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rivigno - Dal Medioevo all'età Contemporanea
Raffaella Brindisi Setari
 

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7. Protagonisti e riflessi del brigantaggio a Trivigno

In paese si era formato un numeroso gruppo di filoborbonici che divenne sempre più attivo nel mese di ottobre, quando si seppe dell'arrivo in Basilicata di Borjes. Il 6 ottobre Crocco fu visto nel bosco di Brindisi di Montagna in compagnia di Angelo Serravalle che lo aveva rifornito di viveri (81).
Il sindaco, allarmato da tale notizia, cercò di mobilitare la Guardia Nazionale, ma trovò una ferma opposizione in Luigi Orga che in piazza rispose arrogantemente: "Voi avete voluto Vittorio Emanuele e voi difendetelo" (82) e aveva proibito al figlio di fare parte della Guardia Nazionale. Tra i borbonici, che avevano più ascendente sul popolo ed erano attivi sobillatori e arruolatori di briganti, si distinsero: Francesco Abbate, Michele Zito, Giuseppe de Rosa, Rocco Petrone, Vincenzo Russo e Rocco Luigi Volini. Collaborarono con questi anche coloro che potevano frequentare il bosco di Brindisi di Montagna senza destare sospetti come il guardiano Saverio Rapo, Luigi Orga, appaltatore del taglio di legname e Basileo Zito che in quella zona aveva la proprietà. Essi mantenevano i contatti con i fratelli Serravalle, fornivano loro cibo, notizie e sostegni di ogni genere. Non a caso pochi giorni prima dell'invasione il figlio di Basileo Zito, pubblicamente, affermò che circa dodici famiglie di galantuomini sarebbero dovute essere distrutte. Anche altri segnali davano per imminente un attacco dei briganti; alla fine di ottobre del 1861 il sacerdote Don Arcangelo del Giudice atterrito riferì di avere visto all'imbrunire Basileo Zito che mezzo ubriaco e a briglia sciolta ritornava da Brindisi, percorrendo una strada diversa dalla solita. A colui che glielo aveva fatto notare Zito aveva risposto che doveva sbrigare una faccenda in una vigna che possedeva nei paraggi; del Giudice aggiunse di avere sentito dire che una ventina di briganti erano stati visti in località Sant'Antonio. Queste voci allarmarono il capitano della Guardia Nazionale, don Francesco Coronati che con un gruppo di militi si recò a perlustrare il luogo indicato, senza però trovare traccia dei banditi (83). In quei giorni i manutengoli fecero circolare con insistenza la notizia di una possibile invasione brigantesca, non solo per creare tensione nella popolazione, ma per sondare anche l'eventuale reazione delle autorità ed essere pronti a neutralizzarla. Il sindaco e il capitano della Guardia Nazionale per evitare di essere colti di sorpresa allenarono gli uomini, istituirono, per la notte del 2 novembre, turni di guardia; purtroppo tutto fu inefficace perché tra i militi vi erano dei filoborbonici, come i fratelli Luigi e Valerio Orga, Rocco Rago ed altri che non solo non si opposero, ma favorirono con ogni mezzo l'ingresso in paese delle bande dopo avere accuratamente predisposto ogni cosa perché l'azione brigantesca avesse buon esito. Il 31 ottobre 1861 circa duemila briganti con a capo Borjes e Crocco si mossero da Lagopesole, guadato il fiume Basento giunsero nel bosco di Brindisi, in località lago della Goglia. Ad attenderli c'erano Angelo Serravalle e i trivignesi Rocco Luigi Volini, Domenico Antonio Prete, Rocco de Marco, Michele Zito, Francesco Abbate che convinsero facilmente Borjes ad assalire il paese. Il Generale, nei giorni precedenti, aveva avuto fitto carteggio con i borbonici di Potenza che gli avevano assicurato che da Trivigno era giunta una lettera nella quale si asseriva che in paese erano attesi, e non ci sarebbe stata alcuna opposizione perché la popolazione era molto scontenta; ciò fu confermato anche da Angelo Serravalle (84). La mattina del 3 novembre un gruppo di trivignesi si recò nel bosco di Brindisi per sollecitare l'azione dei briganti; verso sera Luigi Orga, di ritorno dal bosco pur sapendo cosa sarebbe successo di lì a poco, ostentando un'eccessiva allegria si divertiva con un gruppo di amici a bere vino. Tutto era pronto, i filoborbonici trivignesi avevano messo a punto un accurato piano interno per la buona riuscita dell'azione brigantesca, scelto e istruito coloro che avrebbero dovuto agire fornendo a ciascuno un alibi plausibile. Per creare panico nella popolazione intorno alle 20.00 fecero circolare la notizia, non del tutto certa, che i briganti si stavano avvicinando. Il sindaco e il capitano dei militi cercarono di verificare la fondatezza di tale voce; ad aumentare la confusione giunse in piazza, apparentemente trafelata, Antonia Casella. La donna riferì che mentre si recava in campagna poco distante all'abitato, al Calvario aveva visto uscire dal bosco un gran numero di uomini armati. Spaventata era tornata indietro e aveva incontrato il fratosc Rocco Zito che si trovava fuori per la questua di Sant'Antonio, e Basileo Zito uscito dal paese per caricare la legna; quest'ultimo le aveva confermato che erano briganti e per accrescere la paura aggiunse che erano oltre duemila.
Il gran numero degli assalitori, lo scarso tempo a disposizione per predisporre una difesa, gettarono la popolazione nel terrore. Furono suonate le campane per allertare i cittadini e chiamarli alla difesa del paese, ma pochi sentirono l'esigenza di opporsi alle bande. Si decise di concentrare le scarse forze nelle case sicure esposte ad occidente e a mezzogiorno.
Da questi due punti era più facile l'accesso all'abitato, che era difeso a settentrione da rocce altissime e ad oriente da un unico scosceso e stretto sentiero malagevole per il passaggio di armati a cavallo. Un gruppo abbastanza numeroso di trivignesi tra cui Innocenzo Tamburrino, Pietro Allegretti, Marco Acerenza, Rocco de Marco e Maria Ungaro si diresse verso il Calvario per andare incontro ai briganti, mentre Michele Imundi (tamburino della Guardia Nazionale) con la coppola faceva loro cenno di poter avanzare liberamente. Al suono del suo tamburo le comitive brigantesche con a capo Borjes, Crocco, Ninco-Nanco, Angelo Serravalle, alle quali si erano aggregati molti trivignesi, entrarono in paese accolte e incoraggiate anche da Luigi Orga, Luigi Coronati, Luigi Abbate, Giuseppe Gentile; a qualche finestra comparvero i primi panni bianchi, con essi si segnalava l'adesione all'invasione. I briganti, divisi in gruppi, entrarono in paese da punti diversi cercando di prendere alle spalle i difensori.
Il capitano della Guardia Nazionale Francesco Coronati, i fratelli Rocco e Tommaso Brindisi e Francesco Antonio con circa trenta militi alla Portlaterra, dalle finestre delle loro case con un nutrito fuoco di sbarramento, cercarono di opporsi. Riuscirono per oltre tre ore a tenere testa agli invasori; poi la mancanza di munizioni, le forze soverchianti dei briganti, e il tradimento interno dei paesani, travolsero qualsiasi resistenza. I briganti catturarono la Guardia Nazionale Vincenzo Piacentino che insieme ad altri aveva combattuto contro le bande; mentre veniva condotto dal generale riuscì a divincolarsi e fuggire nascondendosi in una cisterna. Cominciò la notte di terrore: "quello che successe di poi lo seppero i disgraziati cittadini" (85).
Il paese, privo di difesa, venne percorso in lungo e largo dai briganti: "anelanti di sangue e più ancora di bottino, soprattutto di piastre e oro e qualche indumento", e da un gran numero di paesani, briganti fra i briganti (oltre 160) che, ornati i cappelli con coccarde rosse, fecero causa comune con l'orda condividendo tutti gli eccessi. Indicarono le case, le stalle e i magazzini da scassinare; a colpi di scure furono aperti i portoni e le porte, anche se talvolta non ce ne fu bisogno perché gli abitanti, fuggendo per mettersi in salvo, avevano lasciato tutto in balìa dei saccheggiatori che entrarono nelle case dei galantuomini, le svuotarono di ogni arredo, impossessandosi di biancheria, oggetti d'oro, armi, depredarono i magazzini, le cantine, i fondachi; tutto fu razziato e violato. Fu dato libero sfogo agli antichi e profondi rancori, con l'omicidio, la rapina e l'incendio furono vendicati i veri o i presunti torti subiti.
Molte popolane affiancarono i propri uomini e i briganti nell'azione distruttrice; per efferatezza e determinazione non furono seconde a nessuno. Così come disse Crocco: "vi erano i paesani che molto più dei briganti erano interessati a commettere quei misfatti" (86). In molte case di fiancheggiatori i banditi vennero rifocillati e curati; Rocco Luigi Volini li ospitò in un'abitazione predisposta da tempo allo scopo, Giovanni Gentile, in nome dell'amicizia creatasi nel carcere di Trivigno, accolse e curò Nicola Rinaldi di Brindisi, Marco Acerenza si recò di notte in campagna a medicare due briganti. Coloro che non vollero essere travolti dagli eventi e soprattutto le donne si nascosero negli anditi più segreti, nelle case di paesani filoborbonici (Teresa Marino, Luigi Orga, Luigi Abbate) o trovarono accoglienza nella masseria del manutengolo Basileo Zito.
Molti galantuomini preferirono mettersi in salvo allontanandosi dal paese, sotto la pioggia e col favore delle tenebre, percorrendo impervi sentieri; dopo avere guadato il fiume Basento raggiunsero Albano dove furono accolti da parenti e da amici. Altri si radunarono nella casa del sindaco; questi, che pure disperatamente aveva cercato di organizzare la difesa del paese, fu travolto dagli eventi; nel suo avito palazzo (oggi degli eredi Russo) fu costretto ad accogliere Borjes, Crocco e Serravalle. I presenti furono sottoposti a ricatto; per avere salva la vita vennero consegnati a De Langlais 280 ducati (81).
Crocco infatti disse: "per conto mio limitai l'impresa a raccogliere ducati, imponendo taglie ai più facoltosi, sotto pena d'incendio e di morte"; i fatti confermarono queste parole del capobrigante. Molte case di galantuomini e di ricchi massari furono saccheggiate e talvolta date alle fiamme, né mancarono omicidi e atrocità di ogni genere. Michele Pisani, detto Bandito, il fornaio Luigi Mogio con il figlio Angelantonio e altri paesani aprirono a colpi di scure il portone della casa di Don Alessandro Coronati, abbandonandosi al saccheggio, mentre i fratelli Vignola, Antonio, Rocco Vincenzo e Michele depredarono i magazzini; Angelo Maria Tamburrini indicò ai briganti la stalla dalla quale fu preso un cavallo. Altri scassinarono e dettero alle fiamme la casa di Alessandro Maggio, la stessa sorte toccò al palazzo Sassano. I briganti a colpi di scure aprirono il portone e saccheggiarono ogni cosa; fra i più facinorosi si segnalarono i paesani Giuseppe Angelo Casella, la sorella Angela e la madre Maria Ungaro che nel depredare la casa trovarono, a letto nella sua camera, il vecchio e infermo Don Domenico Antonio Sassano. Il Casella si divertì, tra schiamazzi e parole di scherno, a tormentarlo con la scure senza ucciderlo; infine la madre e la sorella con fredda e crudele determinazione, dopo avere gettato sul letto del petrolio, gli dettero fuoco pur essendo l'infelice ancora vivo (88). Lo stesso Casella aiutato da Rocco de Marco, da Giuseppe Quirino e da altri fece sì che l'incendio si propagasse ovunque. Anche il palazzo dei fratelli Rocco e Tommaso Brindisi fu assalito da molti saccheggiatori; il fornaio Luigi Maggio con il figlio Angelantonio e Luigi Fusillo,scassinarono i magazzini di Don Tommaso Brindisi, trafugando una grande quantità di vino; a colpi i scure aprirono a porta dell'ingresso secondario prospiciente al palazzo Sassano e insieme ai predatori di quest'ultimo si dettero al saccheggio.
Il portone principale, secondo quanto narrato da persone della famiglia Brindisi, fu aperto dall'interno da una serva infedele, Angela Nella, detta Ricotta (33), per favorire l'ingresso del marito Francesco Abbate che insieme a Domenico Melfi, Domenico Stasi, Michele Pisani depredarono ogni cosa e appiccarono l'incendio che si propagò fino al tetto.
Un altro gruppo di malfattori ai quali si erano uniti i paesani Vincenzo Passarella, Luigi Abbate, Giuseppe Guarino, detto Viniero, Giuseppe Cinefra, Rocco de Marco, Giuseppe Quirino, assalirono la casa di Don Giovanni Battista Guarini. Mentre a colpi di scure tentavano di aprire il portone la madre, Donna Cristina Brindisi, dall'interno osò puntare il fucile contro di loro che non esitarono a fare fuoco attraverso la finestra, uccidendola (90). Vinta ogni resistenza, sfondata la porta costrinsero Don Giambattista Guarini sotto la minaccia delle armi a seguirli fino in piazza dove venne ucciso con due colpi di fucile alla schiena (91). Gli assassini sfogarono il loro odio con ferocia bestiale seviziando il cadavere a colpi di scure e Luigi Abbate, come ultimo sfregio, lo calpestò.
Crocco disse: "questo assassinio, che fu imputato a me, seppi poi che era stato compiuto da uno sconosciuto, che voleva vendicarsi delle molte angherie ricevute" (92). Non sfuggi al saccheggio la casa di Don Giuseppe de Marco, cassiere comunale. Nicola Vignola, detto Zucàro, per antica inimicizia insieme ad altri briganti aperta la porta a colpi di scure, ridotti in pezzi parte del mobilio, fecero irruzione nella stanza dove aveva sede l'ufficio dell'Esattoria Comunale, distruggendo i documenti e i registri fondiari, rubando il denaro in contante, e circa 250 ducati in fedi di credito pronte per essere versate alla Ricevitoria Generale.
Nel febbraio del 1862 il capitano Vimetti del 18 Battaglione di stanza a Trivigno da un informatore seppe il nome degli assalitori e costrinse il Vignola a restituire il denaro (93).
A notte inoltrata un gruppo di briganti, capeggiati da Andrea Guarino e da Giovanni Antonio Petrone, si presentò in casa di Pasquale Volini, milite della Guardia Nazionale; in presenza della moglie Stella e del figlioletto Rocco, il Guarino con arroganza e determinazione disse: "Pasquale dovrai marcire senza nessuna compassione". Ad un suo cenno riecheggiarono tre fucilate che ferirono il malcapitato alla spalla e al braccio destro; a causa dei colpi si spense il lume, un brigante cercò di assicurarsi che il Volini fosse morto e credendolo tale, tutti andarono via.
Il Guarino non convinto, poco dopo ritornò con altri suoi amici, trovato il ferito a letto, con freddezza gli avvicinò il fucile alla tempia e fece partire un colpo uccidendolo. Soddisfatto esclamò: "ora si che hai cessato di gridare, viva Vittorio Emanuele e fottiti" (94). Il Petrone, come mandante, e il Guarino, come esecutore dell'omicidio, vendicarono presunti torti ricevuti. Nella misera casa non trovando altro s'impossessarono di un cappotto, di una camicia, di un paio di calzoni corti di felpa e di un fazzoletto bianco.
L'ultima ferocia fu commessa dal capobanda Ninco Nanco; prima di abbandonare il paese, quasi all'alba del 4, entrò con i suoi nell'abitazione di Michele Petrone, sottostante al palazzo Brindisi già dato alle fiamme. Affrontò il padrone di casa e gli chiese con tono minaccioso dove fossero nascoste le piastre, poiché questi non volle rivelarlo, lo uccise insieme alla moglie Teresa; morirono abbracciati quasi a proteggersi a vicenda, trafitti da un solo colpo; la casa fu abbandonata al saccheggio (95). Furono scassinate, devastate e depredate le abitazioni del medico Federico Volini, del legale Francesco Antonio Beneventi, del possidente Giambattista Abbate. I briganti, entrati negli Uffici del Regio Giudicatole e a Ricevitoria del Registro e Bollo, distrussero i documenti e le suppellettili; aprirono il carcere mandamentale consentendo la fuga dei detenuti. Oltre questi episodi che i documenti ufficiali riportano molti altri sono rimasti sconosciuti perché non denunciati da coloro che li avevano subiti, temendo ritorsioni e vendette.
Si aggiunge quanto accadde quella notte al proprietario Michele Padula e alla sua famiglia, così come ricordava il figlio Fabrizio al quale i genitori avevano narrato i fatti (96). Durante il saccheggio i briganti devastarono la casa e asportarono insieme alle masserizie anche gli zaini di piastre, che rappresentavano il ricavato dell'annuale produzione granaria e vinicola. La madre Carmela, ancora spossata dalla nascita di Fabrizio (19 ottobre 1861), con i familiari si era rincatucciata in fondo ad una camera.
Stava per accadere il peggio quando sopraggiunse il brigante Angelo Serravalle che, non dimenticando quante volte era stato beneficiato dalla famiglia Padula, sbarrò il passo ai suoi gridando: "la robba sì, le persone no, ordine del Generale".
Rivoltosi alla moglie chiese dove fosse Don Michele, fattolo scendere dai tetti dove si trovava a caricare i fucili per contrastare l'orda brigantesca, gli disse che avrebbe dovuto trovare un rifugio sicuro per sé e la famiglia. Nel frattempo arrivò in casa Borjes seguito dai suoi, Serravalle scambiò con lui poche parole incomprensibili (forse un segnale convenuto). Il generale guardò i presenti con benignità, chiese della biancheria, delle calze, che gli furono portate cercando di fargli intendere che quelle modeste cose gli venivano offerte.
Egli, quasi offeso, volle pagare, gettò sul tavolo una moneta, comandò ad un subalterno di prendere gli indumenti e uscì borbottando, rendendosi forse conto di essere circondato da pochi militi e molte canaglie, e di essere considerato insieme ai suoi dei briganti. La descrizione più veritiera di questa terribile notte la fornisce lo stesso Borjes nel suo Diario: "... il disordine più completo regna tra i nostri, cominciando dai capi stessi, furti, eccidi, atti biasimevoli furono la conseguenza di questo assalto, la mia autorità è nulla .... " (97).
Andrea Pisani, nella sua Storia di Brindisi di Montagna, racconta di quella notte: "una cortina di nebbia fitta da tagliare con la scure impedisce la vista della campagna, delle alture, della Serra e del bosco Cute ....La nebbia va scomparendo: Trivigno appare tra colonne fumo e guizzi di fiamme, come un inferno" (98).
Verso le 7 del mattino del giorno 4 i briganti, sazi di eccidi e saccheggi, abbandonarono il paese, dirigendosi verso Castelmezzano, per poi spostarsi a Calciano dove commisero altri eccidi fino ad arrivare a Garaguso. La banda, il giorno 7, a Salandra ebbe un violento scontro a fuoco con un gruppo di garibaldini e di milizie regolari; rimasero sul terreno molti soldati e briganti, tra questi anche Angelo Serravalle. Non furono risparmiati i centri di Craco, Aliano, Grassano, San Chirico e Vaglio; quest'ultimo, il giorno 16, fu assalito, incendiato e saccheggiato malgrado l'eroica difesa dei cittadini, così come riconobbe lo stesso Crocco (99). Fra i difensori c'era anche il trivignese Francesco Antonio Beneventi, rifugiatosi dopo i fatti di Trivigno con la famiglia presso il suocero Rocco Danzi, vecchio carbonaro, barbaramente ucciso dai briganti, che trucidarono anche la figlia Filomena mentre era china sul padre per soccorrerlo (100).
La Guardia Nazionale e i cittadini di Pietragalla respinsero le bande che, sfinite e scoraggiate, ripararono nel bosco di Lagopesole e cominciarono le diserzioni.
Crocco, stanco di attendere gli aiuti promessi dai borbonici, assalì ancora Bella, Ricigliano, Pescopagano, commettendo ovunque stragi. Molti briganti furono uccisi, i superstiti i superstiti si rifugiarono nel bosco di Monticchio; Crocco sciolse le bande, requisì i fucili e volle che rimanessero con lui solo i vecchi compagni (101). Alla banda di Pasquale Cavalcante che rientrava a Corleto, suo paese d'origine, furono aggregati i trivignesi che, tra Vaglio e Serra del Ponte, appena ebbero la possibilità fuggirono e alla spicciolata fecero ritorno a Trivigno.
Il Borjes, che per forti contrasti con Crocco era stato praticamente esautorato dal comando, comprese che la sua missione era terminata; con i suoi decise, il 29 novembre, di spostarsi nello Stato Pontificio. Con una leggendaria marcia, braccati dalle truppe e dalle guardie nazionali, tra i rigori di una stagione particolarmente fredda, dopo avere attraversato l'alto Molise e l'altipiano delle Cinque Miglia, raggiunsero la Marsica.
Furono sorpresi, l'8 dicembre, dai bersaglieri del maggiore Franchini nella cascina Mostroddi, in località La Luppa presso Tagliacozzo, a 10 chilometri dalla frontiera pontificia. Dopo un vivace scontro a fuoco furono catturati e scortati a Tagliacozzo, dove vennero fucilati alle 4 del pomeriggio. Con Borjes furono giustiziati undici spagnoli e otto lucani fra cui il trivignese Rocco Luigi Volini (102).
Il 4 novembre quando i briganti lasciarono il paese oltre cento trivignesi si aggregarono ad essi, per lo più volontariamente; altri fiancheggiatori rimasero nell'abitato per fornire notizie ai capibanda, girando per le strade minacciosi e ancora baldanzosi per il successo ottenuto. Gli abitanti, piegati dalla terribile esperienza, piangevano i morti, le case distrutte, i beni perduti, il tradimento dei parenti e di coloro che ritenevano amici.
Il disordine regnava ovunque, mancava una forza di polizia capace di ristabilire la legalità; spento il clamore delle orde brigantesche cadde sul paese un silenzio carico di paura, mentre gli incendi continuavano a bruciare. I fuggiaschi cominciarono a piccoli gruppi a rientrare dalle campagne e da Albano il 5 novembre, videro i cadaveri straziati e gli effetti della furia brigantesca apparvero in tutta la loro drammaticità; ogni famiglia avrebbe potuto raccontare una sua storia terribile; a evocare quei momenti ci sono le parole di Crocco e di Borjes che nei loro scritti ricordarono il sacco di Trivigno con rammarico il primo, con sgomento il secondo, ed il lungo e laborioso processo celebrato dinanzi la Corte d'Assise di Potenza.
Il pretore Vincenzo di Pietro con il cancelliere Gennaro de Sanctis rientrato in paese sa Albano, apprese che i briganti oltre al saccheggio avevano commesso omicidi, incendi e numerosi atti delittuosi. Dovendo procedere alle operazioni prescritte dalla legge si rivolse al sindaco per conoscere l'esatto svolgimento dei fatti accaduti, avere l'elenco delle case saccheggiate e incendiate e conoscere dove si trovassero i cadaveri in modo da raccogliere tutte le prove dei reati prima che si potessero alterare e disperdere. A tale richiesta il sindaco non dette alcuna risposta; il giudice incaricò il cancelliere di acquisire notizie dalla voce pubblica. L'accertamento di quanto accaduto fu molto difficoltoso per le contraddittorie versioni dei fatti, ma soprattutto per il silenzio dei danneggiati, intimoriti dal comportamento minaccioso della plebe.
Si accertò che le vittime erano: Don Domenico Antonio Sassano, il cui cadavere era bruciato nel rogo della casa, la Guardia Nazionale Pasquale Volini, i coniugi Michele Petrone e Teresa De Stefano, Don Giambattista Guarini e la madre Donna Cristina Brindisi; i cadaveri, per la pietà del sacerdote Don Costantino Brindisi fratello di una delle vittime, erano stati già sepolti nella cella ipogea della Cappella del Monte dei Morti (103). Si verificò anche che erano stati incendiai e saccheggiati i palazzi Sassano e Brindisi, depredate e devastate le case di Don Giuseppe De Marco, Don Nicola Abbate, Don Alessandro Coronati, Don Giambattista Guarini, Don Francesco Antonio Beneventi, Don Federico VoIini, Don Alessandro Maggio e gli Uffici della Cancelleria della Pretura, la Ricevitoria del Registro e Bollo e l'Esattoria Comunale (v Appendice, I, p. 195 ss.).
Il cancelliere si rese conto che le case saccheggiate erano molte di più, forse tutte quelle appartenenti a proprietari e a persone agiate del paese. I briganti erano entrati in esse senza violenza perché lasciate aperte dagli stessi abitanti in fuga; si potevano però valutare i danni solo su denunzia dei danneggiati che per paura si astennero dal fare qualsiasi dichiarazione. Per stimare i danni furono nominati quali periti l'agrimensore Vito Brindisi e il falegname Marco ACerenza che nei giorni successivi eseguirono gli accertamenti richiesti (104).
Le esigue forze dell'ordine, svolgendo il loro lavoro investigativo, raccolta qualche indiscrezione, perquisirono le case di alcuni saccheggiatori e recuperarono, anche se in misura più che modesta, parte della refurtiva. Si operò l'arresto di Antonio Marotta perché nella sua casa vennero ritrovati due barili di grano e di biada riconosciuti di proprietà di Don Alessandro Coronati e alcune carte appartenenti a Maria Nicola Petrone. Presso Carmela Stasi e Michele di Grazia furono trovati articoli di merceria e carte appartenenti al commerciante Giovanni Antonio Petrone. Furono perquisite le case dei fratelli Vignola (Antonio, Rocco Vincenzo e Michele) che la notte del 3 furono visti da Domenico Antonio Padula mentre trasportavano in casa di Michele una grande quantità di grano, presa dai magazzini di Don Alessandro Coronati. Rimproverati per quanto stavano facendo, risposero che con il ritorno di Francesco II anche le terre dei galantuomini sarebbero state divise. Rocco Vincenzo, inoltre, aveva trovato in un cassone nascosta nel grano una cassetta contenente degli oggetti d'oro, che furono divisi in tre parti.
Il grano fu restituito al legittimo proprietario e dopo alcuni giorni anche il contenuto della cassetta; il Coronati, ritenendo che alcuni gioielli erano stati sottratti, pretese un'obbligazione di 22,50 ducati pagabile in agosto; poco dopo i tre fratelli furono arrestati e condannati.
La Guardia Nazionale, il 6 novembre, in territorio di Tricarico fermò Francesco Marino e il figlio dodicenne; perquisite le bisacce e il basto trovò un taglio di tricò del Regno di colore grigio, una pelle di vitellino verniciata ed un'altra semplice, un abito da donna di lana merinos di colore rosso, un paio di guanti di filo di Scozia, una piastra cucita in un pezzo di stoffa celeste e una federa usata. Il Marino dichiarò di non avere preso parte al saccheggio del paese, di essere stato costretto dai briganti a reggere le briglie dei cavalli fuori dell'abitato. Aggiunse di avere nascosto nella sua casa la moglie e il figlio del capitano della Guardia Nazionale, Francesco Coronati e su richiesta di Angelo Serravalle li aveva fatti ritornare in famiglia. Venne interrogato anche il ragazzo che dichiarò che quella roba era stata presa dal fratello Antonio durante il saccheggio, e che il padre era stato armato dai briganti. Sequestrata la refurtiva, malgrado tanti indizi di colpevolezza, Francesco Marino fu lasciato libero; si seppe in seguito che si era aggregato alla banda Festa.
Molti trivignesi, che avevano seguito Borjes e Crocco, cominciarono a rientrare in paese fin dal 4-5 novembre, pochi si presentarono alle autorità e consegnarono il fucile (105) (v. Appendice, II, p. 199 ss.); alcuni sorpresi nelle campagne dalle truppe, dai carabinieri e dai militi delle Guardie Nazionali furono sul posto fucilati (106) (v. Appendice, III, p. 203 ss.). Altri si aggiravano in paese con atteggiamento sprezzante, incutendo timore nella popolazione.
Il sindaco, per evitare nuove sventure, fu costretto a chiedere al Prefetto e al Comandante militare di Potenza d'inviare i soldati. Il 30 novembre giunsero gli uomini della 16 Divisione, al comando del luogotenente Giovo che, su indicazione degli stessi paesani, fece arrestare 28 ricercati; altre tre compagnie del 18 Reggimento di fanteria, comandate dai capitani, Rocco, Vimetti e Gatti, arrivarono il 3-4 dicembre. Nonostante le promesse fatte senza alcun processo i detenuti furono, nel pomeriggio del 5 dicembre alle ore 17, fucilati davanti alla Cappella del Calvario e i cadaveri lasciati insepolti come monito ai ribelli (107) (v. Appendice, IV, p. 205 ss.). Poco dopo l'esecuzione arrivarono i militi della Guardia Nazionale di Vaglio, tutti con l'animo esacerbato, soprattutto Giuseppe Danzi che aveva avuto il padre e la sorella uccisi, la casa saccheggiata e data alle fiamme.
Essi erano calati di corsa a Trivigno per fare direttamente giustizia dei predoni delle loro case; trovatili già fucilati si dovettero accontentare di vedere i loro cadaveri e accertarsi se tutti fossero morti. In questa ricognizione s'accorsero che uno non era stato raggiunto dai colpi e, astutamente, si era finto morto; tra urla, imprecazioni e bestemmie lo fulminarono con una scarica di pallottole. Mancava tra i morti Pietro Allegretti, detto Occhio di bove, uno dei più spietati assassini.
I vagliesi con l'aiuto dei trivignesi lo cercarono con feroce determinazione, scovandolo verso sera in una cisterna secca, lo trassero fuori a viva forza e lo fucilarono, erano le ore 20,00 (108). Dopo le esecuzioni del 5 dicembre, molti di coloro che erano rientrati in paese si dettero alla latitanza; il 10 dicembre il Prefetto De Rolland fece pubblicare un manifesto con cui si garantiva salva la vita a chi si fosse consegnato spontaneamente, e molta indulgenza per coloro che non avessero commesso delitti di sangue. Allettati da questa promessa ventotto ricercati si presentarono all'autorità militare tra il 13 e il 17 dicembre; la stessa sera su ordine del luogotenente Giovo vennero arrestati, il 18 scortati dai soldati della Legione Ungherese furono condotti in carcere a Potenza (109) (v. Appendice, V, p. 208 ss.).
Iniziò una lunga e complessa Istruttoria a carico di 160 trivignesi; il processo, attraverso vari gradi di giudizio terminò con la condanna a varie pene di 28 imputati (110) (v Appendice, VI, p. 211 ss.). Tra essi non erano presenti tutti i veri responsabili, coloro che avevano istigato, arruolato, armato i più disperati, preparato l'invasione brigantesca con astuzia e precisione all'interno del paese e stabilito i contatti con i borbonici potentini. Nel momento dell'assalto avevano avuto cura, per non compromettersi, di non apparire tra i briganti e di astenersi da qualsiasi azione violenta, allontanandosi dal paese dopo avere favorito e verificato il buon esito dell'aggressione.
Questi manutengoli arrestati furono protetti dalla mancata denuncia dei testimoni che al processo non fecero i loro nomi; prosciolti da ogni accusa continuarono a vivere in paese, delusi della mancata realizzazione dei loro progetti e spettatori delle rovine, dei lutti derivanti dalle loro azioni e ancora vessati dai briganti presenti nella zona.


8. Intervento dello Stato

I rappresentanti dello Stato, inizialmente, sottovalutarono il brigantaggio in seguito accusarono il governo di avere, deliberatamente, preferito inviare contro i briganti l'esercito, di avere lasciato cadere l'offerta di smobilitazione pervenuta alla Prefettura di Potenza da parte di Crocco, di Ninco Nanco e degli altri capibanda (111). Il Parlamento decise che fosse costituita una Commissione d'inchiesta per accertare le cause del fenomeno e approntare tutti i mezzi necessari per avviare un'energica repressione (112). Con grande senso pratico, senza reticenza e con ferma dignità Giuseppe Massari, componente della Commissione, sostenne che la grande miseria delle popolazioni meridionali, le infinite promesse di una suddivisione equa delle terre, le enormi diseguaglianze sociali, i soprusi del ceto dei galantuomini e le prepotenze degli esponenti delle classi dirigenti, avevano trovato uno sfogo violento e brutale nel brigantaggio; nonostante questa approfondita analisi si preferì adottare una dura repressione (legge Pica) (113). Furono istituiti i tribunali militari per giudicare i briganti e i loro complici, inviati reggimenti di fanteria e di bersaglieri per snidare dai covi i briganti, furono ordinate fucilazioni e arresti oltre che rappresaglie contro le loro famiglie. Tutti coloro che erano sospettati di favoritismo vennero passati per le armi. L'Onorevole Castagnola riferiva: "si fucilava senza nessuna guarantigia non solo dalle truppe ma anche dalla Guardia Nazionale, dai Sindaci, dalle popolazioni... Spettacolo terribile, strano, anormale" (114).
A Trivigno, come in tutti gli altri centri delle province meridionali, i Carabinieri e il Sindaco erano tenuti ad inviare alla polizia informative sul comportamento dei cittadini.
Il delegato del Mandamento di Trivigno, il 9 novembre 1864, denunciò alla giustizia il sacerdote Arcangelo del Giudice con l'accusa di essere un reazionario e un disturbatore dell'ordine pubblico e segnalò che, durante l'invasione brigantesca, la sua condotta era stata molto discutibile. Istruito il processo e ascoltati i testimoni emerse che le accuse erano infondate; l'imputato il 18 aprile 1865 venne prosciolto per non avere commesso il fatto (115).
La situazione in Basilicata diventò sempre più incontrollabile; sciolte le grandi bande se ne formarono altre costituite da pochi individui che tenevano la popolazione in allarme non esitando a taglieggiare, a estorcere, a sequestrare. Venute a mancare le sovvenzioni dei sostenitori della causa borbonica, i capibanda con ogni mezzo furono costretti a provvedere al vettovagliamento e alle paghe degli uomini. I banditi, abbandonata qualsiasi rivendicazione sociale e politica, furono costretti a lottare per sopravvivere.
Il 21 maggio 1863 mentre sequestravano un tale Orga furono visti da una donna che cominciò a gridare per chiedere aiuto; fu dai malfattori "presa, seviziata oscenamente e posta a morte lenta e straziante" (116). Le bande più presenti nel territorio di Trivigno e dei paesi limitrofi furono quelle del trivignese Michele Festa, detto Izzo (117), ad essa si aggregarono il contadino Francesco Marino e il figlio Angelo. Con la fucilazione del Festa, avvenuta a Pomarico il 16 gennaio 1863, Francesco Marino si costituì; processato fu condannato a 19 anni di carcere (118). Angelo Marino continuò le imprese brigantesche con una propria banda; catturato in agro di Tricarico fu fucilato nel febbraio del 1864 (119). Antonio Marino, fratello di Angelo, dopo avere seguito il Borjes fece parte della banda di Ninco Nanco; morì nel territorio di Ruvo del Monte; su di lui pendeva una condanna a 15 anni di carcere (120).
Il vecchio brigante Paolo Serravalle continuò ad essere l'indiscusso padrone del bosco di Brindisi di Montagna: i pastori, i contadini, i proprietari per salvaguardare i propri beni, accettavano le sue imposizioni. Tale stato di cose ebbe termine con la morte del bandito avvenuta il 24 agosto 1863. Egli nel territorio lasciò, come triste eredità, l'abitudine a delinquere.
Gli atti briganteschi si verificarono ancora per vari anni; il 25 luglio 1867 fu sequestrato nella sua masseria Luigi de Grazia che, dopo una lunga prigionia, fu rilasciato il 22 agosto successivo (121). Lo stesso de Grazia insieme al giovane Fabrizio Padula (di Giovanni), nel settembre 1869, sfuggì ad un altro tentativo di sequestro (122). Il generale Pallavicini, per ottenere risultati più concreti nella lotta al brigantaggio il 9 agosto 1869 fece affiggere un manifesto in cui si prometteva un premio di 3.000 lire a chi avesse cooperato alla cattura o alla presentazione di un capobanda e un modesto premio a chi avesse favorito l'arresto di un brigante. Anche la Provincia e i Comuni di Craco, Stigliano ed Aliano offrirono una ricompensa (123). Il Consiglio Comunale di Trivigno, il 20 ottobre 1869 (124), istituì un premio di 50 lire a chi avesse consegnato alla giustizia, vivo o morto il capobanda Giuseppe Padovani, detto Cappucccino, che continuava a operare nel territorio.
L'ultimo e tremendo atto brigantesco, che segnò profondamente la vita della collettività, fu compiuto, il 16 giugno 1874, dalla banda di quest'ultimo con il sequestro dei proprietari Michele Padula e Arcangelo Passarella. Per il primo fu pagato un riscatto di centomila lire (125) per il secondo si vociferò di ventimila lire.
Arcangelo Passarella, che in realtà non era il vero obiettivo dell'azione criminosa, fu lasciato libero il 23 giugno dopo il pagamento del riscatto; la prigionia del Padula durò trentasei giorni. La moglie, contravvenendo alle disposizioni delle Autorità di Polizia, si adoperò in tutti i modi per raccogliere la somma richiesta, vendendo o dando in garanzia il patrimonio di famiglia, tutto questo però non le consentì di raccogliere la somma. Molti massari spontaneamente, mettendo a rischio i propri averi, offrirono consistenti somme, gli stessi contadini si prestarono a preparare il denaro, mutarlo in oro e portarlo ai briganti, cucito tra le suole delle scarpe per sfuggire alla sorveglianza dei carabinieri. Michele Padula la notte del 22 luglio bendato fu condotto fuori dai boschi e lasciato libero con l'avvertimento di sbendarsi dopo un'ora e di seguire un determinato itinerario senza voltarsi indietro, pena la vita.
Tale racconto non trova riscontro negli atti processuali dai quali risulta che non fu pagato alcun riscatto per il rilascio dei sequestrati (126) (v. Appendice, VII, p. 216 ss.).
Il brigantaggio, che Giustino Fortunato denunziò quale: "ultimo atto del dramma terribile nei suoi episodi e nei suoi aspetti" della Questione Meridionale, fu represso con una spietatezza tale da superare anche quella usata dai Borboni.
Di questo misero popolo attaccatissimo alla propria terra, alle sue tradizioni, alla parola data, geloso dei suoi averi, della sua casa, del suo onore, se ne parlò solo per additare i lati negativi. Non si riconobbe che i delitti furono perpetrati da singoli, o da bande create o comunque protette dai Borboni e dai signorotti mossi più da interessi personali che da fini politici. La grande miseria, le palesi ingiustizie, spinsero i più impulsivi, che non riuscivano a rassegnarsi a vivere di stenti e a sopportare i soprusi, a diventare brigante prima ed emigrante poi (127).


9. Il ruolo dell'Amministrazione Comunale nell'avvio e sviluppo dei servizi locali

a) Dopo il 3 novembre 1861 la vita del paese risultò sconvolta non solo dai lutti e dalle rovine derivanti dall'assalto brigantesco, ma anche da tutti gli altri gravissimi problemi che si aggiunsero a quelli già esistenti. Il sindaco, per tutelare i cittadini e il territorio, fu costretto a chiedere alle Autorità preposte d'inviare delle truppe, acquartierarle prendendo in fitto le case private, provvedendo al vitto e a tutte le spese necessarie per l'espletamento dei loro incarichi (la spesa per il mantenimento della truppa, dal 4 novembre al 31 dicembre 1861, fu di 112 ducati e 25 grani) (128). Quando gran parte della truppa fu ritirata il Comune continuò a sostenere le spese per il Delegato di polizia, il suo attendente e i militari rimasti di stanza a Trivigno (129).
L'Amministrazione Comunale, essendo stata chiamata dalle leggi dello Stato a svolgere il suo ruolo nell'ammodernamento della vita amministrativa e sociale, profuse il suo impegno con grande senso di responsabilità nei settori della scuola, della sanità, della posta e telegrafo e dei lavori pubblici. Le risorse che aveva a disposizione derivavano, in gran parte, dalle imposte comunali, gravose per i cittadini, ma che davano un gettito limitato e insufficiente a fare fronte a tutte le necessità; essa fu costretta a contrarre mutui presso la Cassa Depositi e Prestiti creando un notevole disavanzo di bilancio.
b) Fino al 1860 le attività sanitarie erano esercitate da pochi regolari professionisti, da mestieranti e da praticoni.
Con l'Unità d'Italia lo Stato, non potendo consentire in un settore così delicato questo stato di cose, emanò disposizioni che imponevano a coloro che esercitavano una pubblica professione (medici, farmacisti, veterinari, levatrici, droghieri, salassatori) di essere in possesso di regolare titolo di studio, o di certificato d'idoneità rilasciato dal Consiglio Provinciale Sanitario, previo accertamento delle capacità professionali. Tale provvedimento evidenziò situazioni di gravi carenze di professionalità, costringendo coloro che erano sprovvisti dei titoli o delle certificazioni necessarii e a regolarizzare la loro posizione, ma nel contempo creò ulteriori disagi alla popolazione.
In paese intorno al 1870 vi erano due farmacie che, a seguito della nuova normativa, furono chiuse; di una era stato titolare il chimico farmacista Giosué Passarella, alla sua morte subentrò il figlio Giuseppe che, pur se edotto dal padre nella pratica chimica e farmaceutica, era privo del titolo di studio richiesto dalla legge. Il Passarella avrebbe dovuto recarsi a Napoli per sostenere l'esame d'idoneità (R.D. 12 agosto 1869); essendo molto anziano e infermo chiese alle Autorità competenti una provvisoria autorizzazione che però gli venne negata. L'altra farmacia, dalla morte del titolare Gaetano Verre, era stata gestita, dal 1854 al 1865, dal commesso Rocco Zito, anche questi, non essendo abilitato, chiese al Ministero dell'Interno l'autorizzazione all'esercizio. La domanda fu respinta nonostante un attestato di benemerenza rilasciato dal sindaco che dichiarava di averlo autorizzato all'esercizio della professione per venire incontro alle esigenze della popolazione durante l'epidemia di vaiolo, e che lo stesso si era messo sempre a disposizione di tutti (130).
Per il controllo dell'osservanza delle nuove regole sanitarie il sindaco era tenuto a trasmettere, periodicamente, alle Autorità Sanitarie Provinciali l'elenco dei sanitari esercenti (131) che erano nel 1861 i medici Giuseppe Marotta, Federico Volini, Gaetano Miraglia e il farmacista Giovanni Coronati (l'esercizio di questi fu distrutto, il 3 novembre del '61, dai briganti), la levatrice, Modesta Benedetto, i salassatori, Giuseppe Marotta, Leonardo Filitti, Luigi Braia di Accettura e Pasquale Summa di Vaglio.
c) L'Amministrazione Comunale intervenne per migliorare il servizio postale, effettuato per molto tempo dai pedoni postali che giungevano in paese due volte alla settimana. La nuova situazione politica e la crescente necessità di avere collegamenti rapidi con il capoluogo fecero sì che il pedone postale effettuasse giornalmente il servizio, partendo da Trivigno, alle ore 6 di mattina e giungendo a Potenza, alle 11, per ripartire alle ore 13 e ritornare in paese alle 18 (132). Il Prefetto, con una nota del 7 luglio 1865, fece presente al sindaco che Trivigno era l'unico Capoluogo di Mandamento sprovvisto di Ufficio Postale. II Consiglio Comunale, prendendo atto della necessità e dei vantaggi che tale servizio avrebbe arrecato alla collettività, l'1 agosto 1865 deliberò l'istituzione; per mancanza di fondi trascorsero ancora due anni prima che la Giunta Comunale deliberasse (28 aprile 1867) l'apertura dell'Ufficio Postale, continuando a servirsi del pedone postale, previo versamento alla Cassa delle Poste della somma pattuita. Espletò la funzione di ufficiale postale il Sig. Rocco Zito e di aiuto fiduciario il Sig. Giusto. Con l'inaugurazione della ferrovia, nel 1880, la posta giungeva alla stazione ferroviaria che, essendo dotata di telegrafo, riceveva telegrammi anche per i cittadini di Trivigno e il pedone postale effettuò il suo servizio dalla stazione al paese. La Prefettura di Potenza, con una nota del 28 settembre 1886, comunicò al sindaco che, per effetto della legge del 2 giugno 1885 n. 3200, il Comune avrebbe dovuto essere munito di ufficio telegrafico; l'istituzione fu deliberata il 24 settembre 1887; l'anno successivo vennero eseguiti i lavori per la messa in opera della linea telegrafica per collegare il paese alla stazione ferroviaria; l'incarico di gestire l'ufficio telegrafico fu affidato al Sig. Rocco Zito.
L'Ufficio delle Poste e Telegrafo venne ubicato in un locale comunale sito nell'odierna piazza IV Novembre, dal 1909 fu trasferito in un altro immobile appartenente al Signor Rocco Zito (133).
Il servizio postale, per l'aumento degli scambi e per la comodità dei cittadini, dal 1911 fu effettuato per mezzo di carrozza chiusa, eliminando tutti gli inconvenienti derivanti dal trasporto a dorso di mulo.
d) Il Prefetto della Basilicata, Giulio De Rolland, in apertura della sessione straordinaria del Consiglio Provinciale nel settembre 1861, relazionando sullo stato dell'istruzione nella provincia, commentò: "l'istruzione elementare e primaria nella provincia è a crearsi, come la secondaria, classica e tecnica". Questa realtà era ben diversa da quella evidenziata nelle relazioni ufficiali dell'ultimo periodo borbonico quando, per assicurare un insegnante in ogni comune, erano stati inseriti nel personale docente "maestri inattivi e ignoranti". Per tale ragione coloro che avessero voluto istruirsi dovevano fare ricorso alle scuole private, tenute da sacerdoti e da maestri laici, accessibili solo ai ragazzi appartenenti alle classi più abbienti.
La situazione della scuola secondaria pubblica non era meno drammatica; durante l'ultimo decennio borbonico erano stati istituiti solo l'Istituto Agrario "S. Maria di Valleverde" a Melfi, e il Reale Collegio a Potenza affidato ai Gesuiti (1850). Questa s scuola non poteva rilasciare alcun diploma al termine dei corsi, pertanto gli allievi dovevano sostenere gli esami finali a Salerno (134). Con l'unificazione nazionale si erano evidenziate le gravi carenze della scuola e dell'istruzione nella Provincia. Per organizzare la scuola nel Regno fu estesa a tutte le regioni la legge Casati (13 novembre 1859), valida là dove c'erano scuole già organizzate con idonei criteri e un tasso di analfabetismo di appena il 25%, come Piemonte, Toscana, Romagna, ma inadatta, se non addirittura dannosa, per le regioni meridionali dove il 90% della popolazione era analfabeta. Lo Stato fu costretto a risolvere il problema della formazione dei docenti aprendo a Potenza (31 luglio 1861) una Scuola Temporanea di Metodo.
I Comuni per legge erano tenuti all'istituzione della scuola elementare con l'assunzione di tutti i relativi oneri (fitto locali, stipendio maestri etc). L'Amministrazione Comunale istituì la scuola elementare maschile e femminile di primo grado (I-II-III classe), prese in fitto i locali in civili abitazioni (135) ed erogò lo stipendio ai due insegnanti. In mancanza di maestri muniti di patente nominò per la sezione maschile il sacerdote Giovanbattista Abbate, per la femminile la Signora Olimpia Merola Sassano, ritenendo idonei a svolgere tale compito (136). Essi furono sostituiti rispettivamente, nel 1867 da Stanislao Marotta e, nel 1870, da Erminia Sassano e Carolina Marotta in quanto forniti di patente (137). Per rispondere alIe esigenze della popolazione venne istituita gratuitamente dai sacerdoti anche una scuola serale e domenicale (138).
Nel 1781 venne aperta la sezione maschile della scuola di grado superiore (IV e V classe) (139). L'operato dei maestri era sottoposto alla vigilanza di una Commissione costituita dal notaio Arcangelo Passarella, dal medico Gaetano Miraglia e dal possidente Camillo Sassano per la sezione maschile, per la femminile dalle Signore Aurora Guarini Brindisi, Teresa Coppola e Carolina Luciani d'Aniello. La scuola era frequentata alunni quasi tutti appartenenti a famiglie abbienti, mentre i contadini per necessità facevano lavorare i figli fin da bambini presso i possidenti e i massari. Per legge era obbligatoria l'istruzione elementare inferiore, il sindaco era tenuto a inviare l'elenco dei fanciulli in età scolare alla Commissione Comunale preposta che aveva il compito d'invitare i genitori all'adempimento scolastico. Per gli inadempienti, la Commissione avrebbe provveduto a fare affiggere nella Casa Comunale e in chiesa l'elenco dei nomi, che sarebbero stati resi pubblici dal parroco ogni prima domenica del mese; essi, inoltre, sarebbero stati esclusi da qualsiasi sovvenzione di pubblica beneficenza (140). Nonostante tali provvedimenti l'evasione scolastica rimase sempre molto alta né alcuno pagò l'ammenda.
Per quanto riguarda l'edilizia scolastica poiché la legge consentiva particolari agevolazioni, nel 1907 e nel 1909, il Comune scelse le aree idonee per costruire un edificio e affidò l'incarico della progettazione a degli ingegneri. Tali iniziative non si concretizzarono per le more burocratiche, per la mancanza di fondi e per gli eventi bellici della I guerra mondiale; comportarono solo dispendio di danaro pubblico.
e) L'Amministrazione Comunale dopo il 1860 s'impegnò a fondo nel settore dei lavori pubblici per risolvere i gravi problemi relativi alla costruzione del Cimitero, al dissesto idrogeologico, alla viabilità e all'approvvigionamento idrico. Per soddisfare le necessità dei cittadini furono sistemate nel 1860 e nel '68 la fontana Pozzo dei Preti con una spesa di 392 lire (141) e la fontana in località Infiascata con una spesa di L. 110,30 (142).
Si provvide nel 1886 a captare l'acqua delle sorgenti San Nicola e d' Russ e convogliarla con una condotta dal bosco Torricelle fino alle prime case del paese (Paschiere) con la messa in opera di una fontana a quattro getti con una spesa di 3.470 Lire. La condotta nel 1890 fu prolungata fino a piazza IV Novembre (già piazza Cavour) con l'impianto di una fontana ad un getto (143). Venne affrontato anche il grave problema della viabilità, le strade interne erano quasi tutte disselciate, fangose oltre che ricettacolo di rifiuti, le esterne erano mulattiere poco percorribili a causa delle frane. Per immettere il paese nella rete viaria provinciale sarebbe stato necessario costruire una strada rotabile che collegasse Trivigno alla nazionale Potenza-Matera e un ponte sul fiume Basento. Il Comune nel 1862 poté solo provvedere, con i 530 ducali erogati dal Governo per spese di pubblica utilità, a sistemare la strada che collegava il monte di Sant'Antonio alla Serra necessaria per il trasporto della legna in paese per alimentare i forni pubblici. Negli anni successivi si provvide a prosciugare due invasi, fonti di malaria, che si erano formati a causa del dissesto idrogeologico nelle contrade San Giovanni e Tempa Martoccia, costruendo i canali di deflusso delle acque e immettendole nel fiume Basento (144). A Trivigno, come in tutti i paesi limitrofi, giunsero ingegneri, assistenti, canneggiatori, appaltatori che studiarono il terreno, predisposero progetti, che non si concretizzarono per mancanza di fondi comportando solo un inutile aggravio di spese.
Nello stesso periodo progredirono i lavori per la costruzione della ferrovia che avrebbe collegato il mare Tirreno al mare Ionio. La linea Potenza-Metaponto (108 Km) fu divisa in cinque tronchi con una spesa complessiva di 43 milioni (145) e inagurata nel 1880. Le ditte appaltatrici Trewella e Medici impegnarono tecnici e centinaia di operai provenienti da tute le province d'Italia e solo pochi giornalieri locali.
Questa grandiosa opera ebbe il merito di togliere Trivigno dal secolare isolamento, di promuovere il piccolo commercio e di animare la vita sociale del paese con l'inserimento di persone provenienti da regioni lontane che avevano una visione del lavoro e della vita molto difforme da quella locale. Alla fine del secolo il Comune ripristinò la strada che collegava l'abitato alla stazione ferroviaria, affidando i lavori al mastro muratore, Antonio Vignola che, con perizia, per un importo di solo 487,50 lire, portò a compimento l'opera (146).
Nel 1901 fu costruita una strada comunale per collegare la stazione di Trivigno con la provinciale Albano-Marsico, in seguito essa divenne provinciale su istanza del Consigliere Provinciale, avvocato Francesco Brindisi (147).
Una frana di grosse proporzioni nei primi anni del '900 interessò i lati sud ed est dell'abitato, in particolare via Volturno nel rione Fornacette e via Roma (già via Garibaldi) nel rione Casale.
La frana provocò lo squilibrio statico di tutti i fabbricati compresi tra la Casa Comunale ubicata nel piazzale Chiazzillo e via Volturno, tanto da rendere necessaria la demolizione delle abitazioni pericolanti, lo sgombro o il puntellamento di altre. Per evitare ulteriori smottamenti un sotterraneo, in passato magazzino del palazzo Carafa, esistente al di sotto della piazza IV Novembre fu riempito e chiuso. Tale situazione di disagio e di pericolo si protrasse fino al 1907, quando iniziarono i lavori di consolidamento dell'abitato con la costruzione di un muro di sostegno in via Volturno, di drenaggio del bacino franoso e il ripristino del selciato nelle vie interessate dai lavori. La Prefettura per consolidare i terreni franosi limitrofi all'abitato predispose la messa a dimora di alberi di robinie (148).
Il Prefetto nel 1865 per tutelare la salute pubblica vietò il seppellimento nella Cappella del Monte dei Morti e impose al Comune di scegliere un luogo idoneo per la costruzione del Camposanto secondo precise normative: distanza dall'abitato, esposizione grandezza, sistema d'inumazione, misura degli scavi ecc. Fu individuato dagli amministratori comunali il luogo adatto in località Fontana, contrada Infrascata (v. Appendice, VIII, p. 222), venne approvato il progetto redatto dall'ingegnere Gerardo Grippo completo di tutte le strutture necessarie per un importo di 5312,98 lire (149). I lavori d'esecuzione, iniziati nei primi anni del 1870, durarono a lungo e riguardarono solo la costruzione del campo d'inumazione, le mura di cinta e la strada d'accesso posta a valle della fontana; il cancello venne collocato solo nel 1892 (150). Il Consiglio Comunale il 24 settembre 1882 approvò anche il Regolamento di Polizia Mortuaria in esso si dettavano le disposizioni per il trasporto dei defunti, l'inumazione e la costruzione di cappelle e di tombe. Nel corso del tempo l'area cimiteriale risultò insufficiente tanto che nel 1914 il Comune, a seguito della Relazione Sanitaria redatta dal medico Carlo Passarella deliberò di non concedere più aree all'interno del cimitero e legalizzò quelle costruzioni tombali per le quali gli interessati avevano già corrisposto l'importo dovuto.
f) Appena le province napoletane furono annesse al Regno d'Italia lo Stato ritenne improrogabile la soluzione della questione demaniale vecchia di decenni e causa di scontento e di tensioni. Le competenze, già assegnate agli Intendenti, furono affidate ai Commissari Ripartitori; il 3 luglio 1861 furono pubblicate le istruzioni da seguire nello svolgimento delle operazioni da concludersi entro il 31 dicembre 1861 (151). L'Amministrazione Comunale il 21 luglio 1861 inviò alla Prefettura l'elenco delle pendenze demaniali, da esso risultarono demani comunali di piccola estensione (già reintegrati al Comune in forza dell'Ordinanza del 25 agosto 1853) ancora indivisi, ma divisibili e dati in fitto (Acqua d' Russ, Frattine Fanelli, Lago Palla, Piano Imperatore, Paschiere, Limitoni al Capo Acquaro) (152). Si rendeva noto che il Sig. Fittipaldi, oltre ad avere usurpato alcuni terreni del demanio Torricelle, aveva ristretto il tratturo comunale e tagliato parecchi alberi; era opportuno procedere ad un serio controllo (153)-
Vennero segnalati, ancora una volta, gli abusi degli eredi dell'ex feudatario che pretendevano di ricevere in magazzino i generi che, in base alla Sentenza della Commissione Feudale, avrebbero dovuto riscuotere sull'aia (154). Per risolvere tutte le vertenze esistenti nel Comune di Trivigno e nel suo Circondario il 29 ottobre 1861 il Signor Oronzo Albanese, quale Agente Demaniale, giunse a Trivigno e fu ospitato dai Sigg. Brindisi.
La sera del 3 novembre, quando il paese fu messo a ferro e fuoco dall'orda brigantesca, l'Agente a stento riuscì a mettersi in salvo; tutta la documentazione relativa alla questione demaniale andò distrutta e vennero rubati anche i suoi effetti personali (155). Fu necessario procedere ad altre verifiche, le più importanti furono effettuate dagli Agenti Ripartitori Cotronei (1866) e Guglielmucci (1882)(156). Da quest'ultimo accertamento emersero varie usurpazioni quali la modifica della linea dei confini, gli spostamenti e la sottrazione dei termini lapidei nonché la sparizione di tre volumi di documenti.
Fra le tante occupazioni abusive quella più rilevante per estensione (13 tomoli) fu contestata al Sig. Antonio Fittipaldi (157) che non accettò l'esito della revisione, avviando una causa che si protrasse per anni. In seguito ad una nuova verifica, effettuata dall'Agente Ripartitore, Sig. Domenico Lomuti, venne riscontrata un'usurpazione ancora più estesa di circa 6 tomoli (158). Con Ordinanza del Commissario Ripartitore del 13 luglio 1905 fu imposto al Sig. Fittipaldi il rilascio delle terre, il pagamento di quanto aveva indebitamente riscosso (L. 14436,50), oltre le spese di giudizio. Seguì un nuovo ricorso presso la Corte d'Appello di Potenza che con sentenza del 18 settembre 1906 rigettò ogni rivendicazione del Comune di Trivigno; tale sentenza divenne definitiva poiché la controparte non ricorse in Cassazione in considerazione del fatto che si sarebbero dovute sostenere ulteriori oneri per nuove e più accurate verifiche (159). L'Agente Ripartitore Lomuti rilevò altre usurpazioni da parte di ventuno possessori, contro i quali fu istituito un giudizio di reintegra. Molti interessati si opposero al provvedimento, con l'Ordinanza Prefettizia del 20 ottobre-14 novembre 1910 fu disposto il rilascio delle superfici interessate (160). Alcuni possessori nelle more del giudizio, chiesero di tenere in temporanea utenza i terreni e ciò venne loro concesso (161).


10. Dalla difficile situazione economico-sociale all'emigrazione

I primi decenni dopo l'Unità d'Italia furono molto difficili per la popolazione; i fatti accaduti il 3 novembre 1861, i processi, la campagna di repressione del brigantaggio, le tasse esose e talvolta ingiuste, le estenuanti contestazioni per la quotizzazione del demanio, crearono contro il Governo sfiducia e opposizione. La situazione economica del paese si può dedurre dal ruolo delle imposte fondiarie; da esso risultò che nella fascia di reddito compresa tra 500 a 1.000 lire vi era un solo contribuente, diciotto in quella da 50 a 500 lire, centoquarantasette in quella da 10 a 50 lire, nell'ultima fascia, fino a 10 lire, i contribuenti erano seicentonovantotto (162). I medi proprietari vivevano in paese e si limitavano a condurre direttamente la vigna, affidando la coltivazione dei terreni ai fittavoli con contratti annuali e sempre verbali che si rinnovavano tacitamente. I piccoli proprietari lavoravano direttamente i propri fondi, ma l'esigua estensione della terra da coltivare consentiva un mediocre guadagno. Per limitare al massimo le spese anche la moglie e i figli lavoravano in campagna, talvolta si assumevano qualche ragazzo, quale custode di animali e un salariato fisso con le mansioni di pastore e di casaro; nonostante che l'allevamento costituisse un'attività molto modesta era necessario comunque pagare al Comune la fida (cioè una tassa per ogni capo di bestiame, che pascolava nel demanio comunale). Il tenore di vita di tutta la collettività era alquanto modesto non solo per ragioni economiche, ma anche culturali. Il dott. Fabrizio Padula nel breve periodo di permanenza in paese comprese quanto fosse necessario educare i giovani e cercò d'interessarli al teatro; si adoperò perché fosse costruito un palcoscenico, dipingendo personalmente le scene, adattando i testi delle commedie e dei drammi che, anche se alla buona, furono rappresentati con grande soddisfazione di tutti.
Promosse l'istituzione di un Circolo ricreativo che intitolò al patriota Luigi La Vista (163), creando un ambiente idoneo per favorire i rapporti sociali, riunire i galantuomini e i forestieri presenti in paese (impiegati della Pretura, dell'Ufficio del Registro ecc.). I salariati fissi conducevano una vita molto dura; il salario annuale andava dalle 250 alle 400 Lire con l'obbligo di attendere al lavoro in tutti i giorni dell'anno, ritornando in paese solo per le feste tradizionali. Le giovani donne e i ragazzi sarchiavano il grano, eseguivano la seconda zappatura della vigna, davano lo zolfo, procedevano alla legatura dei pampini e alla raccolta dell'uva. La giornata lavorativa iniziava con il sorgere del sole e finiva al tramonto con due, tre e anche quattro soste a secondo della stagione; oltre al modesto salario spettava loro il vitto. Si coltivavano il grano, l'orzo, il granturco, le patate, i legumi che costituivano l'alimentazione base della famiglia, a essi si aggiungevano le verdure coltivate negli orti e quelle campestri.
Tutti allevavano i polli di cui si vendevano le uova per racimolare qualche soldo e il maiale che forniva il lardo, la sugna e la carne per i salumi. Gli altri generi alimentari (olio, baccalà, formaggio, e pasta) venivano acquistati presso i rivenditori che consentivano il credito, anche se a prezzi maggiorati (164).
I piccoli proprietari quando dovevano pagare i salariati erano spesso costretti a prendere ad usura il danaro con tassi del 25%. Per eliminare il triste fenomeno dell'usura il dott. Padula riunì in una Società Operaia i contadini e gli operai e istituì fra loro una Cassa di Prestito, ma questa lodevole iniziativa purtroppo fallì (165).
Le abitazioni in gran parte continuarono ad essere costituite da un unico vano, male ventilato e umido, in esso si viveva in promiscuità con gli animali con grave danno per la salute. La scarsa igiene, la mancanza di un'alimentazione corretta e di cure mediche e di medicine favorivano le malattie: tubercolosi, malaria, infezioni da parto, tifo, enterite, polmonite. La mortalità era molto alta specie quella infantile, d'inverno per le malattie da raffreddamento, d'estate per le infezioni dell'apparato digerente.
Il disinteresse del potere centrale verso le legittime aspirazioni dei ceti subalterni, le invivibili condizioni di vita, determinarono a Trivigno, oltre che in tutta la Basilicata, la grande emigrazione transoceanica e permanente. Tale esodo non venne interrotto neppure alla fine del secolo quando l'Italia, volendo inserirsi tra le potenze coloniali, inviò i suoi uomini in Africa. I giovani furono sollecitati dallo Stato ad arruolarsi come volontari con la promessa di una retribuzione giornaliera di tre lire per gli ufficiali, per il soldato semplice era inferiore anche al salario che corrispondeva il padrone per quattordici ore di lavoro al giorno, vi era però il vantaggio di avere una paga sicura (166).
Da Trivigno partirono alcuni volontari, si conoscono solo i nomi del sottufficiale Gaetano Brindisi e di Rocco Filitti caduto ad Adua il 1° marzo 1896. I contadini preferirono emigrare nelle Americhe; questo esodo determinò la rovina del ceto dei medi e piccoli proprietari che perdettero una mano d'opera a basso costo. Dal 1883 al 1900 emigrarono circa 1.094 persone (168), cioè metà della popolazione attiva, in prevalenza giovanissimi, come risulta dalla mancata presentazione alla leva militare (169). Il forte depauperamento della collettività portò tra il 1900 e il 1914 all'esodo di intere famiglie, non solo di braccianti e di piccoli proprietari ma anche di artigiani e di professionisti in tutto 683 persone (170) (v. Appendice, IX, p. 223 ss.). Quanto abbiano contribuito a determinare tale situazione la pressione fiscale e l'usura non è possibile stabilire, certamente in misura notevole. A questo bisogna aggiungere l'improduttività delle terre coltivate con metodi arretrati e improvvidamente disboscate (171), il malcontento originato dai soprusi della classe predominante, il desiderio di una vita nuova, il bisogno d'elevarsi socialmente e d'assicurare un avvenire migliore ai figli, la suggestione per il nuovo e l'incentivo che veniva dai parenti e dagli amici che mandavano il danaro necessario per il viaggio. L'emigrazione si rivolse inizialmente verso l'America latina, in seguito verso gli Stati Uniti dove i salari erano piú elevati. Tutti, privi di qualsiasi professionalità e ignorando la lingua, furono costretti ad inserirsi in un mondo sconosciuto e accettare i lavori più umili e faticosi. A prezzo di grandissimi sacrifici molti inviavano quanto necessario perché la famiglia potesse raggiungerli; altri con le rimesse provvedevano al sostentamento dei congiunti, ad estinguere i debiti, le tasse e talvolta comprare la casa o rimettere a nuovo quella di proprietà per avere la certezza del ritorno. Gli emigranti per lo più non dimenticarono i profondi legami con la terra d'origine, né le loro tradizioni; in occasione delle festività religiose mandavano offerte consistenti per il ripristino delle chiese (172).
Dopo molti anni spesso ritornavano spinti dalla nostalgia della famiglia anche se ben presto erano costretti a ripartire, perché i loro interessi erano nella terra d'adozione.
L'effetto dell'emigrazione fu positivo per molti che riuscirono a mettere a frutto le proprie capacità e a inserirsi nel nuovo contesto sociale. I contadini rimasti in paese potevano scegliere le terre da coltivare a patti meno onerosi, lasciando incolte quelle sterili. La carenza di braccianti favorì a Trivigno e nei paesi limitrofi un fenomeno anomalo: l'immigrazione temporanea dei marinesi che in occasione della mietitura arrivavano dal tarantino e dal leccese (173). L'emigrazione e lo spopolamento delle campagne non furono gli unici mali; le condizioni sanitarie si aggravarono ulteriormente a causa del diffondersi e del perdurare della malaria. Questa scottante realtà fu affrontata dal dott. Michele Lacava e dall'ufficiale sanitario dott. Giovanni Pica che disegnò la prima e più attendibile mappa della diffusione della malaria (fig. 10) e delle altre malattie in Basilicata nel 1889. La malaria costituiva insieme alla elevatissima mortalità infantile l'insidia ricorrente di molte famiglie meridionali, che avevano imparato a convivere con essa.
Giustino Fortunato pose al centro della vicenda storica meridionale il problema della malaria giungendo ad affermare: "La storia del Mezzogiorno è la storia della malaria" (174). La vecchia classe dirigente, pur di mantenere intatti i privilegi di cui godeva, non volle prendere coscienza delle reali condizioni dei lavoratori, invece d'individuare le cause ed adoperarsi per rimuoverle, preferì ignorarle. Il Governo per non irritare la borghesia meridionale non ritenne necessario riconoscere le legittime aspirazioni dei ceti subalterni, sostenendo che solo con l'emigrazione sarebbero migliorate le condizioni delle province meridionali. Tale tesi fu condivisa, in parte, dall'illustre meridionalista Giustino Fortunato, che credeva essere questa la sola e temporanea valvola di sicurezza per risolvere il problema della sovrappopolazione. Il deputato meridionale Francesco Saverio Nitti riteneva invece che i mali, in particolare della Basilicata, avrebbero potuto essere risolti non con l'emigrazione, ma con una politica di ristrutturazione organica del territorio attraverso una sistemazione quasi esclusivamente boschiva all'interno della quale impiantare industrie armentizie e promuovere l'allevamento del bestiame.
Per dimostrare l'infondatezza di tale tesi si faceva rilevare la funzione economica dell'emigrazione; le rimesse dei lavoratori avrebbero potuto consentire la formazione di nuovi capitali utili ad avviare la ripresa del Sud. Tali risorse, a Trivigno e anche altrove, non furono impiegate per iniziare una trasformazione agraria o altre piccole attività produttive perché in paese erano rimasti solo i vecchi, le donne e i bambini incapaci di creare nuove fonti di reddito(175). Le rimesse, come rilevava l'Onorevole Ciccotti, andavano a ingrossare il fondo delle Casse di Risparmio Postale e venivano impiegate dallo Stato non nel Meridione, ma in investimenti produttivi nelle Regioni già più sviluppate del Nord. Le gravissime condizioni economiche di tutta la Basilicata erano tali da essere segnalate in Parlamento dai deputati lucani: Ettore Ciccotti, Michele Mango, Pietro Lacava e Michele Torraca che ripetutamente chiesero un adeguato e tempestivo intervento del Governo. Per rendersi conto della situazione denunciata il 9 settembre 1902 il Presidente del Consiglio, On. Giuseppe Zanardelli visitò la Regione; in un discorso, tenuto nel Teatro Stabile di Potenza espose quanto dolorosamente aveva constatato promettendo l'interessamento del Governo (176). La legge speciale Zanardelli (non condivisa da Giustino Fortunato), approvata il 26 marzo 1905 e il successivo piano attuativo, prevedeva l'esecuzione di opere pubbliche, il consolidamento dei centri abitati, il completamento della rete stradale e ferroviaria, i rimboschimenti e la sistemazione dei bacini montani, le bonifiche idrauliche per combattere la malaria e molte provvidenze per l'agricoltura e agevolazioni fiscali (177). Nei venti anni previsti per la sua attuazione i risultati furono modesti, per il modo con cui fu realizzato il decentramento amministrativo, per la limitatezza degli stanziamenti, per l'esiguo alleggerimento tributario e per l'insufficienza degli organi destinati all'attuazione del programma.
L'azione del Provveditorato Regionale alle Opere Pubbliche fu limitatissima soprattutto per la mancanza di fondi, ma anche per la grande instabilità morfologica dei terreni; le frane e gli smottamenti continuarono a devastare gli abitati, le strade e le pendici dei monti. L'opera di rimboschimento tanto auspicata venne ostacolata dalla scarsezza dei mezzi finanziari e tecnici. L'unico settore in cui si ebbero dei risultati, anche se modesti, fu quello agricolo con l'istituzione di quattro Cattedre ambulanti, una per Distretto che avevano il compito di vincere il tradizionalismo degli agricoltori e la loro diffidenza ad adottare nuovi metodi per migliorare la produzione.
In conclusione, più che la legge speciale, ebbero efficacia talune disposizioni particolari, quale la distribuzione del chinino di Stato. Questo provvedimento, anche se di scarso rilievo, fu efficace, perché ridusse il numero annuo dei morti per malaria da un migliaio a circa duecento. La legge straordinaria Zanardelli venne in gran parte disattesa, ma costrinse le Istituzioni a studiare interventi per attuare la modernizzazione della Basilicata. Lo scoppio della I Guerra Mondiale e il Fascismo impedirono la realizzazione di questi progetti.

 

 

 

 

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