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IL CUORE NUOVO DI DARIO CORSINI

- Romanzo -

Rachele Zaza Padula
 

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PARTE IV

Dida era cambiata. La madre non la capiva più.
Dal giorno del funerale di Marcello si era chiusa in se stessa e l’unico suo interesse era legato al decorso dell’intervento subito da Dario, anche perché, a riguardo, ogni giorno insorgevano problemi che ne compromettevano la riuscita.
Dario non era un paziente rassicurante. Aveva sofferto molto e per lungo tempo e, al momento della operazione, era assai debole e debilitato. Le incognite dell’intervento e il quadro clinico generale destavano seria preoccupazione tra i medici. Unica eccezione era il dottor Ferri, convinto che ce l’avrebbe fatta.
“Dida anche oggi vai a far visita al giovane Corsini? Agisci come se la tua presenza fosse indispensabile per la sua guarigione. Dalla morte di Marcello l’unica tua distrazione è questa: uscire dalla pasticceria e correre in ospedale”, le disse la mamma.
“Mamma, non insistere. Ti ho già detto che stare accanto al cuore di Marcello mi è di consolazione. Non è solo un muscolo che è stato trapiantato; per me esso contiene i palpiti dell’amore che provava per me, i suoi slanci, la sua tenerezza…i nostri sogni.”
“ Io non so se tutto ciò sia un bene. A me pare che la tua stia diventando un’ossessione. Capisco che la vicenda ti tocchi da vicino, ma ti consiglio di viverla con minore partecipazione. Marcello è morto; i suoi organi sono stati trapiantati in altri corpi…di altre persone.”
“Mamma, non immagini quanto male mi fai ricordandomi tanto crudamente la realtà. Perché togliermi l’illusione che Marcello non sia morto del tutto. Gli altri organi hanno pure funzioni vitali, ma il cuore è un’altra cosa. E il cuore di Marcello è mio: egli l’ha donato a me ed ora batte in Dario Corsini.”
Detto questo, uscì. La madre rimase assorta e, tentennando il capo, si avvicinò alla finestra e attraverso i vetri vide la figlia entrare in macchina ed allontanarsi.
Dida, intanto, si stava chiedendo se non avesse ragione la madre. Anch’ella aveva tante remore; ma più forte di ogni considerazione era il desiderio di stare accanto a Dario; fargli compagnia; parlare con lui; scoprire se…Non osava pensarlo, ma, dal momento in cui si era svegliato, ella aveva sperato di ritrovare in lui qualche atteggiamento o espressione che gli ricordasse il suo Marcello.
Si ricordò del mattino in cui aveva ripreso conoscenza.
Era in camera sola con lui. Tommaso si era concesso un po’ di riposo e non sarebbe venuto che verso mezzogiorno. Nella penombra vide che Dario cominciava ad aprire gli occhi; dopo un po’ li aprì del tutto e chiese dell’acqua. Dida suonò subito il campanello perché accorresse qualche infermiere.
Fu allontanata dalla stanza e fu avvertito il primario. Ci fu un andirivieni di personale medico e paramedico. Rimasero a lungo con quel paziente speciale. Sapevano che le prime ore dopo il risveglio erano le più difficili.
Dida decise di allontanarsi: sarebbe tornata dopo pranzo.
Mentre guidava, sorrise al ricordo di quello strano pomeriggio. Infatti, quando tornò, notò sul volto di Dario una grande curiosità. Non si ricordava di averla vista la mattina e si chiedeva chi fosse. Per non affaticarlo ella lo prevenne e gli disse:
“Sono Dida. Ero la fidanzata di Marcello che le ha donato il cuore che aveva già donato a me per amore. Eravamo molto legati. L’ho perduto per una tragica fatalità. C’era il sole ed eravamo tanto felici…”
Dario impallidì. Ignorava come si fossero svolte le cose. Erano corsi in camera per avvisarlo che finalmente era possibile il trapianto e che tutto era pronto. Non ebbe neppure il tempo di analizzare gli stati d’animo che si erano impossessati di lui all’annuncio. Ricordava soltanto di aver pensato con un certo sollievo”Qualunque sarà l’esito dell’operazione, terminerà il mio calvario.” Quindi lo avevano addormentato.
Dida vide la grafica dell’elettrocardiogramma alterarsi ed ebbe paura. Forse aveva sbagliato a dirgli la dolorosa verità senza prepararlo: avrebbe dovuto parlargliene un poco alla volta. Si accostò a lui e gli carezzò il viso, dicendogli:
“Sarò felice se si salverà col cuore di Marcello. Sappia che era un giovane dolcissimo e caro. Se lei vorrà, le starò vicino fino a quando guarirà. Mi sarebbe di grande conforto, poiché mi parrà di non averlo interamente perduto.”
Dario assentì e andò rasserenandosi. Non senza provare un sentimento misto di interesse e disagio.
Il suono di un clacson la scosse.
Gli altri automobilisti avevano ragione: aveva rallentato l’andatura e intralciava il traffico. Ingranò la seconda e si incolonnò velocemente. Tra pochi minuti sarebbe arrivata in ospedale.

*

“Dario, come stai? Siamo stati tanto in pensiero per te. Tutti. Tua sorella verrà nei prossimi giorni. Tuo padre si è fermato a parlare con il primario, il dottor Ferri. E’ una gran bella persona: non è per niente altezzoso e incute rispetto e fiducia.”
Così gli diceva la madre abbracciandolo con cautela per non smuovere gli aghi e le sonde che servivano per alimentarlo e iniettargli le medicine necessarie al suo caso.
“Mamma, l’avere te e papà vicini come una volta mi stimola ad essere forte per affrontare le incognite della convalescenza. I casi come il mio prevedono una vera e propria riabilitazione non solo fisica, ma anche spirituale e psichica. E’ come se si fosse riammessi a vivere. Ho bisogno del vostro aiuto.”
Il padre, intanto, era entrato nella camera e, per dissimulare la commozione, si mise a parlare in fretta riferendo ciò che gli aveva spiegato il primario. Le cose procedevano bene e la terapia immunosoppressiva era sopportata dal paziente senza reazioni negative. Insomma, tutto faceva sperare in una dimissione non molto lontana. Gli aveva assicurato, infatti, che per Natale, forse anche prima, il figlio sarebbe uscito dall’ospedale.
“Papà, ti ingrazio di essere qui. Io da tanto tempo avrei voluto…”
Il padre lo interruppe e si avvicinò a lui. Gli strinse forte la mano che era libera e gli sussurrò:
“Non ora, Dario, non ora. Avremo tanto tempo per parlare. Di’, piuttosto, se hai bisogno di qualcosa. Mamma ti ha portato una vestaglia cucita da lei, con le tue iniziali sul taschino; io, invece, ti ho portato alcuni giornaletti di Dylan Dog, che fanno parte della tua raccolta gelosamente custodita in soffitta. C’è anche il mitico numero uno”L’alba dei morti viventi”di cui andavi tanto fiero. Sarà per te una piacevole distrazione sfogliarli e, magari, rileggerne qualcuno. In paese chiedono di te e molti tuoi compagni di scuola verranno a trovarti. La gente è mutevole nei comportamenti; fino a ieri eri la pecora nera da condannare, ora, di fronte alla gravità dell’ora, ognuno è preso da pietà e da scrupoli. Io stesso, e sono tuo padre, ho agito mosso da un orgoglio insano e ipocrita e ti ho fatto mancare il mio affetto. Perdonami, ti prego.”
Un nodo alla gola gli impedì di proseguire e, per non cedere ancora di più alla debolezza, si avvicinò alla finestra e disse:
“Oggi il Duomo è uno spettacolo. Risplende al sole e le sue guglie sembrano spade lucenti verso il cielo. So che il tuo amico Tommaso Doni è sempre accanto a te. Io non lo vedo da quando frequentava la nostra casa. Ricordo che spesso studiavate assieme.”
Pronunziò queste parole non senza imbarazzo. Voleva darsi un contegno di normalità, ma era evidente che faceva un notevole sforzo per vincere la sua natura improntata alla severità e alla intransigenza; ma l’amore per quel figlio lo aveva portato a rivedere molte sue posizioni. Non si chiedeva più perché gli era toccato un figlio dai geni confusi per la infelicità di entrambi. E cosa che più gli doleva era la considerazione che gli sarebbe stata negata la discendenza e il cognome Corsini si sarebbe estinto. I suoi fratelli non avevano figli maschi.
Entrò Dida e fu sorpresa nel vedere quei due distinti signori nella camera di Dario. Ebbe, però, subito la percezione che fossero i suoi genitori.
“Questa è Dida, disse Dario, una cara amica che viene a trovarmi con assiduità. Mi è molto cara.”
La madre la guardò e fu colpita dall’intensità del suo sguardo e dalla sua grazia.
“La ringrazio, Dida, della premura che rivolge a mio figlio. Io abito lontano ed ho una salute cagionevole che non mi consente di stargli vicino. Non sono in grado di sopportare strapazzi e fatiche.”
Dida volle dire loro chi era. Le sembrò giusto che i genitori di Dario sapessero. Sentì anche la necessità di giustificare la sua presenza.
“Io ero la fidanzata di Marcello, il giovane che ha donato il cuore a vostro figlio. Eravamo spensierati e felici in un giorno di sole. Poi, il buio e l’incontro con la morte. Capite perché sono qui: Dario ha con sé il cuore della persona che amavo e voglio che si salvi e che lo custodisca; mi sembrerà così che la sua parte più preziosa continui a vivere.”
I genitori di Dario rimasero sconcertati. Per alcuni minuti nella camera gravò un silenzio palpabile. Poi, Dida continuò:
“La struttura ospedaliera mantiene il segreto sul nome dei donatori perché coloro che ricevono l’organo non abbiano vincolo alcuno e si sentano autonomi nella vita riconquistata. Ed è bene che sia così. Nel mio caso è stato diverso. Arrivai con Marcello in ospedale quando la sua morte cerebrale era già certa ed egli finì pochi istanti dopo essere giunti. Io ed i suoi genitori demmo l’assenso per l’espianto degli organi poiché questa era la sua volontà.
Rimasi in disparte in preda ad un dolore senza fine e per caso sentii il nome di chi avrebbe ricevuto il suo cuore. Il giovane Corsini.”
Il padre di Dario si avvicinò a Dida e, abbracciandola, le disse:
“Noi sapevamo che la nostra gioia nasceva dal dolore di altri e, ciò ci procurava profondo turbamento. Ora, conoscendola, la nostra sofferenza è più forte. E’ una pena che nasce anche dalla amara constatazione di qualcosa di ingiusto.”
Dida replicò:
“A vostro conforto posso dirvi che ho cominciato ad apprezzare la sensibilità di Dario e sono felice che sia lui ad avere ereditato i palpiti del cuore del mio Marcello.”
Le sue dolci parole annullarono la tristezza e in tutti subentrò un senso di tenero sollievo.

*

“Cara Gabriella, come potrò sdebitarmi con lei che è diventata il mio angelo custode? Oggi è stata una giornata più faticosa delle altre. Le analisi varie e i controlli mi fiaccano. Quando finirà tutto questo?”
“Ringrazi Iddio, che ha voluto salvarlo, e tutta l’équipe medica. Sono stati bravissimi: non hanno omesso un solo particolare che potesse nuocere alla buona riuscita dell’operazione. Per quanto riguarda la faccenda dell’angelo custode, io credo che ne è arrivato uno che nei giorni più critici l’ha assistita con un silenzio accorato e che ora continua a proteggerla con la sua presenza vigile e affettuosa. Anzi, dovrebbe già essere qui. Tra poco varcherà la soglia della sua camera. Chissà stasera cosa le porterà, oltre alla sua bellezza.”
Così dicendo, Gabriella uscì accompagnando le parole con un gesto d’intesa ed un sorriso sornione. Dario rispose al suo saluto e rimase pensieroso.
Non riusciva a dimenticare le parole che Dida gli aveva rivolto la prima volta in cui si erano visti.” Sono Dida. Ero la fidanzata di Marcello che le ha donato il cuore che aveva già donato a me per amore.”
Sempre, quando gli tornavano in mente provava uno stupore inspiegabile, che lo sorprendeva e lo sconcertava. Com’era possibile che egli si sentisse legato a lei? Non poteva, infatti, negare a se stesso che al vederla il suo cuore batteva così fortemente da incutergli paura; e, talvolta, aveva la sensazione di venir meno. Quando, poi, andava via sentiva in sé una forza nuova, un desiderio intimo di vincere il suo male. L’immagine di quella giovane donna lo aveva colpito e ammaliato. Forse per la sua storia triste…
Con quanta dolcezza gli aveva parlato del suo amore perduto e con quanta delicatezza lo carezzava. Provava per lei una curiosa attrazione che non aveva nutrito mai per nessuna donna. Allora si insinuava in lui un pensiero che lo atterriva e lo faceva soffrire. Aveva nel suo petto un cuore non suo: un cuore che ancora caldo e palpitante gli era stato trapiantato ed al quale ormai era legato indissolubilmente. Attraverso le vene e le arterie lo aveva irrorato col suo sangue ed esso aveva ripreso a pompare ridandogli la vita che stava perdendo.
Un istintivo senso di colpa lo faceva sentire un usurpatore. S’era preso per sé la parte più nobile del giovane sfortunato che era giunto in ospedale in fin di vita; certamente un giovane generoso, il quale aveva espresso la volontà che in caso di morte fossero donati i suoi organi perché altri si salvassero.Questo suo rimuginare lo teneva in costante agitazione.
Si chiedeva cosa fosse quell’intenerimento che lo prendeva quando avvistava Dida da lontano attraverso la porta a vetri. Chiusa nel suo soprabitino azzurro veniva da lui e spiava nel suo sguardo un riflesso dello sguardo di Marcello. Allora avvertiva un fremito in petto.
I pensieri erano i suoi: egli, infatti, aveva completa memoria della sua vita e della sua angoscia; ma i palpiti del cuore erano ancora di Marcello? Considerava, poi, che il cervello è intimamente legato al cuore, quindi, i pensieri ai suoi battiti. E’ l’idea pensata che ci fa commuovere o, viceversa, sono le emozioni a condizionare la nostra sfera razionale?
Si sentiva avvolto e coinvolto in un intrico di deduzioni, di interrogativi che lo distoglievano dalle urgenze presenti per ricondurlo ad una realtà antica per molti versi dolorosa.
Forse nel cuore che Marcello gli aveva donato erano rimasti imprigionati i suoi sentimenti, i moti che lo avevano fatto gioire, soffrire, piangere e sperare. In esso c’era posto per Tommaso?
Talvolta in sogno vedeva di spalle un giovane alto, biondo, che al suo richiamo si girava e gli offriva il suo cuore racchiuso tra le mani. Allora, si svegliava profondamente turbato. Una notte, in cui il sogno era stato più veritiero del solito, fu preso al risveglio da un grande sconforto e disse, rivolgendosi al Signore:
“Dio mio, non sono in grado di sopportare questa ulteriore prova della mia esistenza? Mi hanno lacerato pulsioni e richiami sempre in contrasto; concedimi la pace della mente e dell’animo. Ora chi sono? Aiutami. Fa’ che io abbia certezza di me; che io sappia come vivere e per chi o per cosa vivere. Non permettere che il tormento oscuri i miei anni futuri, se ce ne saranno. Fa’ che torni in me la serenità che ho conosciuto nella mia fanciullezza ignara. Ti prego con tutto me stesso. Sono indegno della tua benevolenza; ma Ti chiedo perdono e Ti rivolgo questa supplica: ovemai nella tua onniscienza Tu vedessi per me un futuro travagliato e sospeso, spezza la seconda vita che mi hai dato. Fa’ che il cuore di Marcello inaridisca in me.”
Un giorno Tommaso, in una delle sue innumerevoli visite, peggiorò i suoi stati d’animo. Vedendolo guardare insistentemente al di là dei vetri della finestra, gli disse:
“Dario, non ti capisco più. E’ come se mi celassi una parte di te; come se fossi preoccupato che io possa leggere in te. Sei cauto e ti tieni in difesa, attento a custodire un tuo segreto. Questa è la mia impressione.”
“Che dici mai? Dimentichi quanto è stata lunga la mia sofferenza e come sia ancora incerta la mia salvezza?”
Tommaso, di fronte alla risposta di Dario che gli parve legittima e accorata, si pentì della sua osservazione e gli chiese scusa.
Quando, però, andò via, Dario fu di nuovo irretito dai pensieri.”Sono cambiato, è vero; lo ha notato anche Tommaso. Mi sento confuso, frastornato: da un lato provo sensazioni nuove, mai provate prima; dall’altro mi sento padrone dei miei ricordi, delle mie cognizioni, della mia personalità. Talvolta mi pare di essere quello di sempre; talaltra guardo le cose con occhi diversi, come se fossi io stesso un uomo nuovo.”

*

Una visita inaspettata fu quella di Rosy e Consalvo. Giunsero nel pomeriggio di un giorno piovoso. Avevano viaggiato tutta la notte ed erano un po’ affaticati. Rosy per l’occasione aveva raccolto i capelli in un nodo sulla nuca ed aveva adottato un trucco leggero che la rendeva più distinta e meno volgare della donna che Dario aveva conosciuto in quelle serate perse in via Laurentina.
Erano a disagio, quasi circospetti. Sempre così quando lasciavano la loro zona per recarsi altrove; ma, l’aver saputo che Dario era stato tra la vita e la morte e che ancora era in ospedale li aveva spinti ad andarlo a trovare vincendo ogni ritrosia.
Nel loro mondo gli interessi erano completamente diversi e distanti da quelli delle persone che regolavano i rapporti e i comportamenti su norme fondate sul rispetto reciproco e sulla convivenza comune. La violenza delle loro esperienze li aveva resi duri, impietosi verso gi altri, ma tra loro, a meno che non ci fossero contrasti gravi per invasioni di territorio o gelosie di mestiere, c’era un legame intenso, alimentato dalla necessità della sopravvivenza.
Nascevano così odi profondi o un saldo senso di omertà, di simpatia, anche di affetto: le loro reazioni nell’uno e nell’altro verso non conoscevano moderazione, ma neppure ipocrisia o inganno. Per questi è necessario un lavoro sottile della mente, una lenta circospezione per tessere le trame: essi, invece, erano determinati e immediati. Nulla nel bene o nel male attenuava i loro sentimenti che erano, comunque, esasperati.
Quando conobbero Dario, Rosy e Consalvo furono subito attratti da quella sua aria inconfondibile di figlio di buona famiglia. In seguito ne riconobbero il valore e lo ritenevano superiore a loro per cultura ed intelletto e cominciarono a coltivare l’illusione che talvolta era possibile riscattarsi dalla dannazione.
Entrarono in punta di piedi e sostarono nell’attesa che fosse Dario a riconoscerli e a chiamarli.
“Rosy, Consalvo, che sorpresa!”
Dario scoppiò in un pianto irrefrenabile: i singhiozzi gli gonfiavano il petto e scuotevano le due flebo che aveva attaccate alle braccia.
Rosy, nel vederlo in quello stato, sciupato, pallido, temette che l’emozione provata potesse nuocergli. Si accostò con tutta l’accortezza possibile e gli disse:
“Per carità, Dario calmati. Hai superato i momenti più difficili; poco ti manca e potrai uscire dall’ospedale e riprendere le redini della tua vita.”
La voce roca di Rosy risuonò nella camera vuota e disadorna.
Intanto, Consalvo taceva. Di fronte al dolore, alle malattie, egli, fin da piccolo, si lasciava prendere dal timore che ogni cosa potesse degenerare e peggiorare se si alteravano le condizioni, i contorni e le situazioni. Allora, rimaneva inattivo, immobile senza più la baldanza che egli non sapeva se fosse propria del suo carattere o l’avesse acquisita in strada, a contatto di ragazzi più forti e spregiudicati di lui. Per difendersi o per sentirsi come loro.
Il mondo della strada è implacabile: se non colpisci vieni battuto, se non t’imponi soccombi.
Purtroppo, le circostanze, gli incontri, un destino crudele avevano fatto sì che egli fosse ancora soggetto alla legge della violenza e del ricatto. C’era stato un breve periodo della sua vita in cui sembrò che le cose per lui potessero e dovessero cambiare: il padre aveva trovato lavoro e non si ubriacava più. Era troppo tardi: la cirrosi gli aveva spappolato il fegato e riempito di acqua melmosa la pancia. Morì di lì a poco ed egli rimase solo, senza protezione. La madre era morta nel darlo alla luce.
Non si pettinò per un mese: viveva di notte come le bestie randagie, finché qualcuno gli disse che se avesse voluto…
Trovò un benefattore che, pur richiedendo da lui torbide prestazioni, si interessava perché non gli mancasse nulla; volle, addirittura che frequentasse la scuola. Fu così che, terminato con successo il corso superiore di studi, avendo messo da parte un certo gruzzolo di danaro, pensò di sottrarsi agli antichi legami e partì per Roma dove avrebbe frequentato l’Università.
A Roma si sentì perso; senza punti di riferimento; senza amici; senza regole e con una forte depressione in petto. Fu così risucchiato dal mondo del vizio e, per dimenticare e trovare un fittizio conforto, si rifugiò nella droga. Da qui un tirare a campare, come tanti che sono deboli moralmente e socialmente.
Dario li invitò a sedersi. Poi, con un sorriso aggiunse:
”E’ giusto; non devo piangere, il peggio è passato. Sono lieto di vedervi. E tu, Rosy, che eleganza!”
“Ti abbiamo portato le tue ciambelle preferite, quelle che preparano nel bar della signora Gina, che sempre chiede di te ed esclama nel suo dialetto romagnolo: - Ma che n’è di quel bravo ragazzuolo? Lo rivedrei volentieri.-
Tutti ti salutano e si ricordano di te con orgoglio e affetto.”
Rosy tacque all’improvviso come se qualcosa le avesse spezzato in gola le parole. Ebbe l’impressione di aver sbagliato tutto. Si pentì di aver deciso di far visita a Dario. La sua presenza e quella di Consalvo certamente gli ricordavano un periodo oscuro della sua vita. Come le era venuto di nominargli il bar della signora Gina, luogo d’incontro del vizio e della perversione? E tutti gli altri? Si sentiva soffocare: voleva andar via, fuggire lontano dalla vista di Dario. A lei e a quelli come lei si confacevano solo le ombre della notte; la luce del giorno li sconcertava, li rendeva impacciati e metteva a nudo le loro ferite.
Per fortuna, entrò un’infermiera che spingeva il carrello con tutto l’occorrente per le medicazioni e pregò i due visitatori di uscire. Entrambi si accostarono a Dario per salutarlo; gli strinsero la mano senza una parola e si allontanarono presto. Si sentivano inadeguati all’ora e al posto.
Dario avrebbe voluto dir loro di fermarsi dopo la medicazione… forse sarebbe stato possibile; ma si limitò a tendere le braccia nella loro direzione.
Consalvo non aveva parlato; non gli aveva chiesto neppure notizie del suo stato di salute.
Entrambi procedevano nel lungo corridoio silenziosi e assorti. Erano andati via con un grande pentimento nel cuore; avevano il rimorso di aver risvegliato con la loro presenza un passato di dolore e di vergogna che certamente Dario voleva dimenticare. O aveva già dimenticato. Una profonda amarezza li prese; ormai la loro amicizia non aveva alcuna ragione d’essere; non c’era alcun legame che potesse farla durare.
Avevano gli stessi pensieri e provavano le stesse lacerazioni, ma le chiusero in petto senza confessarle e tacquero fino all’uscita.
Allora Rosy disse con la voce che le tremava:
“E’ tanto sciupato; ma si riprenderà. Ha una forte volontà che l’aiuta a superare prove insuperabili per gli altri.”
Consalvo non rispose e si limitò ad annuire con la testa. In cuor suo si chiedeva se Dario avesse gradito la loro visita; e, anche se una parte di sé si andava convincendo del contrario, egli si sforzava di crederlo ricordando il sorriso di Dario appena li aveva visti entrare.
Dario, conoscendoli, aveva compreso il loro disappunto nel sentirsi in colpa di averlo riportato indietro, agli anni della dissolutezza. La loro era stata quasi una fuga ed ebbe la netta sensazione che non li avrebbe rivisti mai più.
Una strana commozione lo prese: alcune scelte comportano rinunzie e sacrifici; aveva dovuto rinunziare a Rosy e Consalvo ed avrebbe dovuto farlo anche in seguito, non per le loro persone il cui appoggio gli era stato di grande aiuto in momenti difficili, ma per il mondo che rappresentavano e per i lontani ricordi dolorosi che egli voleva con tutte le sue forze cancellare. Ancora veniva assalito dagli incubi durante le notti sempre faticose. Si rivedeva in Via Laurentina circondato da individui senza volto che lo spingevano violentemente verso il buio della coscienza.
Si chiese quando avrebbe avuto fine la sua disperazione.

*

“Urgenza nella camera 27,”gridava l’infermiera alla ricerca di un medico. Intanto, il campanello d’allarme squillava senza sosta. Era come una dolorosa invocazione di aiuto.
“E’ venuto meno mentre gli medicavo la ferita.”
Così la caporeparto al dottor Curti che per fortuna era disponibile.
Il quel momento arrivò Dida e si sentì mancare nel vedere attraverso i vetri il fermento che c’era attorno al letto di Dario.
Proprio il giorno prima il primario le aveva detto che Dario stentava a superare la fase post-operatoria, non per il trapianto che era riuscito ottimamente, né per il rigetto che tenevano sotto controllo, ma per una sorta di” malattia dell’anima”. Sembrava che avesse paura di ricominciare a vivere. Era come se solo nell’ospedale, nell’immobilità del letto, si sentisse protetto.
Le fecero cenno di allontanarsi ed ella imboccò il corridoio che portava alla cappella. Si sarebbe trattenuta in quel luogo sacro a pregare.
“Dida, dove ci porterà questa tua follia? Non fai che correre qui in ospedale: è come se la tua vita sia appesa alla salvezza di Dario. Nulla ha più valore per te se non la sua guarigione.”
La madre di Dida così parlò alla figlia, raggiungendola nella piccola cappella dove si era rifugiata. L’aveva vista rannicchiata nel banco e le si era stretto il cuore. Era trascorso un mese e niente era cambiato dal giorno del trapianto. Lei e il marito non sapevano come aiutare la figlia; come distoglierla dalla sua insana attrazione. Era come se non potesse sfuggire ad un richiamo. Temevano davvero che alla lunga cadesse nella perfidia di un’ossessione da cui non sarebbe riuscita a liberarsi; che cadesse nelle spire della depressione. Temevano di perderla.
“Mamma, come mai qui? Dario sta di nuovo lottando tra la vita e la morte. Ho sbagliato: devo piuttosto dire che è il cuore di Marcello che sta per spegnersi una seconda volta. Non posso sopportarlo.
“Il tuo è un farneticare insostenibile. Andiamo; vieni via con me. E’ un caso che mi sia decisa a venire qui. Volevo starti vicina. Non rimanere nella solitudine di questa cappella, in cui, se pur essa è riscaldata dall’amore e dalla fede, regna un’atmosfera triste. Vivi questa storia con maggiore distacco. E’ giusta la preoccupazione umana per la sorte di Dario, ma non andare oltre; non lasciarti coinvolgere in una vicenda che non ti appartiene.”
“Come puoi dire questo? Il cuore di Marcello è in Dario; anzi, sono sicura che lo stesso Marcello è in lui. Io ora devo lottare, pregare perché non muoia ancora! Fino a quando il suo cuore continuerà a battere, anch’io avrò vita. Lasciami sola: preferisco così. Di’ a papà che fino a quando non si risolverà la crisi non tornerò a casa.”
La madre di fronte alla scelta risoluta di Dida non replicò ed uscì dopo averla abbracciata. Aveva fallito due volte: invano aveva tentato di convincerla che il suo comportamento era assurdo e non era riuscita a distoglierla dalla decisione di rimanere in ospedale.
Dida, rimasta sola, pensò che qualcosa era successo perché Dario stesse di nuovo tanto male. I segni di miglioramento non erano molto confortanti, ma costanti, e questo faceva ben sperare. Poi, forse, sulla sua volontà aveva vinto la” malattia dell’anima” come l’aveva chiamata il dottor Ferri, ed egli si era arreso. A tale proposito le tornavano in mente le parole che le aveva detto due giorni prima e che a lei erano sembrate strane e inspiegabili:
”Il passato è tornato violento ed inesorabile ed ha scatenato in me un contrasto di sentimenti. I miei ricordi sono crudeli.”
Ella, non senza perplessità, gli aveva risposto:
“Sai, Dario, io penso, e questo vale per me, per te e per tutti gli esseri umani, che il passato non può tornare impietoso ad annullare gli sforzi che facciamo per dimenticare fatti spiacevoli che hanno segnato la nostra esistenza. Non può, non deve distruggere la barriera che costruiamo a fatica per salvarci; per non abbandonarci al disinganno e annientare qualsiasi speranza di vita.
A me, perché in te vive il cuore di Marcello, pare di avere ancora una ragione per esistere. Egli me lo aveva donato; io devo custodirlo. Queste mie considerazioni aiutino anche te a vincere il tuo male.”
“Dida, il mio è un passato che non mi onora. Una visita inaspettata di alcuni amici, cui tengo molto, ha risvegliato in me esperienze amare e inconfessabili, tanto che avrei gradito non rivederli. Ed anche questo sentimento mi addolora.”
“Non ti arrovellare. Temo per te.”
“La tua presenza illumina la stanza e i miei occhi. Tu mi sei cara più della mia stessa vita . E proprio per questo…”
“Taci, ora riposati. Tornerò presto. Domani non mi sarà possibile. Verrò venerdì sera, alla solita ora.”
Nella penombra della cappella si pentiva di non essere tornata l’indomani. Forse la sua presenza gli avrebbe fatto superare lo scoramento che lo aveva preso, e chissà!, avrebbe impedito che gli si fermasse il cuore.
Dida rimase assorta a lungo; infine, stremata, si avviò verso il corridoio che dava alla stanza di Dario.
Il sorriso di alcune infermiere la rianimò: una di esse le si accostò e le disse:
“Ce l’ha fatta, signorina. Ma quanta paura! Il professor Ferri è stato prodigioso. Ha preso in mano il cuore nuovo e lo ha palpato, quasi carezzato, come fosse qualcosa di fragile e delicato. Noi tutti ci guardavamo con il fiato sospeso in preda al panico, che diventata sempre più insostenibile, fino a quando il rosso muscolo, così morbido e tremolante, ha ripreso a pulsare. Allora, con movimenti esperti abbiamo aiutato il nostro primario a completare l’intervento. Ci vuole solo un po’ di riposo. Non è il caso che visiti il signor Corsini, ora. Se vuole, può vederlo attraverso la porta a vetri. Domani sarà tutt’altra cosa.”
“Grazie,” disse Dida allontanandosi, mentre calde lagrime le rigavano le gote.
Incontrò Tommaso, anch’egli visibilmente commosso, e si abbracciarono.

*

Quel mattino Donatella decise che sarebbe andata da Dario in ospedale. Pregò la madre di aiutare Riccardo a provvedere ai bambini e partì. Sarebbe tornata tardi perché il viaggio era lungo. Milano era lontana. Aveva un gran desiderio di vedere il fratello e il fischio del treno in partenza le sembrò un richiamo.
Poggiò la testa sullo schienale e si lasciò andare ai ricordi. Provò piacere a farlo. Presa dalla quotidianità, così fitta di impegni dovuti alla conduzione della casa e alla cura dei figli, allontanava raramente il pensiero dalle necessità del momento; di sera, poi, era tanto stanca che crollava.
In due occasioni era andata a trovare Dario a Roma. Si era già laureato e viveva in casa di Tommaso.
La prima volta, quando la vide comparire nel vano della porta, esclamò sorpreso:
“Donatella, tu a Roma; che meraviglia! Ma tu aspetti un bambino? “
Donatella sorrise di fronte all’evidente entusiasmo del fratello. Si sedette e gli chiese un bicchiere di acqua. Aveva un po’ di affanno perché era salita a piedi. L’appartamento di Tommaso era in un palazzo antico, di pregio, ma senza ascensore.
Alla proposta di Dario di offrirle una bibita fresca, rispose che andava bene l’acqua che era più dissetante.
La visita della sorella fu un regalo; era l’unica che gli dava notizie dei genitori. Poche giorni prima che si sposasse gli aveva scritto che avrebbe tanto voluto averlo come testimone di nozze; ma il padre era stato irremovibile.
“O lui, o noi. I vizi vanno repressi, non alimentati.”
Dario aveva provato un forte dispiacere. Vincoli antichi li legavano e Donatella soffriva per ciò che il destino gli aveva riservato.
Dapprincipio non aveva capito quale fosse la colpa di Dario e si chiedeva cosa avesse fatto di grave per suscitare l’ira del padre e muovere la sua condanna. Poi, gliene aveva parlato con cautela Riccardo, il suo ragazzo. Non si aspettava quella rivelazione; in cuor suo, però, rimase intatto l’affetto per il fratello. Nulla e nessuno mai sarebbe riuscito a intaccarlo. Soltanto, non comprendeva come certe cose potessero accadere, e perché. Le dispiaceva che Dario, il suo modello; così bravo e intelligente; così acuto nei giudizi dovesse essere oggetto di un biasimo largamente condiviso.
L’atmosfera in casa s’era fatta pesante e lei ne aveva risentito, tanto che i primi tempi non usciva se non per andare a scuola o in chiesa. Era rimasta senza amici; solo Riccardo non le aveva mai fatto mancare il suo sostegno.
Studiava ingegneria a Pisa e, ogni volta che tornava a Sulmona, le manifestava la sua passione fino al giorno in cui le chiese di sposarlo. Donatella lo amava da sempre e fu felice di accettare. Era una creatura semplice e il suo grande desiderio era quello di formarsi una famiglia tutta sua e di dedicarsi al marito e ai figli.
Terminato il corso di studi superiori, aveva apertamente confessato al padre il suo proposito di non volersi iscrivere all’Università; né l’incoraggiamento di entrambi i genitori era valso a farle cambiare idea. Le sue coetanee, quasi tutte, consideravano, invece, l’Università, a prescindere dalla loro più o meno forte intenzione di studiare per davvero, un cambiamento di vita, un’evasione dalle consuetudini provinciali di Sulmona. Le sedi prescelte erano Roma, Urbino, Ferrara.
I preparativi delle nozze furono modesti: gli invitati erano solo dalla parte dello sposo perché il signor Corsini aveva inviato la partecipazione soltanto ai parenti stretti.
La moglie, a seguito di questa decisione, gli aveva detto:
“Alberto, non mi pare giusto che in casa regni un’aria di mestizia. Ci capita una grande gioia: Donatella si sposa e, cosa ancor più confortante, con l’uomo che ama. Ha un carattere dolce e non si ribella alle tue scelte, ma credo che sia utile che tu le dimostri quanto le vuoi bene e quanto sei felice.”
“Matilde, davvero pensi che io non goda per Donatella? E’ che non posso dimenticare di aver perduto mio figlio. Il migliore per intelletto tra i giovani di Sulmona, ma il più abietto. Non riesco a festeggiare quando provo una tristezza infinita nel sapere che Dario è escluso; si è perduto e non è con noi.”
Nel pronunziare queste parole manifestava sentimenti contrastanti: biasimo, repulsione, pietà , rabbia, ribellione e penoso senso di sconfitta.
“Avevo fatto molti progetti per lui; avrei voluto averlo vicino nella mia vecchiaia, ma un destino crudele me l’ha portato via nel buio di un pozzo cavernoso, di cui non si scorge il fondo. Voglio una cerimonia semplice senza clamore per non suscitare altre critiche e aggiungerle alle tante che circondano la nostra casa. Di notte, durante le ore di veglia, la vedo circondata da occhi che spiano, vigilano come quelli dei gufi che sembrano dilatati, quasi sorpresi e attenti alla vita del bosco. Nulla sfugge al loro controllo, anche il minimo rumore, l’ombra più sfumata. Sono i guardiani della notte. Donatella è una ragazza assennata e capirà le ragioni della mia decisione.”
La moglie, con il cuore gonfio di pena per le parole del marito pensò tra sé ”Quanto soffre e ha sofferto” e si allontanò senza insistere oltre. Quando una richiesta arreca troppo dolore in chi dovrebbe accoglierla è da saggi non ostinarsi. La figlia avrebbe comunque avuto un convito adeguato e sarebbe stata una bellissima sposa.
Passarono alcuni anni, durante i quali Donatella tenne sempre vivo il rapporto con il fratello. Ma dalla nascita dei suoi figli, Nicoletta e Filippo, gli scrisse assai di rado. Aveva pochissimo tempo a sua disposizione.
La seconda visita che fece a Dario fu voluta da lei e da Riccardo per fargli conoscere i loro bambini. Di questo ella fu molto grata al marito. Con grande fatica riuscirono a tenerli buoni in macchina per parecchie ore; furono, però, compensati dalla gioia di Dario nel familiarizzare con i suoi nipotini. Li colmò di regali, cercando così di esprimere tutta la sua gratitudine.
In quella occasione lo avevano trovato sereno e pienamente appagato del suo lavoro; ma era tanto sciupato.
Dopo circa due mesi la notizia del suo infarto.
Da allora, per Donatella era come se le giornate fossero avvolte da una cortina di bruma grigia e fumosa, anche se splendeva il sole.
Il fischio del treno la distolse. Era arrivata a Milano.
Alla stazione, dopo essersi fermata in un bar per un caffè, prese un taxi e fu presto in ospedale.
Con slancio aprì la porta, ma il suo entusiasmo si smorzò alla vista di Dario emaciato e in un evidente stato di prostrazione.
Le fece cenno di sedersi. Ella ingoiò le lagrime e, facendosi forza, gli disse:
“Noni riconosco il nobile paladino che accorreva in mio soccorso; il giovane capace di superare difficoltà di ogni genere. Non è pensabile che cada proprio ora che deve affrontare la prova più difficile.”
Gli si accostò e lo baciò sulla guancia.
Si sedette sulla sedia accanto al letto e chiuse la mano del fratello nelle sue, guardandolo in silenzio.
Quando entrò l’infermiera, trovò che Dario dormiva.
“Buongiorno, sono la sorella. E’ da un bel po’ che si è assopito.”
“Buongiorno, signora. E’ bene che riposi dopo la furia di ieri. Stavamo per perderlo. Senza appello questa volta. Io tornerò più tardi: è meglio non disturbarlo.”
Disse così mentre richiudeva la porta dietro di sé con accortezza per non fare rumore.
Donatella rimase a lungo immobile. Ad un certo momento, lasciata lentamente la mano del fratello, si alzò e si accostò alla finestra. Le parve strano che tanta gente camminasse, si muovesse; che tante macchine passassero. In quella stanza, invece, regnava un’atmosfera sospesa, un impalpabile senso di resa, di attesa.
Si sentiva in colpa. A lei era capitata una vita colma di soddisfazioni: Riccardo, i figli, tanto amore. A Dario, invece…
Nel pomeriggio riprese il treno e tornò a Sulmona. Se fosse stata libera, non lo avrebbe lasciato senza salutarlo. A lungo conservò nel cuore il timore che il fratello non si sarebbe salvato e che ella non avrebbe potuto parlargli mai più.

 

Parte V - Segue >>   

 

 

 

 

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