mario Pagano in qualità di Presidente del Comitato legislativo, venne
organizzata la milizia repubblicana e furono promulgati le leggi e i
decreti per dare un nuovo ordine alle cose.
Commissari democratici vennero inviati nelle province con il compito di
promuovere presso il popolo la causa della libertà; alla borghesia si
promise il potere attraverso il conferimento di cariche pubbliche e ai
contadini la spartizione delle terre feudali e demaniali usurpate (98).
In numerosi centri della Basilicata furono elette le nuove Municipalità,
aperti i ruoli delle milizie civiche e come simbolo di vittoria contro
l'assolutismo regio fu innalzato l'albero della libertà (un tronco di
faggio o di quercia infiocchettato e sormontato da un berretto frigio
usato come copricapo dai rivoluzionari francesi).
La Municipalità venne organizzata anche a Trivigno (99); fu nominato
Presidente Don Nicola Sassano, possidente, già esponente di spicco della
Loggia Massonica del paese, Segretario il sacerdote Don Pomponio Orga e
Capitano della Guardia civica Don Domenico Prete.
Fra i sostenitori della Municipalità ci furono il medico Don Francesco
Saverio Guarini, Don Francesco Antonio Prete, Nicola Montesano, Don
Rocco Prete, il sacerdote Don Giuseppe Brindisi, Don Andrea Petrone, Don
Nicola di Roma, Don Raffaele Lamonea, Domenico Policastro e Francesco
Imundi.
Negli ultimi giorni di febbraio in piazza venne piantato l'albero della
libertà ad esso Don Andrea Petrone insieme al chierico Rocco Nicola
Prete affisse, tra l'entusiasmo popolare, una satira contro il Re,
mentre Don Francesco Saverio Guarini pronunciava un discorso in favore
della Repubblica. Francesco Antonio Prete e Michele Vitale si recarono a
Napoli per ricevere istruzioni dal governo repubblicano, incontrando
anche il trivignese Andrea Volini studente in medicina e tenente delle
truppe civiche di Napoli.
Nei giorni successivi il chierico Don Rocco Prete lesse in piazza le
lettere spedite dal fratello, in esse questi assicurava che avrebbe
portato, al suo rientro in paese, ordini repubblicani più precisi e
dettagliati. A queste manifestazioni di libertà s'opponeva un piccolo
gruppo di realisti; il più facinoroso e ostinato era Gerardo Maggio che
minacciò di spiantare l'albero della libertà. Per reprimere tale
opposizione Don Giuseppe Brindisi e Francesco Prete chiesero aiuto agli
amici dei centri limitrofi, da Castelmezzano e da Brindisi di Montagna
accorsero Giuseppe Abriola, Giovanni Benevento e Giovanni Blescia.
In paese la tensione era molto forte e culminò l'1 marzo del 1799 con
l'uccisione di Gerardo Maggio. La voce popolare indicò quali mandanti di
tale omicidio il Presidente della Municipalità e il Capitano della
Guardia Civica; in paese non ci fu nessuna reazione, né alcuno fu
inquisito per tale delitto. Un gruppo di trivignesi andò in soccorso dei
repubblicani di Tolve che, guidati da Don Oronzo Albanese, cercavano di
ripristinare l'albero della libertà a San Chirico, mentre i repubblicani
di Trivigno, Albano, Anzi, Abriola e Calvello agirono a sud di Potenza,
impedendo a Don Domenico Asselta, che aveva costituito un reparto
sanfedista a Laurenzana, di spingersi verso il Basento (100). Alla fine
di marzo alcune Municipalità, dove più forte era lo spirito
repubblicano, strinsero un Patto di Concordia con l'impegno di portare
aiuto nella difesa delle repubbliche e continuare a propagandare le
nuove idee (101). Emissari del Cardinale Ruffo, penetrati nel potentino,
diffondevano notizie di successi monarchici e organizzavano le forze
conservatrici e moderate. I continui progressi dei sanfedisti,
l'impossibilità di un intervento francese, la minacciosa presenza della
banda di Boccheciampe
in Puglia e quella del Cardinale Ruffo sulla costa ionica indussero molti
repubblicani ad abbandonare la lotta.
Nel melfese e nel potentino alla fine di aprile erano operanti ancora 19
Municipalità: Acerenza, Avigliano, Brindisi, Barile, Cancellara,
Forenza, Genzano, Maschito, Melfi Montepeloso, Oppido, Palazzo San
Gervasio, Picerno, Potenza, Rapolla, Ripacandida, Tolve, Trivigno e
Venosa. Le ultime resistenze repubblicane si concentrarono a Muro,
Calvello, Tolve, Palazzo San Gervasio, San Chirico, Oppido e Picerno. In
quest'ultimo centro il 10 maggio i sanfedisti attaccarono alle spalle la
guarnigione repubblicana che si batté strenuamente insieme ad un gruppo
di valorosi giunti in aiuto da altri paesi; tra essi si ricordano i
trivignesi Domenico Prete e Francesco Imundi, Don Oronzo Albanese di
Tolve, Girolamo e Michele Vaccaro di Avigliano; questi ultimi caddero
sulle mura del paese. Rimasero sul terreno settanta morti di cui venti
donne picernesi che avevano combattuto accanto ai loro uomini fino
all'estremo sacrificio. La sorte dei repubblicani lucani era segnata:
dapprima fu costretta alla resa Avigliano il 15 maggio, Muro fu messo a
ferro e a fuoco, il 18 venne occupata Potenza. Il 29 maggio con
l'ingresso a Melfi del Cardinale Ruffo si concludeva la resistenza
all'avanzata sanfedista; a metà giugno cadde la stessa Repubblica
Napoletana.
Con il ritorno dei Borboni sul trono di Napoli la reazione fu violenta e
sanguinosa; furono istituiti tribunali speciali per giudicare i nemici
del trono e dell'altare cioè i rei di Stato. La Corona ricorse a ogni
mezzo affinché nessuno sfuggisse alla giustizia, giungendo a promettere
l'impunità a chi avesse denunziato i compagni repubblicani. La Regia
Udienza di Matera esaminò la posizione antiborbonica di 1.307 lucani; il
23 febbraio 1801 fu completato l'elenco dei rei di Stato e per ordine
del Re Ferdinando (Decreto del 10 gennaio 1803) furono distrutti tutti
gli atti relativi ai processi riguardanti i fatti del 1799 (102).
Terminava un lungo periodo ricco di eventi violenti, intensi e
innovatori iniziatosi con le speranze di libertà delle nuove
generazioni, ben presto deluse. L'ordine politico ed economico fu
ristabilito, i problemi insoluti erano molti, il malcontento serpeggiava
in tutti i ceti sociali. I capimassa e tutti coloro che avevano
condiviso la causa sanfedista, non avendo ottenuto la terra, la
ricchezza e il prestigio, non tardarono a schierarsi contro il potere
centrale; i conservatori borbonici lamentavano che il loro ruolo non
fosse accresciuto come era nelle aspettative, i contadini furono
costretti a rinunciare alle terre feudali promesse da entrambe le parti.
La borghesia che aveva diretto la vita cittadina, anche se per un breve
periodo, non solo venne privata di ogni prerogativa, ma molti suoi
esponenti furono inquisiti subendo processi e condanne.
I rei di Stato di Trivigno furono:
Abbate Francesco, sacerdote (arrestato fu liberato in forma)
Brindisi Giuseppe, sacerdote (non fu mai carcerato)
Guarini Francesco Saverio, medico (non fu mai carcerato)
Imundi Francesco Saverio, popolano (uscì consegnato)
Lamonea Raffaele, negoziante (non fu mai carcerato)
Montesano Nicola, civile (non fu mai carcerato)
Orga Pomponio Raffaele, sacerdote (non fu mai carcerato)
Petrone Andrea, sacerdote (carcerato uscì con l'indulto)
Policastro Domenico, carcerato (uscì consegnato)
Prete Domenico, massaro (non fu mai carcerato)
Prete Francesco Antonio, civile (non fu mai carcerato)
Prete Rocco Nicola sacerdote (uscì consegnato)
Romano Nicola, civile (carcerato, uscì consegnato)
Romano Vincenzo (carcerato, uscì consegnato)
Sassano Nicola Giovanni, dottore utroque jure (non fu mai carcerato)
Vitale Michele, barbiere (carcerato uscì consegnato) (103).
Nonostante questi eventi traumatici i trivignesi non si abbandonarono a
reazioni violente; tutti i ceti sociali avevano pagato pesanti
conseguenze in termini di libertà personale, odi profondi dividevano le
famiglie delle opposte fazioni.
Riusciva difficile ai bracciali e ai massari rinunziare alle terre che in
passato numerose volte, anche con azioni violente, avevano cercato di
mettere a coltura.
Il Principe Carafa, da sempre strenuo difensore dei propri interessi, per
rendere più sicuri i suoi possessi all'inizio del 1800, pretese che i
coloni dichiarassero dinanzi ad un notaio quali terre coltivassero,
indicando l'estensione, la località e chi fosse il possessore.
11. Il Decennio francese
La rottura della convenuta neutralità con la Francia da parte di
Ferdinando di Borbone, Re di Napoli, offrì a Napoleone Buonaparte il
pretesto per annunziare il 29 dicembre 1805 a Schónbrum: " La Casa di
Napoli ha cessato di regnare" e inviare un esercito per la conquista del
regno. Al passo di Campotenese (9 marzo 1806) l'esercito borbonico venne
sbaragliato dai francesi al comando del generale Massena e di Giuseppe
Buonaparte, nominato Re di Napoli il 30 marzo 1806, sostituito nel 1808
dal cognato Gioacchino Murat (104).
Durante il Decennio francese, per dare un nuovo assetto allo Stato, si
pose mano a una serie di riforme (105): l'abolizione della feudalità,
strettamente legata allo sgretolamento dell'impalcatura ecclesiastica
ancien régime. Le chiese ricettizie non ebbero più l'autonomia nella
gestione delle rendite della massa comune e furono private delle
immunità, delle esenzioni fiscali e anche dell'attività di assistenza
che conferiva nel contesto locale autorità e prestigio (106). Furono
promulgati i nuovi codici, la proprietà venne regolata dalla Legge del
Catasto (Decreto 17 maggio 1807) che prevedeva il pagamento dei tributi
allo Stato in relazione alla proprietà determinata dall'impianto degli
Stati di sezione. Per la redazione di questi si ordinò al Sindaco e agli
Eletti di procedere insieme ai periti e in direzione est-ovest alla
partizione in sezioni, contrassegnate da successive lettere
dell'alfabeto, dell'agro comunale, alla individuazione dei singoli lotti
classificati secondo la destinazione d'uso e la classe di rendita. Il
numero delle sezioni rifletteva l'estensione territoriale e l'ultima si
riferiva ai predi urbani (case, fabbricati) (107). Si ebbe il riordino
delle Circoscrizioni provinciali (legge 8 agosto 1806) e s'introdusse
nell'amministrazione dello Stato il modello francese. Fu stabilita la
suddivisione amministrativa e giudiziaria della Regione; nel 1806
Potenza divenne capoluogo della Provincia di Basilicata, in sostituzione
di Matera, e sede dell'Intendente (al posto del Preside) assistito da un
Consiglio d'Intendenza e da un Consiglio generale di Provincia. Essa fu
suddivisa in quattro Distretti (Potenza, Matera, Lagonegro a cui si
aggiunse nel 1811 Melfi) (108) che a loro volta furono divisi in
Circoscrizioni e queste in Comuni (fig. 8). Trivigno, per la sua
centralità geografica, divenne sede di Circoscrizione comprendendo i
Comuni di Brindisi di Montagna, Albano di Lucania, Campomaggiore e
Castelmezzano.
L'Amministrazione locale fu retta dal Sindaco assistito dagli Eletti,
entrambi designati dal Decurionato a sua volta eletto in un parlamento
pubblico dai capifamiglia compresi nel ruolo dei contribuenti. Di fatto
si privilegiò la borghesia a cui il Governo offrì gli incarichi
amministrativi (109). Il compito del Sindaco, del Consiglio Comunale e
degli Eletti era molto arduo a causa delle gravi difficoltà economiche
in cui versavano i Comuni, delle continue dispute relative alla
suddivisione dei demani e delle frequenti invasioni brigantesche.
L'operato dell'Amministrazione Comunale era controllato dall'Intendente
della Provincia; questo funzionario (di nomina regia) era scelto tra gli
esponenti francesi o tra i cittadini napoletani che si erano distinti
nel 1799, presiedeva i Consigli Provinciali e, alla sua approvazione,
veniva sottoposto il bilancio preventivo e consuntivo di spesa dei
Comuni. L'Ente locale, in tal modo, venne privato in parte della sua
autonomia, nello stesso tempo si eliminarono tanti soprusi prima
tollerati.
L'Amministrazione Comunale era tenuta alla riscossione della tassa sul
tabacco, alla coscrizione dei soldati e all'istituzione dell'Ufficio di
Stato Civile, per il passato esclusivo appannaggio del parroco, con la
formazione degli appositi registri di Nascita, di Morte e di Matrimonio.
Sul bilancio comunale gravavano le spese per il mantenimento dei
projetti (bambini abbandonati), del fitto dei locali per la Casa
Comunale, per l'espletamento della giustizia, compito affidato al
Giudice di Pace (funzionario Governativo che aveva sostituito il baiulo
e il giudice regio), per il passaggio delle truppe e per la tassa
fondiaria a cui furono aggiunti i grani addizionali. Il Comune, inoltre,
aveva l'obbligo di provvedere all'istituzione della scuola primaria
(Decreto 15 agosto 1806) (109) affidando quasi sempre l'insegnamento al
parroco per la sezione maschile (a Trivigno avrebbe dovuto espletare
questo incarico il sacerdote Giuseppe Brindisi) e ad una maestra per la
femminile, accollandosi l'onere non solo del fitto dei locali adibiti a
scuola, ma anche dello stipendio da corrispondere agli insegnanti. Nei
bilanci Comunali di Trivigno (v. Appendice IV p. 113 s.) per regolarità
amministrativa vennero previste le spese relative alla scuola; di fatto
questa non fu mai istituita in quanto i pochi allievi appartenenti a
famiglie abbienti erano seguiti da insegnanti privati (110).
Il Re, per accelerare la costituzione del Parlamento Nazionale (Decreto il
marzo del 1809), prescrisse agli Intendenti di formare tre registri: nel
primo avrebbero dovuto essere annotati i nobili e i possidenti che
avevano una rendita di almeno diecimila ducati, nel secondo gli altri
possidenti con la più alta contribuzione fondiaria, nel terzo tutti i
negozianti, i commercianti e i mercanti. L'Intendente di Basilicata,
sulla base di tali indicazioni, doveva compilare le liste dei cittadini
tra i quali il Re avrebbe nominato i membri del Sedile della Nobiltà e
quelli dei collegi elettorali dei Possidenti e dei Commercianti.
Nella Provincia non erano presenti nobili, perché essi risiedevano quasi
tutti a Napoli, né vi erano cittadini che avessero una rendita di almeno
diecimila ducati, requisito indispensabile per fare parte del Sedile dei
Nobili, erano presenti solo possidenti con una rendita di alcune
centinaia di ducati e pochi con qualche migliaio (111). Venne formato,
pertanto, solo il registro dei Possidenti; per Trivigno furono iscritti
Don Tommaso Egidio Brindisi con 287,06 ducati, Don Nicola Sassano con
280 ducati, per Anzi Don Francesco Paolo Battaglia con 312,02 ducati,
Don Arcangelo e Don Giovanni Vincenzo Pomarici con 257,53 ducati, per
Albano Don Gerardo Molfese con 1.000 ducati (112). Per il collegio dei
possidenti venne formata una lista di 155 elettori, scelti tra le
persone più degne. Il 9 novembre 1810 il Re conferiva le nomine; il 23
dicembre l'Intendente di Basilicata, fatti i dovuti aggiornamenti,
convocò per il 10 marzo del 1811, nella Chiesa di San Francesco di
Potenza, il collegio degli Elettori; per Trivigno era presente Don Rocco
Brindisi (fu Tommaso Egidio), per Anzi Don Paolo Battaglia e Michele
Arcangelo Fittipaldi, Don Gerardo Molfese per Albano. Furono eletti l'11
marzo membri del Sedile dei Possidenti per il Parlamento Nazionale
Saverio Carelli di Picerno e Diodato Corbo di
Avigliano.
a) Eversione della feudalità
Giuseppe Buonaparte, animato da spirito innovatore, fece approvare il 2
agosto 1806 un progetto di Legge che contemplava l'abolizione della
feudalità; nella Relazione, in cui si esponevano i motivi giustificativi
del provvedimento, si evidenziava che il sistema feudale, in passato
forza dei governi monarchici, era divenuto solo un impedimento al
rinnovamento dello Stato (113). Per stabilire un sistema giusto e ben
regolato per la riscossione dei tributi era necessario eliminare la
differenza dei beni di diversa natura e i molteplici rapporti vincolanti
per lo Stato. Con l'approvazione delle Leggi Eversive venne meno il
vincolo che univa il Feudatario al Sovrano con la reintegrazione nella
persona del Re di ogni diritto e potere riportando i feudatari alla
condizione di comuni cittadini. Si riconobbero ai Baroni i titoli
nobiliari, la proprietà dei territori che erano già di loro pieno
possesso, nel contempo essi vennero sottoposti a tutti gli oneri e
tributi già gravanti sugli altri cittadini, con l'abolizione di tutti i
diritti proibitivi e delle prestazioni personali di cui in passato
avevano usufruito. Alle popolazioni furono concessi gli usi civici e
tutti i diritti in godimento sui demani in attesa di regolare la
divisione proporzionata dei domini e stabilire i rispettivi diritti. La
legge aveva la lodevole finalità di dividere tra i molti nullatenenti la
ricchezza terriera e formare un ceto di piccoli proprietari; nella
realtà questo non si verificò in quanto furono avvantaggiati solo coloro
che avevano i mezzi economici per mettere a coltura le terre. Il nuovo
assetto terriero del Regno provocò in molti centri della Basilicata
disordini antifrancesi. A Trivigno coloro che avevano in fitto le terre
feudali, per salvaguardare i propri interessi, fecero intravedere ai
bracciali quale grave danno avrebbe loro arrecato l'abolizione degli usi
civici sulle terre lavorate e sul bosco Torricelle.
Per opporsi all'applicazione della legge la sera del 23 agosto 1806
traendo spunto dal bando fatto emanare dall'ex Luogotenente di Trivigno,
Don Tommaso d'Aquino, con cui si ordinava agli affittuari delle terre
del Principe di pagare in beneficio di questi l'imposta fondiaria sui
terreni (terraggiera) e l'affitto delle vigne (art. 2 dell'abolita
feudalità), sotto pena di una fortissima ammenda, dei galantuomini, fra
cui Don Giuseppe Filitti, il medico Don Francesco Guarini, il sacerdote
Don Giuseppe Brindisi, Don Costantino a Brindisi, che erano fermi a
Portlaterra, contestarono il bando affermando che, essendo stata abolita
la feudalità, non si dovesse pagare più alcuna tassa.
I contadini, ritenendo giusta tale considerazione, pronti a cogliere
qualsiasi pretesto per dare sfogo al loro malcontento, si raccolsero in
piazza davanti al palazzo Carafa per fare strage dell'ex Agente del
Principe e degli armigeri presenti nella Corte. L'assedio durò tutta la
notte; vennero accesi fuochi, riecheggiarono spari, rulli di tamburo,
solo al mattino i rivoltosi, dovendo partecipare ad un Parlamento in
Comune, abbandonarono qualsiasi disegno violento.
La manifestazione popolare si risolse rapidamente e senza gravi
conseguenze, anche se il malcontento e le tensioni restarono; essi non
erano stati determinati da motivazioni politiche o da esplosioni di odio
contro i galantuomini o ricchi massari, ma dalla necessità di vedere
finalmente applicate le leggi che riconoscevano i diritti dei
nullatenenti.
Vennero inquisiti come sobillatori del popolo il dottore fisico Don
Francesco Guarini e il sacerdote Don Giuseppe Brindisi (114). Gli
accusati, in una supplica inviata alle Autorità, affermarono che le loro
parole erano state male interpretate da Don Tommaso d'Aquino; essi
intendevano solo invitare la popolazione a festeggiare l`eversione della
feudalità. Questa tesi fu convalidata e caldamente sostenuta dal
Sindaco, Pietro Filitto e dal primo Eletto, Don Saverio Miraglia.
In seguito si verificarono altri episodi d'illegalità; da sempre gli
abitanti di Trivigno s'introducevano di nascosto nel bosco feudale per
fare legna; con l'arrivo dei Francesi, dal maggio 1806 le infrazioni
divennero più frequenti. Molti naturali, sostenuti dal medico Raffaele
Lamonea, dai fratelli Nicola e Pomponio Orga e dal barbiere Michele
Vitale, tra la fine di agosto e i primi di settembre, entrati nel bosco,
tagliarono circa sessanta alberi di cerro, di melo e di pero selvatico
causando un danno di circa 127 ducati e 95 grani così come fu stimato
dai periti, Giuseppe e Vincenzo Di Joia di Anzi.
Don Francesco Paolo Battaglia, in qualità di rappresentante del Principe
Carafa, raddoppiò il numero dei guardiani addetti alla sorveglianza del
bosco, scegliendoli tra persone di buon senso di Anzi e a lui fedeli,
raccomandando loro la massima prudenza a causa del momento di grande
tensione e di estrema incertezza.
I sorveglianti, pur cogliendo in flagranza di reato molti trivignesi, si
limitarono in un primo momento ad avvertirli di non continuare a
tagliare alberi; le infrazioni però divennero sempre più numerose dando
luogo a gravi e violenti episodi.
Il guardiano Michele Castrignano (3 settembre) arrestò Michele Galgano
perché aveva caricato su di un asino rami di cerro; mentre lo conduceva
a Trivigno per consegnarlo alla giustizia, all'ingresso dell'abitato
alcuni paesani, spalleggiati dal sacerdote Don Giuseppe Brindisi,
Giuseppe Grieco e Rocco Volino, non solo lo assalirono ma, minacciandolo
di morte, gli sottrassero il somaro per eliminare qualsiasi prova a
carico dell'arrestato.
Il giorno successivo i guardiani, Michele Castrignano e Giuseppe La
Macchia, trovarono nel bosco i fratelli Rocco e Vincenzo Rago che,
armati di fucile, di baionetta e d'accetta, avevano caricato su di un
mulo legna di cerro; pur avendoli disarmati non riuscirono ad arrestarli
perché i due trivignesi si dettero alla fuga, il mulo e le armi
sequestrate ritennero più prudente consegnarli alla Corte di Anzi. I
guardiani Giuliano Motta, Pasquale Nicolino e Francesco Antonio Blasi in
varie occasioni trovarono molti trivignesi nel bosco a tagliare alberi
per uso personale e per ordine dei loro padroni.
Don Francesco Paolo Battaglia, nell'impossibilità di controllare la
situazione, invió un dettagliato resoconto al Principe Carafa che lo
autorizzò a ricorrere ai giudici competenti.
La Regia Udienza di Basilicata iniziò un'azione giudiziaria inviando ad
Anzi il delegato Don Gervasio Scarpetta; egli interrogò i naturali di
Trivigno, i guardiani del bosco, Paolo Battaglia, quale rappresentante
del Principe, e l'ex Luogotenente Don Tommaso d'Aquino.
Il Sindaco e i decurioni di Trivigno difesero i colpevoli sostenendo di
non avere interesse a che fossero inquisiti per tale reato dei naturali
di Trivigno e inviarono (2 novembre 1806) un'istanza alla Regia Udienza,
dichiarando che effettivamente esistevano nel bosco degli alberi
tagliati, ma questi risalivano al 1804, quando il Governatore aveva
ordinato di abbattere 23 alberi vecchi per ricavare travi necessari al
ripristino del palazzo feudale, della taverna e dei mulini, precisando
che non bisognava confondere quell'antico taglio con i più recenti di
due mesi prima. Il Comune chiese, inoltre, che l'indagine fosse spostata
in un altro luogo ritenendo la Corte di Anzi non imparziale, essendo
l'ex Governatore e i guardiani di Anzi fedeli al passato governo
borbonico.
b) Il brigantaggio (1807-1809)
All'inizio del 1800 il Regno di Napoli era infestato da bande brigantesche
formate da soldati borbonici sbandati, dai delusi del movimento
rivoluzionario del 1799 e da delinquenti comuni.
Con l'arrivo dei francesi a causa delle nuove tensioni sociali si ebbe una
recrudescenza del fenomeno che raggiunse il massimo della virulenza nel
1809 e che fu sfruttato dai filoborbonici per ripristinare la deposta
monarchia. Le condizioni politiche contingenti non costituirono le
motivazioni profonde del brigantaggio, che erano da ricercare nella
miseria, nell'eccessiva pressione demografica, nella mal vista
coscrizione militare, ma anche nella ferma opposizione dell'emergente
borghesia che temeva un ritorno ad istituzioni ed organizzazioni
socio-politiche non più rispondenti ai propri bisogni e interessi. In
Basilicata, come in tutto il regno, erano presenti numerose bande che
commettevano ogni sorta di atrocità. Nel 1807 un gruppo di Anzi, vestito
di rosso e con coccarda, capeggiato dal sacerdote Don Giovanni
Sangiovanni si macchiò di azioni violente non solo nel proprio ma anche
e nei centri limitrofi; Trivigno fu incendiato e saccheggiato
ripetutamente (115).
Il 4 giugno dello stesso anno in paese corse voce che nella zona fosse
presente la banda del capomassa Michelangelo Longo (116).
Il tenente della Guardia Civica, Don Costantino Brindisi, con un gruppo di
volontari e gendarmi si mise alla sua ricerca, localizzatala la inseguì
e lo scontro fu inevitabile. Il gruppo dei trivignesi, anche se esiguo e
inesperto, non si sottrasse al confronto con i briganti più numerosi e
meglio addestrati, benché stremato e decimato, combatté con generosità,
riuscendo a mettere in fuga i banditi e salvare il paese da sicuro
saccheggio. Rimasero sul terreno, oltre al tenente della Guardia Civica
Costantino Brindisi, Rocco Gaetano Donato Marotta, il suddiacono Vito
Rocco Petrone, Trailliscon gendarme polacco e il brigante Gaetano
Cardillo di Abriola (117).
Seguirono più forti tensioni a causa del faticoso avvio delle riforme e
delle esplosioni di odi e di rivalità tra coloro che erano privati dei
privilegi e della ricchezza posseduta, e coloro che speravano in una
rivincita sociale. Questi ultimi erano fomentati e sovvenzionati dai
numerosi filoborbonici fra cui il medico Saverio Lamonea di Trivigno, i
Sigg. Battaglia di Anzi, Ferretti di Vignola, Catalano di Vaglio, Rossi
di Abriola, Domenico de Mascellis e Vincenzo Benedici di Corleto, il
duca di Belgioioso ex feudatario di Laurenzana, il suo Agente Domenico
Noia e il realista Domenico Asselta noto per avere capeggiato la massa
sanfedista nel 1799, incautamente posto dai francesi a capo delle
milizie civiche di Laurenzana. Costoro facendo circolare false notizie
di sbarco di truppe borboniche in Calabria, guidate dallo stesso
Principe ereditario e fiancheggiate dalla flotta inglese, misero in
allarme tutti i centri a sud di Potenza e fomentarono il brigantaggio
che esplose con virulenza nell'estate del 1809 (118). Le bande più
temute e numerose erano quelle capeggiate da Domenico Rizzo, detto
Taccone, mugnaio di Laurenzana, al servizio di Domenico Asselta, dai
contadini Rocco Bonomo, detto Scozzettino e il suo segretario, poi suo
successore, Giuseppe Antonio Lombardo, detto Cannellone, da Paolo di
Stefano di Anzi, detto Paolicchio Scattone, dal bracciante Gerardo Vota
di Vietri, detto Scarola, dal mulattiere Pancrazio Scajano di Tricarico
detto Izzonigro, da Pasquale Lisanti di Muro, detto Quagliarella e da
Nicola La Petina di Marsico Vetere.
I più provenivano dai ceti sociali più umili; non mancavano i borghesi
come i fratelli Sassone: Giulio ex ufficiale borbonico e Giovanni
Battista proprietario e comandante della Guardia Civica di Accettura e
gli ecclesiastici Don Rocco di Giuseppe di Trivigno, Don Valentino
Fanelli di Abriola e il frate Bonaventura di Tricarico (119).
Le bande erano bene armate (tutti erano dotati almeno di un'arma bianca),
avevano la capacità di unirsi e di separarsi velocemente essendo gli
uomini in gran parte forniti di cavalli; i loro spostamenti erano
rapidi, facilitati anche dalla perfetta conoscenza dei luoghi. Le
milizie civiche e francesi, per lo più appiedate, erano lente negli
spostamenti, facilmente aggirabili e battute dai briganti.
Il 19 luglio 1809 le bande di Scattone, Scozzettino, Taccone e Izzonigro,
forti di circa duecento uomini, assalirono Anzi; piegata la resistenza
della Guardia Civica, si abbandonarono ad atti di inaudita ferocia
contro i cittadini inermi, dettero alle fiamme l'Archivio Municipale e
Parrocchiale, le case, i palazzi, seminando ovunque morte e terrore. A
queste bande il 20 luglio si unirono quelle di La Petina e Scarola, il
23 dello stesso mese assalirono Abriola; furono trucidati barbaramente
numerosi cittadini e la famiglia Federici. Uccisero il Barone e la
moglie Donna Francesca Vassalli dopo averla violentata e seviziata, con
sadica ferocia si accanirono e bruciarono, ancora semivivi, quattro
figli in tenera età; si salvò solo Carlo di 10 anni (120).
Né migliore sorte toccò a Laurenzana attaccata, il 24 luglio, il 4 e il 13
agosto dagli uomini di Taccone a cui si erano uniti molti paesani e
altre bande brigantesche; con la connivenza di Domenico Asselta
commisero estorsioni, incendi, omicidi e orrori di ogni genere (121).
A Trivigno la situazione diventò sempre più incontrollabile, non solo a
causa delle notizie degli eccidi e distruzioni avvenute nei paesi
vicini, ma anche per il rinvigorirsi del gruppo dei filoborbonici che
spinsero molti a darsi al brigantaggio. Alla fine di luglio arrivarono
in paese tre briganti che, a nome di Taccone, innalzarono la bandiera
borbonica facendosi consegnare dai benestanti duecento ducati e sessanta
tomoli di biada (122). Tutti pagarono nel vano tentativo di scongiurare
ulteriori danni, né la Guardia Civica, che precedentemente aveva operato
bene contro i briganti, accennò alcuna reazione. Ai primi d'agosto
Domenico Castiglia, a nome del medico Saverio Lamonea, uomo stimato e
molto influente, avvicinò parecchi paesani per armarli contro il governo
francese, dicendo che il Re Ferdinando con l'aiuto degli Inglesi stava
riconquistando buona parte del regno. I più facinorosi, Francesco
Abbate, il sacerdote Rocco di Giuseppe, Pietro Casella, Carlo Montesano,
Giuseppe Galgano, Francesco di Benedetto e Francesco Santalucia, si
lasciarono coinvolgere nell'impresa brigantesca. Si radunarono nel bosco
Torricelle circa trenta uomini ai quali Castiglia fornì armi, a suo dire
ricevute da Don Saverio Lamonea; a capo della banda si pose Basileo
Josca e insieme a Scozzettino nella prima decade di agosto si spostarono
a Laurenzana, mentre un altro nutrito gruppo si associò alla banda
Scattone. Altri trivignesi Domenico Ungaro, detto Cifaro, Michele
Bonelli, Giuseppe Cioffi, detto il Torrachese, in qualità di guardiani
della difesa di Serra del Ponte, giravano sempre armati con fare
prepotente e minaccioso.
Questi, a causa di vecchi rancori il 7 agosto 1809 in località Isca del
mulíno di Brindisi uccisero Rocco Dragonetti, pastore di Don Domenico
Molfese di Albano (123). Non soddisfatti si misero alla ricerca di Canio
Molinari, porcaro di Don Celestino Molfese; lo rintracciarono in
località Serra di Majo nell'aia del trivignese Domenico Potenza, dove
questi stava trebbiando aiutato dalle figlie. I tre, dopo avere
rassicurato il paesano, si rivolsero al Molinari accusandolo di avere
sottratto degli indumenti, che Bonelli diceva di avere nascosto in
quella zona, e gli intimarono di non muoversi. Il porcaro, intuite le
loro cattive intenzioni, cercò di ripararsi dietro al Potenza; ma i
guardiani, scaraventatolo a terra, gli spararono e infierirono sul
cadavere a colpi di pugnale; come ultimo scempio gli strapparono a morsi
l'orecchio sinistro. Assisté alla barbara uccisione del padre il figlio
Domenico, di otto anni, che riuscì a fuggire e raggiungere l'aia del
trivignese Innocenzo Masi a cui raccontò l'accaduto. Bonelli, Ungaro e
Cioffi dopo si recarono alla masseria di Don Celestino Molfese, in
locaIità Fontanili, minacciando i foresi con i fucili spianati,
ingiunsero di riferire al padrone d'inviare sedici ducati, altrimenti
avrebbero ucciso gli animali e incendiato la masseria. Rientrando a
Trivigno incontrarono Donato Antonio Imundi e Canio Avigliano, giunti in
paese Ungaro fece emanare un bando con cui sollecitava i paesani a darsi
al brigantaggio; molti uomini armati e fregiati di coccarda rossa si
unirono a lui; i cittadini onesti e i galantuomini, sopraffatti dalla
paura, abbandonarono l'abitato rifugiandosi presso parenti e amici ad
Albano e a Brindisi.
Ungaro, Bonelli e Cioffi poi si diedero apertamente al brigantaggio
aggregandosi alla banda Scattone (124). Quest'ultima la mattina del 14
agosto entrò in paese con 150 uomini, fra essi molti erano trivignesi,
tutti armati di fucile, di pistola, di baionetta e in gran parte a
cavallo.
I briganti, dopo avere inalberato la bandiera rivoluzionaria sul campanile
della Chiesa Madre, si dettero al saccheggio facendo razzia di armi
nelle case di Raffaele Lamonea, di Pietro Paolo Sarli di Tommaso Egidio
Brindisi e di Luigi de Marco. Trai trivignesi si distinsero per
spavalderia ed efferatezza Giambattista Abbate e Giuseppe Larocca i
quali, per vendicare un antico sopruso, estorsero, sotto la minaccia
delle armi, a Innocenzo Zito dodici ducati. All'imbrunire Imundi,
Ungaro, Bonelli e Cioffi si recarono nel largo, detto Chiazzillo, e
costrinsero Rocco Filitti, servente della Giustizia di Pace, ad emanare
un bando, con esso si chiedeva alla popolazione di riconoscere capo dei
briganti di Trivigno Donato Antonio Imundi.
Partita la banda, i quattro rimasero in paese per controllare l'evolversi
della situazione e incutere paura con la loro presenza. A notte fonda si
mossero per raggiungere la comitiva, ma furono fermati al Calvario da
alcuni galantuomini e persuasi a non fomentare rivolte; dopo avere
ricevuto il prezzo dei cavalli presi dalle stalle di Don Francesco
Guarini, dell'Arciprete Sodo, del notaio Nicola Filitto, li restituirono
ai padroni e rientrarono nelle loro case. La mattina seguente la
bandiera rivoluzionaria non era più sul campanile e tutto sembrò
ritornare alla normalità.
La banda Scattone, con Imundi a capo dei trivignesi, il 18 agosto invase
ancora una volta il paese. Verso le ventidue si sentirono degli spari
provenienti dalla fontana pubblica sita fuori l'abitato; corse subito
voce che era stato ucciso Don Andrea Prete (figlio dell'ex sindaco
Domenico) mentre tentava di nascondersi in una sua vigna presso la
fontana.
Rocco Volini nella testimonianza resa alla giustizia disse che dal luogo,
dove si era nascosto per non essere preso dai briganti, aveva sentito
passare un gruppo di persone e affermò di avere riconosciuto la voce di
Francesco di Benedetto.
Questi si vantava di essere stato il primo a sparare a Don Andrea Prete,
ma il colpo era andato a vuoto, mentre il secondo, sparato da Pietro
Sarli, lo aveva ferito mortalmente; alla fine Giambattista Abbate,
Francesco Santalucia e altri lo avevano crivellato di pallottole.
Compiuto l'omicidio i briganti trasportarono su di un mulo il cadavere
in paese; davanti alla taverna dell'ex feudatario, tra scomposte grida
di gioia, dettero alle fiamme il corpo, dopo che Giambattista Abbate e
Pietro Sarli gli ebbero recisa la testa che fu appesa, come macabro
trofeo di una vendetta consumata, ad un muro davanti alla casa di Pietro
Maggio. La mattina successiva Francesco Santalucia la consegnò a Basileo
di Grazia il quale, non riuscendo ad afferrarla per i capelli, stizzito
disse: "giacobino fottuto non tieni manc'i capelli p't'puté purtà".
Ancora non soddisfatti, come estremo atto di oltraggio, avevano
intenzione di appendere la testa ad un muro di casa Prete ma furono
distolti dai compagni; dopo avere bruciato quello che restava dei
capelli, la gettarono al Paschiere in pasto ai cani, poi saccheggiarono
la casa dell'ucciso (125). La banda nella stessa mattina si spostò a
Laurenzana dove era attesa dalla comitiva di Taccone; i briganti il 22
agosto ritornarono a Trivigno (126), poi assalirono Albano dove dettero
alle fiamme l'Archivio Comunale; cercarono infine di raggiungere Tolve,
ma si scontrarono con un manipolo di francesi che li inseguì é li
disperse. Dopo parecchi giorni molti trivignesi, non trovando scampo
perché ogni Comune del Circondario era presidiato dai francesi, braccati
e senza aiuti rientrarono in paese. Quasi tutti furono arrestati, solo
Antonio Abbate, Giambattista Abbate e Pietro Citarulo si consegnarono al
Comandante della Guardia Civica, Don Saverio Filitti. La Gran Corte
Criminale di Basilicata di Matera nell'ottobre del 1809 istruì i
processi a carico dei briganti accusati di avere fatto parte di bande
armate, di avere commesso omicidi e violenze, di avere provocato incendi
e devastazioni (127). Dal rapporto del Presidente della Corte (Matera 31
dicembre 1810) si apprende che Donato Antonio Imundi, Francesco di
Benedetto, Francesco Santalucia, detto Manzi, furono processati,
condannati e giustiziati a Matera il 14 settembre del 1811 (128).
Giuseppe Cioffi fu processato per brigantaggio dalla Corte Militare di
Matera e condannato a morte; fu giustiziato il 7 settembre 1811. Si ebbe
notizia della sua morte molto tempo dopo quando furono istruiti i
processi a carico di Ungaro e di Bonelli (129).
Domenico Ungaro continuò a svolgere il suo lavoro, protetto dai
maggiorenti del paese, né fu aperta un'indagine dal Giudice di Pace. Fu
arrestato nel bosco di Trivigno ai primi di dicembre del 1811 per ordine
del Consigliere di Basilicata, Sig. Nicola Gala. La Gran Corte Criminale
di Potenza lo rinviò a giudizio per avere volontariamente ucciso il 7
agosto 1809 Rocco Dragonetti e Canio Molinari di Albano; per tentata
estorsione a danno di Don Celestino Molfese; per avere fomentato la
ribellione del popolo di Trivigno e commesso altri atti briganteschi. Il
procedimento a carico dell'accusato ebbe uno sviluppo lungo e singolare;
fu portato a termine soprattutto per la determinazione e il grande
desiderio di giustizia, espresso nelle varie suppliche, di Maria di
Perna e Carmina d'Anzi, vedove degli uccisi. Venne ordinato dalla Gran
Corte Criminale (18 maggio 1812) al Giudice di Pace di Tolve d'istruire
un processo suppletivo, di ascoltare i testimoni e di raccogliere tutti
gli elementi utili alla ricostruzione dei fatti. Aperto il dibattimento
l'8 febbraio 1813 furono sentiti i testimoni che confermarono quanto
dichiarato in Istruttoria, il difensore avv. Liborio Cufari e lo stesso
imputato che accusò i galantuomini di avere complottato contro di lui.
I giudici ritennero Domenico Ungaro colpevole dei reati ascrittigli e lo
condannarono all'ultimo supplizio da subirlo nella pubblica piazza della
sua Patria e alla confiscazione dei beni; la sentenza fu eseguita a
Trivigno il 10 febbraio 1813.
Michele Bonelli fu arrestato il 31 ottobre del 1813 a Spinoso, suo paese
nativo; processato, fu riconosciuto colpevole dei reati di cui era
accusato e condannato a morte; fu ghigliottinato a Potenza il 21 gennaio
1814.
Il Re, allarmato dalle scorrerie e atrocità commesse dai briganti,
incaricò il Generale Manhès di operare un'opportuna ed energica
repressione, concedendogli ampi poteri per giungere ad un'immediata e
definitiva eliminazione del fenomeno brigantesco. Egli, dopo essere
stato in Calabria, passò in Basilicata, ponendo il suo quartiere
generale a Potenza.
Furono pubblicate tre Leggi contenenti una serie di ordini e disposizioni
miranti al definitivo sradicamento del fenomeno brigantesco:
1) ai promotori e seguaci del brigantaggio si ordinava la confisca dei
beni e si promettevano vantaggi a chi avesse favorito la diserzione
dalle bande brigantesche;
2) si ordinava di approntare le liste dei briganti e si stabiliva che, se
catturati, fossero giudicati dalle Commissioni Militari;
3) si prometteva un premio di 300 ducati a colui che avesse ucciso un
capobrigante;
4) per favorire la diserzione si concedeva un premio di 400 ducati, oltre
il perdono al brigante, che volontariamente avesse abbandonato la banda;
1.000 ducati, oltre il perdono, al capobanda che avesse facilitato la
cattura di almeno 30 briganti, fornendo opportune indicazioni al
Comandante militare della Provincia;
5) per evitare che i ricercati potessero ricevere aiuto e protezione dalle
popolazioni si ordinava, pena la morte, a tutti i lavoratori che si
recavano in campagna, di non portare cibo neanche per sé. Se qualche
capo di bestiame, portato al pascolo, fosse caduto in mano ai briganti,
tutti gli altri animali sarebbero stati confiscati e i guardiani, quali
conniventi dei briganti, condannati a morte;
6) s'imponeva a tutti i contadini atti alle armi di prestare servizio per
due giorni alla settimana, pattugliando di giorno e di notte le
campagne; i trasgressori sarebbero stati puniti con la pena di morte
(130).
Questo genere di giustizia, così violenta e spietata, si mostrò molto
efficace e la Provincia si andò lentamente pacificando.
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