PARTE IX
Isabella di buonora
si recò in chiesa per l’appuntamento con lo zio Saverio. La cattedrale
era quasi vuota, solo i primi banchi erano occupati e rigorosamente le
fedeli, gli unici uomini erano il parroco ed il sagrestano, erano divise
secondo il ceto sociale: a destra le signore con il cappello e la
mantella, a sinistra le contadine con il fazzoletto in testa e lo
scialle. Mai queste ultime si sarebbero accostate alle prime; queste,
invece, talvolta si rivolgevano a loro per dare qualche ordine o
incombenza, le più superbe lo facevano con condiscendenza, addirittura
con degnazione. Isabella rimase in fondo e il suo pensiero si perse in
quelle alte volte, nella antichità che traspirava dai muri così
essenziali e lineari e, d’un tratto, immaginò numerosi Templari in piedi
pregare e rispondere ”una voce” alle invocazioni del ministro di Dio.
Terminata la santa messa, don Saverio raggiunse la nipote e le disse:
-Isabella, a che pensi? Andiamo, facciamo in fretta.
Isabella si riscosse, ma le sue fantasticherie le lasciarono una sottile
inquietudine, un indefinibile stato d’animo di paura.
S’avviarono verso la grande casa dove la servitù era già in faccende.
Donna Gabriella Cappetta, la moglie di don Francesco Glinni l’attuale
capofamiglia, già perfettamente in ordine nella persona, stava
distribuendo le diverse mansioni da svolgere nell’arco della giornata.
Nel vederli, esclamò sorpresa e contenta:
-Isabella, che piacere! Siediti, gradisci del latte o del tè. Intanto
gusta questi pasticcini preparati in casa.
Donna Gabriella, che era di nobiltà campagnola, aveva una certa soggezione
di Isabella, anche per la sua fama di persona colta ed intelligente,
perciò, ogni volta che si trovava con lei veniva presa da una insolita
agitazione. Isabella prese un pasticcino e disse che avrebbe volentieri
bevuto una tazza di tè.
Don Saverio si era diretto nella sua camera per liberarsi del soprabito ed
anche per lasciare le due donne alle loro confidenze. Dopo un poco tornò
ed invitò la nipote a seguirlo. Entrarono nella camera di don Giuseppe,
che era rimasta tale e quale l’avevano lasciata; nessuno era entrato,
non c’era, infatti, alcun segno di sosta o di passaggio. Il canonico si
diresse verso il nascondiglio, di cui gli era ormai nota l’ingegnosa
apertura, e cercò la scatola per prendere il vestito e decidere come
distruggerlo secondo l’accordo preso.
-Mio Dio, la scatola non c’è!
- E’ forse caduta. Permettetemi che guardi anch’io.
Isabella rovistò attentamente, guardò dappertutto, effettivamente la
scatola era scomparsa. Si guardarono per un po’ in silenzio; poi, don
Saverio disse:
-Questo mistero mi ossessionerà fino a quando morirò. A chi apparteneva il
vestito? Chi lo ha sottratto?
- Zio, ho l’impressione che i due cavalieri visti da Assunta non siano
estranei a questo accadimento. Secondo il suo racconto essi si
dirigevano verso la cattedrale e, quindi, nella piazza prospiciente alla
grande casa. Io in tutto questo vedo un nesso inconfutabile.
- Come hanno fatto a passare inosservati? E quando?
- Non dimenticate che casa Glinni è collegata alla cattedrale dal
camminamento segreto che i due cavalieri hanno potuto percorrere e,
nottetempo, quando tutti dormivano, sono entrati qui. O, fors’anche, è
proprio uno Glinni, uno della nostra famiglia, il più insospettabile che
ha a che fare con questo mistero, che mi intriga e mi impaura e getta
ombre poco rassicuranti sulla nostra storia, sulla nostra vita, sul
nostro futuro.
Il canonico non riusciva a calmarsi, andava su e giù nella stanza, dalla
porta alla finestra, nel disperato tentativo di dare risposta agli
interrogativi che sia lui che la nipote si ponevano.
- E’ un bene- riprese Isabella- che Costanza, sempre che sia fondata la
mia prima congettura, non sia stata scoperta dai cavalieri. Essi,
infatti, apparvero ad Assunta quando ella era già andata via, supponendo
che quella sia stata l’unica volta in cui avessero frequentato di notte,
col favore del buio, Acerenza e i meandri nascosti sotto la nostra casa.
Chi può dirci qualcosa che ci avvicini alla soluzione dell’enigma?
-Nulla ci vieta di pensare che essi sapessero della presenza di Costanza
ed avessero atteso che andasse via per introdursi e trafugare il
vestito.
Rimasero a lungo in silenzio, presi da pensieri di diversa natura;
entrambi alla ricerca di una strategia; di una decisione comune che li
guidasse su cosa fare. Continuare a cercare, a informarsi o, piuttosto,
tralasciare qualsiasi indagine? Era difficile individuare un punto di
partenza: non avevano alcun indizio né avevano idea di chi potesse
aiutarli.Erano soli con il loro segreto. Isabella sentiva di essere
impotente di fronte ad una vicenda più grande di lei e, in più, essendo
donna, era nella impossibilità di agire liberamente e di percorrere
tutte le strade necessarie per arrivare alla verità.
Don Saverio, dal canto suo, era fondamentalmente un uomo tranquillo,
nemico delle ombre e amante di una vita serena vissuta al servizio della
Chiesa. Non era fatto per affrontare prove estreme e la scoperta del
vestito era entrata con prepotenza nella sua operosa quotidianità,
sempre la stessa da anni, e l’aveva sconvolta. Non era abituato ai
cambiamenti, al rischio, pertanto, in cuor suo giudicava un brutto
scherzo del destino l’averlo fatto trovare all’improvviso in una
situazione strana ed oscura. Oltre a ciò, avvertiva forte il peso della
responsabilità nei confronti di Isabella, così indifesa, che egli doveva
proteggere dalle insidie che si celavano dietro ad una storia tanto
intricata. Giuseppe era a conoscenza del contenuto della scatola? O era
completamente ignaro poiché qualcuno, a sua insaputa, l’aveva nascosta
nella sua camera?
Isabella interruppe il silenzio.
-Zio Saverio, io ho taciuto con chicchessia secondo il nostro patto e non
ho rivelato nulla allo stesso Antonio; anche se qualche volta, quando
l’assillo del segreto mi opprimeva, sono stata sul punto di farlo. A tuo
parere dovrei parlargli? Se non a lui a qualche altro componente della
famiglia, magari a Francesco? O è più prudente continuare a tacere e
aspettare nuove mosse da chi muove i fili di questa vicenda, se ce ne
saranno?
Don Saverio doveva dare una risposta alla nipote, non aveva scampo, non
poteva tirarsi indietro. La sua natura lo portava a scegliere di
affidare il compito di affrontare la situazione a chiunque volesse
farlo. Due motivi, però, gli impedivano di decidere in tal senso: non
voleva perdere la stima di se stesso e quella di Isabella, in secondo
luogo temeva da un lato la serietà di Antonio, che avrebbe agito fino in
fondo magari cacciandosi in qualche guaio, dall’altro riteneva che
Francesco avesse già troppi grattacapi come capofamiglia. Gli conveniva,
senza delegare ad altri qualsiasi decisione, scegliere l’ultima proposta
fatta da Isabella, che gli sembrava la più idonea al caso, che egli
sperava si sarebbe chiuso dopo la sparizione misteriosa dell’abito.
-Isabella, sono dell’opinione di continuare a tacere. Quello che abbiamo
scoperto oggi è grave e non va sottovalutato e sollecita una serie di
interrogativi cui al momento non possiamo dare alcuna risposta. Sarebbe
imprudente, però, da parte nostra coinvolgere Antonio o Francesco che
certamente non si fermerebbero alla semplice constatazione dei fatti; ma
andrebbero oltre e non sappiamo con quali conseguenze. Resta tra di noi
l’intesa che qualora dovesse manifestarsi una nuova emergenza non
potremmo più tacere e dovremmo parlarne prima a loro; quindi, penso che
sarebbe opportuno rendere partecipe anche sua eccellenza l’arcivescovo.
La mia età mi impedisce di espormi in un’azione che richiede forza e
determinazione; sarò, invece, molto attento che non mi sfugga nessun
nuovo episodio. D’altronde, da quando siamo venuti a conoscenza della
scatola nascosta ed ora trafugata, non c’è stato giorno che io non abbia
fatto congetture intorno ad essa.
-Zio Saverio, voi siete avanti negli anni ed io sono una donna, una madre
che ama i suoi figli e non vuole che essi per imprudenza siano messi in
pericolo. Va bene, nessuno saprà e speriamo che col tempo tutto diventi
un brutto ricordo senza nuovi avvenimenti.
Uscirono dalla camera pensosi.
-Don Saverio, non vi sentite bene?- chiese donna Gabriella cui non era
sfuggita la loro aria preoccupata- E tu, Isabella, come mai così
contrariata?
-Assolutamente niente. Ogni qualvolta entriamo in contatto con il mondo
dello zio Giuseppe, ci prende una particolare commozione ricordando la
sua cultura e il suo instancabile lavoro di scrittore. D’ora in poi non
sarà più necessario mettere a posto le sue carte…
Dopo uno sguardo d’intesa con lo zio, salutò entrambi e fu subito in
strada.
A quell’ora nei vicoli bianchi del paese si diffondevano saporosi odori
perché in ogni casa si preparava il pranzo o la cena. Si preparavano
cibi semplici, poco elaborati, ma genuini e densi di gusto, dato anche
dalle fresche erbe aromatiche, coltivate a proposito nei piccoli orti
annessi alle case, oppure nei vasi esposti sui balconi e sui davanzali
delle finestre. Il basilico, il rosmarino, la salvia, la menta, quella
con le foglioline piccole, chiamata anche “peperita” perché leggermente
piccante. Quest’ultima si aggiungeva alle uova, al latte, al formaggio
pecorino per una tipica frittata, o ad altre pietanze condite con olio e
aceto. Il profumo che di più impregnava l’aria era quello dei peperoni
che stimolava prepotentemente le narici e l’appetito. I lucani ne
facevano largo uso e conoscevano numerosi modi per cucinarli: secchi,
fritti, arrostiti, al forno, come ripieno per pizze e focacce.
Quella realtà così ordinaria, così quotidiana, che faceva indovinare come
in ogni famiglia si pensasse al momento in cui tutti i componenti si
sarebbero seduti intorno alla tavola per consumare il loro pasto
frugale, sollevò Isabella dal rammarico che portava con sé. Raggiunse,
quindi, al più presto la sua casa, dove la vista dei suoi bambini e
della servitù così devota la rincuorò ed ella si dispose a svolgere
serenamente i suoi compiti.
Durante la giornata, però, non potè impedire che alcuni pensieri
l’assillassero.
”Perché proprio a lei era toccato conoscere quel mistero? Accogliere la
confidenza di Assunta sui due cavalieri Templari? Condividere stati
d’animo, segreti ed ansie intellettuali con uomini come lo zio Filippo,
lo zio Giuseppe e Mario Pagano? Vivere direttamente tensioni e vicende
della storia della sua terra attraverso Rachele Cassano, Costanza e lo
stesso Antonio? Perché proprio a lei era toccato scoprire tanto
crudemete l’abiezione umana nella tragica storia di Teresa? Perché?”
*
Fu un anno terribile per Isabella e la famiglia Glinni: vennero a mancare
il padre, la madre e don Saverio, a cui un cuore malato aveva procurato
uno spasmo, un’angina che lo faceva respirare a fatica. La sua vita
rimase legata ad un filo per circa due mesi. Una sera Isabella andò a
trovarlo e lo zio le disse:
< Ho l’impressione che la cattedrale nasconda davvero qualche segreto. Non
è raro sentire dei rumori insoliti o vedere qualche forestiero che si
aggira con un atteggiamento sospetto. Può darsi, però, che io abbia
nutrito idee sbagliate, dati i precedenti e data l’ansia di voler
scoprire una verità che appagherebbe la mia curiosità e la mia
vecchiaia. Quando non ci sarò più, ti prego di dimenticare questa
tenebrosa vicenda. Non vorrei che, qualora continuassi ad indagare,
fosse causa di pericolo per te e la tua famiglia. Io porterò con me il
nostro segreto e mi auguro che il conoscerlo non ti nuoccia.>
Il suo funerale fu celebrato dall’arcivescovo e per l’occasione convennero
molti preti dai paesi vicini; la cattedrale fu addobbata con paramenti a
lutto bordati di frange dorate e i canti furono affidati ad un coro
famoso venuto apposta da Altamura. Se la pompa delle grandi funzioni
della Chiesa apre più facilmente le porte del cielo, certamente l’anima
di don Saverio andò direttamente in paradiso perché a memoria d’uomo non
ci fu mai ad Acerenza un rito funebre altrettanto ricco di paludamenti e
d’incenso.
A distanza di qualche mese morì anche don Filippo, il padre di Isabella.
Donna Lucia, dopo la morte del marito, causata da una malattia lunga e
perniciosa, viveva sola in casa con Marianna, ma era come assente,
spaesata in tutto ciò che la circondava. Cominciò a mangiare poco,
perché - diceva- aspettava che il marito tornasse. Fu questo il primo
segno del suo stranimento, che peggiorò fino a non riconoscersi e a non
riconoscere, cosa che la faceva apparire desolata nella sua
inconsistenza, inutile. Ad Isabella faceva tanta tristezza e tentò
invano di riannodarla alla vita, di suscitarle qualche interesse, un
ricordo che la ravvivasse, ma non riuscì nel suo intento neppure per un
lampo.
Ogni tanto con uno sguardo perso nel vuoto sorrideva dolcemente chissà a
chi; poi, subito tornava nella sua assenza. Non mostrava di avere alcun
desiderio e inutilmente Marianna le preparava le pietanze che un tempo
gustava con piacere.
- Che dispiacere è per me, Isabella. E’ come se con la morte di nostro
padre le fosse venuta meno la volontà di vivere, si è chiusa in un mondo
tutto suo, impenetrabile alla nostra comprensione. Talvolta mi sembra
una bambina e, allora, io la assecondo nelle sue smanie e nei suoi
capricci e mi dedico a lei con tutto l’amore che ha dato a me quando ero
piccola. Anni orsono, eravamo a Napoli, mi disse che era stata
un’ingiustizia voluta dalla famiglia il tenerti lontana da lei. Sentiva
la tua mancanza e spesso piangeva perché temeva che tu la considerassi
un’estranea. Se ripenso a questo mi fa una grande tenerezza.
- Ed io da parte mia non trovavo una ragione che giustificasse la vostra
lontananza; soffrivo anch’io al pensiero che fosse stata una scelta
voluta e questo mi portò a legarmi in maniera quasi innaturale a nonna
Anna, che per me era madre e sorella, confidente e amorevole amica. Devo
molto ai suoi consigli e al suo esempio; la mia formazione è avvenuta al
caldo della sua persona. Certo è stata una strana decisione che è pesata
a me e a voi; non ho mai capito fino in fondo la necessità del nostro
distacco.
Le due sorelle, che si amavano molto, si sentivano ancor più legate dalla
malattia della madre. Un giorno, alcuni mesi dopo questo colloquio,
donna Lucia scomparve e furono allertati i parenti e la servitù. La
trovarono nel giardino di casa Glinni seduta su di una panchina,
seminascosta dai rami di un lungo salice piangente. Alle prime ricerche
era sfuggita; poi, un suo lungo sospiro fece sì che Gaetana, una nuova
inserviente, la scoprisse. Aveva preso molto freddo e si ammalò
irrimediabilmente di bronco-polmonite.
Questo nuovo lutto, insieme con gli altri che lo avevano preceduto,
scolorì tutti i progetti e tutti gli incontri della famiglia Glinni.
Sembrava che un male oscuro volesse debellare la sua forza, che andava
indebolendosi a mano a mano che i suoi più autorevoli esponenti se ne
andavano per sempre.
-E’ colpa del malocchio- disse Assunta. Mi ha detto la nostra vicina che
all’ingresso del paese abita una vecchia che prepara le fatture.
Qualcuno si è rivolto a lei e la strega colpisce la famiglia Glinni che
fa invidia a tutti per la grandezza del nome e delle sostanze. Noi-
donna Isabella- dobbiamo rivolgerci a chi può preparare una
controfattura in modo da vincere la mala volontà della sorte provocata
dai malefici e dalle iatture.
-Assunta, Assunta, tu davvero credi a queste cose insensate ed assurde?
Piuttosto, bisogna considerare che la vita ha una fine inevitabile, non
è eterna. Io trovo molto conforto nel pensare che Dio sceglie in base
all’amore, cioè a dire che ad un certo punto Egli desidera avere accanto
a sé l’anima di un suo figlio che, chiamato, torna al Padre. La morte
non è una condanna, ma è tornare a casa dopo un periodo di lontananza,
dopo l’esilio.
Assunta, poco convinta della risposta di Isabella, si allontanò
borbottando a voce alta in modo che la padrona potesse sentire” Queste
sono cose nuove, quasi quasi dobbiamo augurarci di morire.Ci penserò io
ad allontanare il malocchio che pesa sulla nostra casa. Non è
sopportabile che da un anno andiamo in chiesa solo per funerali. Farò
tutti gli scongiuri possibili. Accompagnava le sue parole con gesti
scaramantici che fecero sorridere Isabella. Assunta cercava di venire in
loro aiuto con le risorse di semplice donna del popolo.
Anch’ella, doveva confessarlo a se stessa, di fronte alla serie di
calamità che li aveva colpiti, si era talvolta lasciata sopraffare dal
pensiero che qualche misteriosa volontà esercitasse il suo potere
malefico contro di loro; poi, il suo equilibrio e l’educazione religiosa
ricevuta e radicata nel suo animo come forza spirituale, al di là di
ogni forma di superstizione e di bigottismo, la riconducevano ad un sano
raziocinio.
*
Intanto la reazione continuava ed era delle più feroci; c’era un
accanimento inumano a ricercare, a stanare tutti coloro che avevano
partecipato alla destabilizzazione dei borboni e, una volta trovati, non
avevano alcuna pietà. Le truppe sanfediste compirono nei paesi, nelle
campagne della Lucania atti di una barbarie indescrivibile:
numerosissimi furono gli omicidi, gli stupri, gli eccidi. Se da un lato
le forze rivoluzionarie furono decimate e scoraggiate, dall’altro
l’immenso pianto che seguì alle violenze alimentò un odio incontenibile
che, chiuso negli animi e nelle coscienze, non conobbe perdono o
dimenticanza negli anni che seguirono, ma solo desiderio di vendetta.
-Cara Isabella, per fortuna Rachele Cassano è salva,- disse Antonio-. La
storia che sto per raccontarti ha davvero dell’inverosimile; eppure è
quanto è accaduto. La nostra amica era ricercatissima, perché, come ben
sai, era stata l’anima della rivolta di Montalbano, tanto che nella sua
casa, che ella aveva trasformato in “sala patriottica”, si radunavano
gli esponenti più ispirati dell’idea repubblicana.
-Anche a Montalbano, infatti, era stato innalzato l’Albero della Libertà-
intervenne Isabella- poi abbattuto dopo appena un mese ed il paese
ricondotto con la forza e la violenza al potere del re. La repressione è
stata particolarmente feroce ed io sono stata in pena per la incolumità
di Rachele; la notizia che mi hai dato mi è di grande conforto.
-Rachele era stata costretta, anche spinta dalla sua famiglia, a
rifugiarsi in casa del cognato Notar Carlo Troyli, marito della sorella
Irene, il quale era filoborbonico; pertanto, la sua casa era un
nascondiglio sicuro. Continuavano, però, a darle la caccia per colpire
il “cuore del movimento di Montalbano”. Particolarmente accanito era un
ufficiale sanfedista, mi pare si chiamasse Pensabene. Questi un giorno
si recò casualmente da Carlo Troyli, suo amico, per complimentarsi con
lui della fedeltà alla corona. Qui incontrò Rachele la cui personalità
così ardimentosa e passionale gli fece subito capire che era la giovane
ricercata. Il senso del dovere gli consigliò immediatamente di accusarla
e trascinarla in giudizio; ma era stato preso da un rapimento, da una
sorta di fascinazione. Era di tale bellezza quella fanciulla che egli,
incapace di un’azione di forza nei suoi confronti, uscì dalla casa
indebolito nella sua volontà, lasciando Rachele libera. Cominciarono per
lui giorni di pena e di tormento: da un lato, si accusava di aver
tradito la sua causa, dall’altro non riusciva a togliersi dalla mente
l’immagine di Rachele, la cui avvenenza lo aveva folgorato; non riusciva
a dimenticare il suo sorriso e la forza delle sue parole. Ti prego,
Isabella, ho bisogno di bere, ho la gola secca.
-Certo, ma io dubito che tu abbia davvero sete. Il tuo è uno stratagemma
per tenermi legata al tuo racconto più a lungo, perché ti sei accorto di
quanto la storia mi appassioni e della curiosità che ho di conoscerne la
conclusione.
Antonio, scoperto, rise di gusto e, dopo aver bevuto un sorso di acqua per
tener fede alla sua richiesta, riprese a parlare.
- L’ufficiale, perdutamente innamorato della giovane, capì che mai e poi
mai sarebbe stato capace di incriminarla, di farle del male. Prese,
quindi, la risoluzione di non denunziarla ma, essendo un uomo di onore e
un soldato fedele, decise di tornare a Napoli e, quasi volesse punire il
suo tradimento, decise di soffocare i suoi sentimenti e di non rivederla
mai più.
-Che grande prova d’amore e di onestà! Chissà se Rachele è al corrente di
questo grande sacrificio; ma, dimmi, tu come sei venuto a conoscenza dei
fatti?
-Ho avuto modo di parlare con un amico molto caro di Carlo Troyli il quale
mi ha riferito che il capitano prima di partire per Napoli confessò il
suo dramma al notaio e svelò il suo segreto a Rachele, raccomandandole
di rimanere nascosta poiché la sua vita era in pericolo.
Ella è divenuta il simbolo della lotta contro la tirannide. La sua
bellezza è divenuta leggenda, il suo coraggio la forza dei deboli, i
suoi occhi animosi la luce per chi viveva nelle tenebre della ignoranza
e della pavidità.
Ella è divenuta mito, canto e nessuno ha osato tradirla. Gli uomini
interrogati dai gendarmi rispondevano:
-Non esiste, è un’illusione. Nessuna donna del nostro paese potrebbe
essere lei: le nostre donne sono sottomesse e riservate, ubbidienti al
padre, al marito, ai fratelli, non avrebbero l’animo di trasgredire.
Essi, pur sapendo che non era la verità, mentivano per ammirazione e
perché ritenevano che fosse disonorevole accusare una donna.
Le donne, a loro volta, anche se prese da una forma di gelosia e di
invidia che le spingeva a fare qualche spregevole dispetto, vincevano il
loro impulso naturale e non rivelavano il suo nascondiglio, che ben
conoscevano perché ritenevano un grande onore che Rachele fosse una di
loro; una donna che aveva ardito pensare ed agire come un uomo.
-A noi ieri sera è parso di vedere una fanciulla vestita di bianco nel
giardino vicino alla vostra casa. Voi avete visto qualcosa di
simile?-così il nuovo capitano dell’esercito sanfedista a donna Concetta
.-
-Vi siete sbagliato, Vossia. Certamente era un raggio di luna che, come
spesso capita, muovendosi tra i tronchi degli alberi disegna figure.
-Ditemi, donna Filomena, conoscete voi Rachele Cassano?
- Eccellenza, non ci mettete il pensiero. E’ una favola inventata non so
da chi. La vedono ora qui ora là, ma è una finzione della fantasia.
E così tutti gli abitanti di Montalbano si strinsero intorno alla loro
eroina, riposero in lei il desiderio di riscatto, il bisogno di
identità, la volontà sentita nel profondo del cuore di essere
rispettati.
-Conoscete voi Rachele Cassano? Sapete chi è e dove si trova?
E tutto il paese rispondeva:
- Rachele Cassano è Montalbano stessa, che in lei ha scoperto la sua
dignità. Rachele Cassano è tutto quello che è nostro: l’aria sottile e
limpida, le ginestre in fiore che a maggio inoltrato rivestono le
colline, i campi dissodati e lavorati con fatica, le mani e i volti
rugosi dei contadini, le lacrime di chi ha sofferto nei secoli
l’ingiustizia.
- E’, secondo voi, colpevole Rachele Cassano?
-Vossia, no. Ma se colpa c’è, colpevole è tutta Montalbano.
Gli inquirenti, alla fine, rinunziarono alle indagini. D’altronde,”lo
stesso Pensabene così accanito nella ricerca aveva fallito”. Si andarono
convincendo che davvero la giovane era una invenzione dei patrioti, per
sviare piste più compromettenti e pericolose.
Intanto, in paese le nonne e le madri raccontavano ai loro bambini la
storia di una fanciulla bella e ardimentosa, che aveva sfidato un
esercito di mostri e aveva vinto senza spada o altre armi, solo con la
forza delle sue virtù.
*
Era un ottobre piovoso e ogni mattina si annunziava nebbiosa con un’uggia
nell’aria che pesava sugli umori e incuteva tristezza e malinconia. Poi,
piano piano la nebbia si diradava e sembrava che un bianco fumo sottile
si levasse dalle gole dei monti e delle colline verso il cielo, che
rimaneva però scuro e minaccioso. Antonio era impaziente e aspettava che
il tempo migliorasse, per cominciare la vendemmia. L’uva era pronta e i
pampini cominciavano già ad ingiallire: alla prima alba di sole i suoi
contadini, avvertiti in precedenza, si sarebbero recati nel suo grande
vigneto, che aveva migliorato di anno in anno e di cui andava fiero. Era
il più rigoglioso della zona e il vino che egli produceva era alla pari,
come aroma e robustezza, a quello famoso della terra del Vulture. Aveva
lavorato per anni perché ciò avvenisse, aveva speso ogni energia a
questo suo progetto, ora che il suo vino aveva raggiunto un’ottima
qualità, stabile anche nelle annate meno favorevoli, ne era orgoglioso,
come della sua vita accanto ad Isabella e ai suoi due figli. Il piccolo
Giuseppe spesso, d’estate, lo seguiva in campagna e gli chiedeva i nomi
delle piante da frutto, numerose nei suoi poderi. I contadini lo amavano
perché era un bambino buono ed assennato”cumm a sassire” e lo
coccolavano offrendogli i biscotti che le donne preparavano in casa. Gli
piacevano di più quelli ricoperti con il naspro e quelli con le
mandorle, che, abbrustolite nel forno, scricchiolavano sotto i denti e
davano un sapore inconfondibile.
-Don Antonio!- chiamò a voce alta Agostino-. Tutto è pronto: i cavalli
sono sellati e i carri sono già in cammino. Non piove più ed oggi avremo
una buona giornata.
Antonio si era svegliato prestissimo e, rincuorato dal bel tempo, si era
lavato e vestito in fretta e aspettava che uno dei fattori gli desse
voce. Uscirono che le ombre della notte non erano del tutto svanite e
macchiavano qua e là il cielo limpido e azzurro, che conquistava sempre
più spazi. Antonio era allegro e ciarliero. Disse ad Agostino, che se
avessero lavorato con lena, in quattro giorni avrebbero finito il
raccolto e terminata la pigiatura. Il mosto, alla fine della settimana,
sarebbe stato messo nei tini a fermentare.
Parlando ancora del più e del meno, imboccarono una stradina stretta e
tortuosa che portava al vigneto. Da lontano, Antonio vide che molti
erano già al lavoro. Si accorse che le prime ceste di uva erano
allineate sotto il pergolato che dava ombra alla piccola casetta, che
serviva come rifugio.
In essa c’erano poche cose: il camino, gli arnesi da campagna, qualche
sedia e alcuni larghi tronchi tagliati all’altezza di un metro, perché
servissero da sedili. Provò un’intima commozione nel costatare la
premura della sua gente, che era da anni al suo servizio. I più vecchi
erano stati al servizio del padre. Sovrintendeva al raccolto e si
aggirava tra i filari godendo nel vedere i grappoli gialli, trasparenti
ai raggi del sole, oppure rossi, in varietà che andavano dal porpora al
viola, dal rubino al granata scuro, e nel sentire l’odore dolciastro
delle uve mature. Si rivedeva fanciullo con lo stesso entusiasmo che
provava ora. Caparbiamente aveva coltivato negli anni la passione che
gli aveva tramandato il padre, ed era tale che cercava di trasmettere a
tutti la malia di quegli acini gonfi che si univano l’uno all’altro e
formavano specie di pigne profumate. Alcuni chicchi bianchi erano
screziati da macchioline vermiglie, come piccole bruciature dei lampi
del sole al tramonto, quando il vigneto diventava d’oro antico.
Quel primo giorno di vendemmia sembrò breve e non eccessivamente faticoso
dopo tanti giorni di riposo. Si parlò poco e si lavorò alacremente, con
una sola sosta a mezzogiorno per una colazione frugale; ognuno porse del
cibo ad Antonio, che accettò qualcosa da tutti per non dispiacere
nessuno. Egli offrì il vino, ma con moderazione, perché bisognava
continuare a lavorare.
Il mattino dopo, tutto si svolse con lo stesso rituale, al quale Isabella
non aveva mai partecipato. A lei toccava la cura della casa e dei figli,
al marito quella dei campi, degli impegni sociali e
dell’amministrazione. Antonio l’aveva invitata più volte ad assistere
alla vendemmia, non a prendere parte attiva; ma ella aveva sempre
rimandato ed anche quell’anno aveva deciso di starsene a casa. In realtà
le piogge insistenti dei giorni precedenti avevano lasciato nell’aria
come un brivido di freddo. Temeva che i bambini si sarebbero potuti
ammalare.
Il lavoro ferveva, mentre dai filari si levava il canto delle donne che
intonavano vecchi motivi paesani, in un dialetto non facilmente
comprensibile, ma pieno di un fascino antico. Era quasi mezzogiorno
quando l’aria fu spezzata da un grido straziante, al quale ne seguì un
altro altrettanto disperato. Orsola e Rosetta, due vecchie lavoranti,
urlavano, si dimenavano: avevano visto don Antonio nel solco, pallido
come un bianco lenzuolo, guardare in alto, solo un tremito scuoteva
piano le sue mani. Una scossa più forte, una smorfia di dolore, poi, più
nulla. Giaceva inerte mentre il viso si andava rasserenando e le mani
non più contratte toccavano lente la terra. La bocca semiaperta con in
gola l’ultima parola soffocata.
Lo misero sulla sella del suo baio e lo coprirono con una coperta di lana
per proteggerlo dalla vista dei curiosi che certamente sarebbero stati
numerosi lungo la strada e nel paese. I contadini e i braccianti
seguivano silenziosi il cavallo che avanzava a fatica tra i sassi e gli
sterpi dei sentieri di campagna.
Il sole già malato di quell’ottobre piovoso fu improvvisamente coperto da
nuvole scure che si radunarono di corsa e spensero il giorno. Venne giù
dal cielo tanta acqua che dilavò nel vigneto di Antonio Pipoli; i
grappoli ancora sui tralci caddero e la furia della pioggia li pigiò.
L’acqua divenne liquore rosso, già vino, che ingrossò i torrenti e
impregnò l’aria di un profumo intenso, che si sparse tuttintorno, superò
i valichi e meravigliò le genti. Giunse alle finestre di Isabella mentre
saliva dai campi un corteo doloroso di donne col capo coperto da
fazzoletti annodati sulla nuca e con gli scialli che coprivano le loro
spalle curve. Seguivano gli uomini a capo scoperto e con lo sguardo
attonito. Il sudore era rimasto ghiacciato nelle loro vene, mentre un
pianto incontrollabile scorreva dai loro occhi: era morto Antonio
Pipoli, un uomo buono che li aveva sempre trattati con umanità.
Qualcuno corse ad avvisare il parroco e appena la triste fila giunse
all’ingresso del paese la grossa campana della cattedrale cominciò a
suonare “a morto” con un rintocco cupo e lugubre. La sposa di Antonio
Pipoli, Isabella Glinni, ignara si adoperava in cucina con Assunta;
presto i bambini avrebbero dovuto mangiare. Quel rintocco così triste la
fece rabbrividire.
Raccontava una storia tragica, di dolore”don- don -don, è un brutto giorno
di pena, è morto un padre di famiglia e i figli sono piccoli; è morto
uno sposo fedele ancora giovane e la sposa rimarrà vedova nel fiore
degli anni; è morto un nobile pensatore e i patrioti saranno privati di
una luce ideale; è morto un feudatario che amava i servi della gleba e i
contadini lo piangeranno a lungo perché li trattava come persone- don-
don- don”.
-Che mai sarà successo- disse Isabella rivolgendosi ad Assunta- anche il
cielo si è oscurato ad un tratto ed ha preso a piovere a dirotto;
sembrava che il tempo volesse mantenersi al bello come ieri. Speriamo
che la pioggia non impedisca ad Antonio di portare a termine il lavoro
previsto per oggi..
Intanto dal fondo della via che portava al centro del paese saliva un
lamento misto di invocazioni e preghiere.
-Figlie quant’ ere bell e mo’ si duvuntà terra! Ere ghianche e ross e mo’
lu chiatre de la morte t’ha cagnà culore; ere bell e sanizze e mo’ lu
cuor spezzare t’ha fatt’ abbuttà li mane e li piere.
Vergine Maria, tu ca patist’ la crosce de la crosce, tu ca patist’ l’aunìa
de Crist taffiglie, pigliatell’ ‘mbraccia stu sante crestiane de
l’Acerenza e portatell’ ‘nciel.
Nunn’ ave n’ora e rerrìa e cantava ca la vendegna gìa bone e l’ascene
erene chiene e mo’ nun se move chiù!
Ahi, chi dulore! Ahi, chi seggrazia!
Isabella stava per affacciarsi alla finestra che dava sulla strada
attratta dai pianti e dalle grida quando sentì il corteo fermarsi vicino
al portone della sua casa. Un brutto presentimento le chiuse la gola e
le fece tremare le gambe. Una disgrazia? Ahimè! Una disgrazia?
Bussarono al portone. Sei uomini portavano sulle braccia Antonio Pipoli.
Il suo viso era come di cera, gli occhi chiusi erano senza quella fiamma
che sprigionavano quando guardava Isabella, senza quel sorriso che li
riempiva quando guardava i figli. Le mani di cera anch’esse erano state
incrociate sul petto, ma ora si stavano scomponendo così come gli abiti
e i capelli. Assunta era diventata una furia, piangeva, gridava.
-Giglie, figlie, anema ‘nnucente, anema bona, anema nosta, lu tresore de
‘ngasa, lu frutt, lu iore, lu cuor pecché n’ hai dascià?
Da quante te ne si giù la notta cala sova a sta famiglia.
Chi t’ha arraà? Chi t’ha accise?
Stummatì si asciù, e stascive bone, e mo’, senza la vita, trase inda la
casa tova, ma nu’ la puoi verè.
Intanto precedeva il triste gruppo di dolore per indicare la camera da
letto.
Isabella era rimasta impietrita accanto all’uscio, senza alcuna reazione,
immobile, lontana, come se l’accaduto non la toccasse.
In breve la casa si riempì di persone: la salutavano, la abbracciavano, le
passavano accanto, ma ella rimaneva estranea, spaesata, sorpresa.
-Oh! Isabella, che sventura- disse Marianna stringendola a sé- e i bambini
dove sono?
Ben presto, però, si accorse che il dolore forte e improvviso aveva spento
la sorella, le aveva fatto perdere il contatto con la realtà. Capì,
allora, che doveva prendere le redini della situazione e chiese subito
di Assunta. Questa aveva provveduto a vestire don Antonio e a preparare
il letto su cui era stato adagiato.
-Assunta, i piccoli dove sono? Bisogna avvertire tutti i parenti: che
venga subito il dottor Gioacchino e si prenda cura di Isabella.
Accompagna in cucina i contadini e i braccianti e fa in modo che siano
rifocillati e si riscaldino al fuoco del camino.
- Giuseppe e Mariannina sono insieme ad Arcangela e Teresa da donna
Carolina.
-Che restino da lei alla quale per prima bisogna dire quanto è successo.
Isabella quasi trascinata giunse accanto al letto dove il marito era stato
composto. Carezzandolo gli diceva:
-Sei già tornato dai campi? Com’è bianco il tuo viso e bianche sono le tue
mani. Non mi rispondi, perché? Ti prego parlami, fammi ascoltare la tua
voce che tanto mi rasserena, dammi la mano. Com’è fredda. Piove e
l’umido penetra nelle ossa.
Poi lentamente, con accortezza, poggiò il capo sul petto del marito e
chiuse gli occhi. Le pareva di essere in una totale oscurità, in fondo
ad un lago, dove l’acqua pesante e melmosa le avvolgeva le mani e i
piedi e le impediva ogni movimento. Il suo unico pensiero era quello di
risalire verso la luce; avrebbe voluto gridare, chiedere aiuto, ma
l’acqua le riempiva la gola ed ella rimaneva immobile, sospesa, in uno
stato di oppressione e paura.
-Bisogna temere per lei quando tornerà in sè- disse il dottor Gioacchino a
Pietro Paolo. Incalcolabile sarà la sua sofferenza e questo, per quanto
doloroso, è ciò che dobbiamo augurarci; cosa più grave se resterà nel
suo torpore con conseguenze dannose e preoccupanti. La sua, insomma, può
essere un’assenza momentanea o una condizione di permanente distacco
dalla realtà, entrambe dovute all’evento traumatico.
Trascorsero alcune ore, lente, dolorose in casa Pipoli dove regnava un
silenzio gravoso, interrotto da singhiozzi soffocati per non turbare
l’atmosfera di rispetto, di deferenza, per cui si camminava in punta di
piedi, si parlava a bassa voce come nelle chiese e nei cimiteri.
Un urlo straziante provenne dalla camera da letto e giunse violento in
salotto dove i numerosi parenti ed amici erano radunati. Accorsero e
videro Isabella, le braccia in alto per la disperazione, guardare il
marito e scoppiare in un pianto inarrestabile. Le parole fluivano dalle
sue labbra in un lamento dolente e senza fine.
-Perché mi hai lasciato? Che ti hanno fatto? E’ stato qualcuno a rapirti
la vita così preziosa per me e per i tuoi orfani? Perché? Perché, mio
Dio, nel fiore degli anni, così buono e paziente, così forte e generoso
me lo hai preso? Innamorato della sua anima l’hai voluto accanto a te,
ma io, sola e disperata, come posso sopravvivere? Antonio, Antonio, apri
gli occhi per carità tua e nostra.
-Questo sfogo la libera dal grumo di dolore che le appannava la
coscienza-sussurrò Marianna a Pietro Paolo-.
-Proprio così-disse il dottor Gioacchino. - Ora il pericolo è passato, non
resta che confortarla e aiutarla a superare l’angoscia del momento.
Un’omelia dolcissima fu pronunziata dal vescovo al funerale di Antonio
Pipoli, di cui lodò la nobiltà d’animo e la sua innata cortesia che lo
distingueva e lo faceva apprezzare da tutta la comunità. All’uscita
dalla cattedrale un raggio di sole rischiarò la bara coperta dalle rose
tea che Isabella aveva raccolto nell’angolo del giardino dove ella aveva
voluto che fossero coltivate soltanto le rose e ciuffi di veronica.
*
Pietro Paolo aveva studiato medicina a Napoli ed era diventato l’erede
della tradizione familiare per lo spirito di libertà e giustizia che
animava le sue azioni e i suoi pensieri. Isabella lo ammirava per la
intensità della passione che poneva in ogni attività che intraprendeva e
che traspariva dal suo sguardo vivo e penetrante e perché era uno
studioso della storia e del diritto, sia civile che canonico.
Ultimamente aveva preso l’abitudine di venire a trovarla spesso e
Isabella aveva scoperto con piacere che lo faceva per incontrare la
sorella Marianna, verso la quale da sempre aveva nutrito una sorta di
predilezione. La sorella, dal canto suo, gradiva molto le attenzioni di
Pietro Paolo che l’aveva colpita per la sua vivacità intellettuale e
intraprendenza. Un giorno le aveva confidato:
-Sai, Isabella, trovo così poco affascinanti i giovani che conosco! Solo
nostro cugino Pietro Paolo riesce a suscitare la mia ammirazione. A me
piace molto. E a te? Posso nutrire progetti sentimentali nei suoi
confronti o è un ostacolo che egli sia mio cugino?
Isabella ebbe un attimo di perplessità prima di rispondere: non avrebbe
voluto mai che la sorella provasse la sua stessa delusione. Pietro Paolo
le ricordava Mario per l’ardore dei propositi e per la forza degli
ideali, anche se le sue lotte le sembravano più concrete. Rispose dopo
un po’ e lentamente:
-Nella nostra famiglia spesso si sono avuti matrimoni tra cugini, comunque
tra parenti, specie nei primi tempi dell’arrivo dei nostri avi ad
Acerenza, quando erano scarse le conoscenze con la gente del luogo. Sarà
necessaria la dispensa da parte delle autorità ecclesiastiche, ma, che
io sappia, non è un problema. Piuttosto, mi pare che Pietro Paolo
abbracci molte cause con vero trasporto e non vorrei che questo
indebolisse l’amore verso la sua sposa.
Marianna non rispose e non tornò sull’argomento. Isabella, allora, si
pentì di aver frenato l’entusiasmo della sorella, poi, si consolò
pensando che lo aveva fatto a fin di bene. Gli avvenimenti che seguirono
le tolsero ogni dubbio: i due cugini si frequentavano spesso e sembrava
che trovassero di volta in volta un’intesa maggiore. Il loro affetto,
insomma, si andava consolidando. In una delle tante visite Pietro Paolo
le confidò di amare Marianna tanto da non concepire la sua vita senza di
lei. Adorava la sua spigliatezza, il modo in cui sorrideva, parlava, i
suoi capelli, l’ovale del suo volto. Quando sarebbero stati sicuri nel
profondo del cuore di ciò che provavano l’uno per l’altra e viceversa,
avrebbero comunicato i loro propositi prima al fratello don Domenico,
che era il nuovo parroco della cattedrale e avrebbe dovuto guidarli
nell’iter ecclesiastico per ottenere la dispensa, quindi, a tutti gli
altri.
Isabella fu presa da grande commozione quando rivide la sorella.
-Marianna, ti auguro tutto il bene possibile e che il Signore riempia la
tua casa di grazie e di consolazione. Egli sia con voi e dentro di voi.
Nel dire così, abbracciò la sorella. Anche se avevano trascorso la loro
adolescenza lontane, una ad Acerenza, l’altra a Napoli, si sentivano
molto unite. Quando erano insieme era come se si compensassero, l’una
pensierosa e idealista, l’altra briosa e pratica, l’una seria
nell’impegno e sempre preoccupata del domani, l’altra fiduciosa oltre
ogni dire e disposta a cedere e conciliare per la buona pace di tutti.
-Isabella, non credevo mi potessi legare tanto a Pietro Paolo. Quando mi
sveglio, il mio primo pensiero va a lui e svolgo tutte le mie
occupazioni con l’unico scopo di compiacerlo. Quando non lo vedo a lungo
perché è fuori per i suoi vari impegni, è come se si fermasse il battito
del mio cuore.
Confessò alla sorella che in quell’occasione sentiva molto la mancanza
della mamma. Le ricordò che ella partecipava alle loro cose se
necessitata o sollecitata; per un eccesso di riservatezza se ne stava
per suo conto e non dava alcun segno di sofferenza, di disagio, di
nostalgia, anche di curiosità. Non si lasciava andare a manifestare i
suoi sentimenti e il suo carattere sembrava freddo e introverso; nella
realtà, era stata l’educazione impartitale a renderla così poco
espansiva. Nei momenti di bisogno, però, non c’era persona che sapesse
meglio prestare il suo aiuto, senza perdersi in chiacchiere, come sono
solite fare le donne. Avrebbe voluto averla vicino!
Marianna e Pietro Paolo decisero di tenere il ricevimento nuziale in
campagna sperando così di attenuare il ricordo di tutte le persone care
che non c’erano più e la cui presenza era ancora tanto viva nei saloni
della grande casa. Era un giugno caldo e la cattedrale fu addobbata con
fiori di campo e spighe di grano, quasi un’offerta al Signore perché
concedesse agli sposi felicità e abbondanza. Marianna aveva scelto un
abito molto semplice segnato in vita da un nastro di raso che si
chiudeva sul davanti con un mazzolino di bianchi mughetti che
richiamavano l’acconciatura che reggeva il velo. Tutti si adoperarono
perché ogni preparativo si svolgesse alla perfezione e don Domenico fu
bravo a curare nei minimi particolari la funzione in chiesa. Molto
sentita fu la partecipazione alle nozze di Pietro Paolo perché egli,
coltivando numerosi interessi, oltre quelli specifici della medicina,
era diventato un giovane uomo stimato per le sue conoscenze eclettiche
tanto che sia in famiglia che in paese si rivolgevano a lui per la
risoluzione di molti problemi.
Isabella, dal canto suo, si sforzò di chiudere in cuore la sua tristezza e
fu vicina a Marianna con l’amore di una madre; anzi, per lei la
parentesi gioiosa del matrimonio della sorella servì per non cadere in
una depressione che forse non l’avrebbe più lasciata. S’era, infatti,
convinta della ineluttabilità delle vicende umane, che niente e nessuno
poteva fermare o cambiare poiché esse seguivano un percorso segnato,
fatale. Da qui le derivava un senso di inutilità e di inerzia. Il
fermento di quei giorni e la vitalità di Marianna la distolsero per un
po’ dai suoi pensieri che tornarono insistenti, impietosi appena la
sorella partì per il viaggio di nozze.
Parte X -
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