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R. Zaza Padula

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.


IN CASA DELL'ILLUSTRISSIMO
DON CARLO GESUALDO...

- DIALOGO TRA MARIA D'AVALOS E LA MADRE SVEVA -

Rachele Padula Zaza
 

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IN CASA DELL'ILLUSTRISSIMO DON CARLO GESUALDO...

SVEVA

Ascolta, Maria, figlia prediletta,

splendido cristallo di rocca

diamante fiammeggiante come sole,

non permettere che le ombre del disonore

oscurino te che dolcemente ho allevato

legando il mio cuore al tuo sorriso.

La tua bellezza che rapisce e strania

coltivata per dare gioia e allegrezza

è invece fonte di lacrime amare.

Fa’ che Fabrizio Carafa il tuo amante,

creatura di peccato, perfido ammaliatore

dal volto d’angelo, non più t’incanti;

torna alla famiglia, ai nostri cuori

sii cara solo al tuo giovane sposo:
egli non merita, ahimè!, la grave offesa

che tu, misera, ardisci fargli

senza riguardo, con protervia scandalosa

in una dama di così nobile lignaggio.

E se non vuoi per me, per tuo padre

per gli alti prelati, onore della nostra famiglia,

che dovrebbero d’autorità piegarti,

e se non vuoi per Carlo tuo marito e cugino

animo eletto, dolce musico solitario

scelto ad inseguire melodie celesti,

e se non vuoi nemmeno per te stessa,

così fiera nel portamento avito

e nello sguardo d’aquila rupestre,

porre fine all’odioso disprezzo

che la tua colpa getta su di noi,

fallo per tuo figlio, il piccolo Emanuele,

che, segnato dal tuo tradimento,

non parteciperà a danze, cacce, giostre

tornei senza essere irriso

come figlio di cagna in calore.

La preziosa collana che tuo padre

mi regalò nel giorno delle nozze

e da cui mai fino a morte mi separerei,

è tua anzitempo, sì che splenda

sul tuo bianco collo d’agile gazzella,

amuleto d’amore che ti liberi dall’insania.

Non perderti, non perderci per l’infausto Carafa!

Il diavolo lo sprofondi nelle viscere della terra

trascinandolo, dirupandolo, gettandolo

tra sentieri tortuosi e tetri meandri

dove non c’è luce se non bagliore infernale.

   
MARIA

Ed io lo seguirei nell’abisso

senza paura delle tenebre, dei demoniaci

mostri o d’incontrar Plutone irato

nè Proserpina rapita al sole. Con lui,

come Francesca con Paolo, affronterei

la bufera che avvita i lussuriosi,

senza rimpianti, nè lacrime nè dolore e dolce

compagnia mi sanano gli amanti

antichi, d’ogni tempo, i perduti d’amore,

ognuno in eterno legato all’altro

fino a che legge divina li farà vorticare.

Madre mia, dolce madre amorosa,

sono da tutti accusata di turpe leggerezza,

almeno voi concedetemi ch’io v’apra il cuore

e voi aprite il vostro per grazia e per pietà

alle parole d’una figlia infelice

rapita senza difesa dalla mala ventura.

Io vi giuro su quanto ho di più caro,

sul capo del mio piccolo Emanuele,

che mi pesa fino allo strazio tradire Carlo,

per il quale nutro delicato affetto fraterno,

e oscurare con la mia colpa il casato dici D’Avalos

cui mi lega forte orgoglio d’appartenenza.
Ho lottato; in tante notti scure di paura,

insonne, ho chiesto alla Vergine Maria,

ch’io sono indegna di nominare,

di salvarmi dalla furia che mi possiede,

di aiutarmi a sfuggire all’incantamento

che m’attanaglia il cuore, di darmi

la forza di obliare le ore di passione

intensamente vissute, ahimè sconsiderata!,

con colui che voi giudicate scellerato

malefico, infido, ma che è per me

l’alba e il tramonto, il nuvolo e il sereno

l’aria che respiro, il palpito del cuore,

il cibo, l’acqua, il profumo aspro del bosco

e quello soave dei prati fioriti a primavera.

Al vederlo s’accendono i miei occhi

come l’oriente al sorgere del sole

la sua voce m’avvolge, m’infiamma, mi colora,

mi nutre di fervide speranze e annulla

la nobiltà di ogni mio sano proposito.

Non così in principio: furono capriccio

sfida, lusinga a spingermi alla conquista

del bel Carafa, idolo dei salotti:
il gioco amoroso assai m’affascinava

come in passato, quando la preda vinta

abbandonavo ai sospiri senza pietà,

quando gli sguardi languidi al mio passaggio

degli amanti delusi mi faceano sorridere

paga della vittoria su nobili cavalieri,

giovani arditi, insigni menti virili,

tutti sottomessi alle mie grazie. Poveri leoni

ruggenti in pecore mansuete tramutati!

Era forse sopito desiderio di vendetta?

Esperta nell’arte dell‘ammaliare,

l’unica che avessi appreso da quando,

ancora ignara giovinetta, venni sottratta

ai giochi spensierati, ai sogni, alle invenzioni

della fantasia, e data in sposa al nobile

padre della dolce Beatrice, affidata
ora alle vostre cure d’ava premurosa,

scoprii gli insoliti costumi coniugali:
il giacere sul letto alle voglie maschili

e imparai a far tacere il cuore, a premere

il petto quando era gonfio di sospiri,

a ingoiare le lacrime che a volte,

inaspettate, lentamente mi rigavano il volto.
Insistenti mi tornavano in mente le parole che voi

e le sollecite dame e la nutrice mi diceste

nel giorno che mi preparaste a nozze:
.tuo marito è signore e padrone, è bene
che tu ne accontenti le brame...".

   
SVEVA

Or non è tempo di sterili difese

che mal s’addicono a onesta sposa.

Non incolparmi! I tempi... gli usi...

anch’io... ma più fortunata di te

ho conosciuto l’amore nel talamo nuziale.

   
MARIA

Madre, non spezzate le mie parole dolorose,

potrei non più riavere l’ardire
di affidarvi i miei segreti, di invocare

la vostra pietà, la vostra clemenza

che sole ora mi stanno a cuore

tra tanto vilipendio e scherno

che annebbiano la mia giovane vita.

Troppo presto morì il padre di Beatrice

in un giorno di tristi presagi:
dissero consunto dalla mia bellezza...

Tornai alla casa paterna, seguì breve

parentesi di libertà, rinnovati spazi

di celie ritrovate, odi sorrisi maliziosi

di grida gioiose senza infingimenti.

Poi... i conciliaboli di famiglia,

la vedovanza è triste, ancor più

è insidiosa per una giovane donna.

Ed ecco il Malfalchi, nuovo sposo,

sposo fugace, sì che mi pare
ch’ei non sia veramente vissuto.

Il suo è un ricordo tenue, sfumato

come brezza che muove appena l’aria

e s'avverte solo per l’alitar sul viso.

   
SVEVA

Forse più serena trascorrono la vita

le donne dalle grazie non ambite:
non sono adulate, circuite, corteggiate,

gli attacchi sono rari, inconsistenti

talvolta, e s’inneggia alla loro virtù.

   
MARIA

Non così per me cui la sorte diede

bellezza di cielo e poca forza di difesa.

Carlo lo scelsi io, il solitario cugino,

perso dietro alle voci del vento, dei merli,

dei sospiri delle anime in pena che

prodigiosamente riproduce in note;

meno esperto di me m’era assai caro,

m’attirava la sua aria misteriosa.

L’unico che non volesse di me il corpo solo.

Oh, nutrire nell’incanto dei suoi madrigali

la vita dello spirito al di là delle apparenze!

Ma la natura certamente ingenerosa

e l’educazione ricevuta in ossequio ai costumi
mi impedivano di penetrare nei segreti della sua arte,

di dividere con lui l’ardore delle sue creazioni.

Lui sempre più incompreso, io dietro alle mie vanità;

ci avvolgeva insinuante e nemico il distacco,

non potevamo aver radici comuni in questo mondo.

   
SVEVA

Ahimè!, quanto incontrollato m’appare e amaro

il tuo sfogo: tu ben sai che a noi donne,

che non siano le eroine dell’Ariosto
e del nostro amico Torquato, è preclusa

la libertà di costruirci storie, trame

d’ardimento avverse al focolare, allo sposo

alla cui ombra solo c’è concesso il vivere:
siamo trepide per volontà degli uomini.
Il privilegio di scelta è il loro da secoli

a noi resti la dignità di dominarne il cuore.

   
MARIA

Madre adorata, da voi bellezza ho ereditato

ma non virtù nè fortuna, vi prego,

concedetemi di svelarvi fino in fondo

insieme con la felicità e la gioia passate

tutto il travaglio dell’ora presente.

Credo che il divino Apollo sul suo carro

non apparve più radioso alla tenera Dafne,

per amore in nodoso lauro tramutata,

di Carafa a me, inerme alle frecce di Cupido.

Vennero abili schermaglie, inseguimenti

a fughe simulate per far tacere il cuore

e il tremito che al vederlo mi prendeva.
Il mio gioco iniziale divenne amore

incontenibile in un cuore solo.

Nè ragione nè consigli nè aspre minacce

possono fermare il mio proposito di amarlo

contro ogni accorgimento, ogni legge

nè smorzare la nostra dolce ossessione:
il cammino è segnato e ci conduce a rovina.

Ahimè!, a rovina...
In visioni lontane di sogno e d’evanescenza

talvolta mi rivedo bambina tra le vostre braccia

o correre felice, poi, un baratro m’appare,

allora mi coglie triste presentimento di sciagura.

È ottobre e le foglie del bosco sono d’oro,

tra poco cadranno leggere ad una ad una

volteggiando sulla terra per rifecondarla.

Quest’anno io non vedrò i rami scarni

piegarsi sotto il peso della neve nè rigonfiarsi

di gemme al tornare della primavera.

   
SVEVA

Lo sgomento mi sconcerta. Fa’ che ti aiuti.

Vuoi che parli io al giovane Carafa

sì che receda, che pensi al dopo, al pericolo

che vi sovrasta; già s’è riunito
un consiglio di notabili. Già i cani

sono addestrati a scovar la preda...

   
MARIA

Il nostro legame è indissolubile,

tradimento sarebbe il rinnegarlo

e tornare agli affetti di prima

fingendo con la maschera sul cuore.

Esso durerà fino alla morte.

Ci fu, è vero, un giorno amaro di pena

in cui il nobile Fabrizio, vostro odiato nemico,

mi sussurrò “Per il tuo bene più che per il mio,

dolce Maria, cessiamo i convegni amorosi

gl’intimi colloqui, per i quali sol viviamo,

ci basti sapere che l’uno di noi

è l’altro insieme, che niente mai nè alcuno

potrà separare i nostri pensieri

nè cancellare i ricordi racchiusi

nel nostro cuore, prezioso forziere.

Dono grande c’è stato elargito:
a pochi è concesso vivere un amore

così grande che mai avrei creduto”.

Poi, preso da sgomento, disperato esclamo:
“Perché, mio Dio, ho incontrato la donna

a me destinata dalle leggi di natura,

donna che sol mi completa ed io completo,

quando già scelte sacre di irrevocabili

m‘avean legato ad un’altra creatura

pur meravigliosa e pia madre dei miei figli?”.

Non ci vedemmo nè ci parlammo da allora

ma si oscurò il sole, le notti non aveano stelle,

nè avvertivamo lo scorrere delle ore

divenuti inerti come rupe senz'eco.

Io sognavo che il mio amato, al pari di Astolfo,

galoppando tra nubi bianche sul cavallo alato,

giovane intrepido con la chioma al vento

mi portasse dove non c’è colpa o peccato.

Ma il richiamo era più forte di ogni freno,

era d’aprile quando lo rividi.
Ritornò la passione più intensa e ci travolse:
senza Fabrizio la mia vita è scolorita,

il tempo non ha segni nè stagioni.

   
SVEVA

Quale incantesimo t’ha preso mai,

quale magia! Forse che io non t’abbia

dato esempio di castità e fedeltà

e non t’abbia avviato all’obbedienza?

Un ultimo consiglio: riponi il coraggio,

la tenacia della tua decisione estrema,

nella difesa di te, della tua casa

del nostro nome e del tuo orgoglio.

   
MARIA

Tu mi parli d'orgoglio: orgoglio è
il non essere una tra le tante amate dal Carafa,

che mai si dica che Maria D’Avalos

ha solo accresciuto il numero di quante

hanno spasimato da lui uno sguardo, un sospiro.

Non sopporterei d’essere additata a vista

come l’amante ripudiata dal bel Fabrizio,

l’incantatore della corte di Napoli.

No, non è così, io gli ho trafitto il cuore

mentre il mio gli donavo per l’eternità.

Fummo predestinati a un incontro fatale.

   
SVEVA

Me madre infelice, tu sei perduta!

Tu stessa sei nemica della tua salvezza,

della tua giovinezza e del tuo onore.

   
MARIA

Perché un’isola remota non dà rifugio a quanti

tardi si incontrarono su questa terra

e, loro malgrado, sono costretti, amandosi,

a offendere vincoli antichi dolorosamente?

Carlo sa, ma non m’accusa, non inveisce,

nei suoi occhi non c’è odio, ma collera violenta

e in lampi traluce dolente affanno;
è disposto forse al perdono, ma è tardi,

per noi s’addensa un destino di tenebre.
Non vedo più spazi di cielo azzurro

ma nuvole scure minacciose di tempesta,

non più ciclamini ed edera festante

ma asfodeli purpurei, i fiori dei morti.

Il nobile Gesualdo attui il castigo

che lo riscatti secondo il codice d’onore:
qualora mi perdonasse potrebbe apparire

uomo privo di forza, imbelle artista

dedito ai suoni senza il coraggio delle armi.

Per il bene di Carlo e del dolce Emanuele,

che ho nel cuore, si compia la vendetta;

la nostra sarà morte riparatrice e, finalmente,

finirà il mio delirio, la febbre che mi incendia

la mente e mi consuma il corpo già esausto.

Per me possibilità di vita e di salvezza

era il non incontrar Carafa, il non vederlo:
ora sono fatalmente sua e di nessun altro

nè può esserci scampo per la tortora

che ha le ali ferite e giace sul prato.

Sussulto ad ogni rumore, ad ogni voce,

al calar de,l sole quando si spengono i colori

comincio a temere le ombre della notte

e le insidie che l’oscurità nasconde.

E la musica di Carlo così impenetrabile

così difficile nell’ordito dei suoni

che si inseguono fino a dilaniarti il cuore,

è diventata più triste, oscura e mi tormenta

e mi pare voce di pena, voce di agonia.

La morte s’avvicina a grandi passi:
che venga improvvisa e dolcemente

sciolga il mio respiro e sleghi l’animo

sì che possa trovar la sua contrada

nell’immensità dei cieli o dell’abisso.

Alla tragedia seguiranno certo ludibrio

e condanna, e sia, abbiamo violato le leggi

e siamo indegni di lacrime e compianto.

Confido, però, che qualche spirito eletto,

amante della libertà e dell’amore,
al coro amaro dei reiterati insulti

mescoli parole di pietà e una preghiera

perché rispettoso del dopo ognuno taccia

e ci affidi alla misericordia del Signore.

Madre, andate, dopo l’assalto componetemi,

sulla mia tomba non manchi qualche fiore

e fate che i miei occhi attraverso i vostri

veglino sui miei figli tanto sfortunati.

   
SVEVA

Figlia, t’ho già perduta, non vale

aspettare che si compia il misfatto

nè nutro ormai speranza di salvarti.

Maledetti il giorno e l’ora e il mese

del vostro incontro a entrambi funesto

e a noi apportatore di sciagura.
Si chiudano le sale e i padiglioni

si preparino i lunghi drappi neri.

Una piaga dolorosa, larga, insanabile

s’è aperta nel mio stanco cuore,

madre più infelice di me oggi non trovo.

   

 

"The 27 Octobtris 1590 in quo babitat D. Garlus Gesualdus. Essendo pervenuti a notizie della Gran Corte della Vicaria qualmente in casa dell’illustrissimo D. Carlo Gesualdo nel largo S. Domenico Maggiore era stata ammazzata la illustrissima Signora D. Maria D'Avalos moglie di detto D. Carlo e l’illustre D. Fabrizio Garafa fù Duca di Andria “.

 

 

 

 

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