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R. Zaza Padula

le OPERE

Potenza

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Francesco

di  Messer  Pietro  di  Bernardone

 

Rachele Padula Zaza
 

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INDICE

 



Un'Attuale Antica Storia
 

Dissoltasi la diceria illuministica che il Medioevo fosse il profondo di tutto il peggio, sempre più si acclara, negli studi, il contrario di quella ciarla (raccolta e rilanciata, come sappiamo, dal bla bla bla culturale sino a qualche lustro fa). Sicché soltanto qualche ritardatario ancora indugia nella relazione Medioevo-Rinascimento applicando ad essa i criteri-slogans di certo progressismo novecentesco: che si votò al culto della sequenza temporale e perciò mancò tutta una serie di capitali interpretazioni della modernità, restando esterno e muto, infine, dinanzi all’enorme importanza che l’immateriale ha raggiunto nel mondo attuale. (Dico l’immateriale per alludere a tutta una varietà di spinte che agitano la scena del mondo e sono presenti nella quotidianità di ognuno, dal fanatismo politico-religioso alla religiosità sincretistica e di basso profilo, dalle credenze astrologiche alle web-virtualità di Second Life).
Oggi — e non da oggi, a dire il vero — un maestro tardo-medioevale è tra i principali riferimenti storici dell’arte contemporanea: ed è l’immenso Giotto che, forse venticinquenne o forse ventottenne, dipinse ventotto momenti della vita di San Francesco sulle pareti della Basilica superiore di Assisi. Giotto di Bondone, colui che ebbe “il grido” negli anni di Dante, ma che per un ben spiegabile paradosso, fu oscurato dai lumi settecenteschi e fu ignorato dai verismi e dai realismi dei secoli successivi, dapprima si svelò alle avanguardie del Novecento: ai cubisti, che attinsero ai suoi scenari architettonici, ma in qualche modo anche a Boccioni che, ragazzo nella Padova della Cappella degli Scrovegni, molti anni dopo, riconobbe e ammirò in lui un “rivoluzionario” (“Gli Avvenimenti”, 7 maggio 1916): e poi ancora, si rivelò stella polare agli artisti dell’astrattismo costruttivistico e geometrico, fino a non pochi esponenti dell’arte odierna.
Ma, tutto questo, per marcare l’attenzione che si deve anzitutto all’attualità di Francesco di messer Pietro di Bernardone, dramma sacro in due atti e un intermezzo, scritto da un’autrice — Rachele Zaza Padula — che già in passato s’è dedicata al teatro di soggetto religioso, oltre che alla narrativa. Infatti, come Giotto, che mirabilmente ne raccontò la storia negli affreschi di Assisi, anche Francesco di Bernardone fu un rivoluzionario: e però è persino ovvio e superfluo dirlo, anzi ripeterlo, se non si opera una trasposizione della sua figura e della sua vicenda in questi inizi del ventunesimo secolo. E un rivoluzionario, Francesco, per tante ragioni messe in luce dall’esegesi storica che lo riguarda.
Ma, rispetto ai nostri giorni, lo è segnatamente per due di quelle ragioni: il rifiuto dei beni materiali — che per lui figlio d’un mercante di tessuti, furono soprattutto beni personali, indispensabili alla soddisfazione della sua vanità — e la scelta, per la predicazione, di una condizione insolita all’epoca. Una condizione sconfinata, che con un neologismo entrato ormai nel nostro vocabolario potremmo definire gIocaI: cioè locale e, al tempo stesso, globale. Gli orizzonti dell’Umbria e quelli del mondo.
Non e vero che la corsa alla disponibilità dei beni — specialmente di beni personali, quali sono i beni di consumo — sia per tutti una corsa gioiosa. Per molti di noi del Duemila è anzi una corsa faticosa, noiosa. Una corsa inevitabile, voluta dal conformismo sociale: com'è, tra le altre la corsa agli acquisti natalizi, alla quale molti partecipano “perché così va il mondo”. Si vorrebbe, tante volte, uscire dalla competizione. Purtroppo, però, non siamo il Francesco, che ricevette in carcere la grazia delle Voci; né siamo il Francesco della grottesca Rinuncia agli Averi, che si spoglia delle preziose vesti dinanzi al furente padre, che proprio vesti commerciava. Abbiamo tuttavia la libertà di affacciarci, come da un poggio in miranda, sulla santa vicenda del Serafico. E non si sa mai...
Un’ occasione, appunto, è il dramma di Rachele Zaza Padula, la cui tensione si impenna e si spande in tre scansioni. La prima vede Francesco nella forzata abiezione delle carceri perugine, raggiunto la notte dalla Parola, che lo lascia stupito e incredulo, ma agisce in lui e lo dispone al cambiamento. La seconda declina i tempi d’una sua oscura malattia. La terza lo coglie gagliardo in partenza per una spedizione militare nelle Puglie. Si avvia, ma, durante una notte di sosta a Spoleto, rinuncia. Vive poi — ed è la terza lunga scansione — il quaesivi et non inveni, drammatica vigilia della piena grazia. L’autrice non cerca la benevolenza dei destinatari del suo lavoro, che non è mai seduttivo, ma dispiega invece in esso una lingua alta, sebbene talvolta fiorita di modi espressivi datati all’oggi: una lingua che blocca il protagonista, i comprimari e ogni voce nei limiti del ruolo che sono loro assegnati: rigorosamente e senza scampo. Rachele Zaza Padula desidera che i lettori di questo suo testo (o la platea, quando il testo sarà rappresentato) si alzino alla quota che tradizionalmente è propria della drammaturgia d’argomento sacro. E non è così semplice esprimere, su tale scelta, un motivato disaccordo.

Gino Agnese

 

 

 

 

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