PARTE IV
Dida era cambiata.
La madre non la capiva più.
Dal giorno del funerale di Marcello si era chiusa in se stessa e l’unico
suo interesse era legato al decorso dell’intervento subito da Dario,
anche perché, a riguardo, ogni giorno insorgevano problemi che ne
compromettevano la riuscita.
Dario non era un paziente rassicurante. Aveva sofferto molto e per lungo
tempo e, al momento della operazione, era assai debole e debilitato. Le
incognite dell’intervento e il quadro clinico generale destavano seria
preoccupazione tra i medici. Unica eccezione era il dottor Ferri,
convinto che ce l’avrebbe fatta.
“Dida anche oggi vai a far visita al giovane Corsini? Agisci come se la
tua presenza fosse indispensabile per la sua guarigione. Dalla morte di
Marcello l’unica tua distrazione è questa: uscire dalla pasticceria e
correre in ospedale”, le disse la mamma.
“Mamma, non insistere. Ti ho già detto che stare accanto al cuore di
Marcello mi è di consolazione. Non è solo un muscolo che è stato
trapiantato; per me esso contiene i palpiti dell’amore che provava per
me, i suoi slanci, la sua tenerezza…i nostri sogni.”
“ Io non so se tutto ciò sia un bene. A me pare che la tua stia diventando
un’ossessione. Capisco che la vicenda ti tocchi da vicino, ma ti
consiglio di viverla con minore partecipazione. Marcello è morto; i suoi
organi sono stati trapiantati in altri corpi…di altre persone.”
“Mamma, non immagini quanto male mi fai ricordandomi tanto crudamente la
realtà. Perché togliermi l’illusione che Marcello non sia morto del
tutto. Gli altri organi hanno pure funzioni vitali, ma il cuore è
un’altra cosa. E il cuore di Marcello è mio: egli l’ha donato a me ed
ora batte in Dario Corsini.”
Detto questo, uscì. La madre rimase assorta e, tentennando il capo, si
avvicinò alla finestra e attraverso i vetri vide la figlia entrare in
macchina ed allontanarsi.
Dida, intanto, si stava chiedendo se non avesse ragione la madre.
Anch’ella aveva tante remore; ma più forte di ogni considerazione era il
desiderio di stare accanto a Dario; fargli compagnia; parlare con lui;
scoprire se…Non osava pensarlo, ma, dal momento in cui si era svegliato,
ella aveva sperato di ritrovare in lui qualche atteggiamento o
espressione che gli ricordasse il suo Marcello.
Si ricordò del mattino in cui aveva ripreso conoscenza.
Era in camera sola con lui. Tommaso si era concesso un po’ di riposo e non
sarebbe venuto che verso mezzogiorno. Nella penombra vide che Dario
cominciava ad aprire gli occhi; dopo un po’ li aprì del tutto e chiese
dell’acqua. Dida suonò subito il campanello perché accorresse qualche
infermiere.
Fu allontanata dalla stanza e fu avvertito il primario. Ci fu un
andirivieni di personale medico e paramedico. Rimasero a lungo con quel
paziente speciale. Sapevano che le prime ore dopo il risveglio erano le
più difficili.
Dida decise di allontanarsi: sarebbe tornata dopo pranzo.
Mentre guidava, sorrise al ricordo di quello strano pomeriggio. Infatti,
quando tornò, notò sul volto di Dario una grande curiosità. Non si
ricordava di averla vista la mattina e si chiedeva chi fosse. Per non
affaticarlo ella lo prevenne e gli disse:
“Sono Dida. Ero la fidanzata di Marcello che le ha donato il cuore che
aveva già donato a me per amore. Eravamo molto legati. L’ho perduto per
una tragica fatalità. C’era il sole ed eravamo tanto felici…”
Dario impallidì. Ignorava come si fossero svolte le cose. Erano corsi in
camera per avvisarlo che finalmente era possibile il trapianto e che
tutto era pronto. Non ebbe neppure il tempo di analizzare gli stati
d’animo che si erano impossessati di lui all’annuncio. Ricordava
soltanto di aver pensato con un certo sollievo”Qualunque sarà l’esito
dell’operazione, terminerà il mio calvario.” Quindi lo avevano
addormentato.
Dida vide la grafica dell’elettrocardiogramma alterarsi ed ebbe paura.
Forse aveva sbagliato a dirgli la dolorosa verità senza prepararlo:
avrebbe dovuto parlargliene un poco alla volta. Si accostò a lui e gli
carezzò il viso, dicendogli:
“Sarò felice se si salverà col cuore di Marcello. Sappia che era un
giovane dolcissimo e caro. Se lei vorrà, le starò vicino fino a quando
guarirà. Mi sarebbe di grande conforto, poiché mi parrà di non averlo
interamente perduto.”
Dario assentì e andò rasserenandosi. Non senza provare un sentimento misto
di interesse e disagio.
Il suono di un clacson la scosse.
Gli altri automobilisti avevano ragione: aveva rallentato l’andatura e
intralciava il traffico. Ingranò la seconda e si incolonnò velocemente.
Tra pochi minuti sarebbe arrivata in ospedale.
*
“Dario, come stai? Siamo stati tanto in pensiero per te. Tutti. Tua
sorella verrà nei prossimi giorni. Tuo padre si è fermato a parlare con
il primario, il dottor Ferri. E’ una gran bella persona: non è per
niente altezzoso e incute rispetto e fiducia.”
Così gli diceva la madre abbracciandolo con cautela per non smuovere gli
aghi e le sonde che servivano per alimentarlo e iniettargli le medicine
necessarie al suo caso.
“Mamma, l’avere te e papà vicini come una volta mi stimola ad essere forte
per affrontare le incognite della convalescenza. I casi come il mio
prevedono una vera e propria riabilitazione non solo fisica, ma anche
spirituale e psichica. E’ come se si fosse riammessi a vivere. Ho
bisogno del vostro aiuto.”
Il padre, intanto, era entrato nella camera e, per dissimulare la
commozione, si mise a parlare in fretta riferendo ciò che gli aveva
spiegato il primario. Le cose procedevano bene e la terapia
immunosoppressiva era sopportata dal paziente senza reazioni negative.
Insomma, tutto faceva sperare in una dimissione non molto lontana. Gli
aveva assicurato, infatti, che per Natale, forse anche prima, il figlio
sarebbe uscito dall’ospedale.
“Papà, ti ingrazio di essere qui. Io da tanto tempo avrei voluto…”
Il padre lo interruppe e si avvicinò a lui. Gli strinse forte la mano che
era libera e gli sussurrò:
“Non ora, Dario, non ora. Avremo tanto tempo per parlare. Di’, piuttosto,
se hai bisogno di qualcosa. Mamma ti ha portato una vestaglia cucita da
lei, con le tue iniziali sul taschino; io, invece, ti ho portato alcuni
giornaletti di Dylan Dog, che fanno parte della tua raccolta gelosamente
custodita in soffitta. C’è anche il mitico numero uno”L’alba dei morti
viventi”di cui andavi tanto fiero. Sarà per te una piacevole distrazione
sfogliarli e, magari, rileggerne qualcuno. In paese chiedono di te e
molti tuoi compagni di scuola verranno a trovarti. La gente è mutevole
nei comportamenti; fino a ieri eri la pecora nera da condannare, ora, di
fronte alla gravità dell’ora, ognuno è preso da pietà e da scrupoli. Io
stesso, e sono tuo padre, ho agito mosso da un orgoglio insano e
ipocrita e ti ho fatto mancare il mio affetto. Perdonami, ti prego.”
Un nodo alla gola gli impedì di proseguire e, per non cedere ancora di più
alla debolezza, si avvicinò alla finestra e disse:
“Oggi il Duomo è uno spettacolo. Risplende al sole e le sue guglie
sembrano spade lucenti verso il cielo. So che il tuo amico Tommaso Doni
è sempre accanto a te. Io non lo vedo da quando frequentava la nostra
casa. Ricordo che spesso studiavate assieme.”
Pronunziò queste parole non senza imbarazzo. Voleva darsi un contegno di
normalità, ma era evidente che faceva un notevole sforzo per vincere la
sua natura improntata alla severità e alla intransigenza; ma l’amore per
quel figlio lo aveva portato a rivedere molte sue posizioni. Non si
chiedeva più perché gli era toccato un figlio dai geni confusi per la
infelicità di entrambi. E cosa che più gli doleva era la considerazione
che gli sarebbe stata negata la discendenza e il cognome Corsini si
sarebbe estinto. I suoi fratelli non avevano figli maschi.
Entrò Dida e fu sorpresa nel vedere quei due distinti signori nella camera
di Dario. Ebbe, però, subito la percezione che fossero i suoi genitori.
“Questa è Dida, disse Dario, una cara amica che viene a trovarmi con
assiduità. Mi è molto cara.”
La madre la guardò e fu colpita dall’intensità del suo sguardo e dalla sua
grazia.
“La ringrazio, Dida, della premura che rivolge a mio figlio. Io abito
lontano ed ho una salute cagionevole che non mi consente di stargli
vicino. Non sono in grado di sopportare strapazzi e fatiche.”
Dida volle dire loro chi era. Le sembrò giusto che i genitori di Dario
sapessero. Sentì anche la necessità di giustificare la sua presenza.
“Io ero la fidanzata di Marcello, il giovane che ha donato il cuore a
vostro figlio. Eravamo spensierati e felici in un giorno di sole. Poi,
il buio e l’incontro con la morte. Capite perché sono qui: Dario ha con
sé il cuore della persona che amavo e voglio che si salvi e che lo
custodisca; mi sembrerà così che la sua parte più preziosa continui a
vivere.”
I genitori di Dario rimasero sconcertati. Per alcuni minuti nella camera
gravò un silenzio palpabile. Poi, Dida continuò:
“La struttura ospedaliera mantiene il segreto sul nome dei donatori perché
coloro che ricevono l’organo non abbiano vincolo alcuno e si sentano
autonomi nella vita riconquistata. Ed è bene che sia così. Nel mio caso
è stato diverso. Arrivai con Marcello in ospedale quando la sua morte
cerebrale era già certa ed egli finì pochi istanti dopo essere giunti.
Io ed i suoi genitori demmo l’assenso per l’espianto degli organi poiché
questa era la sua volontà.
Rimasi in disparte in preda ad un dolore senza fine e per caso sentii il
nome di chi avrebbe ricevuto il suo cuore. Il giovane Corsini.”
Il padre di Dario si avvicinò a Dida e, abbracciandola, le disse:
“Noi sapevamo che la nostra gioia nasceva dal dolore di altri e, ciò ci
procurava profondo turbamento. Ora, conoscendola, la nostra sofferenza è
più forte. E’ una pena che nasce anche dalla amara constatazione di
qualcosa di ingiusto.”
Dida replicò:
“A vostro conforto posso dirvi che ho cominciato ad apprezzare la
sensibilità di Dario e sono felice che sia lui ad avere ereditato i
palpiti del cuore del mio Marcello.”
Le sue dolci parole annullarono la tristezza e in tutti subentrò un senso
di tenero sollievo.
*
“Cara Gabriella, come potrò sdebitarmi con lei che è diventata il mio
angelo custode? Oggi è stata una giornata più faticosa delle altre. Le
analisi varie e i controlli mi fiaccano. Quando finirà tutto questo?”
“Ringrazi Iddio, che ha voluto salvarlo, e tutta l’équipe medica. Sono
stati bravissimi: non hanno omesso un solo particolare che potesse
nuocere alla buona riuscita dell’operazione. Per quanto riguarda la
faccenda dell’angelo custode, io credo che ne è arrivato uno che nei
giorni più critici l’ha assistita con un silenzio accorato e che ora
continua a proteggerla con la sua presenza vigile e affettuosa. Anzi,
dovrebbe già essere qui. Tra poco varcherà la soglia della sua camera.
Chissà stasera cosa le porterà, oltre alla sua bellezza.”
Così dicendo, Gabriella uscì accompagnando le parole con un gesto d’intesa
ed un sorriso sornione. Dario rispose al suo saluto e rimase pensieroso.
Non riusciva a dimenticare le parole che Dida gli aveva rivolto la prima
volta in cui si erano visti.” Sono Dida. Ero la fidanzata di Marcello
che le ha donato il cuore che aveva già donato a me per amore.”
Sempre, quando gli tornavano in mente provava uno stupore inspiegabile,
che lo sorprendeva e lo sconcertava. Com’era possibile che egli si
sentisse legato a lei? Non poteva, infatti, negare a se stesso che al
vederla il suo cuore batteva così fortemente da incutergli paura; e,
talvolta, aveva la sensazione di venir meno. Quando, poi, andava via
sentiva in sé una forza nuova, un desiderio intimo di vincere il suo
male. L’immagine di quella giovane donna lo aveva colpito e ammaliato.
Forse per la sua storia triste…
Con quanta dolcezza gli aveva parlato del suo amore perduto e con quanta
delicatezza lo carezzava. Provava per lei una curiosa attrazione che non
aveva nutrito mai per nessuna donna. Allora si insinuava in lui un
pensiero che lo atterriva e lo faceva soffrire. Aveva nel suo petto un
cuore non suo: un cuore che ancora caldo e palpitante gli era stato
trapiantato ed al quale ormai era legato indissolubilmente. Attraverso
le vene e le arterie lo aveva irrorato col suo sangue ed esso aveva
ripreso a pompare ridandogli la vita che stava perdendo.
Un istintivo senso di colpa lo faceva sentire un usurpatore. S’era preso
per sé la parte più nobile del giovane sfortunato che era giunto in
ospedale in fin di vita; certamente un giovane generoso, il quale aveva
espresso la volontà che in caso di morte fossero donati i suoi organi
perché altri si salvassero.Questo suo rimuginare lo teneva in costante
agitazione.
Si chiedeva cosa fosse quell’intenerimento che lo prendeva quando
avvistava Dida da lontano attraverso la porta a vetri. Chiusa nel suo
soprabitino azzurro veniva da lui e spiava nel suo sguardo un riflesso
dello sguardo di Marcello. Allora avvertiva un fremito in petto.
I pensieri erano i suoi: egli, infatti, aveva completa memoria della sua
vita e della sua angoscia; ma i palpiti del cuore erano ancora di
Marcello? Considerava, poi, che il cervello è intimamente legato al
cuore, quindi, i pensieri ai suoi battiti. E’ l’idea pensata che ci fa
commuovere o, viceversa, sono le emozioni a condizionare la nostra sfera
razionale?
Si sentiva avvolto e coinvolto in un intrico di deduzioni, di
interrogativi che lo distoglievano dalle urgenze presenti per ricondurlo
ad una realtà antica per molti versi dolorosa.
Forse nel cuore che Marcello gli aveva donato erano rimasti imprigionati i
suoi sentimenti, i moti che lo avevano fatto gioire, soffrire, piangere
e sperare. In esso c’era posto per Tommaso?
Talvolta in sogno vedeva di spalle un giovane alto, biondo, che al suo
richiamo si girava e gli offriva il suo cuore racchiuso tra le mani.
Allora, si svegliava profondamente turbato. Una notte, in cui il sogno
era stato più veritiero del solito, fu preso al risveglio da un grande
sconforto e disse, rivolgendosi al Signore:
“Dio mio, non sono in grado di sopportare questa ulteriore prova della mia
esistenza? Mi hanno lacerato pulsioni e richiami sempre in contrasto;
concedimi la pace della mente e dell’animo. Ora chi sono? Aiutami. Fa’
che io abbia certezza di me; che io sappia come vivere e per chi o per
cosa vivere. Non permettere che il tormento oscuri i miei anni futuri,
se ce ne saranno. Fa’ che torni in me la serenità che ho conosciuto
nella mia fanciullezza ignara. Ti prego con tutto me stesso. Sono
indegno della tua benevolenza; ma Ti chiedo perdono e Ti rivolgo questa
supplica: ovemai nella tua onniscienza Tu vedessi per me un futuro
travagliato e sospeso, spezza la seconda vita che mi hai dato. Fa’ che
il cuore di Marcello inaridisca in me.”
Un giorno Tommaso, in una delle sue innumerevoli visite, peggiorò i suoi
stati d’animo. Vedendolo guardare insistentemente al di là dei vetri
della finestra, gli disse:
“Dario, non ti capisco più. E’ come se mi celassi una parte di te; come se
fossi preoccupato che io possa leggere in te. Sei cauto e ti tieni in
difesa, attento a custodire un tuo segreto. Questa è la mia
impressione.”
“Che dici mai? Dimentichi quanto è stata lunga la mia sofferenza e come
sia ancora incerta la mia salvezza?”
Tommaso, di fronte alla risposta di Dario che gli parve legittima e
accorata, si pentì della sua osservazione e gli chiese scusa.
Quando, però, andò via, Dario fu di nuovo irretito dai pensieri.”Sono
cambiato, è vero; lo ha notato anche Tommaso. Mi sento confuso,
frastornato: da un lato provo sensazioni nuove, mai provate prima;
dall’altro mi sento padrone dei miei ricordi, delle mie cognizioni,
della mia personalità. Talvolta mi pare di essere quello di sempre;
talaltra guardo le cose con occhi diversi, come se fossi io stesso un
uomo nuovo.”
*
Una visita inaspettata fu quella di Rosy e Consalvo. Giunsero nel
pomeriggio di un giorno piovoso. Avevano viaggiato tutta la notte ed
erano un po’ affaticati. Rosy per l’occasione aveva raccolto i capelli
in un nodo sulla nuca ed aveva adottato un trucco leggero che la rendeva
più distinta e meno volgare della donna che Dario aveva conosciuto in
quelle serate perse in via Laurentina.
Erano a disagio, quasi circospetti. Sempre così quando lasciavano la loro
zona per recarsi altrove; ma, l’aver saputo che Dario era stato tra la
vita e la morte e che ancora era in ospedale li aveva spinti ad andarlo
a trovare vincendo ogni ritrosia.
Nel loro mondo gli interessi erano completamente diversi e distanti da
quelli delle persone che regolavano i rapporti e i comportamenti su
norme fondate sul rispetto reciproco e sulla convivenza comune. La
violenza delle loro esperienze li aveva resi duri, impietosi verso gi
altri, ma tra loro, a meno che non ci fossero contrasti gravi per
invasioni di territorio o gelosie di mestiere, c’era un legame intenso,
alimentato dalla necessità della sopravvivenza.
Nascevano così odi profondi o un saldo senso di omertà, di simpatia, anche
di affetto: le loro reazioni nell’uno e nell’altro verso non conoscevano
moderazione, ma neppure ipocrisia o inganno. Per questi è necessario un
lavoro sottile della mente, una lenta circospezione per tessere le
trame: essi, invece, erano determinati e immediati. Nulla nel bene o nel
male attenuava i loro sentimenti che erano, comunque, esasperati.
Quando conobbero Dario, Rosy e Consalvo furono subito attratti da quella
sua aria inconfondibile di figlio di buona famiglia. In seguito ne
riconobbero il valore e lo ritenevano superiore a loro per cultura ed
intelletto e cominciarono a coltivare l’illusione che talvolta era
possibile riscattarsi dalla dannazione.
Entrarono in punta di piedi e sostarono nell’attesa che fosse Dario a
riconoscerli e a chiamarli.
“Rosy, Consalvo, che sorpresa!”
Dario scoppiò in un pianto irrefrenabile: i singhiozzi gli gonfiavano il
petto e scuotevano le due flebo che aveva attaccate alle braccia.
Rosy, nel vederlo in quello stato, sciupato, pallido, temette che
l’emozione provata potesse nuocergli. Si accostò con tutta l’accortezza
possibile e gli disse:
“Per carità, Dario calmati. Hai superato i momenti più difficili; poco ti
manca e potrai uscire dall’ospedale e riprendere le redini della tua
vita.”
La voce roca di Rosy risuonò nella camera vuota e disadorna.
Intanto, Consalvo taceva. Di fronte al dolore, alle malattie, egli, fin da
piccolo, si lasciava prendere dal timore che ogni cosa potesse
degenerare e peggiorare se si alteravano le condizioni, i contorni e le
situazioni. Allora, rimaneva inattivo, immobile senza più la baldanza
che egli non sapeva se fosse propria del suo carattere o l’avesse
acquisita in strada, a contatto di ragazzi più forti e spregiudicati di
lui. Per difendersi o per sentirsi come loro.
Il mondo della strada è implacabile: se non colpisci vieni battuto, se non
t’imponi soccombi.
Purtroppo, le circostanze, gli incontri, un destino crudele avevano fatto
sì che egli fosse ancora soggetto alla legge della violenza e del
ricatto. C’era stato un breve periodo della sua vita in cui sembrò che
le cose per lui potessero e dovessero cambiare: il padre aveva trovato
lavoro e non si ubriacava più. Era troppo tardi: la cirrosi gli aveva
spappolato il fegato e riempito di acqua melmosa la pancia. Morì di lì a
poco ed egli rimase solo, senza protezione. La madre era morta nel darlo
alla luce.
Non si pettinò per un mese: viveva di notte come le bestie randagie,
finché qualcuno gli disse che se avesse voluto…
Trovò un benefattore che, pur richiedendo da lui torbide prestazioni, si
interessava perché non gli mancasse nulla; volle, addirittura che
frequentasse la scuola. Fu così che, terminato con successo il corso
superiore di studi, avendo messo da parte un certo gruzzolo di danaro,
pensò di sottrarsi agli antichi legami e partì per Roma dove avrebbe
frequentato l’Università.
A Roma si sentì perso; senza punti di riferimento; senza amici; senza
regole e con una forte depressione in petto. Fu così risucchiato dal
mondo del vizio e, per dimenticare e trovare un fittizio conforto, si
rifugiò nella droga. Da qui un tirare a campare, come tanti che sono
deboli moralmente e socialmente.
Dario li invitò a sedersi. Poi, con un sorriso aggiunse:
”E’ giusto; non devo piangere, il peggio è passato. Sono lieto di vedervi.
E tu, Rosy, che eleganza!”
“Ti abbiamo portato le tue ciambelle preferite, quelle che preparano nel
bar della signora Gina, che sempre chiede di te ed esclama nel suo
dialetto romagnolo: - Ma che n’è di quel bravo ragazzuolo? Lo rivedrei
volentieri.-
Tutti ti salutano e si ricordano di te con orgoglio e affetto.”
Rosy tacque all’improvviso come se qualcosa le avesse spezzato in gola le
parole. Ebbe l’impressione di aver sbagliato tutto. Si pentì di aver
deciso di far visita a Dario. La sua presenza e quella di Consalvo
certamente gli ricordavano un periodo oscuro della sua vita. Come le era
venuto di nominargli il bar della signora Gina, luogo d’incontro del
vizio e della perversione? E tutti gli altri? Si sentiva soffocare:
voleva andar via, fuggire lontano dalla vista di Dario. A lei e a quelli
come lei si confacevano solo le ombre della notte; la luce del giorno li
sconcertava, li rendeva impacciati e metteva a nudo le loro ferite.
Per fortuna, entrò un’infermiera che spingeva il carrello con tutto
l’occorrente per le medicazioni e pregò i due visitatori di uscire.
Entrambi si accostarono a Dario per salutarlo; gli strinsero la mano
senza una parola e si allontanarono presto. Si sentivano inadeguati
all’ora e al posto.
Dario avrebbe voluto dir loro di fermarsi dopo la medicazione… forse
sarebbe stato possibile; ma si limitò a tendere le braccia nella loro
direzione.
Consalvo non aveva parlato; non gli aveva chiesto neppure notizie del suo
stato di salute.
Entrambi procedevano nel lungo corridoio silenziosi e assorti. Erano
andati via con un grande pentimento nel cuore; avevano il rimorso di
aver risvegliato con la loro presenza un passato di dolore e di vergogna
che certamente Dario voleva dimenticare. O aveva già dimenticato. Una
profonda amarezza li prese; ormai la loro amicizia non aveva alcuna
ragione d’essere; non c’era alcun legame che potesse farla durare.
Avevano gli stessi pensieri e provavano le stesse lacerazioni, ma le
chiusero in petto senza confessarle e tacquero fino all’uscita.
Allora Rosy disse con la voce che le tremava:
“E’ tanto sciupato; ma si riprenderà. Ha una forte volontà che l’aiuta a
superare prove insuperabili per gli altri.”
Consalvo non rispose e si limitò ad annuire con la testa. In cuor suo si
chiedeva se Dario avesse gradito la loro visita; e, anche se una parte
di sé si andava convincendo del contrario, egli si sforzava di crederlo
ricordando il sorriso di Dario appena li aveva visti entrare.
Dario, conoscendoli, aveva compreso il loro disappunto nel sentirsi in
colpa di averlo riportato indietro, agli anni della dissolutezza. La
loro era stata quasi una fuga ed ebbe la netta sensazione che non li
avrebbe rivisti mai più.
Una strana commozione lo prese: alcune scelte comportano rinunzie e
sacrifici; aveva dovuto rinunziare a Rosy e Consalvo ed avrebbe dovuto
farlo anche in seguito, non per le loro persone il cui appoggio gli era
stato di grande aiuto in momenti difficili, ma per il mondo che
rappresentavano e per i lontani ricordi dolorosi che egli voleva con
tutte le sue forze cancellare. Ancora veniva assalito dagli incubi
durante le notti sempre faticose. Si rivedeva in Via Laurentina
circondato da individui senza volto che lo spingevano violentemente
verso il buio della coscienza.
Si chiese quando avrebbe avuto fine la sua disperazione.
*
“Urgenza nella camera 27,”gridava l’infermiera alla ricerca di un medico.
Intanto, il campanello d’allarme squillava senza sosta. Era come una
dolorosa invocazione di aiuto.
“E’ venuto meno mentre gli medicavo la ferita.”
Così la caporeparto al dottor Curti che per fortuna era disponibile.
Il quel momento arrivò Dida e si sentì mancare nel vedere attraverso i
vetri il fermento che c’era attorno al letto di Dario.
Proprio il giorno prima il primario le aveva detto che Dario stentava a
superare la fase post-operatoria, non per il trapianto che era riuscito
ottimamente, né per il rigetto che tenevano sotto controllo, ma per una
sorta di” malattia dell’anima”. Sembrava che avesse paura di
ricominciare a vivere. Era come se solo nell’ospedale, nell’immobilità
del letto, si sentisse protetto.
Le fecero cenno di allontanarsi ed ella imboccò il corridoio che portava
alla cappella. Si sarebbe trattenuta in quel luogo sacro a pregare.
“Dida, dove ci porterà questa tua follia? Non fai che correre qui in
ospedale: è come se la tua vita sia appesa alla salvezza di Dario. Nulla
ha più valore per te se non la sua guarigione.”
La madre di Dida così parlò alla figlia, raggiungendola nella piccola
cappella dove si era rifugiata. L’aveva vista rannicchiata nel banco e
le si era stretto il cuore. Era trascorso un mese e niente era cambiato
dal giorno del trapianto. Lei e il marito non sapevano come aiutare la
figlia; come distoglierla dalla sua insana attrazione. Era come se non
potesse sfuggire ad un richiamo. Temevano davvero che alla lunga cadesse
nella perfidia di un’ossessione da cui non sarebbe riuscita a liberarsi;
che cadesse nelle spire della depressione. Temevano di perderla.
“Mamma, come mai qui? Dario sta di nuovo lottando tra la vita e la morte.
Ho sbagliato: devo piuttosto dire che è il cuore di Marcello che sta per
spegnersi una seconda volta. Non posso sopportarlo.
“Il tuo è un farneticare insostenibile. Andiamo; vieni via con me. E’ un
caso che mi sia decisa a venire qui. Volevo starti vicina. Non rimanere
nella solitudine di questa cappella, in cui, se pur essa è riscaldata
dall’amore e dalla fede, regna un’atmosfera triste. Vivi questa storia
con maggiore distacco. E’ giusta la preoccupazione umana per la sorte di
Dario, ma non andare oltre; non lasciarti coinvolgere in una vicenda che
non ti appartiene.”
“Come puoi dire questo? Il cuore di Marcello è in Dario; anzi, sono sicura
che lo stesso Marcello è in lui. Io ora devo lottare, pregare perché non
muoia ancora! Fino a quando il suo cuore continuerà a battere, anch’io
avrò vita. Lasciami sola: preferisco così. Di’ a papà che fino a quando
non si risolverà la crisi non tornerò a casa.”
La madre di fronte alla scelta risoluta di Dida non replicò ed uscì dopo
averla abbracciata. Aveva fallito due volte: invano aveva tentato di
convincerla che il suo comportamento era assurdo e non era riuscita a
distoglierla dalla decisione di rimanere in ospedale.
Dida, rimasta sola, pensò che qualcosa era successo perché Dario stesse di
nuovo tanto male. I segni di miglioramento non erano molto confortanti,
ma costanti, e questo faceva ben sperare. Poi, forse, sulla sua volontà
aveva vinto la” malattia dell’anima” come l’aveva chiamata il dottor
Ferri, ed egli si era arreso. A tale proposito le tornavano in mente le
parole che le aveva detto due giorni prima e che a lei erano sembrate
strane e inspiegabili:
”Il passato è tornato violento ed inesorabile ed ha scatenato in me un
contrasto di sentimenti. I miei ricordi sono crudeli.”
Ella, non senza perplessità, gli aveva risposto:
“Sai, Dario, io penso, e questo vale per me, per te e per tutti gli esseri
umani, che il passato non può tornare impietoso ad annullare gli sforzi
che facciamo per dimenticare fatti spiacevoli che hanno segnato la
nostra esistenza. Non può, non deve distruggere la barriera che
costruiamo a fatica per salvarci; per non abbandonarci al disinganno e
annientare qualsiasi speranza di vita.
A me, perché in te vive il cuore di Marcello, pare di avere ancora una
ragione per esistere. Egli me lo aveva donato; io devo custodirlo.
Queste mie considerazioni aiutino anche te a vincere il tuo male.”
“Dida, il mio è un passato che non mi onora. Una visita inaspettata di
alcuni amici, cui tengo molto, ha risvegliato in me esperienze amare e
inconfessabili, tanto che avrei gradito non rivederli. Ed anche questo
sentimento mi addolora.”
“Non ti arrovellare. Temo per te.”
“La tua presenza illumina la stanza e i miei occhi. Tu mi sei cara più
della mia stessa vita . E proprio per questo…”
“Taci, ora riposati. Tornerò presto. Domani non mi sarà possibile. Verrò
venerdì sera, alla solita ora.”
Nella penombra della cappella si pentiva di non essere tornata l’indomani.
Forse la sua presenza gli avrebbe fatto superare lo scoramento che lo
aveva preso, e chissà!, avrebbe impedito che gli si fermasse il cuore.
Dida rimase assorta a lungo; infine, stremata, si avviò verso il corridoio
che dava alla stanza di Dario.
Il sorriso di alcune infermiere la rianimò: una di esse le si accostò e le
disse:
“Ce l’ha fatta, signorina. Ma quanta paura! Il professor Ferri è stato
prodigioso. Ha preso in mano il cuore nuovo e lo ha palpato, quasi
carezzato, come fosse qualcosa di fragile e delicato. Noi tutti ci
guardavamo con il fiato sospeso in preda al panico, che diventata sempre
più insostenibile, fino a quando il rosso muscolo, così morbido e
tremolante, ha ripreso a pulsare. Allora, con movimenti esperti abbiamo
aiutato il nostro primario a completare l’intervento. Ci vuole solo un
po’ di riposo. Non è il caso che visiti il signor Corsini, ora. Se
vuole, può vederlo attraverso la porta a vetri. Domani sarà tutt’altra
cosa.”
“Grazie,” disse Dida allontanandosi, mentre calde lagrime le rigavano le
gote.
Incontrò Tommaso, anch’egli visibilmente commosso, e si abbracciarono.
*
Quel mattino Donatella decise che sarebbe andata da Dario in ospedale.
Pregò la madre di aiutare Riccardo a provvedere ai bambini e partì.
Sarebbe tornata tardi perché il viaggio era lungo. Milano era lontana.
Aveva un gran desiderio di vedere il fratello e il fischio del treno in
partenza le sembrò un richiamo.
Poggiò la testa sullo schienale e si lasciò andare ai ricordi. Provò
piacere a farlo. Presa dalla quotidianità, così fitta di impegni dovuti
alla conduzione della casa e alla cura dei figli, allontanava raramente
il pensiero dalle necessità del momento; di sera, poi, era tanto stanca
che crollava.
In due occasioni era andata a trovare Dario a Roma. Si era già laureato e
viveva in casa di Tommaso.
La prima volta, quando la vide comparire nel vano della porta, esclamò
sorpreso:
“Donatella, tu a Roma; che meraviglia! Ma tu aspetti un bambino? “
Donatella sorrise di fronte all’evidente entusiasmo del fratello. Si
sedette e gli chiese un bicchiere di acqua. Aveva un po’ di affanno
perché era salita a piedi. L’appartamento di Tommaso era in un palazzo
antico, di pregio, ma senza ascensore.
Alla proposta di Dario di offrirle una bibita fresca, rispose che andava
bene l’acqua che era più dissetante.
La visita della sorella fu un regalo; era l’unica che gli dava notizie dei
genitori. Poche giorni prima che si sposasse gli aveva scritto che
avrebbe tanto voluto averlo come testimone di nozze; ma il padre era
stato irremovibile.
“O lui, o noi. I vizi vanno repressi, non alimentati.”
Dario aveva provato un forte dispiacere. Vincoli antichi li legavano e
Donatella soffriva per ciò che il destino gli aveva riservato.
Dapprincipio non aveva capito quale fosse la colpa di Dario e si chiedeva
cosa avesse fatto di grave per suscitare l’ira del padre e muovere la
sua condanna. Poi, gliene aveva parlato con cautela Riccardo, il suo
ragazzo. Non si aspettava quella rivelazione; in cuor suo, però, rimase
intatto l’affetto per il fratello. Nulla e nessuno mai sarebbe riuscito
a intaccarlo. Soltanto, non comprendeva come certe cose potessero
accadere, e perché. Le dispiaceva che Dario, il suo modello; così bravo
e intelligente; così acuto nei giudizi dovesse essere oggetto di un
biasimo largamente condiviso.
L’atmosfera in casa s’era fatta pesante e lei ne aveva risentito, tanto
che i primi tempi non usciva se non per andare a scuola o in chiesa. Era
rimasta senza amici; solo Riccardo non le aveva mai fatto mancare il suo
sostegno.
Studiava ingegneria a Pisa e, ogni volta che tornava a Sulmona, le
manifestava la sua passione fino al giorno in cui le chiese di sposarlo.
Donatella lo amava da sempre e fu felice di accettare. Era una creatura
semplice e il suo grande desiderio era quello di formarsi una famiglia
tutta sua e di dedicarsi al marito e ai figli.
Terminato il corso di studi superiori, aveva apertamente confessato al
padre il suo proposito di non volersi iscrivere all’Università; né
l’incoraggiamento di entrambi i genitori era valso a farle cambiare
idea. Le sue coetanee, quasi tutte, consideravano, invece, l’Università,
a prescindere dalla loro più o meno forte intenzione di studiare per
davvero, un cambiamento di vita, un’evasione dalle consuetudini
provinciali di Sulmona. Le sedi prescelte erano Roma, Urbino, Ferrara.
I preparativi delle nozze furono modesti: gli invitati erano solo dalla
parte dello sposo perché il signor Corsini aveva inviato la
partecipazione soltanto ai parenti stretti.
La moglie, a seguito di questa decisione, gli aveva detto:
“Alberto, non mi pare giusto che in casa regni un’aria di mestizia. Ci
capita una grande gioia: Donatella si sposa e, cosa ancor più
confortante, con l’uomo che ama. Ha un carattere dolce e non si ribella
alle tue scelte, ma credo che sia utile che tu le dimostri quanto le
vuoi bene e quanto sei felice.”
“Matilde, davvero pensi che io non goda per Donatella? E’ che non posso
dimenticare di aver perduto mio figlio. Il migliore per intelletto tra i
giovani di Sulmona, ma il più abietto. Non riesco a festeggiare quando
provo una tristezza infinita nel sapere che Dario è escluso; si è
perduto e non è con noi.”
Nel pronunziare queste parole manifestava sentimenti contrastanti:
biasimo, repulsione, pietà , rabbia, ribellione e penoso senso di
sconfitta.
“Avevo fatto molti progetti per lui; avrei voluto averlo vicino nella mia
vecchiaia, ma un destino crudele me l’ha portato via nel buio di un
pozzo cavernoso, di cui non si scorge il fondo. Voglio una cerimonia
semplice senza clamore per non suscitare altre critiche e aggiungerle
alle tante che circondano la nostra casa. Di notte, durante le ore di
veglia, la vedo circondata da occhi che spiano, vigilano come quelli dei
gufi che sembrano dilatati, quasi sorpresi e attenti alla vita del
bosco. Nulla sfugge al loro controllo, anche il minimo rumore, l’ombra
più sfumata. Sono i guardiani della notte. Donatella è una ragazza
assennata e capirà le ragioni della mia decisione.”
La moglie, con il cuore gonfio di pena per le parole del marito pensò tra
sé ”Quanto soffre e ha sofferto” e si allontanò senza insistere oltre.
Quando una richiesta arreca troppo dolore in chi dovrebbe accoglierla è
da saggi non ostinarsi. La figlia avrebbe comunque avuto un convito
adeguato e sarebbe stata una bellissima sposa.
Passarono alcuni anni, durante i quali Donatella tenne sempre vivo il
rapporto con il fratello. Ma dalla nascita dei suoi figli, Nicoletta e
Filippo, gli scrisse assai di rado. Aveva pochissimo tempo a sua
disposizione.
La seconda visita che fece a Dario fu voluta da lei e da Riccardo per
fargli conoscere i loro bambini. Di questo ella fu molto grata al
marito. Con grande fatica riuscirono a tenerli buoni in macchina per
parecchie ore; furono, però, compensati dalla gioia di Dario nel
familiarizzare con i suoi nipotini. Li colmò di regali, cercando così di
esprimere tutta la sua gratitudine.
In quella occasione lo avevano trovato sereno e pienamente appagato del
suo lavoro; ma era tanto sciupato.
Dopo circa due mesi la notizia del suo infarto.
Da allora, per Donatella era come se le giornate fossero avvolte da una
cortina di bruma grigia e fumosa, anche se splendeva il sole.
Il fischio del treno la distolse. Era arrivata a Milano.
Alla stazione, dopo essersi fermata in un bar per un caffè, prese un taxi
e fu presto in ospedale.
Con slancio aprì la porta, ma il suo entusiasmo si smorzò alla vista di
Dario emaciato e in un evidente stato di prostrazione.
Le fece cenno di sedersi. Ella ingoiò le lagrime e, facendosi forza, gli
disse:
“Noni riconosco il nobile paladino che accorreva in mio soccorso; il
giovane capace di superare difficoltà di ogni genere. Non è pensabile
che cada proprio ora che deve affrontare la prova più difficile.”
Gli si accostò e lo baciò sulla guancia.
Si sedette sulla sedia accanto al letto e chiuse la mano del fratello
nelle sue, guardandolo in silenzio.
Quando entrò l’infermiera, trovò che Dario dormiva.
“Buongiorno, sono la sorella. E’ da un bel po’ che si è assopito.”
“Buongiorno, signora. E’ bene che riposi dopo la furia di ieri. Stavamo
per perderlo. Senza appello questa volta. Io tornerò più tardi: è meglio
non disturbarlo.”
Disse così mentre richiudeva la porta dietro di sé con accortezza per non
fare rumore.
Donatella rimase a lungo immobile. Ad un certo momento, lasciata
lentamente la mano del fratello, si alzò e si accostò alla finestra. Le
parve strano che tanta gente camminasse, si muovesse; che tante macchine
passassero. In quella stanza, invece, regnava un’atmosfera sospesa, un
impalpabile senso di resa, di attesa.
Si sentiva in colpa. A lei era capitata una vita colma di soddisfazioni:
Riccardo, i figli, tanto amore. A Dario, invece…
Nel pomeriggio riprese il treno e tornò a Sulmona. Se fosse stata libera,
non lo avrebbe lasciato senza salutarlo. A lungo conservò nel cuore il
timore che il fratello non si sarebbe salvato e che ella non avrebbe
potuto parlargli mai più.
Parte V -
Segue >>
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