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Artisti Lucani

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R. Zaza Padula

le OPERE

Potenza

.


per amare ORAZIO

 

Rachele Padula Zaza
 

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INDICE

 

 

Nunc est bibendum

Grandi eventi caratterizzarono l'opera di Augusto dopo Filippi. Represse la rivolta di Lucio Antonio, fratello del triumviro; fece una spedizione vittoriosa insieme ad Antonio contro Sesto Pompeo che gli la sciò il dominio del Mediterraneo, della Sicilia e della Sardegna, quindi, si rivolse contro Antonio stesso che era stato dichiarato nemico della Patria per i suoi intrighi con Cleopatra, regina d'Egitto. Augusto, infine, ottenne facile vittoria sulla flotta romano- egiziana di Antonio e Cleopatra nella battaglia di Azio. Era il 31 a. C.

Nunc est bibendum, nunc pede libero pulsanda tellus...

L'evento è tale che bisogna bere
in gran copia e danzare. È tempo, o amici!
Si ornino i pulvinari degli Dei
con sontuosi banchetti degni dei Salii.

Prima d'ora c'era negato togliere
il Cecubo dalle cantine antiche
mentre una regina folli rovine tramava
al Campidoglio e morte all'Impero

con la sua schiera di turpi seguaci
dal vizio contaminati: inebriata dal favore
della fortuna, proterva, osava sperare
nei disegni più arditi. Ne spense il furore

l'unica nave che sfuggì all'incendio;
Cesare piegò alla realtà funesta
la sua mente sconvolta dal vino mareotico
allorquando con le navi possenti

inseguì lei che fuggiva dall'Italia
(così l'avvoltoio le tenere colombe
o il cacciatore la lepre nei campi
innevati della Tessaglia) per legare in catene

il mostro fatale. Ella, invece,
nobile morte cercando, virilmente
non temette il pugnale, né riparò
a lidi lontani su rapide navi;

ma osò guardare con volto sereno
la reggia caduta e, intrepida,
stringere i serpenti per assorbirne
nel corpo il tremendo veleno,

più spietata della sua decisione di morte;
e ricusò, quasi fosse umile donna,
di abbellire sulle liburne del crudele
il superbo trionfo, lei ch'era regina.

Odi I-XXXVII

 

L'ultimo voto di Cleopatra fu assolto: un solo sepolcro raccolse le sue spoglie e quelle di Antonio. Rimasto arbitro della situazione, dopo avere nel 30 a.C. celebrato un triplice trionfo, Augusto chiuse le porte del tempio di Giano che, invece, rimanevano aperte in tempo di guerra. Cominciarono mani i lunghi anni della pax augustea. per i Romani i lunghi anni della pax augustea.
Nel 19 a.C. un grave lutto colpi Roma e i Romani: morì tra il cordoglio generale Virgilio. I grandi uomini del tempo, gli artisti, i poeti, quanti credevano che la grandezza della patria e dell'Impero fosse stata voluta dagli Dei piansero il cantore di Enea e della sua stirpe gloriosa. Fra tutti Orazio che lo amava incondizionatamente come amico, fratello, maestro di stile e dolcissimo poeta delle Bucoliche, tanto da definirlo metà della sua vita.

Così Venere, la dea signora di Cipro
così Castore e Polluce, i fratelli di Elena,
in cielo splendidi astri, ed Eolo,
legati i venti, tranne il benevolo Japige

guidino te, o nave, che ci devi
Virgilio a te affidato: incolume
consegnalo alla terra d'Attica
conserva, ti prego, la metà della mia vita!...

Odi I-III. 1/8

 

MECENATE
Quanto sono lontani i tempi in cui si viveva nello sgomento e nel disorientamento totali! Quando non brillava più luce di ideale politico e si temette addirittura che nemici esterni potessero abbattere la potenza di Roma.

ORAZIO
Per fortuna, Mecenate, dopo la battaglia di Azio, grazie all'opera di Augusto, nell'Urbe e nell'Italia regna la pace. In effetti, Augusto deve molto a te e ai tuoi consigli, ai tuoi interventi...

MECENATE
Non solo io, ma spiriti insigni come te, Virgilio, Asinio Pollione, e, perfino, i due poeti elegiaci d'amore Tibullo e Properzio, avete contribuito alla realizzazione del programma augusteo, illuminando le coscienze con la vostra arte e con la vostra onestà morale e intellettuale.

ORAZIO
Più volte ti ho confidato, in passato, di aver molto sofferto il distacco dagli ideali repubblicani e di essere diventato cauto e diffidente nell'impegnar- mi in progetti politici e sociali, convinto di tradire il credo di libertà che tanto aveva ispirato i miei sogni giovanili. Affinità umane e spirituali mi legarono indissolubilmente a Virgilio dopo Filippi e con lui, in seguito, superando faticosamente e con l'aiuto della filosofia i nostri timori e le nostre remore abbiamo valutato l'opera meritevole di Augusto volta a ripristinare la grandezza di Roma fino alla condivisione. È pur vero che tutti eravamo sensibili ai propositi di pace perché ognuno mo di noi aveva sopportato amare delusioni e alterne vicende della fortuna, ma tu sei stato l'amalgama, lo spirito che ha cementato le nostre volontà.

MECENATE
E a voi va il merito di avere compreso l'appello rivolto dal Principe perché diventaste gli interpreti e i divulgatori del suo intento di restaurare gli antichi valori morali e civili.

Augusto, infatti, nel rafforzare il suo potere non tralasciò mai di fornire una salda ideologia al Principato affinché si presentasse quale erede dell'antica Repubblica. Così nacque il principato augusteo tra vecchio e nuovo: il principato bifronte: la somma dei poteri in un solo uomo faceva pensare ad un monarca, ma il rispetto per l'origine di quei poteri, che venivano dal popolo, faceva ricordare la Repubblica.

Poiché da solo sostieni tanti e così gravi compiti, che la civiltà italica e romana difendi con le armi, ne moralizzi i costumi, la correggi con le leggi: peccherei contro il pubblico bene se, o Cesare, fermassi il tuo tempo con un lungo discorso.
...Ed io, se anche potessi quanto lo desidero, preferirei pur sempre scrivere i miei dimessi "sermones", piuttosto che un poema che narrasse le tue imprese, descrivesse i luoghi delle tue gesta, i fiumi, le rocche alte sui monti, le tante battaglie combattute sotto i tuoi auspici per tutta la terra, le porte di Giano chiuse per opera tua, custode della pace, e Roma che sotto il tuo impero è temuta dal popolo dei Parti. La tua maestà non può ricevere un carme di poco conto, né la mia coscienza mi permette un compito che le mie forze rifiutano...

Epistole II-I. 1/4, 250/259

 

Queste parole sono tratte dall'epistola prima del libro secondo, dedicata da Orazio ad Augusto, dopo che questi si era lamentato che il poeta avesse a tutti dedicato un'epistola in versi fuorché a lui.

ORAZIO
Caro Mecenate, mi è sempre più chiaro, senza al- cuna ombra di dubbio, che se ho aderito al programma augusteo è stato perché solo attraverso il principato era possibile salvare Roma e l'Impero dopo decenni di guerre civili che erano causa di decadenza e disordini. Per un poeta, un principe che regge sulle sue spalle il peso del potere, che garantisce l'ordine all'interno dello Stato e l'eliminazione dei contrasti sociali, offre possibilità più concrete perché egli possa raggiungere la vera libertà dello spirito. Per questo ho aderito, non certo per cortigianeria. Tu ben sai, infatti, che ho rinunciato all'onore offertomi da Augusto durante la spedizione cantabrica di essere suo segretario per la corrispondenza privata.

Del suo rifiuto ad assumere uffici pubblici e di grande responsabilità è testimonianza la bellissima ode sesta del libro secondo dolcemente soffusa di malinconia, nella quale il poeta esprime il desiderio nostalgico di pace e di oblio e l'aspirazione a morire confortato dal pianto dell'amico.

O Settimio, disposto a venire con me fino
a Cadice o tra i Baschi che si ribellano
ancora al nostro giogo o alle barbare
Sirti dove sempre l'onda maura ribolle,

sia rifugio alla mia vecchiaia Tivoli,
costruita dall'argivo colono,
e sia approdo a me stanco di milizia
e di viaggiare per mare e per terra.

Qualora le inique Parche lo vietino
raggiungerò il fiume Galeso, gradito
alle pecore ricoperte di pelli e ai campi
dominati dallo spartano Falanto.

Quell'angolo di terra tra tutti
sorride a me, dove il miele non cede
a quello di Imetto e dove le olive
gareggiano con quelle del verde Venafro,

dove Giove offre lunghe primavere
e miti inverni e l'Aulone, caro
a Bacco datore di fertilità, non nutre
alcuna invidia per le uve falerne.

Quel luogo e le liete colline chiedono
che tu sia con me; qui cospargerai
con le lagrime dovute la cenere
ancora calda del tuo amico poeta!

Odi II-VI

 

Ma fu proprio Augusto a volere che fosse Orazio a scrivere nel 17 a. C. in occasione dei "Ludi saeculares" il carme ufficiale. In tutta la sua opera è mani festa l'intenzione di Orazio di dare spessore morale ai suoi scritti in qualità di interprete poetico della sua età e alla luce dell'alto compito di formazione delle nuove generazioni che egli assegnava al poeta vate. Il carme avrebbe dovuto essere cantato, l'ultimo giorno dei festeggiamenti da 27 giovanetti e 27 fanciulle.

O Apollo e Diana, signora delle selve,
splendido ornamento del cielo, degni
di perenne culto, esaudite le preghiere
nostre in questi sacri giorni

in cui versi sibillini prescrissero
che scelte vergini e fanciulli un carme
cantassero in onore degli Dei
cui piacque tutelare i sette colli!

O sole divino, che sul risplendente carro
il giorno apri e nascondi e sempre sorgi
uguale e diverso possa tu non vedere
mai nulla più grande della città di Roma!....

Carme secolare. 1/12

 

Mecenate è molto malato e Orazio va a fargli visita.

LICINIA
Entra Orazio, Mecenate ti attende.

ORAZIO
Come sta?

LICINIA
È stremato... ma avrà grande piacere nel vederti.

MECENATE
Avvicinati, mio buon Orazio, siediti accanto a me. Il male non regredisce e la solita febbre persistente mi toglie il sonno.

ORAZIO
Presto guarirai.

MECENATE
Non ti angustiare. Mi è di conforto la tua fedele amicizia, ma non puoi sostituirti al fato.

ORAZIO
Non posso accettare l'idea che tu possa venirmi a mancare...non sopporterei.

MECENATE
Taci, amico mio, sai quanto io ami la vita, anche tra le infermità. È l'insonnia che mi tormenta.

LICINIA
Ora, però, sta un po' meglio, da quando ha sco- perto che una musica tenue che arriva da lontano gli concilia il sonno: lascia aperte le porte all'ingresso di Morfeo.

MECENATE
Basta parlare di me. Piuttosto, dimmi di te. Per- ché ti trattieni sempre più lontano da Roma? Perché prolunghi tanto i tuoi ozi in villa? Una delle ultime volte in cui ci siamo incontrati "Sol cinque giorni - mi promettesti - rimango in campagna" e passò agosto e l'inverno e tornasti da me con gli Zefiri e le prime rondini.

ORAZIO
Roma con i suoi fasti, con la sua fervida attività politica e sociale, con i piaceri della tavola e muliebri è per i giovani. Per quanto mi riguarda, la vecchiaia incombe, mi sento logorato nei nervi e nello spirito. Com'è triste, Mecenate! Quanta malinconia si prova nell'accorgersi che le forze ci abbandonano. Ti ricordi cosa ti scrissi in una mia epistola?

...se non vuoi che io mi allontani da Roma, ridammi il petto robusto, i neri capelli con la fronte poco spaziosa, le chiacchiere soavi, il riso spensierato e il rattristarmi, fra i calici, per la fuga della sfrontata Cinara...

Epistole I-VII. 25/28

 

Di nuovo, Venere, mi spingi a fatiche d'amore
da gran tempo sospese. Ti prego, ti prego
risparmiami! Non sono più qual ero
sotto il dominio di Cinara gentile.

Crudele madre di dolci amori
desisti dal piegare a molli tentazioni
un uomo indurito da quasi dieci lustri:
va, piuttosto, dove docili i giovani t'invocano.

È tempo che tu vada a banchettare
sul cocchio tirato da cigni purpurei
in casa di Paolo Massimo, se proprio
vuoi infiammare un cuore già disposto.

Egli è nobile, infatti, leggiadro
facondo nel difendere i rei ansiosi,
adorno di mille pregi, per ampi spazi
renderà famose le insegne della tua milizia;

e quando supererà le doti del rivale
ridendosi di lui, presso i laghi albani
ti dedicherà una statua di marmo
nel tempio col tetto in cedro.

Là godrai di canti misti
al suono della lira, della zampogna
del berecinzio flauto e aspirerai
il profumo di mille incensi,

là due volte al giorno giovinetti
e tenere vergini, onorando il tuo nume,
col piede candido danzeranno
secondo il costume dei Salii.

Ormai più non m'allettano le donne,
i fanciulli, né speranze di corrisposto amore
mi piace più gareggiare col vino nei conviti
né cingermi le tempie di novelli fiori.

Ma perché, Ligurino, senza ch'io voglia
una lagrima scorre giù per le gote,
perché la lingua, pur loquace, cade
d'un tratto in silenzio indecoroso?

Dal canto mio, ti tengo stretto
nei miei sogni notturni, seguo te,
crudele, mentre corri tra il verde
del campo Marzio, o tra le onde fluenti!

Odi IV-I

 

LICINIA
Ma qui, a Roma, si ha bisogno di te. Della tua poesia. Tu hai sempre creduto nell'ufficio del nel valore di un poeta. vate,

ORAZIO
Sì, è vero.

...Raramente vedrai l'animo di un poeta macchiarsi di avarizia, non ama che i versi, a questo solo si dedica. Ride se perde gli averi, se i servi scappano, se brucia la casa; non è capace di ingannare il socio o un bambino; e si ciba semplicemente di legumi e di pane ordinario.
Come soldato val poco, eppure giova alla città, se tu ammetti che piccole cose possano giovare a grandi cose. Il poeta educa la bocca tenera e balbettante del fanciullo, ben presto ne distoglie l'orecchio da discorsi osceni, poi, forma il suo animo con sani precetti, corregge l'asprezza, l'ira, l'invidia, celebra le gesta più nobili, ammaestra le nuove generazioni con gli esempi famosi, consola il povero e l'afflitto...

Epistole II-I. 119/131

 

In queste parole dell'epistola prima del libro secondo è compendiato l'atteggiamento spirituale di Orazio di fronte alla vita e alla poesia.

ORAZIO
Cara Licinia, credo fermamente che il poeta debba essenzialmente essere un educatore, il pedagogo del popolo, né mai mi sono sottratto al compito che mi sono assegnato.

MECENATE
Tu hai sempre evitato atteggiamenti che potessero offuscare la dignità del tuo ufficio di vate. Ne sono testimone.

LICINIA
Tutti apprezzano il valore morale della tua poesia e del tuo mirabile equilibrio. I tuoi versi eleganti e concettosi suscitano una vasta risonanza umana; perciò, ci manchi.

ORAZIO
Mi attrae con più profondo fascino di una volta la campagna, non per questo mi asterrò dallo scrivere.

...Sia che una tranquilla vecchiaia mi aspetti, sia che la morte già mi voli intorno con le sue nere ali, ricco o povero, a Roma o in esilio, se il destino così avrà voluto, qualunque sia la sorte della mia vita, io scriverò...

Satire II-I. 57/60

 

Miei cari amici, come già dissi, questo mio fuggire da Roma è segno di vecchiaia. Ahimè! gli anni fluiscono inesorabili.

Ahimè! Postumo, Postumo mio, gli anni
corrono veloci né le preghiere assidue
allontaneranno la vecchiaia che incombe
né le rughe e la morte, che non potrai evitare

se pure tu, amico mio, tentassi di placare
con trecento tori offerti ogni giorno
l'inesorabile Plutone, che l'incauto Tizio
e lo smisurato Gerione rinchiude

nella trista onda infernale, sulla quale
tutti dovremo navigare, noi tutti
che mangiamo della terra i frutti
con uguale destino, re o miseri coloni.

Invano eviterai le stragi di Marte
e l'onde furiose dell'Adriatico ruggente,
invano in autunno fuggirai
lo scirocco così dannoso al corpo!

Pur vedrai l'orrido Cocito, che lento
s'avvolge sinuoso, le malfamate figlie
di Danao e l'eolide Sisifo
all'eterna fatica condannato;

dovrai lasciare la terra e la casa
e la sposa amata, né alcuna delle piante
che coltivi amoroso seguirà te,
o padrone fugace, solo l'odiato cipresso.

Un erede più degno di te tracannerà
il Cecubo che or con cento chiavi custodisci
anzi, colorerà il pavimento col superbo vino
che migliore non c'è sulle mense dei Pontefici!

Odi II-XIV

 

L'ode quattordicesima del libro secondo, dedicata a Postumo, è soffusa di penetrante malinconia: di fronte alla morte, cui nessuno può sfuggire, l'atteggiamento più saggio consiste in una composta rassegnazione. Una volta entrati nel regno di Plutone ci avvolgerà notte profonda; neppure agli Dei è concesso trarre dal regno dei morti gli spiriti che furono ad essi particolarmente diletti.

LICINIA
Sposo mio caro, ragione di vita, confidente saggio e amorevole, luce dei miei occhi e gioia della mia persona, non mi lasciare; vinci il male e il fato crudele, resta ancora al mio fianco a ravvivare la nostra bella storia d'amore. Mio padre, nobile e altero ma aperto agli affetti, mi chiamò al suo cospetto, ancora ingenua giovanetta, e mi disse che un insigne cavaliere mi chiedeva in sposa. Mi colpì il tuo sguardo acuto e dolcissimo, le tue fattezze eleganti, il tuo incedere sicuro e armonioso e senza esitare mi affidai a te. Lunghi anni di passione hanno caratterizzato la nostra vita coniugale, perciò, non posso perderti, non posso svegliarmi al mattino senza averti vicino: mi mancherebbe il respiro, l'aria benefica, il sole.

ORAZIO
Non così, non così, tenerissima amica. Rendi più doloroso e inumano il suo distacco. Parlagli, sì, dei giorni felici, ma senza angoscia, confortalo nel poco tempo che gli resta parlandogli degli eterei Campi Elisi dove è atteso per i suoi meriti straordinari. Mai uomo così grande è entrato in competizione con gli Dei.
Lascia alle prefiche il pianto, che sconvolge gli animi, lascia che sciolgano i capelli in segno di lutto e così discinte riempiano la casa di lamenti. Tu, invece, canta le lodi del tuo sposo; vestilo di porpora e d'oro e fa' che profumi rari impregnino l'aria circostante; adora il suo corpo prima che il sepolcro accolga le sue spoglie mortali.

LICINIA
Atropo, signora della morte, astieniti dal tagliare il filo della vita di Mecenate; la sua vita è assai preziosa. Sono disposta allo scambio, prendi la mia così umile e insignificante e lascia la sua all'Urbe. Ti rendo onore, signora della notte, a te i miei voti e le mie preghiere.

ORAZIO
Quand'anche Atropo, la vecchia scura di tenebre, fosse presa da pietà non potrebbe cambiare il volere del il padrone delle vicende degli uomini e degli Dei. Forse impietositasi verserà qualche lagrima, ma, giunta l'ora, spezzerà il filo. Animo, Licinia, ti conforti l'idea che il tuo sposo lascia di sé un ricordo indelebile, legato ad esempi di grande magnanimità, ad opere che rendono orgogliosi tutti: i suoi familiari, i suoi amici e che hanno contribuito alla grandezza e alla magnificenza di Roma, che abbraccia terre sconfinate e unisce in un unico sogno di pace e di giustizia innumerevoli popoli.

Orazio lascia la casa di Mecenate afflitto e con la  morte nel cuore. Teme che al suo amico restino pochi giorni di vita o addirittura poche ore. E in preda allo sconforto e ogni cosa gli sembra inutile e illusoria.

Perché coi tuoi lamenti mi ferisci il cuore?
Né agli Dei né a me è gradito che tu
muoia prima di me, o Mecenate,
alto onore e sostegno della mia vita.

Se volontà più forte mi toglierà
la metà dell'anima mia; con l'altra
a che dimorerò? Sopravviverà
dimezzata e a me non cara.

No, quel giorno moriremo insieme. Ho giurato,
né sarò spergiuro. Anche se mi precederai
andremo, andremo, legati insieme,
compagni ad affrontar l'ultimo viaggio! ...

Odi II- XVII. 1/12

 

Mecenate di lì a poco muore tra il dolore dei familiari, degli amici, del popolo tutto. Roma è a lutto e sembra che su di essa non splenda più il sole, priva com'è rimasta di un suo nume tutelare. È l'anno 8 a.C. Orazio sconsolato si ritira a Mandela in preda ad una preoccu-pante frustrazione che mette a rischio la sua salute. Il pensiero della morte ineluttabile lo avvolge, lo sconcerta con lo stato d'animo di chi si sente prossimo alla fine.

Pace chiede agli Dei chi è sorpreso
al largo tra l'onde egee appena che
nere nubi hanno nascosto la luna
né stelle sicure splendono ai naviganti,

 pace chiedono i Traci furibondi in guerra
e pace, o Grosfo, i Medi di faretra adorni,
ma pace non s'ottiene con le gemme
né con la porpora e con l'oro,

non le ricchezze, infatti, né alte cariche
allontanano i miseri tumulti dell'animo
o gli affanni che aleggiano
intorno ai soffitti ricchi di fregi.

Vive bene, con poco, colui sulla cui mensa
modesta riluce la saliera paterna
e a cui la paura o basse cupidigie
non turbano il placido sonno.

Perché, baldanzosi, tante speranze nutriamo
in così breve corso? Perché cerchiamo
terre lontane calde di sole nuovo?
Chi fugge dalla patria fugge da se stesso.

L'affanno doloroso sale sulle navi rostrate,
né risparmia le schiere dei cavalieri,
più veloce dei cervi e dell'Euro
quando furioso sospinge le nubi.

L'animo lieto del presente rifugga
dal curarsi del dopo e con distacco sorridente
temperi l'amaro della vita; pensi che mai
c'è per gli uomini felicità completa.

Morte immatura rapì Achille splendido,
lunga vecchiaia logorò Titone,
forse, a me il tempo concederà
ciò che a te avrà negato.

Intorno a te cento giovenche in Sicilia
muggono, per te leva il nitrito
la cavalla già idonea alle quadrighe;
indossi lane tinte due volte

con porpora africana. A me l'infallibile
Parca un piccolo podere concesse
e un modesto soffio della greca Musa
e di sprezzare il maligno volgo.

Odi II-XVI

 

Preghiera di un insepolto. Sulla tomba di Archita

E terre e mari misurasti, o Archita,
e gl'innumeri granelli delle arene,
ora, presso il lido Matino, una modesta offerta
di terra ti ricopre, e a nulla giova

l'aver raggiunto le regioni dell'aria col pensiero,
e il polo ricurvo, anche tu destinato a morire.
Pure Tantalo, commensale celeste, perì
e Titone, rapito in cielo dalla bella Aurora,

e Minosse ammesso agli arcani disegni di Giove.
Scese due volte all'Orco il figlio di Panto,
a tuo giudizio maestro insigne di verità;
quantunque caduto nella guerra di Troia,

alla nera morte non lasciò che la carne sola,
così attestò staccando dal tempio lo scudo.
Un'eterna notte tutti ci attende, tutti una volta
dovremo calpestare il sentier di morte.

Ne rapiscono tanti le Furie per il piacer di Marte,
l'avido mare è pesante tomba ai naviganti;
funereo rito accompagna schiere di giovani e vecchi,
nessun capo sfugge a Proserpina crudele.

Anche me il Noto, compagno di Orione
quando tramonta, sommerse nelle onde Illirie.
O navigante, ascoltami, spargi benigno
un pugno di polvere sul mio capo insepolto

e sulle ossa! In compenso, se Euro si scaglierà
contro gl'italici flutti, ne sian colpite soltanto
le selve di Venosa, e tu sia salvo e grata mercede
ti venga da chi è potente, dal giusto Giove

e da Nettuno, custode di Taranto sacra.
Non temi di compiere un sacrilegio
che cadrà sugli innocenti tuoi figli? Eguale sorte
potrebbe toccarti, alla tua empietà giusto castigo.

Se non m'ascolti, gli dei accoglieranno le mie maledizioni
né offerta alcuna laverà mai la tua colpa.
Hai gran fretta, lo so, ma non dovrai fermarti a lungo:
gettami sopra tre pugni di terra, e poi riprendi il mare!

Odi I-XXVIII

 

Orazio è a letto: lo assistono l'amico Settimio e la cara Lalage.

ORAZIO
Sono prossimo morire, o amici. Sento le forze mancarmi né l'animo è più disposto a lottare. Mecenate è morto alcune settimane fa; la sua fatale assenza mi ha gettato in una inconsolabile tristezza, sento di non potergli sopravvivere!

SETTIMIO
Egli ti ha amato molto; le sue ultime parole sono state per te. Morendo ha detto ad Augusto "Horati Flacci ut mei esto memor".

ORAZIO
Ed anche io tengo fede alla promessa che gli feci un giorno in cui era malato, gli dissi che saremmo morti insieme, e tutto s'avvera; a breve distanza di tempo lo seguirò nell'ultima dimora. Il male agli occhi, tra gli altri, si è aggravato, nessun collirio più mi giova...eppure ne ho provati tanti: l'ultimo a base di lacrime di papavero e rame bruciato... Vedo ormai le immagini perdersi.

LALAGE
Mi hanno detto che quando l'infiammazione è più violenta basta una goccia di latte di donna...

ORAZIO
Lalage, amica fedele, non angustiarti più, non più... Niente vale ormai. Quello che mi conforta è che voi amici vivrete con me nei miei carmi. Tutto distrugge il tempo e avvolge nell'oblio, ma il canto del poeta è immortale e rende immortali. Solo la poesia è eternatrice. E in eterno oltre a voi sarà ricordato quanto ho cantato: questo rifugio agreste che tanta pace ha donato all'anima mia, i monti, le selve, le acque della mia terra natia, alla quale, nel chiudere il cerchio della mia vita, ritorno col ricordo, questo pino che sovrasta la mia villa, il verde mirto, i fiori che sbocciano sulle dischiuse zolle...il Soratte bianco di neve, i venti piovosi, il timo e i corbezzoli, i torrenti ingrossati allo sciogliersi delle nevi a primavera, il risonante Ofanto, le viti ombrose...e tu tra le altre, Lalage... Ahimè! Più non posso...

LALAGE
Dei misericordiosi, strappate Orazio alla morte. E tu, o Apollo, se meriti ha acquistato onorando il tuo nume, fa' che possa ancora consolare col suo canto i nostri animi.

ORAZIO
Settimio, tra breve cospargerai d'amiche lagrime il caldo cenere del tuo poeta.
Lalage, non piangere. Ti rimarrò vicino nei colori del giorno, nella brezza leggera di aprile, appena visibile nel movimento delle foglie novelle; nell'alito dell'aria che ti carezzerà il viso passandoti accanto; sarò nel canto dell'usignolo e nelle sue magiche note; nello scoppiettio della legna nel camino fumoso durante le sere d'inverno. Addio, Lalage, gli Dei proteggano i tuoi anni a venire.

LALAGE
Amici, Orazio è morto; gli siano tributati i dovuti onori. Si purifichi il suo corpo con unguenti e profumi e lo si vesta con la toga bianca orlata di porpora e d'oro. Un messaggero veloce si rechi a Roma e annunzi al supremo Augusto che è morto il suo poeta.

Orazio morì all'età di 57 anni, il 29 novembre dell'8 a. C. poco dopo la morte di Mecenate, nello stesso anno. Egli fu incredibilmente profeta, infatti, nell'ode diciassettesima del libro secondo, sopra riportata, egli aveva affermato che sarebbe morto insieme con l'amico, quasi a confortare i suoi timori della morte e come sacra promessa. Suetonio scrive che non ebbe il tempo di dettare e firmare il suo testamento e dichiarò pubblicamente erede Augusto di quanto possedeva e, che, secondo la sua volontà, fu sepolto ai piedi dell'Esquilino "iuxta Maecenatis tumulum"

Ho compiuto opera più duratura del bronzo
e più alta delle piramidi regali
che né furor di venti distruggerà
né la forte pioggia che fiacca

né serie innumerevole d'anni e di stagioni.
Non tutto morrò, di me gran parte
sfuggirà all'Orco; sempre crescerò
nella lode dei posteri finché il pontefice

con la tacita vergine salirà al Campidoglio.
Si dirà, dove violento mugghia l'Ofanto e dove
povero d'acque regnò Dauno sui popoli
agresti, che da umili origini divenuto grande

per primo trasferii nei metri italici
il canto eolio. Sii di me orgogliosa,
Melpomene, ne ho merito, e volentieri cingi
la mia fronte di delfico alloro!

Odi III-XXX

 

In alto mi leverò con ali vigorose
e insolite nello splendore dell'aria
vate biforme, non molto ancora sulla terra
dimorerò, e andrò dagli uomini lontano

più grande dell'invidia. Non io morrò
non io, di povera stirpe, che tu spesso
inviti presso di te, Mecenate diletto,
né l'onda stigia mi avvolgerà.

Già copre le gambe una ruvida pelle
e sopra in candido cigno mi trasformo
e morbide piume spuntano lente
tra le mie dita e sugli omeri.

E più famoso di Icaro, di Dedalo
il figlio, io, divenuto canoro uccello,
visiterò il Bosforo dai lidi risonanti
le Sirti africane e gli iperborei campi;

e tutti mi conosceranno: i Colchi,
i Daci che temono il furor dei Marsi,
estremi Sciti e gli Ispani dei miei versi
esperti e colui che beve del Rodano l'acque.

Siano lontani dalla bara vuota le nenie
i lamenti e i pianti indecorosi;
frena i gemiti, non dedicare
inutili onori al mio sepolcro!

Odi II-XX

 

 

 

 

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