7.
Protagonisti e riflessi del brigantaggio a Trivigno
In paese si era formato un numeroso gruppo di filoborbonici che divenne
sempre più attivo nel mese di ottobre, quando si seppe dell'arrivo in
Basilicata di Borjes. Il 6 ottobre Crocco fu visto nel bosco di Brindisi
di Montagna in compagnia di Angelo Serravalle che lo aveva rifornito di
viveri (81).
Il sindaco, allarmato da tale notizia, cercò di mobilitare la Guardia
Nazionale, ma trovò una ferma opposizione in Luigi Orga che in piazza
rispose arrogantemente: "Voi avete voluto Vittorio Emanuele e voi
difendetelo" (82) e aveva proibito al figlio di fare parte della Guardia
Nazionale. Tra i borbonici, che avevano più ascendente sul popolo ed
erano attivi sobillatori e arruolatori di briganti, si distinsero:
Francesco Abbate, Michele Zito, Giuseppe de Rosa, Rocco Petrone,
Vincenzo Russo e Rocco Luigi Volini. Collaborarono con questi anche
coloro che potevano frequentare il bosco di Brindisi di Montagna senza
destare sospetti come il guardiano Saverio Rapo, Luigi Orga, appaltatore
del taglio di legname e Basileo Zito che in quella zona aveva la
proprietà. Essi mantenevano i contatti con i fratelli Serravalle,
fornivano loro cibo, notizie e sostegni di ogni genere. Non a caso pochi
giorni prima dell'invasione il figlio di Basileo Zito, pubblicamente,
affermò che circa dodici famiglie di galantuomini sarebbero dovute
essere distrutte. Anche altri segnali davano per imminente un attacco
dei briganti; alla fine di ottobre del 1861 il sacerdote Don Arcangelo
del Giudice atterrito riferì di avere visto all'imbrunire Basileo Zito
che mezzo ubriaco e a briglia sciolta ritornava da Brindisi, percorrendo
una strada diversa dalla solita. A colui che glielo aveva fatto notare
Zito aveva risposto che doveva sbrigare una faccenda in una vigna che
possedeva nei paraggi; del Giudice aggiunse di avere sentito dire che
una ventina di briganti erano stati visti in località Sant'Antonio.
Queste voci allarmarono il capitano della Guardia Nazionale, don
Francesco Coronati che con un gruppo di militi si recò a perlustrare il
luogo indicato, senza però trovare traccia dei banditi (83). In quei
giorni i manutengoli fecero circolare con insistenza la notizia di una
possibile invasione brigantesca, non solo per creare tensione nella
popolazione, ma per sondare anche l'eventuale reazione delle autorità ed
essere pronti a neutralizzarla. Il sindaco e il capitano della Guardia
Nazionale per evitare di essere colti di sorpresa allenarono gli uomini,
istituirono, per la notte del 2 novembre, turni di guardia; purtroppo
tutto fu inefficace perché tra i militi vi erano dei filoborbonici, come
i fratelli Luigi e Valerio Orga, Rocco Rago ed altri che non solo non si
opposero, ma favorirono con ogni mezzo l'ingresso in paese delle bande
dopo avere accuratamente predisposto ogni cosa perché l'azione
brigantesca avesse buon esito. Il 31 ottobre 1861 circa duemila briganti
con a capo Borjes e Crocco si mossero da Lagopesole, guadato il fiume
Basento giunsero nel bosco di Brindisi, in località lago della Goglia.
Ad attenderli c'erano Angelo Serravalle e i trivignesi Rocco Luigi
Volini, Domenico Antonio Prete, Rocco de Marco, Michele Zito, Francesco
Abbate che convinsero facilmente Borjes ad assalire il paese. Il
Generale, nei giorni precedenti, aveva avuto fitto carteggio con i
borbonici di Potenza che gli avevano assicurato che da Trivigno era
giunta una lettera nella quale si asseriva che in paese erano attesi, e
non ci sarebbe stata alcuna opposizione perché la popolazione era molto
scontenta; ciò fu confermato anche da Angelo Serravalle (84). La mattina
del 3 novembre un gruppo di trivignesi si recò nel bosco di Brindisi per
sollecitare l'azione dei briganti; verso sera Luigi Orga, di ritorno dal
bosco pur sapendo cosa sarebbe successo di lì a poco, ostentando
un'eccessiva allegria si divertiva con un gruppo di amici a bere vino.
Tutto era pronto, i filoborbonici trivignesi avevano messo a punto un
accurato piano interno per la buona riuscita dell'azione brigantesca,
scelto e istruito coloro che avrebbero dovuto agire fornendo a ciascuno
un alibi plausibile. Per creare panico nella popolazione intorno alle
20.00 fecero circolare la notizia, non del tutto certa, che i briganti
si stavano avvicinando. Il sindaco e il capitano dei militi cercarono di
verificare la fondatezza di tale voce; ad aumentare la confusione giunse
in piazza, apparentemente trafelata, Antonia Casella. La donna riferì
che mentre si recava in campagna poco distante all'abitato, al Calvario
aveva visto uscire dal bosco un gran numero di uomini armati. Spaventata
era tornata indietro e aveva incontrato il fratosc Rocco Zito che si
trovava fuori per la questua di Sant'Antonio, e Basileo Zito uscito dal
paese per caricare la legna; quest'ultimo le aveva confermato che erano
briganti e per accrescere la paura aggiunse che erano oltre duemila.
Il gran numero degli assalitori, lo scarso tempo a disposizione per
predisporre una difesa, gettarono la popolazione nel terrore. Furono
suonate le campane per allertare i cittadini e chiamarli alla difesa del
paese, ma pochi sentirono l'esigenza di opporsi alle bande. Si decise di
concentrare le scarse forze nelle case sicure esposte ad occidente e a
mezzogiorno.
Da questi due punti era più facile l'accesso all'abitato, che era difeso a
settentrione da rocce altissime e ad oriente da un unico scosceso e
stretto sentiero malagevole per il passaggio di armati a cavallo. Un
gruppo abbastanza numeroso di trivignesi tra cui Innocenzo Tamburrino,
Pietro Allegretti, Marco Acerenza, Rocco de Marco e Maria Ungaro si
diresse verso il Calvario per andare incontro ai briganti, mentre
Michele Imundi (tamburino della Guardia Nazionale) con la coppola faceva
loro cenno di poter avanzare liberamente. Al suono del suo tamburo le
comitive brigantesche con a capo Borjes, Crocco, Ninco-Nanco, Angelo
Serravalle, alle quali si erano aggregati molti trivignesi, entrarono in
paese accolte e incoraggiate anche da Luigi Orga, Luigi Coronati, Luigi
Abbate, Giuseppe Gentile; a qualche finestra comparvero i primi panni
bianchi, con essi si segnalava l'adesione all'invasione. I briganti,
divisi in gruppi, entrarono in paese da punti diversi cercando di
prendere alle spalle i difensori.
Il capitano della Guardia Nazionale Francesco Coronati, i fratelli Rocco e
Tommaso Brindisi e Francesco Antonio con circa trenta militi alla
Portlaterra, dalle finestre delle loro case con un nutrito fuoco di
sbarramento, cercarono di opporsi. Riuscirono per oltre tre ore a tenere
testa agli invasori; poi la mancanza di munizioni, le forze soverchianti
dei briganti, e il tradimento interno dei paesani, travolsero qualsiasi
resistenza. I briganti catturarono la Guardia Nazionale Vincenzo
Piacentino che insieme ad altri aveva combattuto contro le bande; mentre
veniva condotto dal generale riuscì a divincolarsi e fuggire
nascondendosi in una cisterna. Cominciò la notte di terrore: "quello che
successe di poi lo seppero i disgraziati cittadini" (85).
Il paese, privo di difesa, venne percorso in lungo e largo dai briganti:
"anelanti di sangue e più ancora di bottino, soprattutto di piastre e
oro e qualche indumento", e da un gran numero di paesani, briganti fra i
briganti (oltre 160) che, ornati i cappelli con coccarde rosse, fecero
causa comune con l'orda condividendo tutti gli eccessi. Indicarono le
case, le stalle e i magazzini da scassinare; a colpi di scure furono
aperti i portoni e le porte, anche se talvolta non ce ne fu bisogno
perché gli abitanti, fuggendo per mettersi in salvo, avevano lasciato
tutto in balìa dei saccheggiatori che entrarono nelle case dei
galantuomini, le svuotarono di ogni arredo, impossessandosi di
biancheria, oggetti d'oro, armi, depredarono i magazzini, le cantine, i
fondachi; tutto fu razziato e violato. Fu dato libero sfogo agli antichi
e profondi rancori, con l'omicidio, la rapina e l'incendio furono
vendicati i veri o i presunti torti subiti.
Molte popolane affiancarono i propri uomini e i briganti nell'azione
distruttrice; per efferatezza e determinazione non furono seconde a
nessuno. Così come disse Crocco: "vi erano i paesani che molto più dei
briganti erano interessati a commettere quei misfatti" (86). In molte
case di fiancheggiatori i banditi vennero rifocillati e curati; Rocco
Luigi Volini li ospitò in un'abitazione predisposta da tempo allo scopo,
Giovanni Gentile, in nome dell'amicizia creatasi nel carcere di
Trivigno, accolse e curò Nicola Rinaldi di Brindisi, Marco Acerenza si
recò di notte in campagna a medicare due briganti. Coloro che non
vollero essere travolti dagli eventi e soprattutto le donne si nascosero
negli anditi più segreti, nelle case di paesani filoborbonici (Teresa
Marino, Luigi Orga, Luigi Abbate) o trovarono accoglienza nella masseria
del manutengolo Basileo Zito.
Molti galantuomini preferirono mettersi in salvo allontanandosi dal paese,
sotto la pioggia e col favore delle tenebre, percorrendo impervi
sentieri; dopo avere guadato il fiume Basento raggiunsero Albano dove
furono accolti da parenti e da amici. Altri si radunarono nella casa del
sindaco; questi, che pure disperatamente aveva cercato di organizzare la
difesa del paese, fu travolto dagli eventi; nel suo avito palazzo (oggi
degli eredi Russo) fu costretto ad accogliere Borjes, Crocco e
Serravalle. I presenti furono sottoposti a ricatto; per avere salva la
vita vennero consegnati a De Langlais 280 ducati (81).
Crocco infatti disse: "per conto mio limitai l'impresa a raccogliere
ducati, imponendo taglie ai più facoltosi, sotto pena d'incendio e di
morte"; i fatti confermarono queste parole del capobrigante. Molte case
di galantuomini e di ricchi massari furono saccheggiate e talvolta date
alle fiamme, né mancarono omicidi e atrocità di ogni genere. Michele
Pisani, detto Bandito, il fornaio Luigi Mogio con il figlio Angelantonio
e altri paesani aprirono a colpi di scure il portone della casa di Don
Alessandro Coronati, abbandonandosi al saccheggio, mentre i fratelli
Vignola, Antonio, Rocco Vincenzo e Michele depredarono i magazzini;
Angelo Maria Tamburrini indicò ai briganti la stalla dalla quale fu
preso un cavallo. Altri scassinarono e dettero alle fiamme la casa di
Alessandro Maggio, la stessa sorte toccò al palazzo Sassano. I briganti
a colpi di scure aprirono il portone e saccheggiarono ogni cosa; fra i
più facinorosi si segnalarono i paesani Giuseppe Angelo Casella, la
sorella Angela e la madre Maria Ungaro che nel depredare la casa
trovarono, a letto nella sua camera, il vecchio e infermo Don Domenico
Antonio Sassano. Il Casella si divertì, tra schiamazzi e parole di
scherno, a tormentarlo con la scure senza ucciderlo; infine la madre e
la sorella con fredda e crudele determinazione, dopo avere gettato sul
letto del petrolio, gli dettero fuoco pur essendo l'infelice ancora vivo
(88). Lo stesso Casella aiutato da Rocco de Marco, da Giuseppe Quirino e
da altri fece sì che l'incendio si propagasse ovunque. Anche il palazzo
dei fratelli Rocco e Tommaso Brindisi fu assalito da molti
saccheggiatori; il fornaio Luigi Maggio con il figlio Angelantonio e
Luigi Fusillo,scassinarono i magazzini di Don Tommaso Brindisi,
trafugando una grande quantità di vino; a colpi i scure aprirono a porta
dell'ingresso secondario prospiciente al palazzo Sassano e insieme ai
predatori di quest'ultimo si dettero al saccheggio.
Il portone principale, secondo quanto narrato da persone della famiglia
Brindisi, fu aperto dall'interno da una serva infedele, Angela Nella,
detta Ricotta (33), per favorire l'ingresso del marito Francesco Abbate
che insieme a Domenico Melfi, Domenico Stasi, Michele Pisani depredarono
ogni cosa e appiccarono l'incendio che si propagò fino al tetto.
Un altro gruppo di malfattori ai quali si erano uniti i paesani Vincenzo
Passarella, Luigi Abbate, Giuseppe Guarino, detto Viniero, Giuseppe
Cinefra, Rocco de Marco, Giuseppe Quirino, assalirono la casa di Don
Giovanni Battista Guarini. Mentre a colpi di scure tentavano di aprire
il portone la madre, Donna Cristina Brindisi, dall'interno osò puntare
il fucile contro di loro che non esitarono a fare fuoco attraverso la
finestra, uccidendola (90). Vinta ogni resistenza, sfondata la porta
costrinsero Don Giambattista Guarini sotto la minaccia delle armi a
seguirli fino in piazza dove venne ucciso con due colpi di fucile alla
schiena (91). Gli assassini sfogarono il loro odio con ferocia bestiale
seviziando il cadavere a colpi di scure e Luigi Abbate, come ultimo
sfregio, lo calpestò.
Crocco disse: "questo assassinio, che fu imputato a me, seppi poi che era
stato compiuto da uno sconosciuto, che voleva vendicarsi delle molte
angherie ricevute" (92). Non sfuggi al saccheggio la casa di Don
Giuseppe de Marco, cassiere comunale. Nicola Vignola, detto Zucàro, per
antica inimicizia insieme ad altri briganti aperta la porta a colpi di
scure, ridotti in pezzi parte del mobilio, fecero irruzione nella stanza
dove aveva sede l'ufficio dell'Esattoria Comunale, distruggendo i
documenti e i registri fondiari, rubando il denaro in contante, e circa
250 ducati in fedi di credito pronte per essere versate alla Ricevitoria
Generale.
Nel febbraio del 1862 il capitano Vimetti del 18 Battaglione di stanza a
Trivigno da un informatore seppe il nome degli assalitori e costrinse il
Vignola a restituire il denaro (93).
A notte inoltrata un gruppo di briganti, capeggiati da Andrea Guarino e da
Giovanni Antonio Petrone, si presentò in casa di Pasquale Volini, milite
della Guardia Nazionale; in presenza della moglie Stella e del
figlioletto Rocco, il Guarino con arroganza e determinazione disse:
"Pasquale dovrai marcire senza nessuna compassione". Ad un suo cenno
riecheggiarono tre fucilate che ferirono il malcapitato alla spalla e al
braccio destro; a causa dei colpi si spense il lume, un brigante cercò
di assicurarsi che il Volini fosse morto e credendolo tale, tutti
andarono via.
Il Guarino non convinto, poco dopo ritornò con altri suoi amici, trovato
il ferito a letto, con freddezza gli avvicinò il fucile alla tempia e
fece partire un colpo uccidendolo. Soddisfatto esclamò: "ora si che hai
cessato di gridare, viva Vittorio Emanuele e fottiti" (94). Il Petrone,
come mandante, e il Guarino, come esecutore dell'omicidio, vendicarono
presunti torti ricevuti. Nella misera casa non trovando altro
s'impossessarono di un cappotto, di una camicia, di un paio di calzoni
corti di felpa e di un fazzoletto bianco.
L'ultima ferocia fu commessa dal capobanda Ninco Nanco; prima di
abbandonare il paese, quasi all'alba del 4, entrò con i suoi
nell'abitazione di Michele Petrone, sottostante al palazzo Brindisi già
dato alle fiamme. Affrontò il padrone di casa e gli chiese con tono
minaccioso dove fossero nascoste le piastre, poiché questi non volle
rivelarlo, lo uccise insieme alla moglie Teresa; morirono abbracciati
quasi a proteggersi a vicenda, trafitti da un solo colpo; la casa fu
abbandonata al saccheggio (95). Furono scassinate, devastate e depredate
le abitazioni del medico Federico Volini, del legale Francesco Antonio
Beneventi, del possidente Giambattista Abbate. I briganti, entrati negli
Uffici del Regio Giudicatole e a Ricevitoria del Registro e Bollo,
distrussero i documenti e le suppellettili; aprirono il carcere
mandamentale consentendo la fuga dei detenuti. Oltre questi episodi che
i documenti ufficiali riportano molti altri sono rimasti sconosciuti
perché non denunciati da coloro che li avevano subiti, temendo
ritorsioni e vendette.
Si aggiunge quanto accadde quella notte al proprietario Michele Padula e
alla sua famiglia, così come ricordava il figlio Fabrizio al quale i
genitori avevano narrato i fatti (96). Durante il saccheggio i briganti
devastarono la casa e asportarono insieme alle masserizie anche gli
zaini di piastre, che rappresentavano il ricavato dell'annuale
produzione granaria e vinicola. La madre Carmela, ancora spossata dalla
nascita di Fabrizio (19 ottobre 1861), con i familiari si era
rincatucciata in fondo ad una camera.
Stava per accadere il peggio quando sopraggiunse il brigante Angelo
Serravalle che, non dimenticando quante volte era stato beneficiato
dalla famiglia Padula, sbarrò il passo ai suoi gridando: "la robba sì,
le persone no, ordine del Generale".
Rivoltosi alla moglie chiese dove fosse Don Michele, fattolo scendere dai
tetti dove si trovava a caricare i fucili per contrastare l'orda
brigantesca, gli disse che avrebbe dovuto trovare un rifugio sicuro per
sé e la famiglia. Nel frattempo arrivò in casa Borjes seguito dai suoi,
Serravalle scambiò con lui poche parole incomprensibili (forse un
segnale convenuto). Il generale guardò i presenti con benignità, chiese
della biancheria, delle calze, che gli furono portate cercando di fargli
intendere che quelle modeste cose gli venivano offerte.
Egli, quasi offeso, volle pagare, gettò sul tavolo una moneta, comandò ad
un subalterno di prendere gli indumenti e uscì borbottando, rendendosi
forse conto di essere circondato da pochi militi e molte canaglie, e di
essere considerato insieme ai suoi dei briganti. La descrizione più
veritiera di questa terribile notte la fornisce lo stesso Borjes nel suo
Diario: "... il disordine più completo regna tra i nostri, cominciando
dai capi stessi, furti, eccidi, atti biasimevoli furono la conseguenza
di questo assalto, la mia autorità è nulla .... " (97).
Andrea Pisani, nella sua Storia di Brindisi di Montagna, racconta di
quella notte: "una cortina di nebbia fitta da tagliare con la scure
impedisce la vista della campagna, delle alture, della Serra e del bosco
Cute ....La nebbia va scomparendo: Trivigno appare tra colonne fumo e
guizzi di fiamme, come un inferno" (98).
Verso le 7 del mattino del giorno 4 i briganti, sazi di eccidi e
saccheggi, abbandonarono il paese, dirigendosi verso Castelmezzano, per
poi spostarsi a Calciano dove commisero altri eccidi fino ad arrivare a
Garaguso. La banda, il giorno 7, a Salandra ebbe un violento scontro a
fuoco con un gruppo di garibaldini e di milizie regolari; rimasero sul
terreno molti soldati e briganti, tra questi anche Angelo Serravalle.
Non furono risparmiati i centri di Craco, Aliano, Grassano, San Chirico
e Vaglio; quest'ultimo, il giorno 16, fu assalito, incendiato e
saccheggiato malgrado l'eroica difesa dei cittadini, così come riconobbe
lo stesso Crocco (99). Fra i difensori c'era anche il trivignese
Francesco Antonio Beneventi, rifugiatosi dopo i fatti di Trivigno con la
famiglia presso il suocero Rocco Danzi, vecchio carbonaro, barbaramente
ucciso dai briganti, che trucidarono anche la figlia Filomena mentre era
china sul padre per soccorrerlo (100).
La Guardia Nazionale e i cittadini di Pietragalla respinsero le bande che,
sfinite e scoraggiate, ripararono nel bosco di Lagopesole e cominciarono
le diserzioni.
Crocco, stanco di attendere gli aiuti promessi dai borbonici, assalì
ancora Bella, Ricigliano, Pescopagano, commettendo ovunque stragi. Molti
briganti furono uccisi, i superstiti i superstiti si rifugiarono nel
bosco di Monticchio; Crocco sciolse le bande, requisì i fucili e volle
che rimanessero con lui solo i vecchi compagni (101). Alla banda di
Pasquale Cavalcante che rientrava a Corleto, suo paese d'origine, furono
aggregati i trivignesi che, tra Vaglio e Serra del Ponte, appena ebbero
la possibilità fuggirono e alla spicciolata fecero ritorno a Trivigno.
Il Borjes, che per forti contrasti con Crocco era stato praticamente
esautorato dal comando, comprese che la sua missione era terminata; con
i suoi decise, il 29 novembre, di spostarsi nello Stato Pontificio. Con
una leggendaria marcia, braccati dalle truppe e dalle guardie nazionali,
tra i rigori di una stagione particolarmente fredda, dopo avere
attraversato l'alto Molise e l'altipiano delle Cinque Miglia,
raggiunsero la Marsica.
Furono sorpresi, l'8 dicembre, dai bersaglieri del maggiore Franchini
nella cascina Mostroddi, in località La Luppa presso Tagliacozzo, a 10
chilometri dalla frontiera pontificia. Dopo un vivace scontro a fuoco
furono catturati e scortati a Tagliacozzo, dove vennero fucilati alle 4
del pomeriggio. Con Borjes furono giustiziati undici spagnoli e otto
lucani fra cui il trivignese Rocco Luigi Volini (102).
Il 4 novembre quando i briganti lasciarono il paese oltre cento trivignesi
si aggregarono ad essi, per lo più volontariamente; altri
fiancheggiatori rimasero nell'abitato per fornire notizie ai capibanda,
girando per le strade minacciosi e ancora baldanzosi per il successo
ottenuto. Gli abitanti, piegati dalla terribile esperienza, piangevano i
morti, le case distrutte, i beni perduti, il tradimento dei parenti e di
coloro che ritenevano amici.
Il disordine regnava ovunque, mancava una forza di polizia capace di
ristabilire la legalità; spento il clamore delle orde brigantesche cadde
sul paese un silenzio carico di paura, mentre gli incendi continuavano a
bruciare. I fuggiaschi cominciarono a piccoli gruppi a rientrare dalle
campagne e da Albano il 5 novembre, videro i cadaveri straziati e gli
effetti della furia brigantesca apparvero in tutta la loro drammaticità;
ogni famiglia avrebbe potuto raccontare una sua storia terribile; a
evocare quei momenti ci sono le parole di Crocco e di Borjes che nei
loro scritti ricordarono il sacco di Trivigno con rammarico il primo,
con sgomento il secondo, ed il lungo e laborioso processo celebrato
dinanzi la Corte d'Assise di Potenza.
Il pretore Vincenzo di Pietro con il cancelliere Gennaro de Sanctis
rientrato in paese sa Albano, apprese che i briganti oltre al saccheggio
avevano commesso omicidi, incendi e numerosi atti delittuosi. Dovendo
procedere alle operazioni prescritte dalla legge si rivolse al sindaco
per conoscere l'esatto svolgimento dei fatti accaduti, avere l'elenco
delle case saccheggiate e incendiate e conoscere dove si trovassero i
cadaveri in modo da raccogliere tutte le prove dei reati prima che si
potessero alterare e disperdere. A tale richiesta il sindaco non dette
alcuna risposta; il giudice incaricò il cancelliere di acquisire notizie
dalla voce pubblica. L'accertamento di quanto accaduto fu molto
difficoltoso per le contraddittorie versioni dei fatti, ma soprattutto
per il silenzio dei danneggiati, intimoriti dal comportamento minaccioso
della plebe.
Si accertò che le vittime erano: Don Domenico Antonio Sassano, il cui
cadavere era bruciato nel rogo della casa, la Guardia Nazionale Pasquale
Volini, i coniugi Michele Petrone e Teresa De Stefano, Don Giambattista
Guarini e la madre Donna Cristina Brindisi; i cadaveri, per la pietà del
sacerdote Don Costantino Brindisi fratello di una delle vittime, erano
stati già sepolti nella cella ipogea della Cappella del Monte dei Morti
(103). Si verificò anche che erano stati incendiai e saccheggiati i
palazzi Sassano e Brindisi, depredate e devastate le case di Don
Giuseppe De Marco, Don Nicola Abbate, Don Alessandro Coronati, Don
Giambattista Guarini, Don Francesco Antonio Beneventi, Don Federico
VoIini, Don Alessandro Maggio e gli Uffici della Cancelleria della
Pretura, la Ricevitoria del Registro e Bollo e l'Esattoria Comunale (v
Appendice, I, p. 195 ss.).
Il cancelliere si rese conto che le case saccheggiate erano molte di più,
forse tutte quelle appartenenti a proprietari e a persone agiate del
paese. I briganti erano entrati in esse senza violenza perché lasciate
aperte dagli stessi abitanti in fuga; si potevano però valutare i danni
solo su denunzia dei danneggiati che per paura si astennero dal fare
qualsiasi dichiarazione. Per stimare i danni furono nominati quali
periti l'agrimensore Vito Brindisi e il falegname Marco ACerenza che nei
giorni successivi eseguirono gli accertamenti richiesti (104).
Le esigue forze dell'ordine, svolgendo il loro lavoro investigativo,
raccolta qualche indiscrezione, perquisirono le case di alcuni
saccheggiatori e recuperarono, anche se in misura più che modesta, parte
della refurtiva. Si operò l'arresto di Antonio Marotta perché nella sua
casa vennero ritrovati due barili di grano e di biada riconosciuti di
proprietà di Don Alessandro Coronati e alcune carte appartenenti a Maria
Nicola Petrone. Presso Carmela Stasi e Michele di Grazia furono trovati
articoli di merceria e carte appartenenti al commerciante Giovanni
Antonio Petrone. Furono perquisite le case dei fratelli Vignola
(Antonio, Rocco Vincenzo e Michele) che la notte del 3 furono visti da
Domenico Antonio Padula mentre trasportavano in casa di Michele una
grande quantità di grano, presa dai magazzini di Don Alessandro
Coronati. Rimproverati per quanto stavano facendo, risposero che con il
ritorno di Francesco II anche le terre dei galantuomini sarebbero state
divise. Rocco Vincenzo, inoltre, aveva trovato in un cassone nascosta
nel grano una cassetta contenente degli oggetti d'oro, che furono divisi
in tre parti.
Il grano fu restituito al legittimo proprietario e dopo alcuni giorni
anche il contenuto della cassetta; il Coronati, ritenendo che alcuni
gioielli erano stati sottratti, pretese un'obbligazione di 22,50 ducati
pagabile in agosto; poco dopo i tre fratelli furono arrestati e
condannati.
La Guardia Nazionale, il 6 novembre, in territorio di Tricarico fermò
Francesco Marino e il figlio dodicenne; perquisite le bisacce e il basto
trovò un taglio di tricò del Regno di colore grigio, una pelle di
vitellino verniciata ed un'altra semplice, un abito da donna di lana
merinos di colore rosso, un paio di guanti di filo di Scozia, una
piastra cucita in un pezzo di stoffa celeste e una federa usata. Il
Marino dichiarò di non avere preso parte al saccheggio del paese, di
essere stato costretto dai briganti a reggere le briglie dei cavalli
fuori dell'abitato. Aggiunse di avere nascosto nella sua casa la moglie
e il figlio del capitano della Guardia Nazionale, Francesco Coronati e
su richiesta di Angelo Serravalle li aveva fatti ritornare in famiglia.
Venne interrogato anche il ragazzo che dichiarò che quella roba era
stata presa dal fratello Antonio durante il saccheggio, e che il padre
era stato armato dai briganti. Sequestrata la refurtiva, malgrado tanti
indizi di colpevolezza, Francesco Marino fu lasciato libero; si seppe in
seguito che si era aggregato alla banda Festa.
Molti trivignesi, che avevano seguito Borjes e Crocco, cominciarono a
rientrare in paese fin dal 4-5 novembre, pochi si presentarono alle
autorità e consegnarono il fucile (105) (v. Appendice, II, p. 199 ss.);
alcuni sorpresi nelle campagne dalle truppe, dai carabinieri e dai
militi delle Guardie Nazionali furono sul posto fucilati (106) (v.
Appendice, III, p. 203 ss.). Altri si aggiravano in paese con
atteggiamento sprezzante, incutendo timore nella popolazione.
Il sindaco, per evitare nuove sventure, fu costretto a chiedere al
Prefetto e al Comandante militare di Potenza d'inviare i soldati. Il 30
novembre giunsero gli uomini della 16 Divisione, al comando del
luogotenente Giovo che, su indicazione degli stessi paesani, fece
arrestare 28 ricercati; altre tre compagnie del 18 Reggimento di
fanteria, comandate dai capitani, Rocco, Vimetti e Gatti, arrivarono il
3-4 dicembre. Nonostante le promesse fatte senza alcun processo i
detenuti furono, nel pomeriggio del 5 dicembre alle ore 17, fucilati
davanti alla Cappella del Calvario e i cadaveri lasciati insepolti come
monito ai ribelli (107) (v. Appendice, IV, p. 205 ss.). Poco dopo
l'esecuzione arrivarono i militi della Guardia Nazionale di Vaglio,
tutti con l'animo esacerbato, soprattutto Giuseppe Danzi che aveva avuto
il padre e la sorella uccisi, la casa saccheggiata e data alle fiamme.
Essi erano calati di corsa a Trivigno per fare direttamente giustizia dei
predoni delle loro case; trovatili già fucilati si dovettero
accontentare di vedere i loro cadaveri e accertarsi se tutti fossero
morti. In questa ricognizione s'accorsero che uno non era stato
raggiunto dai colpi e, astutamente, si era finto morto; tra urla,
imprecazioni e bestemmie lo fulminarono con una scarica di pallottole.
Mancava tra i morti Pietro Allegretti, detto Occhio di bove, uno dei più
spietati assassini.
I vagliesi con l'aiuto dei trivignesi lo cercarono con feroce
determinazione, scovandolo verso sera in una cisterna secca, lo trassero
fuori a viva forza e lo fucilarono, erano le ore 20,00 (108). Dopo le
esecuzioni del 5 dicembre, molti di coloro che erano rientrati in paese
si dettero alla latitanza; il 10 dicembre il Prefetto De Rolland fece
pubblicare un manifesto con cui si garantiva salva la vita a chi si
fosse consegnato spontaneamente, e molta indulgenza per coloro che non
avessero commesso delitti di sangue. Allettati da questa promessa
ventotto ricercati si presentarono all'autorità militare tra il 13 e il
17 dicembre; la stessa sera su ordine del luogotenente Giovo vennero
arrestati, il 18 scortati dai soldati della Legione Ungherese furono
condotti in carcere a Potenza (109) (v. Appendice, V, p. 208 ss.).
Iniziò una lunga e complessa Istruttoria a carico di 160 trivignesi; il
processo, attraverso vari gradi di giudizio terminò con la condanna a
varie pene di 28 imputati (110) (v Appendice, VI, p. 211 ss.). Tra essi
non erano presenti tutti i veri responsabili, coloro che avevano
istigato, arruolato, armato i più disperati, preparato l'invasione
brigantesca con astuzia e precisione all'interno del paese e stabilito i
contatti con i borbonici potentini. Nel momento dell'assalto avevano
avuto cura, per non compromettersi, di non apparire tra i briganti e di
astenersi da qualsiasi azione violenta, allontanandosi dal paese dopo
avere favorito e verificato il buon esito dell'aggressione.
Questi manutengoli arrestati furono protetti dalla mancata denuncia dei
testimoni che al processo non fecero i loro nomi; prosciolti da ogni
accusa continuarono a vivere in paese, delusi della mancata
realizzazione dei loro progetti e spettatori delle rovine, dei lutti
derivanti dalle loro azioni e ancora vessati dai briganti presenti nella
zona.
8. Intervento dello Stato
I rappresentanti dello Stato, inizialmente, sottovalutarono il
brigantaggio in seguito accusarono il governo di avere, deliberatamente,
preferito inviare contro i briganti l'esercito, di avere lasciato cadere
l'offerta di smobilitazione pervenuta alla Prefettura di Potenza da
parte di Crocco, di Ninco Nanco e degli altri capibanda (111). Il
Parlamento decise che fosse costituita una Commissione d'inchiesta per
accertare le cause del fenomeno e approntare tutti i mezzi necessari per
avviare un'energica repressione (112). Con grande senso pratico, senza
reticenza e con ferma dignità Giuseppe Massari, componente della
Commissione, sostenne che la grande miseria delle popolazioni
meridionali, le infinite promesse di una suddivisione equa delle terre,
le enormi diseguaglianze sociali, i soprusi del ceto dei galantuomini e
le prepotenze degli esponenti delle classi dirigenti, avevano trovato
uno sfogo violento e brutale nel brigantaggio; nonostante questa
approfondita analisi si preferì adottare una dura repressione (legge
Pica) (113). Furono istituiti i tribunali militari per giudicare i
briganti e i loro complici, inviati reggimenti di fanteria e di
bersaglieri per snidare dai covi i briganti, furono ordinate fucilazioni
e arresti oltre che rappresaglie contro le loro famiglie. Tutti coloro
che erano sospettati di favoritismo vennero passati per le armi.
L'Onorevole Castagnola riferiva: "si fucilava senza nessuna guarantigia
non solo dalle truppe ma anche dalla Guardia Nazionale, dai Sindaci,
dalle popolazioni... Spettacolo terribile, strano, anormale" (114).
A Trivigno, come in tutti gli altri centri delle province meridionali, i
Carabinieri e il Sindaco erano tenuti ad inviare alla polizia
informative sul comportamento dei cittadini.
Il delegato del Mandamento di Trivigno, il 9 novembre 1864, denunciò alla
giustizia il sacerdote Arcangelo del Giudice con l'accusa di essere un
reazionario e un disturbatore dell'ordine pubblico e segnalò che,
durante l'invasione brigantesca, la sua condotta era stata molto
discutibile. Istruito il processo e ascoltati i testimoni emerse che le
accuse erano infondate; l'imputato il 18 aprile 1865 venne prosciolto
per non avere commesso il fatto (115).
La situazione in Basilicata diventò sempre più incontrollabile; sciolte le
grandi bande se ne formarono altre costituite da pochi individui che
tenevano la popolazione in allarme non esitando a taglieggiare, a
estorcere, a sequestrare. Venute a mancare le sovvenzioni dei
sostenitori della causa borbonica, i capibanda con ogni mezzo furono
costretti a provvedere al vettovagliamento e alle paghe degli uomini. I
banditi, abbandonata qualsiasi rivendicazione sociale e politica, furono
costretti a lottare per sopravvivere.
Il 21 maggio 1863 mentre sequestravano un tale Orga furono visti da una
donna che cominciò a gridare per chiedere aiuto; fu dai malfattori
"presa, seviziata oscenamente e posta a morte lenta e straziante" (116).
Le bande più presenti nel territorio di Trivigno e dei paesi limitrofi
furono quelle del trivignese Michele Festa, detto Izzo (117), ad essa si
aggregarono il contadino Francesco Marino e il figlio Angelo. Con la
fucilazione del Festa, avvenuta a Pomarico il 16 gennaio 1863, Francesco
Marino si costituì; processato fu condannato a 19 anni di carcere (118).
Angelo Marino continuò le imprese brigantesche con una propria banda;
catturato in agro di Tricarico fu fucilato nel febbraio del 1864 (119).
Antonio Marino, fratello di Angelo, dopo avere seguito il Borjes fece
parte della banda di Ninco Nanco; morì nel territorio di Ruvo del Monte;
su di lui pendeva una condanna a 15 anni di carcere (120).
Il vecchio brigante Paolo Serravalle continuò ad essere l'indiscusso
padrone del bosco di Brindisi di Montagna: i pastori, i contadini, i
proprietari per salvaguardare i propri beni, accettavano le sue
imposizioni. Tale stato di cose ebbe termine con la morte del bandito
avvenuta il 24 agosto 1863. Egli nel territorio lasciò, come triste
eredità, l'abitudine a delinquere.
Gli atti briganteschi si verificarono ancora per vari anni; il 25 luglio
1867 fu sequestrato nella sua masseria Luigi de Grazia che, dopo una
lunga prigionia, fu rilasciato il 22 agosto successivo (121). Lo stesso
de Grazia insieme al giovane Fabrizio Padula (di Giovanni), nel
settembre 1869, sfuggì ad un altro tentativo di sequestro (122). Il
generale Pallavicini, per ottenere risultati più concreti nella lotta al
brigantaggio il 9 agosto 1869 fece affiggere un manifesto in cui si
prometteva un premio di 3.000 lire a chi avesse cooperato alla cattura o
alla presentazione di un capobanda e un modesto premio a chi avesse
favorito l'arresto di un brigante. Anche la Provincia e i Comuni di
Craco, Stigliano ed Aliano offrirono una ricompensa (123). Il Consiglio
Comunale di Trivigno, il 20 ottobre 1869 (124), istituì un premio di 50
lire a chi avesse consegnato alla giustizia, vivo o morto il capobanda
Giuseppe Padovani, detto Cappucccino, che continuava a operare nel
territorio.
L'ultimo e tremendo atto brigantesco, che segnò profondamente la vita
della collettività, fu compiuto, il 16 giugno 1874, dalla banda di
quest'ultimo con il sequestro dei proprietari Michele Padula e Arcangelo
Passarella. Per il primo fu pagato un riscatto di centomila lire (125)
per il secondo si vociferò di ventimila lire.
Arcangelo Passarella, che in realtà non era il vero obiettivo dell'azione
criminosa, fu lasciato libero il 23 giugno dopo il pagamento del
riscatto; la prigionia del Padula durò trentasei giorni. La moglie,
contravvenendo alle disposizioni delle Autorità di Polizia, si adoperò
in tutti i modi per raccogliere la somma richiesta, vendendo o dando in
garanzia il patrimonio di famiglia, tutto questo però non le consentì di
raccogliere la somma. Molti massari spontaneamente, mettendo a rischio i
propri averi, offrirono consistenti somme, gli stessi contadini si
prestarono a preparare il denaro, mutarlo in oro e portarlo ai briganti,
cucito tra le suole delle scarpe per sfuggire alla sorveglianza dei
carabinieri. Michele Padula la notte del 22 luglio bendato fu condotto
fuori dai boschi e lasciato libero con l'avvertimento di sbendarsi dopo
un'ora e di seguire un determinato itinerario senza voltarsi indietro,
pena la vita.
Tale racconto non trova riscontro negli atti processuali dai quali risulta
che non fu pagato alcun riscatto per il rilascio dei sequestrati (126)
(v. Appendice, VII, p. 216 ss.).
Il brigantaggio, che Giustino Fortunato denunziò quale: "ultimo atto del
dramma terribile nei suoi episodi e nei suoi aspetti" della Questione
Meridionale, fu represso con una spietatezza tale da superare anche
quella usata dai Borboni.
Di questo misero popolo attaccatissimo alla propria terra, alle sue
tradizioni, alla parola data, geloso dei suoi averi, della sua casa, del
suo onore, se ne parlò solo per additare i lati negativi. Non si
riconobbe che i delitti furono perpetrati da singoli, o da bande create
o comunque protette dai Borboni e dai signorotti mossi più da interessi
personali che da fini politici. La grande miseria, le palesi
ingiustizie, spinsero i più impulsivi, che non riuscivano a rassegnarsi
a vivere di stenti e a sopportare i soprusi, a diventare brigante prima
ed emigrante poi (127).
9. Il ruolo
dell'Amministrazione Comunale nell'avvio e sviluppo dei servizi
locali
a) Dopo il 3 novembre 1861 la vita del paese risultò sconvolta non solo
dai lutti e dalle rovine derivanti dall'assalto brigantesco, ma anche da
tutti gli altri gravissimi problemi che si aggiunsero a quelli già
esistenti. Il sindaco, per tutelare i cittadini e il territorio, fu
costretto a chiedere alle Autorità preposte d'inviare delle truppe,
acquartierarle prendendo in fitto le case private, provvedendo al vitto
e a tutte le spese necessarie per l'espletamento dei loro incarichi (la
spesa per il mantenimento della truppa, dal 4 novembre al 31 dicembre
1861, fu di 112 ducati e 25 grani) (128). Quando gran parte della truppa
fu ritirata il Comune continuò a sostenere le spese per il Delegato di
polizia, il suo attendente e i militari rimasti di stanza a Trivigno
(129).
L'Amministrazione Comunale, essendo stata chiamata dalle leggi dello Stato
a svolgere il suo ruolo nell'ammodernamento della vita amministrativa e
sociale, profuse il suo impegno con grande senso di responsabilità nei
settori della scuola, della sanità, della posta e telegrafo e dei lavori
pubblici. Le risorse che aveva a disposizione derivavano, in gran parte,
dalle imposte comunali, gravose per i cittadini, ma che davano un
gettito limitato e insufficiente a fare fronte a tutte le necessità;
essa fu costretta a contrarre mutui presso la Cassa Depositi e Prestiti
creando un notevole disavanzo di bilancio.
b) Fino al 1860 le attività sanitarie erano esercitate da pochi regolari
professionisti, da mestieranti e da praticoni.
Con l'Unità d'Italia lo Stato, non potendo consentire in un settore così
delicato questo stato di cose, emanò disposizioni che imponevano a
coloro che esercitavano una pubblica professione (medici, farmacisti,
veterinari, levatrici, droghieri, salassatori) di essere in possesso di
regolare titolo di studio, o di certificato d'idoneità rilasciato dal
Consiglio Provinciale Sanitario, previo accertamento delle capacità
professionali. Tale provvedimento evidenziò situazioni di gravi carenze
di professionalità, costringendo coloro che erano sprovvisti dei titoli
o delle certificazioni necessarii e a regolarizzare la loro posizione,
ma nel contempo creò ulteriori disagi alla popolazione.
In paese intorno al 1870 vi erano due farmacie che, a seguito della nuova
normativa, furono chiuse; di una era stato titolare il chimico
farmacista Giosué Passarella, alla sua morte subentrò il figlio Giuseppe
che, pur se edotto dal padre nella pratica chimica e farmaceutica, era
privo del titolo di studio richiesto dalla legge. Il Passarella avrebbe
dovuto recarsi a Napoli per sostenere l'esame d'idoneità (R.D. 12 agosto
1869); essendo molto anziano e infermo chiese alle Autorità competenti
una provvisoria autorizzazione che però gli venne negata. L'altra
farmacia, dalla morte del titolare Gaetano Verre, era stata gestita, dal
1854 al 1865, dal commesso Rocco Zito, anche questi, non essendo
abilitato, chiese al Ministero dell'Interno l'autorizzazione
all'esercizio. La domanda fu respinta nonostante un attestato di
benemerenza rilasciato dal sindaco che dichiarava di averlo autorizzato
all'esercizio della professione per venire incontro alle esigenze della
popolazione durante l'epidemia di vaiolo, e che lo stesso si era messo
sempre a disposizione di tutti (130).
Per il controllo dell'osservanza delle nuove regole sanitarie il sindaco
era tenuto a trasmettere, periodicamente, alle Autorità Sanitarie
Provinciali l'elenco dei sanitari esercenti (131) che erano nel 1861 i
medici Giuseppe Marotta, Federico Volini, Gaetano Miraglia e il
farmacista Giovanni Coronati (l'esercizio di questi fu distrutto, il 3
novembre del '61, dai briganti), la levatrice, Modesta Benedetto, i
salassatori, Giuseppe Marotta, Leonardo Filitti, Luigi Braia di
Accettura e Pasquale Summa di Vaglio.
c) L'Amministrazione Comunale intervenne per migliorare il servizio
postale, effettuato per molto tempo dai pedoni postali che giungevano in
paese due volte alla settimana. La nuova situazione politica e la
crescente necessità di avere collegamenti rapidi con il capoluogo fecero
sì che il pedone postale effettuasse giornalmente il servizio, partendo
da Trivigno, alle ore 6 di mattina e giungendo a Potenza, alle 11, per
ripartire alle ore 13 e ritornare in paese alle 18 (132). Il Prefetto,
con una nota del 7 luglio 1865, fece presente al sindaco che Trivigno
era l'unico Capoluogo di Mandamento sprovvisto di Ufficio Postale. II
Consiglio Comunale, prendendo atto della necessità e dei vantaggi che
tale servizio avrebbe arrecato alla collettività, l'1 agosto 1865
deliberò l'istituzione; per mancanza di fondi trascorsero ancora due
anni prima che la Giunta Comunale deliberasse (28 aprile 1867)
l'apertura dell'Ufficio Postale, continuando a servirsi del pedone
postale, previo versamento alla Cassa delle Poste della somma pattuita.
Espletò la funzione di ufficiale postale il Sig. Rocco Zito e di aiuto
fiduciario il Sig. Giusto. Con l'inaugurazione della ferrovia, nel 1880,
la posta giungeva alla stazione ferroviaria che, essendo dotata di
telegrafo, riceveva telegrammi anche per i cittadini di Trivigno e il
pedone postale effettuò il suo servizio dalla stazione al paese. La
Prefettura di Potenza, con una nota del 28 settembre 1886, comunicò al
sindaco che, per effetto della legge del 2 giugno 1885 n. 3200, il
Comune avrebbe dovuto essere munito di ufficio telegrafico;
l'istituzione fu deliberata il 24 settembre 1887; l'anno successivo
vennero eseguiti i lavori per la messa in opera della linea telegrafica
per collegare il paese alla stazione ferroviaria; l'incarico di gestire
l'ufficio telegrafico fu affidato al Sig. Rocco Zito.
L'Ufficio delle Poste e Telegrafo venne ubicato in un locale comunale sito
nell'odierna piazza IV Novembre, dal 1909 fu trasferito in un altro
immobile appartenente al Signor Rocco Zito (133).
Il servizio postale, per l'aumento degli scambi e per la comodità dei
cittadini, dal 1911 fu effettuato per mezzo di carrozza chiusa,
eliminando tutti gli inconvenienti derivanti dal trasporto a dorso di
mulo.
d) Il Prefetto della Basilicata, Giulio De Rolland, in apertura della
sessione straordinaria del Consiglio Provinciale nel settembre 1861,
relazionando sullo stato dell'istruzione nella provincia, commentò:
"l'istruzione elementare e primaria nella provincia è a crearsi, come la
secondaria, classica e tecnica". Questa realtà era ben diversa da quella
evidenziata nelle relazioni ufficiali dell'ultimo periodo borbonico
quando, per assicurare un insegnante in ogni comune, erano stati
inseriti nel personale docente "maestri inattivi e ignoranti". Per tale
ragione coloro che avessero voluto istruirsi dovevano fare ricorso alle
scuole private, tenute da sacerdoti e da maestri laici, accessibili solo
ai ragazzi appartenenti alle classi più abbienti.
La situazione della scuola secondaria pubblica non era meno drammatica;
durante l'ultimo decennio borbonico erano stati istituiti solo
l'Istituto Agrario "S. Maria di Valleverde" a Melfi, e il Reale Collegio
a Potenza affidato ai Gesuiti (1850). Questa s scuola non poteva
rilasciare alcun diploma al termine dei corsi, pertanto gli allievi
dovevano sostenere gli esami finali a Salerno (134). Con l'unificazione
nazionale si erano evidenziate le gravi carenze della scuola e
dell'istruzione nella Provincia. Per organizzare la scuola nel Regno fu
estesa a tutte le regioni la legge Casati (13 novembre 1859), valida là
dove c'erano scuole già organizzate con idonei criteri e un tasso di
analfabetismo di appena il 25%, come Piemonte, Toscana, Romagna, ma
inadatta, se non addirittura dannosa, per le regioni meridionali dove il
90% della popolazione era analfabeta. Lo Stato fu costretto a risolvere
il problema della formazione dei docenti aprendo a Potenza (31 luglio
1861) una Scuola Temporanea di Metodo.
I Comuni per legge erano tenuti all'istituzione della scuola elementare
con l'assunzione di tutti i relativi oneri (fitto locali, stipendio
maestri etc). L'Amministrazione Comunale istituì la scuola elementare
maschile e femminile di primo grado (I-II-III classe), prese in fitto i
locali in civili abitazioni (135) ed erogò lo stipendio ai due
insegnanti. In mancanza di maestri muniti di patente nominò per la
sezione maschile il sacerdote Giovanbattista Abbate, per la femminile la
Signora Olimpia Merola Sassano, ritenendo idonei a svolgere tale compito
(136). Essi furono sostituiti rispettivamente, nel 1867 da Stanislao
Marotta e, nel 1870, da Erminia Sassano e Carolina Marotta in quanto
forniti di patente (137). Per rispondere alIe esigenze della popolazione
venne istituita gratuitamente dai sacerdoti anche una scuola serale e
domenicale (138).
Nel 1781 venne aperta la sezione maschile della scuola di grado superiore
(IV e V classe) (139). L'operato dei maestri era sottoposto alla
vigilanza di una Commissione costituita dal notaio Arcangelo Passarella,
dal medico Gaetano Miraglia e dal possidente Camillo Sassano per la
sezione maschile, per la femminile dalle Signore Aurora Guarini
Brindisi, Teresa Coppola e Carolina Luciani d'Aniello. La scuola era
frequentata alunni quasi tutti appartenenti a famiglie abbienti, mentre
i contadini per necessità facevano lavorare i figli fin da bambini
presso i possidenti e i massari. Per legge era obbligatoria l'istruzione
elementare inferiore, il sindaco era tenuto a inviare l'elenco dei
fanciulli in età scolare alla Commissione Comunale preposta che aveva il
compito d'invitare i genitori all'adempimento scolastico. Per gli
inadempienti, la Commissione avrebbe provveduto a fare affiggere nella
Casa Comunale e in chiesa l'elenco dei nomi, che sarebbero stati resi
pubblici dal parroco ogni prima domenica del mese; essi, inoltre,
sarebbero stati esclusi da qualsiasi sovvenzione di pubblica beneficenza
(140). Nonostante tali provvedimenti l'evasione scolastica rimase sempre
molto alta né alcuno pagò l'ammenda.
Per quanto riguarda l'edilizia scolastica poiché la legge consentiva
particolari agevolazioni, nel 1907 e nel 1909, il Comune scelse le aree
idonee per costruire un edificio e affidò l'incarico della progettazione
a degli ingegneri. Tali iniziative non si concretizzarono per le more
burocratiche, per la mancanza di fondi e per gli eventi bellici della I
guerra mondiale; comportarono solo dispendio di danaro pubblico.
e) L'Amministrazione Comunale dopo il 1860 s'impegnò a fondo nel settore
dei lavori pubblici per risolvere i gravi problemi relativi alla
costruzione del Cimitero, al dissesto idrogeologico, alla viabilità e
all'approvvigionamento idrico. Per soddisfare le necessità dei cittadini
furono sistemate nel 1860 e nel '68 la fontana Pozzo dei Preti con una
spesa di 392 lire (141) e la fontana in località Infiascata con una
spesa di L. 110,30 (142).
Si provvide nel 1886 a captare l'acqua delle sorgenti San Nicola e d' Russ
e convogliarla con una condotta dal bosco Torricelle fino alle prime
case del paese (Paschiere) con la messa in opera di una fontana a
quattro getti con una spesa di 3.470 Lire. La condotta nel 1890 fu
prolungata fino a piazza IV Novembre (già piazza Cavour) con l'impianto
di una fontana ad un getto (143). Venne affrontato anche il grave
problema della viabilità, le strade interne erano quasi tutte
disselciate, fangose oltre che ricettacolo di rifiuti, le esterne erano
mulattiere poco percorribili a causa delle frane. Per immettere il paese
nella rete viaria provinciale sarebbe stato necessario costruire una
strada rotabile che collegasse Trivigno alla nazionale Potenza-Matera e
un ponte sul fiume Basento. Il Comune nel 1862 poté solo provvedere, con
i 530 ducali erogati dal Governo per spese di pubblica utilità, a
sistemare la strada che collegava il monte di Sant'Antonio alla Serra
necessaria per il trasporto della legna in paese per alimentare i forni
pubblici. Negli anni successivi si provvide a prosciugare due invasi,
fonti di malaria, che si erano formati a causa del dissesto
idrogeologico nelle contrade San Giovanni e Tempa Martoccia, costruendo
i canali di deflusso delle acque e immettendole nel fiume Basento (144).
A Trivigno, come in tutti i paesi limitrofi, giunsero ingegneri,
assistenti, canneggiatori, appaltatori che studiarono il terreno,
predisposero progetti, che non si concretizzarono per mancanza di fondi
comportando solo un inutile aggravio di spese.
Nello stesso periodo progredirono i lavori per la costruzione della
ferrovia che avrebbe collegato il mare Tirreno al mare Ionio. La linea
Potenza-Metaponto (108 Km) fu divisa in cinque tronchi con una spesa
complessiva di 43 milioni (145) e inagurata nel 1880. Le ditte
appaltatrici Trewella e Medici impegnarono tecnici e centinaia di operai
provenienti da tute le province d'Italia e solo pochi giornalieri
locali.
Questa grandiosa opera ebbe il merito di togliere Trivigno dal secolare
isolamento, di promuovere il piccolo commercio e di animare la vita
sociale del paese con l'inserimento di persone provenienti da regioni
lontane che avevano una visione del lavoro e della vita molto difforme
da quella locale. Alla fine del secolo il Comune ripristinò la strada
che collegava l'abitato alla stazione ferroviaria, affidando i lavori al
mastro muratore, Antonio Vignola che, con perizia, per un importo di
solo 487,50 lire, portò a compimento l'opera (146).
Nel 1901 fu costruita una strada comunale per collegare la stazione di
Trivigno con la provinciale Albano-Marsico, in seguito essa divenne
provinciale su istanza del Consigliere Provinciale, avvocato Francesco
Brindisi (147).
Una frana di grosse proporzioni nei primi anni del '900 interessò i lati
sud ed est dell'abitato, in particolare via Volturno nel rione
Fornacette e via Roma (già via Garibaldi) nel rione Casale.
La frana provocò lo squilibrio statico di tutti i fabbricati compresi tra
la Casa Comunale ubicata nel piazzale Chiazzillo e via Volturno, tanto
da rendere necessaria la demolizione delle abitazioni pericolanti, lo
sgombro o il puntellamento di altre. Per evitare ulteriori smottamenti
un sotterraneo, in passato magazzino del palazzo Carafa, esistente al di
sotto della piazza IV Novembre fu riempito e chiuso. Tale situazione di
disagio e di pericolo si protrasse fino al 1907, quando iniziarono i
lavori di consolidamento dell'abitato con la costruzione di un muro di
sostegno in via Volturno, di drenaggio del bacino franoso e il
ripristino del selciato nelle vie interessate dai lavori. La Prefettura
per consolidare i terreni franosi limitrofi all'abitato predispose la
messa a dimora di alberi di robinie (148).
Il Prefetto nel 1865 per tutelare la salute pubblica vietò il
seppellimento nella Cappella del Monte dei Morti e impose al Comune di
scegliere un luogo idoneo per la costruzione del Camposanto secondo
precise normative: distanza dall'abitato, esposizione grandezza, sistema
d'inumazione, misura degli scavi ecc. Fu individuato dagli
amministratori comunali il luogo adatto in località Fontana, contrada
Infrascata (v. Appendice, VIII, p. 222), venne approvato il progetto
redatto dall'ingegnere Gerardo Grippo completo di tutte le strutture
necessarie per un importo di 5312,98 lire (149). I lavori d'esecuzione,
iniziati nei primi anni del 1870, durarono a lungo e riguardarono solo
la costruzione del campo d'inumazione, le mura di cinta e la strada
d'accesso posta a valle della fontana; il cancello venne collocato solo
nel 1892 (150). Il Consiglio Comunale il 24 settembre 1882 approvò anche
il Regolamento di Polizia Mortuaria in esso si dettavano le disposizioni
per il trasporto dei defunti, l'inumazione e la costruzione di cappelle
e di tombe. Nel corso del tempo l'area cimiteriale risultò insufficiente
tanto che nel 1914 il Comune, a seguito della Relazione Sanitaria
redatta dal medico Carlo Passarella deliberò di non concedere più aree
all'interno del cimitero e legalizzò quelle costruzioni tombali per le
quali gli interessati avevano già corrisposto l'importo dovuto.
f) Appena le province napoletane furono annesse al Regno d'Italia lo Stato
ritenne improrogabile la soluzione della questione demaniale vecchia di
decenni e causa di scontento e di tensioni. Le competenze, già assegnate
agli Intendenti, furono affidate ai Commissari Ripartitori; il 3 luglio
1861 furono pubblicate le istruzioni da seguire nello svolgimento delle
operazioni da concludersi entro il 31 dicembre 1861 (151).
L'Amministrazione Comunale il 21 luglio 1861 inviò alla Prefettura
l'elenco delle pendenze demaniali, da esso risultarono demani comunali
di piccola estensione (già reintegrati al Comune in forza dell'Ordinanza
del 25 agosto 1853) ancora indivisi, ma divisibili e dati in fitto
(Acqua d' Russ, Frattine Fanelli, Lago Palla, Piano Imperatore,
Paschiere, Limitoni al Capo Acquaro) (152). Si rendeva noto che il Sig.
Fittipaldi, oltre ad avere usurpato alcuni terreni del demanio
Torricelle, aveva ristretto il tratturo comunale e tagliato parecchi
alberi; era opportuno procedere ad un serio controllo (153)-
Vennero segnalati, ancora una volta, gli abusi degli eredi dell'ex
feudatario che pretendevano di ricevere in magazzino i generi che, in
base alla Sentenza della Commissione Feudale, avrebbero dovuto
riscuotere sull'aia (154). Per risolvere tutte le vertenze esistenti nel
Comune di Trivigno e nel suo Circondario il 29 ottobre 1861 il Signor
Oronzo Albanese, quale Agente Demaniale, giunse a Trivigno e fu ospitato
dai Sigg. Brindisi.
La sera del 3 novembre, quando il paese fu messo a ferro e fuoco dall'orda
brigantesca, l'Agente a stento riuscì a mettersi in salvo; tutta la
documentazione relativa alla questione demaniale andò distrutta e
vennero rubati anche i suoi effetti personali (155). Fu necessario
procedere ad altre verifiche, le più importanti furono effettuate dagli
Agenti Ripartitori Cotronei (1866) e Guglielmucci (1882)(156). Da
quest'ultimo accertamento emersero varie usurpazioni quali la modifica
della linea dei confini, gli spostamenti e la sottrazione dei termini
lapidei nonché la sparizione di tre volumi di documenti.
Fra le tante occupazioni abusive quella più rilevante per estensione (13
tomoli) fu contestata al Sig. Antonio Fittipaldi (157) che non accettò
l'esito della revisione, avviando una causa che si protrasse per anni.
In seguito ad una nuova verifica, effettuata dall'Agente Ripartitore,
Sig. Domenico Lomuti, venne riscontrata un'usurpazione ancora più estesa
di circa 6 tomoli (158). Con Ordinanza del Commissario Ripartitore del
13 luglio 1905 fu imposto al Sig. Fittipaldi il rilascio delle terre, il
pagamento di quanto aveva indebitamente riscosso (L. 14436,50), oltre le
spese di giudizio. Seguì un nuovo ricorso presso la Corte d'Appello di
Potenza che con sentenza del 18 settembre 1906 rigettò ogni
rivendicazione del Comune di Trivigno; tale sentenza divenne definitiva
poiché la controparte non ricorse in Cassazione in considerazione del
fatto che si sarebbero dovute sostenere ulteriori oneri per nuove e più
accurate verifiche (159). L'Agente Ripartitore Lomuti rilevò altre
usurpazioni da parte di ventuno possessori, contro i quali fu istituito
un giudizio di reintegra. Molti interessati si opposero al
provvedimento, con l'Ordinanza Prefettizia del 20 ottobre-14 novembre
1910 fu disposto il rilascio delle superfici interessate (160). Alcuni
possessori nelle more del giudizio, chiesero di tenere in temporanea
utenza i terreni e ciò venne loro concesso (161).
10. Dalla difficile situazione economico-sociale all'emigrazione
I primi decenni dopo l'Unità d'Italia furono molto difficili per la
popolazione; i fatti accaduti il 3 novembre 1861, i processi, la
campagna di repressione del brigantaggio, le tasse esose e talvolta
ingiuste, le estenuanti contestazioni per la quotizzazione del demanio,
crearono contro il Governo sfiducia e opposizione. La situazione
economica del paese si può dedurre dal ruolo delle imposte fondiarie; da
esso risultò che nella fascia di reddito compresa tra 500 a 1.000 lire
vi era un solo contribuente, diciotto in quella da 50 a 500 lire,
centoquarantasette in quella da 10 a 50 lire, nell'ultima fascia, fino a
10 lire, i contribuenti erano seicentonovantotto (162). I medi
proprietari vivevano in paese e si limitavano a condurre direttamente la
vigna, affidando la coltivazione dei terreni ai fittavoli con contratti
annuali e sempre verbali che si rinnovavano tacitamente. I piccoli
proprietari lavoravano direttamente i propri fondi, ma l'esigua
estensione della terra da coltivare consentiva un mediocre guadagno. Per
limitare al massimo le spese anche la moglie e i figli lavoravano in
campagna, talvolta si assumevano qualche ragazzo, quale custode di
animali e un salariato fisso con le mansioni di pastore e di casaro;
nonostante che l'allevamento costituisse un'attività molto modesta era
necessario comunque pagare al Comune la fida (cioè una tassa per ogni
capo di bestiame, che pascolava nel demanio comunale). Il tenore di vita
di tutta la collettività era alquanto modesto non solo per ragioni
economiche, ma anche culturali. Il dott. Fabrizio Padula nel breve
periodo di permanenza in paese comprese quanto fosse necessario educare
i giovani e cercò d'interessarli al teatro; si adoperò perché fosse
costruito un palcoscenico, dipingendo personalmente le scene, adattando
i testi delle commedie e dei drammi che, anche se alla buona, furono
rappresentati con grande soddisfazione di tutti.
Promosse l'istituzione di un Circolo ricreativo che intitolò al patriota
Luigi La Vista (163), creando un ambiente idoneo per favorire i rapporti
sociali, riunire i galantuomini e i forestieri presenti in paese
(impiegati della Pretura, dell'Ufficio del Registro ecc.). I salariati
fissi conducevano una vita molto dura; il salario annuale andava dalle
250 alle 400 Lire con l'obbligo di attendere al lavoro in tutti i giorni
dell'anno, ritornando in paese solo per le feste tradizionali. Le
giovani donne e i ragazzi sarchiavano il grano, eseguivano la seconda
zappatura della vigna, davano lo zolfo, procedevano alla legatura dei
pampini e alla raccolta dell'uva. La giornata lavorativa iniziava con il
sorgere del sole e finiva al tramonto con due, tre e anche quattro soste
a secondo della stagione; oltre al modesto salario spettava loro il
vitto. Si coltivavano il grano, l'orzo, il granturco, le patate, i
legumi che costituivano l'alimentazione base della famiglia, a essi si
aggiungevano le verdure coltivate negli orti e quelle campestri.
Tutti allevavano i polli di cui si vendevano le uova per racimolare
qualche soldo e il maiale che forniva il lardo, la sugna e la carne per
i salumi. Gli altri generi alimentari (olio, baccalà, formaggio, e
pasta) venivano acquistati presso i rivenditori che consentivano il
credito, anche se a prezzi maggiorati (164).
I piccoli proprietari quando dovevano pagare i salariati erano spesso
costretti a prendere ad usura il danaro con tassi del 25%. Per eliminare
il triste fenomeno dell'usura il dott. Padula riunì in una Società
Operaia i contadini e gli operai e istituì fra loro una Cassa di
Prestito, ma questa lodevole iniziativa purtroppo fallì (165).
Le abitazioni in gran parte continuarono ad essere costituite da un unico
vano, male ventilato e umido, in esso si viveva in promiscuità con gli
animali con grave danno per la salute. La scarsa igiene, la mancanza di
un'alimentazione corretta e di cure mediche e di medicine favorivano le
malattie: tubercolosi, malaria, infezioni da parto, tifo, enterite,
polmonite. La mortalità era molto alta specie quella infantile,
d'inverno per le malattie da raffreddamento, d'estate per le infezioni
dell'apparato digerente.
Il disinteresse del potere centrale verso le legittime aspirazioni dei
ceti subalterni, le invivibili condizioni di vita, determinarono a
Trivigno, oltre che in tutta la Basilicata, la grande emigrazione
transoceanica e permanente. Tale esodo non venne interrotto neppure alla
fine del secolo quando l'Italia, volendo inserirsi tra le potenze
coloniali, inviò i suoi uomini in Africa. I giovani furono sollecitati
dallo Stato ad arruolarsi come volontari con la promessa di una
retribuzione giornaliera di tre lire per gli ufficiali, per il soldato
semplice era inferiore anche al salario che corrispondeva il padrone per
quattordici ore di lavoro al giorno, vi era però il vantaggio di avere
una paga sicura (166).
Da Trivigno partirono alcuni volontari, si conoscono solo i nomi del
sottufficiale Gaetano Brindisi e di Rocco Filitti caduto ad Adua il 1°
marzo 1896. I contadini preferirono emigrare nelle Americhe; questo
esodo determinò la rovina del ceto dei medi e piccoli proprietari che
perdettero una mano d'opera a basso costo. Dal 1883 al 1900 emigrarono
circa 1.094 persone (168), cioè metà della popolazione attiva, in
prevalenza giovanissimi, come risulta dalla mancata presentazione alla
leva militare (169). Il forte depauperamento della collettività portò
tra il 1900 e il 1914 all'esodo di intere famiglie, non solo di
braccianti e di piccoli proprietari ma anche di artigiani e di
professionisti in tutto 683 persone (170) (v. Appendice, IX, p. 223
ss.). Quanto abbiano contribuito a determinare tale situazione la
pressione fiscale e l'usura non è possibile stabilire, certamente in
misura notevole. A questo bisogna aggiungere l'improduttività delle
terre coltivate con metodi arretrati e improvvidamente disboscate (171),
il malcontento originato dai soprusi della classe predominante, il
desiderio di una vita nuova, il bisogno d'elevarsi socialmente e
d'assicurare un avvenire migliore ai figli, la suggestione per il nuovo
e l'incentivo che veniva dai parenti e dagli amici che mandavano il
danaro necessario per il viaggio. L'emigrazione si rivolse inizialmente
verso l'America latina, in seguito verso gli Stati Uniti dove i salari
erano piú elevati. Tutti, privi di qualsiasi professionalità e ignorando
la lingua, furono costretti ad inserirsi in un mondo sconosciuto e
accettare i lavori più umili e faticosi. A prezzo di grandissimi
sacrifici molti inviavano quanto necessario perché la famiglia potesse
raggiungerli; altri con le rimesse provvedevano al sostentamento dei
congiunti, ad estinguere i debiti, le tasse e talvolta comprare la casa
o rimettere a nuovo quella di proprietà per avere la certezza del
ritorno. Gli emigranti per lo più non dimenticarono i profondi legami
con la terra d'origine, né le loro tradizioni; in occasione delle
festività religiose mandavano offerte consistenti per il ripristino
delle chiese (172).
Dopo molti anni spesso ritornavano spinti dalla nostalgia della famiglia
anche se ben presto erano costretti a ripartire, perché i loro interessi
erano nella terra d'adozione.
L'effetto dell'emigrazione fu positivo per molti che riuscirono a mettere
a frutto le proprie capacità e a inserirsi nel nuovo contesto sociale. I
contadini rimasti in paese potevano scegliere le terre da coltivare a
patti meno onerosi, lasciando incolte quelle sterili. La carenza di
braccianti favorì a Trivigno e nei paesi limitrofi un fenomeno anomalo:
l'immigrazione temporanea dei marinesi che in occasione della mietitura
arrivavano dal tarantino e dal leccese (173). L'emigrazione e lo
spopolamento delle campagne non furono gli unici mali; le condizioni
sanitarie si aggravarono ulteriormente a causa del diffondersi e del
perdurare della malaria. Questa scottante realtà fu affrontata dal dott.
Michele Lacava e dall'ufficiale sanitario dott. Giovanni Pica che
disegnò la prima e più attendibile mappa della diffusione della malaria
(fig. 10) e delle altre malattie in Basilicata nel 1889. La malaria
costituiva insieme alla elevatissima mortalità infantile l'insidia
ricorrente di molte famiglie meridionali, che avevano imparato a
convivere con essa.
Giustino Fortunato pose al centro della vicenda storica meridionale il
problema della malaria giungendo ad affermare: "La storia del
Mezzogiorno è la storia della malaria" (174). La vecchia classe
dirigente, pur di mantenere intatti i privilegi di cui godeva, non volle
prendere coscienza delle reali condizioni dei lavoratori, invece
d'individuare le cause ed adoperarsi per rimuoverle, preferì ignorarle.
Il Governo per non irritare la borghesia meridionale non ritenne
necessario riconoscere le legittime aspirazioni dei ceti subalterni,
sostenendo che solo con l'emigrazione sarebbero migliorate le condizioni
delle province meridionali. Tale tesi fu condivisa, in parte,
dall'illustre meridionalista Giustino Fortunato, che credeva essere
questa la sola e temporanea valvola di sicurezza per risolvere il
problema della sovrappopolazione. Il deputato meridionale Francesco
Saverio Nitti riteneva invece che i mali, in particolare della
Basilicata, avrebbero potuto essere risolti non con l'emigrazione, ma
con una politica di ristrutturazione organica del territorio attraverso
una sistemazione quasi esclusivamente boschiva all'interno della quale
impiantare industrie armentizie e promuovere l'allevamento del bestiame.
Per dimostrare l'infondatezza di tale tesi si faceva rilevare la funzione
economica dell'emigrazione; le rimesse dei lavoratori avrebbero potuto
consentire la formazione di nuovi capitali utili ad avviare la ripresa
del Sud. Tali risorse, a Trivigno e anche altrove, non furono impiegate
per iniziare una trasformazione agraria o altre piccole attività
produttive perché in paese erano rimasti solo i vecchi, le donne e i
bambini incapaci di creare nuove fonti di reddito(175). Le rimesse, come
rilevava l'Onorevole Ciccotti, andavano a ingrossare il fondo delle
Casse di Risparmio Postale e venivano impiegate dallo Stato non nel
Meridione, ma in investimenti produttivi nelle Regioni già più
sviluppate del Nord. Le gravissime condizioni economiche di tutta la
Basilicata erano tali da essere segnalate in Parlamento dai deputati
lucani: Ettore Ciccotti, Michele Mango, Pietro Lacava e Michele Torraca
che ripetutamente chiesero un adeguato e tempestivo intervento del
Governo. Per rendersi conto della situazione denunciata il 9 settembre
1902 il Presidente del Consiglio, On. Giuseppe Zanardelli visitò la
Regione; in un discorso, tenuto nel Teatro Stabile di Potenza espose
quanto dolorosamente aveva constatato promettendo l'interessamento del
Governo (176). La legge speciale Zanardelli (non condivisa da Giustino
Fortunato), approvata il 26 marzo 1905 e il successivo piano attuativo,
prevedeva l'esecuzione di opere pubbliche, il consolidamento dei centri
abitati, il completamento della rete stradale e ferroviaria, i
rimboschimenti e la sistemazione dei bacini montani, le bonifiche
idrauliche per combattere la malaria e molte provvidenze per
l'agricoltura e agevolazioni fiscali (177). Nei venti anni previsti per
la sua attuazione i risultati furono modesti, per il modo con cui fu
realizzato il decentramento amministrativo, per la limitatezza degli
stanziamenti, per l'esiguo alleggerimento tributario e per
l'insufficienza degli organi destinati all'attuazione del programma.
L'azione del Provveditorato Regionale alle Opere Pubbliche fu
limitatissima soprattutto per la mancanza di fondi, ma anche per la
grande instabilità morfologica dei terreni; le frane e gli smottamenti
continuarono a devastare gli abitati, le strade e le pendici dei monti.
L'opera di rimboschimento tanto auspicata venne ostacolata dalla
scarsezza dei mezzi finanziari e tecnici. L'unico settore in cui si
ebbero dei risultati, anche se modesti, fu quello agricolo con
l'istituzione di quattro Cattedre ambulanti, una per Distretto che
avevano il compito di vincere il tradizionalismo degli agricoltori e la
loro diffidenza ad adottare nuovi metodi per migliorare la produzione.
In conclusione, più che la legge speciale, ebbero efficacia talune
disposizioni particolari, quale la distribuzione del chinino di Stato.
Questo provvedimento, anche se di scarso rilievo, fu efficace, perché
ridusse il numero annuo dei morti per malaria da un migliaio a circa
duecento. La legge straordinaria Zanardelli venne in gran parte
disattesa, ma costrinse le Istituzioni a studiare interventi per attuare
la modernizzazione della Basilicata. Lo scoppio della I Guerra Mondiale
e il Fascismo impedirono la realizzazione di questi progetti.
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