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- Poesie -

 

Rachele Padula Zaza
 

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P R E S E N T A Z I O N E

Il precedente libro di poesie di Rachele Padula Zaza, Dissolvenze, si chiude con questo verso in francese: “Les jeux sont faits - rien ne va plus”. Per usare una terminologia sportiva, quella della staffetta, si potrebbe dire che quel verso diventa “il testimone” che ci immette in questo libro, O meglio, fuori di metafora, annunzia già quale sia lo stato d’animo dominante del lavoro creativo di questi ultimi anni.
E se Ferruccio Ulivi, nella prefazione a Dissolvenze, poté cogliere in quella raccolta, come atteggiamento psicologico della scrittrice ‘ricognizioni su sé stessa, quasi un perpetuo interrogarsi allo specchio, con occhi limpidi, sicuri, con uno sguardo dritto senza reticenze”, qui il lettore troverà una donna che avendo raggiunto una certa sommità del suo arco esistenziale non vuole accettarlo, e fa i conti con il passato e Io commisura al presente, e la memoria che fino a ieri aveva portato dolcezza diventa aspra amarezza:
   
 

E il rancore cresce

si gonfia nel cuore la vita perduta

spezzata tra silenzi gravosi

sorpresi

tra larghe pause di noia...

   
E se nei versi di Dissolvenze c’era malinconia, ora c’è ribellione: il tramonto che accoglieva riconoscendo la bellezza della luce morente si muta in una oscura minaccia:
   
  Ora non é più stagione
di rose e gelsomini profumati
il cielo è grigio di nuvole
quasi incupito al calar della notte.
   

Rachele Padula, con la freschezza di una poesia sorgiva che non cede ad allettamenti di mode letterarie (e la sua cultura potrebbe consentirglielo) con l’immediatezza di un linguaggio spontaneo, persino colloquiale, ci conduce nel suo rovello, in quello sofferto da tutte le donne che si voltano verso la giovinezza che le sta lasciando. Una donna che vive una stagione in bilico tra l’estate ancora calda nei suoi turgori, e l’inverno che manda già i suoi segnali. E quante immagini dell’inverno appaiono in questi versi! Sentite questo desiderio, o sogno:

   
  le luci lontane del paese in collina
fervido di vita senza storia
e tanti sogni che s’inverino
e non muoiano inerti il giorno dopo.
Come potrei: il mio cuore è pieno
d ‘inverno.
   
E altrove:  
  Ma, ahimè, a noi l’inverno
non riporta primavera.
   

Ecco, dunque: una donna che sa suggerirci che forse davvero la giovinezza è una condizione immutabile dell’animo femminile, quindi sempre in cerca di tenerezza e di conforto, e che la maturità e persino la vecchiaia sono soltanto leggibili dia segni esteriori, ombre che si posano sulla incontaminata luce del cuore. Mi sembra che ciò che scrive la Padula, tornando alla parola poetica dopo il silenzio di alcuni anni, offra più di una riflessione in questo senso.
Si può, dunque, dire che questo libro continui il discorso aperto da Dissolvenze, ma con maggiore insofferenza, con più foga, perché gli anni che sono ancora passati hanno reso più pressante il consuntivo.
Ma vi è, tuttavia, una novità - una grande insistita metafora possiamo dire - che caratterizza questo libro, ed è la città . La città nella quale Rachele Padula Zaza vive e che a poco a poco si deteriora nella sua stima, nel suo affetto.

   
  A me pare che questa mia città
stia morendo
perché a morire è la mia generazione,
ogni giorno un lutto
- dolorose assenze -
ogni giorno un rifiuto, una rinunzia.
E i giovani? Io non li conosco.
   
Dove persino questa chiusura (Dopo di me il diluvio verrebbe da dire) così irrazionale, è sintomo di sofferenza.
E ancora:
   
  ...non riconoscere più
il mondo in cui si è nati
cambiati i costumi le mode
...
sentirsi stranieri, come superstiti.
   
Vengono in mente i versi de Il ritorno del Pascoli, in cui Ulisse non avendo subito riconosciuta la sua terra accorgendosi poi di essere giunto ad Itaca, così piange Io ero, io ero mutato / Tu patria sei come a quei giorni. /Io si mio soave passato ritorno / ma tu non ritorni. Ecco: non ritorna quel passato:
   
  M’è rimasta nel cuore
una cometa
bianco barbaglio
nella notte delle mie malinconie.
Affiora da ricordi inesplorati...
È la cometa dei Natali antichi
che m’appariva
in tempo per la Messa grande.
   
e con belle immagini, di plastica evidenza:
   
  Ieri mi pareva che il miele
traboccasse dai favi integri al sole:
oggi l’arnia vuota di sapori
dondola al vento di tramontana.
   
A poco a poco, senza quasi che la poetessa se ne sia accorta, l’identificazione fra lei e la sua città si compie, e la città l’avvolge, la stringe, la chiude senza possibilità di fuga nel suo bozzolo, come non può fuggire dalla sua vita:
   
  Un tratto di strada
la mia vita:
Largo Pascoli - Via Vaccaro.
Senza coraggio, senza avventura
e tanti sogni annegati.
Tutta qui
la mia vita
Largo Pascoli - Via Vaccaro.
   
La nota dominante è quella del rimpianto (Le gozzaniane rose che non colsi) che la porta ad alzare il tono, fino all’invettiva, fino a sfiorare la retorica, ma in un canto che prima che dalla mente o dal cuore viene dal sangue:
   
  ...avere il coraggio di vivere liberi
senza legacci
impacci
ignobili difese
in una società di ipocriti.
...spezzare i vincoli
guardare in alto
dove le aquile resistono al sole
...e diventare eroi.
   
i puntini di sospensione sono nel testo che ho riportato integralmente (è intitolato Le aquile) ed è come nascondessero altri pensieri inosabili, altri gridi.
Lo stesso tema del “volare” (volare come fuga, come evasione, come sogno):
   
  E assai difficile volare alto
tra immobili pareti
in un condominio urbano
lontani dal respiro del inondo.
   
Il richiamo del mondo, l’insofferenza per i lacci (la città come prigione) nascondono e si sovrappongono alla paura della vecchiaia: lo specchio ora è implacabile:
   
  Non voglio invecchiare
dove sono nata
scorgere i segni del tempo
sui volti amici
- come allo specchio -.
   
Eppure, vi sono tra queste pagine lampi di ottimismo, di amore per la vita: vita pur nelle tempeste, vita pur nei momenti di più cupa disperazione, nell’angoscia del fallimento:
   
  Era notte di tempesta
e tuoni e lampi ferivano il cielo.
                           L ‘anima disperava
Poi, lentamente, il sereno
e I ‘invito ad accogliere il sole.
   
A libro chiuso restano negli occhi (e nell’animo) del lettore i paesaggi della sua terra, nella luce o nell’ombra, dipinti dalle diverse stagioni, con una attenzione che contraddicendo gli stati emotivi che li accompagnano, è d’amore. Lo stesso amore partecipe con cui guarda la natura; e basterebbero i titoli di alcune poesie a dimostrano: L‘arnia, La foglia, L’albero di mandorlo, La cicala, Il biancospino, Il bruco e si potrebbe continuare. Ma resta sopra tutto il diario di una donna che trova nella poesia la forza per confessarsi sino alle pieghe segrete del suo spirito, ma che può dire: E' attraverso i miei figli che vivo ancora. Che trova nella poesia, come chiamata ineludibile, lo strumento più giusto e più vero per leggere dentro sé stessa. E ne fa dono alle altre donne che in lei sapranno riconoscersi.
Ma al lettore più attento non può sfuggire il ritorno alle forme dialogico-teatrali che la Padula Zaza aveva così felicemente sperimentato e fatto proprie nel non dimenticato Dialogo fra Maria d’Avalos e la madre Sveva. Anche qui quel suo particolare talento si rivela in Planctus Mariae che riprende modi e forme diellantica traduzione delle laudi (Jacopone è nell’ombra) ma che mi sembra possa indicare una strada alta e congeniale per il lavoro futuro di questa poetessa.
   

Luciano Luisi  

 

 

 

 

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