PARTE
V
Dopo la lettura
delle ultime disposizioni dell’arcidiacono, Isabella si ritirò nella sua
stanza e pianse disperatamente. Aveva perduto il confidente, l’amico, il
maestro, il padre dal momento che il suo era quasi sempre assente per
lavoro. O per scelta? Si sentiva sola pur appartenendo ad una famiglia
così numerosa, a nessuno oramai avrebbe potuto aprire il suo cuore,
svelare il tormento che il ricordo di Mario le procurava
quotidianamente. Oh! Mario. Mario! Forse lui sarebbe riuscito a
consolarla!
L’aveva commossa la volontà espressa dallo zio di voler mantenere unita la
famiglia a tutti i costi, con qualsiasi sacrificio, come aveva fatto
lui; sempre la casa avrebbe dovuto accogliere tutti i componenti e
nessuno mai, pur scegliendo di allontanarsi, avrebbe dovuto metterne a
rischio la solidità che era stata la forza che aveva fatto sì che quel
disperato gruppo di fuggiaschi irlandesi superasse difficoltà e pericoli
di vario genere e si affermasse per onore e ricchezze. Insistente si
fece il ricordo delle parole dedicate nel testamento alla nonna, Donna
Anna, che apparentemente rivelavano un senso profondo di rispetto e
gratitudine, ma ad Isabella, che conosceva la pena segreta dello zio
Filippo, apparivano nel loro vero significato: una postuma dichiarazione
d’amore, di un amore tenace, durato l’intera vita, soffocato, totale,
inumano. Ne aveva oramai la certezza. Ella si chiese come gli era stato
possibile reprimere i suoi sentimenti, quasi mettere una maschera al suo
cuore e vivere a contatto quotidiano con la donna amata senza mai
tradirsi, procurando a sé una sofferenza inenarrabile. Sentì bussare
leggermente alla porta e si asciugò in fretta le lagrime.
-Posso entrare?- le chiese lo zio Antonio-. In occasione del grave lutto
era tornato ad Acerenza, da solo, senza la sua compagna che non era
stata accettata da nessuno dei suoi; di questo egli non faceva un dramma
poiché era consapevole e convinto della sua scelta.
-Siete il benvenuto. Entrate, sono sola e non mi dispiace la vostra
compagnia.
-Sono venuto a salutarti. Domani mattina di buonora ripartirò, mi aspetta
la mia Matilde, il mio insegnamento e le mie ricerche. Vedo che hai gli
occhi rossi, stavi piangendo e me ne dolgo. Se può esserti di conforto
sappi che tutti noi nipoti proviamo la stessa sofferenza; zio Filippo
con la sua saggezza e con la sua bonomia è stato prezioso e
incomparabile. Come tu sai sono considerato la pecora nera perché ho
anteposto il mio amore per una donna alla volontà dei capifamiglia,
perché mi sono allontanato dalla grande casa. E Dio sa se avrei voluto
farlo! Mi si accusa di non aver sottoposto la mia scelta al loro parere,
ma, credimi, era inutile perché non avrei mai avuto la loro
approvazione. La mia non è stata disobbedienza; difesa, piuttosto. La
mia decisione è stata dettata dal timore di essere dissuaso, dalla
certezza del diniego e da un senso di orgoglio; non avrei, infatti,
sopportato di essere offeso nei miei sentimenti o che, peggio, avrebbero
offeso la giovane di cui mi ero innamorato. Il cammino di ognuno di noi
è segnato da incontri e casualità che ne cambiano il tracciato
immaginato. Matilde mi è molto cara e mi ha riempito la vita. La
incontrai nell’Università di Napoli dove tu sai svolgo il mio lavoro di
fisico e fui colpito dalla sua intelligenza e dalla sua spigliatezza che
dai più era giudicata leggerezza e mancanza di rispetto per le regole.
Mai avrei pensato di legarmi a lei tanto da non poterne fare a meno. E’
sensibile al bello e desiderosa di conoscere e di sapere quasi per
riscattarsi da un passato amaro, penoso, poiché è vissuta in una
famiglia dove erano in tanti e dove spesso mancava il necessario per
sopravvivere. Il dare a lei quanto io ho avuto la fortuna di avere nel
corso dei miei anni mi riempie di gioia e mi appaga il vedere come lei
mi sia devota. Il nostro è un grande amore e se talvolta forte si fa la
nostalgia di voi, della mamma che adoro, mi rassegno pensando che ogni
essere umano non può avere tutto e deve saper rinunziare anche a prezzo
di grandi sacrifici.
-Mi farebbe piacere conoscerla, anzi le vostre parole mi rendono curiosa.
-La tua ingenuità ti spinge a dir questo, ma nessuno della famiglia te lo
permetterebbe, né io oserei farlo. Dimmi di te, sei diventata una
ragazza molto bella, io trovo che ad attrarre di più nella tua persona
sia lo sguardo, che io non ricordavo così intenso e impenetrabile. Vuoi
vedere che ci nascondi un segreto?
Isabella, colta alla sprovvista dallo spirito d’osservazione dello zio
stava quasi per lasciarsi andare e raccontargli tutto del suo amore
lontano così legato ad un filo sottile, che non le dava che tenui
speranze. Ella sentiva di aver bisogno di un nuovo confidente da quando
era morto lo zio arcidiacono e chi meglio dello zio Antonio avrebbe
potuto comprendere la sua pena? Fu solo un attimo di smarrimento, poi,
si ravvide e si limitò ad abbracciarlo.
-Che tristezza! Quante persone non ci sono più nella nostra grande casa,
il bisnonno Domenico, lo zio Canio, lo zio Filippo. Inoltre, voi, lo zio
Giuseppe e i miei genitori vivete lontano e tra poco si allontaneranno
le vostre giovani sorelle Paolina e Carolina che sono già promesse e
prossime alle nozze. Vorrei che tutto tornasse come alcuni anni addietro
quando mi sembrava di vivere in un mondo speciale dove il dolore non
fosse presente e dove tutto fosse immutabile e dovesse rimanere tale per
sempre. Ora, invece, ho la convinta percezione che non è così, e mi
sento soggetta alla forza degli eventi. Vi auguro buon viaggio e una
vita serena. Tornate qualche volta a trovarci, non dimenticatevi di noi.
Isabella rimasta sola ripensò ancora al testamento dello zio arcidiacono e
si soffermò sulle parole”…la biblioteca è un bene della casa e come tale
deve rimanere indivisa acciò che tutti di famiglia ne abbiano l’uso e se
ne possano servire fino a tanto che viveranno nell’unione:… lascia la
custodia e la salvaguardia di essa biblioteca a donna Isabella, figlia
di don Filippo, che ha sempre nutrito amore per la conoscenza , e a don
Giuseppe nipote amatissimo e alunno devoto che ha fatto dello studio
unica ragione di vita tanto, da ottenere fama fuori i confini della
nostra terra…”. Provò gratitudine per lo zio che le aveva lasciato un
incarico così degno e di cui andava molto orgogliosa, non lo avrebbe
deluso: sarebbe stata la custode attenta e scrupolosa dei volumi che
l’avevano incantata fin da piccola poiché era convinta che essi
racchiudessero tutti i segreti della vita. Sarebbe stata la sua stanza
preferita, il suo rifugio dove avrebbe rivissuto tanti cari ricordi. E,
poi, essere accomunata allo zio Giuseppe la rendeva fiera; egli era noto
come Giuseppe Ottomani, il soprannome che egli stesso si era dato,
poiché oltre ad essere un esperto conoscitore di greco e di latino, era
anche un famoso orientalista.
S’affacciò alla finestra e vide lo zio Antonio allontanarsi in carrozza e
pensò “Torna dalla sua Matilde: sicuramente l’amore è un forte
sentimento di appartenenza; quando è reciproco genera una simbiosi tra i
due innamorati, che vivono davvero l’uno per l’altro, l’uno nell’altro.
Il mio legame con Mario che radici ha? Quanto durerà? E’ sempre così
lontano, a volte mi pare sia frutto delle mie fantasie”.
*
Paolina entrò di
foga nella camera di Isabella e le comunicò:
-Tra un mese mi sposo, cara Isabella, e voglio che tu mi aiuti negli
ultimi preparativi, Sei così assennata. La mamma avrebbe voluto ancora
per qualche mese rispettare il lutto per la morte dello zio Filippo, ma
Giovanni non vuole aspettare oltre marzo, anche perché- egli dice– dopo
dovrà dedicarsi alla cura dei suoi possedimenti terrieri. Il corredo è
pronto, bisognerà ritoccare e ripulire l’abito e il velo che le donne di
casa Glinni indossano nel giorno delle nozze. Oh! Sono così felice.
Vieni con me, comunichiamo a tutti la bella notizia. Voglio che da oggi
la casa gioisca.
Isabella la abbracciò e si lasciò trascinare fuori dalla stanza.
- Carolina, nostra madre ha acconsentito alle mie nozze. Mi sposerò il
venti di marzo.
Carolina restò perplessa, come colta di sorpresa nel pieno di un progetto.
Dopo qualche attimo di esitazione confessò:
-Anche io e Sebastiano abbiamo fissato il nostro matrimonio nel mese di
marzo. Ne avremmo parlato in questi giorni ai nostri genitori. Sono
felice per te, ma ora mi trovo in seria difficoltà. Cosa devo fare?
Le due giovani donne si guardarono negli occhi smarrite, alla ricerca di
una soluzione, poi, d’un tratto Paolina, nota a tutti per la sua
vivacità e il suo ottimismo, esclamò allegramente:
-Ci sposeremo nello stesso giorno, sarà una scelta bellissima che
rinsalderà il nostro affetto per tutta la vita. Che ne pensi Isabella?
Io mi farò confezionare un vestito nuovo ed indosserò il velo antico. A
Carolina, che è più robusta di me, il vestito antico andrà benissimo e
preparerà una nuova acconciatura per il capo. Mi sembra una splendida
idea.
-A me piace questa soluzione- intervenne Isabella, frenando l’entusiasmo
di Paolina – bisognerà, però, consultare i genitori dell’una e
dell’altra parte.
Le due famiglie trovarono l’accordo e, dopo alcuni incontri, durante i
quali furono fissate le modalità della cerimonia e furono dettati i
capitolari matrimoniali riguardanti la dote e gli obblighi degli sposi,
dettero avvio ai preparativi.
In casa Glinni si susseguirono giorni di intenso lavoro, di fervida
operosità: la pulizia dei saloni, degli argenti, delle suppellettili,
l’accoglienza agli amici e ai parenti che si recavano di persona per
portare il duplice regalo e congratularsi con gli sposi. Finalmente
arrivò il giorno sospirato da tutti.
La chiesa era addobbata con fiori di mandorlo che i contadini avevano
portato all’alba e che diffondevano un delicatissimo profumo amarognolo;
una guida di velluto rosso andava dalla soglia al centro dell’altare di
fronte al quale erano collocati i due inginocchiatoi e le quattro
poltrone per gli sposi. La cattedrale era gremita di persone,
numerosissimi i parenti e tanti i compaesani attratti dalla curiosità e
dal piacere di assistere ad un avvenimento inconsueto.
Isabella indossava un abito rosa tenue con la gonna larghissima a
piegoline che si aprivano sotto il ginocchio per effetto della crinolina
ed un corpetto con inserti di pizzo in tinta che metteva in evidenza la
vita sottile ed il seno formoso. Era nel fiore degli anni, era
bellissima ed attirava gli sguardi ammirati dei giovani. Al collo aveva
un prezioso filo di granati che la madre le aveva portato da Napoli per
l’occasione. Agli orecchi due pendenti che richiamavano la collana.
Provava un senso di gioia piena, anche perché avrebbe trascorso
un’intera giornata con i suoi genitori e la sorella che vedeva così
poco. Aveva in precedenza deciso che in quel giorno di festa non avrebbe
pensato a tutte le situazioni e le persone che le procuravano cruccio e
più spesso tristezza. Tra queste ultime Mario, che ormai non vedeva da
molti mesi e che sembrava davvero averla dimenticata, dal momento che
dopo alcune lettere inviate appena dopo la sua partenza, non aveva più
dato notizie di sé. Neppure lo zio Giuseppe, a cui aveva dedicato uno
dei suoi ultimi saggi ”Il Politicum”, lo aveva visto, sapeva solo che
era impegnatissimo a scrivere un trattato di massima importanza
giuridica. Coi giorni che passavano, nella sua mente si era radicata
l’idea che ella si illudeva che un uomo di cultura, un giurista così
famoso e eccellente come lui, potesse legarsi ad una giovane inesperta
come lei. Questo pensiero ricorrente aveva fatto sì che in lei si
spegnesse l’autenticità dei ricordi e si velasse la speranza: le
sembrava di aver sognato e si dava della sciocca e della superficiale
per aver creduto che l’amore di Mario avesse potuto sopravvivere alla
lontananza. Subito, però, prepotente si riaffacciava il ricordo della
sera in cui si erano salutati: la commozione da cui era preso Mario era
vera, profonda, non poteva fingere fino a quel punto. Ahimè! Spesso era
preda di contrastanti deduzioni e sensazioni e allora le tornava alla
mente la confessione dello zio arcidiacono: la sua sofferenza era durata
tutta la vita per un amore che non poteva essere corrisposto. Quante
rinunce! Quanti sacrifici! Lei avrebbe avuto la stessa forza, la stessa
abnegazione? Fino a poco tempo addietro ne era sicura, ma, ultimamente,
la solitudine e la tristezza le invadevano l’animo. Basta! Quel giorno,
no, avrebbe fatto in modo che nulla e nessuno oscurasse una giornata
lieta che seguiva a tante giornate tristi per lei e la famiglia. Si
sentiva guardata e questo le procurò una piacevolissima sensazione, mai
provata così intensa. All’uscita della chiesa le si accostò un giovane
alto, ben fatto, elegante che la salutò con molta galanteria.
-Donna Isabella, non è giusto essere così bella!
Era don Antonio Pipoli che ella non aveva più visto e di cui non aveva più
sentito parlare. Gli porse la mano inguantata e gli sorrise.
-Come state? Provo piacere nel rivedervi. Penso viviate lontano da
Acerenza perché non vi ho mai più incontrato.
- E’ così. Lavoro in un’azienda di famiglia vicino Bari, ben presto, però,
ritornerò a vivere in paese. Sappiate, donna Isabella, che mi sta molto
a cuore la vostra felicità. Ora vi lascio alle vostre amiche e ai vostri
cari. Ci rivedremo.
E si allontanò dopo averla salutata con un baciamano. Isabella rimase un
po’ sconcertata e sorpresa nel constatare il suo compiacimento per ciò
che le era capitato. Era solo vanità femminile, oppure in fondo sentiva
il bisogno che qualcuno la corteggiasse e le ricordasse di essere una
donna degna di attenzione. Sentiva, comunque, di essere cambiata: i suoi
sogni si erano come appannati, non riusciva più a nutrirli con
l’entusiasmo che è proprio della prima giovinezza; le sembrava che la
realtà con le sue leggi, la sua ineluttabilità si imponesse sulla
volontà e sui desideri. Chiamò Marianna ed insieme si avviarono in casa
dove si sarebbe svolto il ricevimento.
Di fronte alla gioia delle due spose, guardate con amore e tenerezza dai
mariti, tutti si rallegravano, solo Brigida, una delle sorelle, scoppiò
in lacrime. Isabella che le era vicina le chiese:
-Cos’hai, Brigida? La commozione ti fa piangere o qualcos’altro ti
affligge?
-A me…nessuno mai…e continuò a singhiozzare allontanandosi.
La sorte non era stata prodiga con Brigidina Glinni, una dei tanti figli
di don Nicola. Non aveva doti che attirassero simpatia e ammirazione:
minuta, poco graziosa passava inosservata e viveva quasi dimenticata
all’ombra dei numerosi fratelli e sorelle che si imponevano nella
famiglia per virtù o per difetti.
Senza volerlo sfuggiva a tutti di chiederle come mai si estraniasse o di
coinvolgerla a partecipare, forse perché dava idea di essere pienamente
a suo agio nel suo mondo fatto di silenzio e destava un certo rispetto
per la sua riservatezza. Donna Anna spesso la sollecitava ad unirsi agli
altri, ma ella si schermiva dicendo che il chiasso la stordiva e la
vivacità la confondeva ed alle insistenze della madre rispondeva a
monosillabi o non rispondeva affatto. Donna Anna, allora, si rivolgeva
ai figli invitandoli a trovare il modo di far uscire Brigidina dal suo
riserbo, dal suo atteggiamento di rifiuto, ma, quasi in coro,
affermavano che era lei che non voleva, che non li cercava e non
mostrava attrazione per qualcosa o qualcuno. Col passare del tempo parlò
sempre meno, si abituò a pensare che non sapeva cosa dire, che non aveva
nulla da dire che potesse interessare chi la circondava. Si convinse
sempre più di non essere stata accettata, che non lo sarebbe mai stata e
si chiuse in una amarezza dolente che le spense il sorriso senza
rimedio.
Non usciva mai, eccezion fatta per recarsi alla prima messa del mattino;
trascorreva la maggior parte delle ore sola, chiusa nelle sua camera a
lavorare all’uncinetto. Aveva regalato alle spose due scialli di fattura
perfetta che testimoniavano come ella si dedicasse a quella occupazione
con un impegno puntiglioso.
Era stato un gioco crudele del destino, un pernicioso groviglio di
incomprensioni a sottrarla al confronto, agli incontri, all’amore: alla
vita.
Poteva essere fiore quella gemma/ sullo spino del rovo/ sospeso al buio
del ponte senza sole. Insecchirà inviolata/ nel mistero dei petali
incolori.
*
Lo zio Giuseppe destava preoccupazione in Isabella. Le sue speculazioni, i
suoi interessi non lo stimolavano più ed egli appariva profondamente
triste. Un mattino lo raggiunse in biblioteca con ansia malcelata.
-Zio, cosa vi tormenta? Ieri sera a cena non ci avete detto una parola,
non ci avete rivolto un sorriso: non è da voi. Se sapeste fino in fondo
cosa significa per noi il vostro silenzio, capireste il nostro
rammarico. Nonna Anna e nonno Nicola aspettano sempre con trepidazione
il vostro ritorno e sembra che la loro vita, appesa ormai ad un filo,
dipenda esclusivamente da esso. Lo zio Canio che è a tutti gli effetti
il capofamiglia ha bisogno di voi, della vostra cultura e della vostra
saggezza per l’educazione dei suoi figlioli: vorrebbe che voi faceste
quello che lo zio arcidiacono ha fatto per tutti noi.
-Isabella, aspetta, non continuare, voglio dirti…
-Vi chiedo scusa, ma voglio prima esprimervi tutto il mio sentire; poi, mi
metterò buona ad ascoltarvi per tutto il tempo che vorrete. Non possono
venir meno alla famiglia i vostri consigli sempre così utili e fondati e
il vostro esempio. Per me più che zio siete il fratello di elezione, un
dono del cielo. Ho appreso da voi tutto quanto so; mi avete insegnato a
leggere, a parlare, a pensare. Per merito vostro ho potuto vivere giorni
di grande diletto quando insieme con lo zio Filippo mi avete concesso di
ascoltarvi mentre dibattevate sulla vera felicità dell’uomo, sulla sua
storia etica e sociale; per merito vostro ho conosciuto Mario Pagano, la
persona che ammiro per l’intelletto vivo e per il cuore gonfio di ira
contro le ingiustizie del nostro secolo.
Nel pronunciare le ultime parole Isabella era arrossita; presa dalla foga
di comunicare i suoi stati d’animo non si era accorta di dire più di
quanto avrebbe dovuto. Lo zio avrebbe scoperto il suo segreto? Si fermò,
preoccupata e sorpresa della sua imprudenza.
-Isabella, non cambi mai, il tuo altruismo è prezioso. Quanto mi hai
appena detto mi consola, mi conforta, ma nello stesso tempo mi
rattrista. Questa volta sono tornato a seguito di una decisione
improvvisa, spinto dal desiderio della mia casa, del suo calore, dei
suoi ritmi. Sono io ad aver bisogno di voi; non sono in grado di darvi
nulla perché sento di non avere nulla da darvi. Un’inquietudine sottile,
perversa sta minando la mia serenità di studioso, uno sconcerto che
piano piano va togliendo ai miei occhi ogni significato a ciò che ho
fatto e a ciò che faccio. Certo, mi manca lo zio Filippo, ma non è solo
questo.
Seguì una lunga pausa. Aveva interrotto, come spezzato, il suo discorso
quasi inseguisse un pensiero che gli procurava un’acuta apprensione.
-Zio Giuseppe, perdonatemi per la mia irruenza, che a volte è proprio
sconsideratezza. E’ che non mi rassegno a pensare che le situazioni e
noi siamo soggetti a cambiare. Era tutto così perfetto prima! Mi auguro
di cuore che le atmosfere e gli affetti del nostro paese vi facciano
ritrovare i propositi, i progetti e a noi restituiscano la persona
amabile che conosciamo, la persona che ha riempito tanti spazi delle
nostre anime. Siete tornato da poco ed avete bisogno di riprendere le
vostre abitudini, le fila sospese della vostra vita qui ad Acerenza, ed
io, invece, sono precipitosa. Riprenderemo il nostro discorso quando lo
vorrete.
-Grazie, Isabella, della tua comprensione. Anch’io spero che a contatto
con le antiche emozioni tutto torni come prima, nei limiti del
possibile.
-Va bene, vi lascio.
Isabella chiuse la porta alle spalle e si fermò pensierosa in preda ad un
vero scoramento. Aveva voglia di piangere. Per la prima volta si sentì
infelice: i suoi miti, lo zio arcidiacono, lo zio Giuseppe, Mario non
riuscivano più a farla sentire speciale, a nutrire il suo spirito. La
visione dello zio, che ella amava sopra gli altri, così vinto e indifeso
l’aveva sconvolta. Era come se la famiglia si dividesse in due rami: da
un lato, gli intelletti più puri, impegnati negli ideali che trascendono
il quotidiano, ai quali sembrava fosse negata la felicità, dall’altro
quelli che dedicavano le proprie energie alle occupazioni richieste
dall’andamento della casa e degli affari, i quali apparivano paghi,
senza chiedersi il perché di tante cose.
Passarono alcuni mesi e don Giuseppe si incupiva sempre più. Si era chiuso
in un cruccio ostinato, fumoso, che lo rendeva taciturno e lontano.
Tutti si meravigliavano che non partisse, che non rispondesse alla
corrispondenza; anzi, aveva preso l’abitudine di non aprire i plichi e
le pubblicazioni che gli arrivavano. Isabella pensò di scrivere a Mario
perché venisse in loro aiuto: certamente la sua presenza avrebbe
sollevato il suo amico e maestro ad uscire dal suo isolamento e dalla
sua malinconia. Non fu, però, necessario scrivergli perché Mario,
preoccupato di non ricevere risposta alcuna alle sue lettere, giunse un
pomeriggio tra la sorpresa generale.
Isabella sentì un vocio nell’ingresso, un trambusto insolito per l’ora e
si affacciò appena per vedere cosa stesse succedendo. Riconobbe la
sagoma e la voce e il cuore cominciò a batterle senza freno. Si ritirò
nella sua stanza, aveva bisogno di respirare profondamente, di
riprendere fiato perché sentiva che una trepidazione fortissima si era
impadronita di tutto il suo corpo. Era sul punto di gridare il nome di
Mario e corrergli incontro; ma fu brava a dominare il suo impulso: non
era più una giovanetta sconsiderata. Le sembrò giusto che si vedessero
prima i due amici e si scambiassero le immediate effusioni. Lo avrebbe
rivisto più tardi, magari a cena se non si fosse offerta altra
occasione. Non potè, però, fare a meno di riaprire la porta della stanza
e origliare.
-Donna Anna, vi porgo i miei ossequi. Perdonate la mia irruzione, ma non
ho avuto la possibilità di avvisarvi in tempo utile.
-Che dite mai? E’ il cielo che vi manda. Siamo in pena per Giuseppe. Non
sappiamo cosa lo angustia; non è più lo stesso e nessuno è riuscito a
scuoterlo dalla sua angustia. Forse se ci fosse lo zio Filippo,
chissà…Venite, è in biblioteca. Vi accompagno. Spesso rimane ore ed ore
dietro la grande vetrata, in silenzio…
Entrarono in biblioteca.
- Giuseppe, vedi chi è venuto a farti visita?
Alle parole della madre si girò e vide Mario. Un lampo di sorpresa e di
gioia insieme attraversò i suoi occhi che subito si riempirono di
lacrime.
- Amico mio, - disse- amico mio, e lo abbracciò fortemente.
*
Donna Anna uscì in punta di piedi e si diresse in cucina per disporre per
la cena e per raccomandare a Maddalena di preparare la camera per
l’ospite.
Dal suo arrivo Mario era rimasto chiuso in biblioteca con il suo amico e
maestro. Era quasi l’ora della cena, ogni cosa era pronta; c’erano
tutti, mancavano solo loro due. Isabella fremeva ed aspettava il loro
arrivo nel corridoio antistante il salone. Giunse, intanto, don Saverio
con un giovane sacerdote mandato ad Acerenza dal seminario di Potenza.
Il giovane religioso era spaesato, non conosceva né il luogo né persone
e non si staccava da don Saverio il quale s’era presa la cura di
tranquillizzarlo e di guidarlo nei suoi primi compiti.
-Isabella, com’è possibile essere così leggiadre?- le disse Mario- mentre
lei era soprappensiero.- Qual è il tuo segreto?
L’aveva sorpresa alle spalle; ella si girò con il cuore in tumulto ed egli
inchinandosi le baciò entrambe le mani.
-Oh Mario, che tristezza lo zio Giuseppe! Forse tu potrai…Come mai sei
qui? Stavo per scriverti…
Farfugliò queste parole cercando di frenare la sua commozione. Intanto, si
dirigevano nella sala da pranzo dov’erano attesi.
Mario, rivolgendosi a Don Nicola, disse:
-Trovo benissimo sia voi che donna Anna. La vostra esistenza è stata
davvero ricca di beni eccezionali: una famiglia così numerosa è una
benedizione, in nessun luogo ho visto una tavola rallegrata da tante
persone, che vivono in concordia e nutrono per voi grande rispetto,
quasi venerazione. Queste sono gioie che non a tutti sono concesse. A
me, per esempio, è una gioia negata l’unione con la donna che amo. Per i
miei impegni civili, le mie lotte giuridiche, che mi creano tanti
nemici, per i miei continui viaggi, è un sogno proibito dar vita a una
famiglia. Ne ho dolorosa consapevolezza…
Le sue parole ferirono Isabella. Egli era seduto di fronte a lei, quindi,
poteva osservarlo agevolmente. Era pallido, sciupato; portava sul volto
i segni della tensione del pensiero, di veglie estenuanti e dell’ardore
di rivendicazioni estreme. Considerò che, pur non volendo, egli non
poteva appartenerle. Fu sopraffatta dalla dolorosa constatazione che il
suo amore, perciò, era senza speranza. Mario e lo zio Giuseppe, entrambi
precursori di una nuova visione della società in un mondo ancora
strutturato secondo antichi criteri e privilegi, erano vittime del
travaglio che è proprio degli spiriti sensibili che vivono con
inquietudine il trapasso tra due civiltà. Mario continuava a lottare in
difesa e per l’affermazione del nuovo, l’altro, più debole e più
tendente al disincanto, dovuto alla frequentazione degli scrittori e dei
filosofi del mondo classico, aveva abbandonato il campo vinto dallo
scoramento e dalla solitudine. Isabella provò un dolore profondo, capì,
senza più fingere a se stessa, che il suo sogno senza radici non poteva
dare frutti. La tristezza le serrò la gola, si sentiva venir meno,
privata d’un tratto della energia che la teneva in vita. Avrebbe voluto
fuggire lontano, in una dimensione eterea dove la sofferenza che la
faceva star male si sarebbe dileguato ed ella sarebbe tornata libera
agli incanti della fanciullezza. La voce del nonno la scosse dalle sue
divagazioni.
- Mario, che nuove ci portate? La vostra visita mi rincuora e mi allegra;
alla mia età si ha bisogno degli amici, oltre che dei familiari, per
sentirsi ancora validi e per dare un senso alle giornate e alle ore.
-Il mio augurio è che possiate godere di pace e prosperità il più a lungo
possibile, fino a quando i tempi e il cammino dei popoli lo
consentiranno.
Allarmato don Saverio chiese a Mario cosa intendesse dire.
Mario rispose che c’era un fremito di ribellione che serpeggiava nei
paesi, nelle città, tra gli intelletti, non ancora definito, ma era come
un vento sul nascere, appena percettibile per un leggero movimento di
rami e foglie, che, dopo qualche tempo, infuria, soffia forte, gonfia le
vele, abbatte le cime e, talvolta, sradica gli alberi, tant’è la sua
violenza. Egli era convinto che il vecchio assetto socio-politico
sarebbe presto stato sconvolto: troppo grande era il divario tra le
classi e troppo disumano.
Isabella lo guardava rapita dalla passione che traspariva dalle sue
parole: l’uomo che amava non poteva essere suo; apparteneva alla storia,
alle sue ragioni e ai suoi inevitabili cambiamenti.
- Nonna, nonna!- gridò Rosa- Pietro Paolo mi ha sporcato il vestito nuovo
con l’olio delle patate.
Tutti risero. L’intervento di Rosa smorzò prodigiosamente il turbamento
che le parole di Mario avevano suscitato e la conversazione si spostò su
quanto era terribile Pietro Paolo.
- Mario, resterete un po’ con noi? Saremmo davvero felici- disse, in
seguito, donna Anna. -
Nella sua richiesta era evidente, oltre che una vera premura per l’ospite,
il suo personale interesse, dal momento che era convinta che la sua
vicinanza avrebbe giovato all’umore e alla salute del figlio Giuseppe.
-Donna Anna, conoscete i miei sentimenti nei confronti della vostra
famiglia, ma non mi è consentito rimanere più di due giorni.
-Mi dispiace - replicò donna Anna-. Speravo che…Comunque, s’è fatto tardi
ed è bene che riposiate dopo il lungo viaggio che avete affrontato per
venire da noi.
Suonò il campanello perché Maddalena e gli altri della servitù
sparecchiassero. Tutti, anche Isabella, si alzarono da tavola e a
piccoli gruppi si avviarono nelle camere da letto. Isabella era rimasta
silenziosa durante tutta la cena.
Mario, invece, si diresse con don Giuseppe verso la biblioteca.
-Amico mio, ti trovo dimagrito, stranito; mi pare che tu insegua i tuoi
pensieri ininterrottamente, anche nelle pause destinate al pranzo, alla
cena, al riposo, anche quando sei con gli altri. Quale misterioso
affanno ti consuma? E’ cosa che puoi rivelare ad un confidente sincero,
o viceversa ti è negato parlarne?
- Mario, tanti anni fa lo zio Filippo mi propose di aiutarlo a risolvere
una serie di vicende concatenate e incredibili che facevano capo ad un
mistero insoluto nei secoli benché affrontato da uomini di fede e di
scienza, dotati di alto e prezioso intelletto. Come tu ben sai, oltre
che del greco e del latino sono esperto di antichi linguaggi orientali,
anche di alcuni di cui si perdono le tracce, tanto che per mia volontà
mi chiamano Giuseppe Ottomani.
Egli mi chiese, perciò, di tradurre e interpretare alcuni testi scritti in
lingue sconosciute ai più, tra i quali l’aramaico, il greco antico,
l’arabo e così via.
Seguì una lunga pausa, interrotta da Mario.
-Quanto mi hai detto non fa che riportare alla mia memoria cose che già
conosco. Non vorrai fermarti qui e lasciarmi in preda alla curiosità di
apprendere quale enigma racchiudessero le circostanze misteriose che ti
furono rivelate dallo zio Filippo?
-Ciò che sto per svelarti è qualcosa di insolito, di assolutamente
impensabile da chi non conosce gli sviluppi di alcune vicende. Zio
Filippo mi raccontò di essere capitato a Venosa durante uno dei suoi
viaggi di lavoro e di aver incontrato alcuni adepti dell’antico ordine
dei Templari, i custodi del Tempio di Gerusalemme, che gli affidarono
una lettera da consegnare, con urgenza, al suo ritorno, all’Arcivescovo
di Acerenza. Quindi, con parole che risultarono oscure allo zio, gli
dissero che molti e insospettabili fili legavano la cattedrale di
Acerenza alla salvezza della Chiesa e alla conservazione del suo
prestigio.
-Ciò che mi dici desta in me grande curiosità e interesse. L’Arcidiacono
aveva sentito parlare di tali argomenti o li ignorava assolutamente?
- Egli era completamente all’oscuro delle rivelazioni che gli erano state
fatte, anzi mi disse che durante il viaggio di ritorno non faceva che
riandare con la mente allo strano incontro e rigirava tra le mani la
lettera che avrebbe dovuto consegnare all’Arcivescovo. Non so dirti se
fu sul punto di aprirla, ma, conoscendo la sua dirittura morale, sono
certo che allontanò ogni forma di tentazione.
- Carissimo don Filippo, accomodatevi- così aveva esclamato l’Arcivescovo
vedendolo.-
Gli aveva chiesto udienza appena tornato in paese, spinto da un’ansia
sottile che gli derivava dalla speranza di venire a capo degli strani
pensieri che occupavano senza tregua la sua mente.
- Monsignore reverendissimo, devo consegnarvi questa lettera che mi è
stata affidata dal conte Ludovisi di Venosa.
L’arcivescovo, appena sentì il nome del mittente, fu preso da una strana
eccitazione e, presa la lettera, l’aprì immediatamente e la lesse.
Quindi, si rivolse all’Arcidiacono:
-Da tempo, caro don Filippo, guardando alle vostre opere, alla vostra
rispettabile persona, ai vostri antenati irlandesi che devono essere
considerati eroi della fede cattolica, avevo in animo di rendervi
partecipe di segreti che la Santa Madre Chiesa custodisce da secoli per
evitare che la regalità di Cristo nostro Signore e del suo sangue
benedetto fosse annientata da infamanti e sacrileghe elucubrazioni di
menti insane.
Gli disse di come la Lucania e la Capitanata fossero direttamente
implicate nell’opera di difesa del Santo Credo Cattolico e di come la
cattedrale di Acerenza fosse stata voluta dalla Santa Sede a baluardo e
difesa di sacre reliquie. Molti segni presenti sulla facciata e
nell’interno nascondevano simbologie inquietanti: dagli stipiti del
portale fittamente scolpiti con motivi floreali e animali ai
bassorilievi ricchi di allegorie della cripta che, si diceva,
conservasse testimonianze oscure ed era al centro del mistero.
-Fin qui, don Filippo, sono notizie e rivelazioni pervenute a noi
oralmente e qualcuna anche scritta, ma, da più parti mi giungono
sollecitazioni ad indagare più a fondo tra gli antichi documenti, di cui
è in possesso la diocesi, poiché si è certi che essi contengono verità
che i nostri predecessori ci hanno tramandato occultate per cautela e,
pertanto, è necessario interpretarle. I documenti sono numerosi e
scritti in lingue a noi sconosciute.
Fu così che lo zio pensò a me ed io accettai per compiacerlo e per
curiosità. Da allora una ricerca accurata e difficile e un continuo
lavoro di esegesi dei testi antichi mi ha preso incondizionatamente e mi
pare che non debba mai finire.
-Mi è sempre sfuggita una parte di te e delle tue investigazioni
letterarie - gli disse Mario.- Dopo quanto mi hai detto mi è facile
comprendere il tuo estraniarti quasi oppresso da una gravosa
responsabilità, da un impegno serio di cui ti era proibito parlare.
Dimmi, i tuoi sforzi sono valsi; la tua fatica è stata ricompensata?
-Zio Filippo sul letto di morte mi chiese la stessa cosa ed io gli risposi
che la ricerca era irta di difficoltà, ma ero sulla buona strada. Ed
egli mi sorrise appagato. Ho passato notti intere su fogli pervenuti qui
chissà da dove e portati chissà da chi, polverosi, bacati, ingialliti
talvolta illeggibili; ho trascurato tutto, ho sopito finanche lo stimolo
della fame e della sete, felice soltanto se riuscivo a decifrare una
parola significante che illuminava la frase in cui era inserita. Ora ,
però, sono sfinito e allarmato perché sono vicino a conoscere una verità
che, se risulterà certa e inoppugnabile, sarà terribile. Questo ho da
dirti a giustifica del mio comportamento. Voglio, però, che tu
custodisca quanto ti ho detto e mai ne faccia parola con qualcuno.
Questo segreto sancisca la specialità della nostra amicizia.
-Mai, te lo giuro, tradirò la fiducia che hai riposto in me. Dimmi,
piuttosto,…
-No, Mario, non sono più in grado di parlare. Sono troppo stanco. Può
darsi che ad un nostro prossimo incontro io possa rivelarti quanto potrà
appagare la mia e la tua curiosità.
-Non insisto. Devo, però, dirti che sono preoccupato per la tua salute.
Inoltre, mi spiego certe tue scelte, ma, non comprendo il distacco
completo dagli altri interessi che coltivavi con tanta passione. Vieni
via con me. A Napoli, a contatto dell’ambiente accademico, di tanti
amici, ritroverai ansie e fermenti dimenticati, senza per questo
tralasciare la tua ricerca.
-Ti ringrazio, ma non mi è possibile. Un vincolo forte ormai mi tiene
legato alla cattedrale, la cui vista mi è necessaria e mi dà la forza
per continuare il mio lavoro e mi stimola a vincere una sottile inerzia
che specie al mattino mi prende estenuandomi. Le sue pietre, la sua
storia mi avvincono, è come una malia che mi avvolge con mille richiami.
Saluta per me gli amici e raccomanda loro di non dimenticarmi così come
io non dimenticherò mai le piacevoli ore trascorse insieme, fervide di
idee e progetti. A te, un particolare grazie per essere venuto. Ti avrò
sempre nel cuore. Vivrò con la speranza di rivederti. Il cielo ti
assista nella tua opera di divulgazione dei valori di libertà e
giustizia e protegga la tua persona fisicamente e spiritualmente. E’
tardi, entrambi abbiamo bisogno di riposo. A domani.
*
Isabella dormì male. Le tornavano in mente le parole di Mario procurandole
frequenti batticuore; aveva la certezza che il domani le avrebbe portato
sofferenza. Si vestì e si recò di buonora alla messa del mattino.
All’uscita, si affacciò al parapetto che limita la piazza antistante la
cattedrale e si apre ampio sulla vallata. Quella visione così spaziosa
le slargava il vuoto dell’animo. La sera precedente aveva avuto la
conferma che il suo sogno era finito: l’amore l’aveva appena sfiorata,
non più lande fiorite, non più amabili finzioni che la avevano
inebriata. Nella notte la dolorosa consapevolezza aveva fatto nascere in
lei una calma insolita, una rassegnazione inevitabile. La prese
un’uggia, uno scontento che neppure il ricordo delle preghiere rivolte
poc’anzi al Signore riuscivano a lenire. Era così assorta quando vide
Mario venirle incontro.
-Dolce Isabella, ti ho cercata invano in casa; poi, Maddalena mi ha detto
di averti vista uscire. Ho bisogno di parlare con te.
-Ti prevengo su ciò che vuoi dirmi. Il fatto che tu non mi abbia scritto
per così lungo tempo, che non abbia fatto in modo che crescesse il
nostro amore così delicato sul nascere; le parole che hai rivolto al
nonno; la tristezza che ieri ho visto nei tuoi occhi mi hanno fatto
capire che per me non c’è posto nella tua vita. Le nostre strade non si
possono incontrare, il tuo impegno così alto e nobile è inconciliabile
con la mia esistenza tanto lontana dai luoghi e dalle città che tu
frequenti. La mia persona così semplice, pur amando i tuoi stessi
propositi, non potrà mai somigliare alle dame dei salotti napoletani di
cui mi hai parlato e che tanto danno alla comune causa della
divulgazione delle nuove idee. D’altronde, io nella grande casa mi sono
scelta un ruolo di grande responsabilità che mi tiene fortemente legata
ad essa. Ora, per esempio, il malessere dello zio Giuseppe mi angoscia:
mi pare che ancora duri nella nostra famiglia la fatica del vivere che
vide i nostri antenati lasciare terra e case e averi e avviarsi verso
una sorte ignota.
Mario prese le mani di Isabella tra le sue e le portò sul cuore.
-Tu sei il prodigio e l’incanto della giovinezza. Mai ho incontrato una
creatura sensibile come te. La deliziosa visione che ebbi di te al mio
arrivo ad Acerenza mi ha accompagnato nel mio peregrinare di studioso.
Nei momenti di sconforto, quando sembrava inutile ogni mia azione o
iniziativa, essa si riaffacciava alla mia mente e mi dava forza e mi
faceva sorridere. In nessun altro posto mi sono sentito felice e a mio
agio come nelle tua famiglia, i cui componenti tutti mi sono cari. Può,
però, la nostra volontà cambiare a suo piacimento gli avvenimenti che il
destino ci riserva? Io vorrei con tutto me stesso condurre la mia vita
al tuo fianco, allietato dai nostri figli e dal tuo sorriso, ma non mi è
concesso. Una folla di diseredati mi spinge a lottare per essi, i vinti
della storia. La mia è una rinunzia dolorosissima; né posso pensare di
coinvolgerti nelle mie battaglie. Non sarebbe onesto sottrarti alle tue
aspettative di giovane donna; inoltre, sarebbe incauto e pericoloso. Amo
troppo la tua vita per metterla in gioco dissennatamente. Gli ideali
virtuosi hanno un prezzo molto caro. Tu rimarrai nel mio spirito e nella
mia memoria come il sogno irrealizzato di una esistenza che non può
essere la mia.
Mentre Mario parlava, dagli occhi di Isabella scendevano lacrime che ella
asciugava delicatamente. Era come aveva previsto: il loro era l’incontro
dell’addio.
-E tu resterai nel mio ricordo come uno splendido mattino di primavera
senza nuvoli né vento, con i contorni d’oro della montagne per
l’imminente sorgere del sole. Il sole che hai portato negli anni miei.
Quale che sarà la mia vita tu occuperai la parte più intima del mio
cuore che nulla e nessuno violerà mai. Anche io sono rassegnata di
fronte all’ineluttabilità delle circostanze; né voglio sottrarti agli
ideali che sono il tessuto della tua anima. Forse, chissà, forzandoti…
Un domani, però, non saprei sopportare la tua vita dimezzata e, forse,
le tue tacite accuse. Né voglio per me alimentare illusioni infondate.
Sarebbe, al loro cadere, troppo doloroso. Quello che più mi mancherà
sarà l’attesa. Quante volte ho spiato la strada che porta su in paese,
verso la nostra casa con la speranza di vederti arrivare! E, se provavo
una delusione, subito dopo mi consolavo pensando che era possibile
arrivassi l’indomani. L’attesa riempiva le mie ore, mi dava più piacere
l’idea di ciò che sarebbe potuto accadere che se veramente fosse
accaduto. Forse perché sapevo che questa seconda evenienza era
impossibile e mi rifugiavo in ciò che era probabile.
-Quanto arzigogola la mia dolce Isabella! E tu mi dici di essere una
ingenua fanciulla di paese che poco sa e poco comprende. L’appartenere
ad una famiglia di nobile retaggio e di elevata cultura ti dà il
privilegio di essere quella che sei. Già in altra occasione ti ho detto
che spetta anche ad intelletti come il tuo il compito di educare gli
emarginati alla conoscenza dei propri diritti. Come vorrei fermare il
tempo e gli eventi e rimanere qui con te per sempre! Purtroppo, dovrò
lasciarti.
E nel dire così la strinse a sé.
-Domani partirò con questo dolore nel petto. Né posso mancare ad una
riunione concertata nel mio paese, a Brienza, dove converranno molti
liberali, provenienti da Potenza e da quasi tutti i paesi della Lucania.
- Mario, rientriamo. Lo zio canonico, don Saverio, sta per uscire dalla
cattedrale e non è conveniente che mi veda ancora fuori casa. Il
Signore, che tanto fervidamente ho pregato, voglia benedire le tue
azioni e le tue aspirazioni sì che, almeno, il nostro sacrificio sia
compensato. Scrivimi, anzi scrivici qualche volta per darci notizie di
te. Che se l’amore tra noi è impossibile, e questo è ciò che ora mi pare
insopportabile, sappi che nella nostra famiglia puoi contare su tanti
amici. Io non so nei giorni a venire come vivrò questo distacco.
-Porterò sempre con me il ricordo della tua persona. Non mi stancherei di
parlarti e di ascoltare la tua voce, ma è giusto rientrare. Devo ancora
continuare la mia opera di persuasione nei confronti di Giuseppe perché
venga con me per distoglierlo dalla strana ossessione di cui è vittima.
Sono molto preoccupato.
S’incamminarono silenziosi. Il paese, invece, cominciava ad animarsi e si
udivano le voci consuete del mattino. Donna Anna fu sorpresa nel vederli
rincasare insieme, ma non disse nulla e li invitò a fare colazione.
Isabella si tolse il mantello ed il cappellino e aiutò la nonna a
servire caffè d’orzo, latte e biscotti preparati in casa col miele a
quanti si erano radunati intorno alla tavola. Lo zio Giuseppe era
particolarmente pallido.
Mario non riusciva a staccarle gli occhi di dosso, era preso dalla grazia
con cui si muoveva e dalla dolcezza con cui aiutava i piccoli e don
Nicola che aveva le mani malferme. Dal canto suo Isabella si faceva
forza, ma aveva un groppo in gola. Non vedeva l’ora di ritirarsi in
camera per dare sfogo al pianto. I primi ad alzarsi furono Mario e
l’amico che uscirono per una passeggiata; poi, seguirono gli altri e
ognuno si dedicò alla propria occupazione.
Il giorno dopo Mario partì da solo. Don Giuseppe Glinni era stato
irremovibile nella decisione di non seguirlo. Isabella lo salutò ed
egli, stringendole fortemente le mani tra le sue, che erano caldissime,
le sussurrò:
-Mia cara, godi la tua giovinezza. Ho la certezza che su di me incombe un
destino tormentoso. Dà concretezza alla tua vita, io non posso che
seguire il mio cammino pieno di incertezze e difficoltà. Non essere mai
diversa da come sei, sarebbe come cambiare colore al cielo e ai fiori.
Senza volgersi più indietro, salì sulla carrozza, che si allontanò
rumorosamente per il forte attrito delle ruote e degli zoccoli dei
cavalli sul selciato. Ad Isabella sembrò d’un tratto che ogni cosa fosse
diversa, stinta, vuota; ebbe subito la percezione dell’assenza giacché
non avrebbe potuto più nutrire il suo animo con la speranza, col dolce
sentimento che l’aveva resa felice e che ora, invece, doveva imparare a
soffocare. Sarebbe riuscita a farlo?
Parte VI -
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