Storie di Donne
Lucane
"racconti di
figlie, madri, nonne."
Maria Schirone
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Senza lamenti, senza lacrime: La storia di Rosina. (Premio per la sezione Paesi extraeuropei)
di
Maria Rosa Atella Vignola
Motivazione del premio: << L’esperienza di Maria Rosa trasfigurata in racconto. Documento fresco, spontaneo, in cui i dialoghi, snelli ed efficaci, creano brevi fash che contribuiscono a far vivere, anche in chi legge, le immagini ferme nella memoria. L’itinerario dei legami generazionali appartiene al progetto della narrazione. >>
Rosina guardava con allegria e nello stesso tempo con paura quest’immensa baia e la piccola collina che si specchiava nel fiume. Stringeva con amore contro il suo petto la piccola Lilina[1] e non riusciva a fermare i suoi pensieri. “Se almeno fossimo riusciti ad arrivare ieri, la piccola Lilina avrebbe fatto i suoi cinque anni insieme a suo padre!” Però così non era stato e la bimba, spaventata, ebbe un compleanno di fame, in terza classe, sulla nave Neptunia.[2] Non era che mancasse il cibo: cibo c’era ed abbondante; ma questa piccola bambina non ha voluto mangiare niente dalla partenza dal porto di Napoli. “Fortuna che è riuscita a mangiare della frutta sconosciuta,[3] e così non si presenterà davanti al padre troppo smunta”. Era il 1° agosto 1937. Montevideo[4] soffriva sotto il freddo dell’inverno. Il vestitino leggero di seta con le maniche corte si gonfiava al vento del sud. “Che paese strano! – pensò Rosina – ad agosto qui fa freddo?” La vita dopo avrebbe risposto di sì. In Uruguay ad agosto fa freddo e a gennaio fa caldo, e mai un fiocco di neve; a Natale fa caldo, e la gente mangia la carne rossa due volte al giorno, e la lingua è lo spagnolo e la città riposa accostata al mare, e qui non esistono le montagne come a Satriano di Lucania, e non si balla la tarantella… ma il tango. Luigi era solo nel porto, movendo le braccia in segno di saluto, un fazzoletto bianco nella mano destra. Dov’è? qual è? com’è nostra figlia? come sarà andato il viaggio? a loro piacerà, Montevideo? E Rosina, mi amerà ancora? Questi i pensieri di Luigi; un’ansia insostenibile per lui che da cinque anni non vedeva sua moglie. Rosina era incinta di pochi mesi quando se n’era dovuto ripartire in America a cercare una via d’uscita per il loro futuro. Rosina gli aveva detto addio, con le lacrime agli occhi ma senza una parola di rimpianto. Era la seconda volta che Luigi prendeva la nave e se ne andava. Però, se prima aveva sentito il dolore della lontananza per l’uomo che amava in segreto, adesso il dolore la annientava: quello che partiva era il padre del figlio che viveva dentro di lei. “E se non ritorna? E se non scrive più? E se si dimentica di me come tanti si sono dimenticati delle mogli?” Ah, che attesa piena di dolore e di solitudine, lavorando la terra, piegando il corpo per seminare il grano e per raccoglierlo dopo! Quanti mesi e quanti anni, cavalcando su quella cavalla all’alba per andare a lavorare la terra! Cinque anni di matrimonio, tre mesi di vita insieme. Adesso, adesso sì Luigi e Rosina potranno stare insieme di nuovo. A Satriano non c’era lavoro, non c’erano soldi, non c’erano terre da lavorare. Niente che potesse accrescere l’autostima, non un posto sotto il sole per la famiglia. Luigi adesso, come già Michele, e Raffaele e Giuseppe,[5] aveva riposto in America tutta la speranza. Michele in Brasile aveva guadagnato tanti soldi ed era ritornato a Satriano e continuava a vivere con prosperità, raccontando tutte le storie vissute, parlando degli uomini neri, dei frutti esotici, del caldo terribile; porti e baie lussureggianti e meravigliosi, musica sensuale. Rosina era la più piccola di tutti i figli. Raffaele, di salute cagionevole e dopo lunga convalescenza per un’affezione polmonare, era partito per gli Stati Uniti; e poi anche Giuseppe; e si erano fermati a Brooklyn per un po’ di tempo, in quella Little Italy dove Giuseppe e Raffaele si chiamavano Joe e Ralph.[6] Rosina, la più piccola, la più amata da Michele, aveva fatto la terza elementare quando le donne, a Satriano, ancora non andavano a scuola. Michele aveva giurato che quella adorata figlia non avrebbe mai sposato un uomo che si fosse interessato più alla dote che a lei il giorno in cui avesse chiesto la sua mano. La famiglia di Luigi era molto semplice, povera, senza speranze. Però lui aveva una grande forza interiore, e amava Rosina. Così fu che lasciò la famiglia e partì per l’America alla ricerca di un posto sotto il cielo. Si trovò in un paese piatto, con tanto di mare attorno, che lottava contro la Grande Depressione del 1929. Ma non sarebbe stato questo a fermare un giovane forte e innamorato. Con le ceste in mano vendeva frutta per le strade; avviò le bancarelle a cielo aperto dei mercati della domenica; lavorò come operaio edile perché voleva imparare. E imperò: da operaio diventò ‘mezzo-ufficiale’, poi ‘ufficiale’ e finalmente ‘ufficiale specializzato’. Era pronto per diventare il padrone di una ditta di costruzioni edili. Solo, soffrendo per la stanchezza e per la lontananza dalla donna amata, lavorava e risparmiava. Risparmiava e lavorava. Durante la notte studiava – lui che in Italia aveva soltanto finito le elementari – per diventare aiuto architetto. Acquistò un pezzo di terra fuori città e ritornò in Italia. Michele ricevette Luigi con buoni presentimenti e pensava: “È un bravo ragazzo”. Dopo il caffè Luigi si decise: “Signor Michele, vorrei sposare sua figlia Rosina. Io non sono degno né di Rosina né di lei né della sua famiglia. Non ho altro da offrirle che il mio amore e il mio desiderio di riuscire ad andare avanti nella vita”. Michele ascoltava in silenzio, la pipa ferma tra le labbra. Luigi continuò: “Sono povero, ma lavoratore. Lei è già stato in America, sa come sono le cose, io cercherò di dare a sua figlia la vita che si merita”. La pipa si mosse impercettibilmente: “Sposerai mia figlia Rosina, se lei ti ama. Andiamo a chiederglielo”, concluse Michele. Rosina rispose di sì. Il padre, allora, benedisse i due ragazzi: “Rosina, se lo ami, sposalo. È stato l’unico uomo che non ha chiesto della tua dote”. I giovani si guardarono, e guardarono lui: “Dote?”. Tutti questi ricordi si affollavano nel cuore di Luigi, là sul molo al porto, e in quello di Rosina sulla Neptunia, il 1° agosto del 1937. Un anno dopo, il 18 agosto, a Montevideo nasceva Maria. Lilina, l’italiana, aveva ormai sei anni e da oltre un anno era uruguayana. Per lei e per Rosina non era stato facile adattarsi. La bambina era gelosa di quell’uomo grande e forte che la sollevava e la teneva fra le braccia, sì, ma che era sempre insieme alla mamma. Quello non era il suo babbo. Suo babbo era questo e faceva vedere una fotografia. Babbo era una fotografia, non una persona… Luigi aveva pagato con cinque anni di solitudine il desiderio di portare sua moglie in America. Appena sposati le aveva detto: “Rosì, io me ne andrò a Montevideo. Appena avrò una casa dove abitare e un’altra da affittare ti chiamerò: così se pure io dovessi morire, morirei tranquillo perché tu sarai al sicuro, avrai un tetto e una rendita”. Non c’era solo il desiderio di avere due case per tranquillità. Luigi doveva ritornare in Uruguay se non voleva vedere vanificati tutti gli sforzi fatti fin là. Nessun ‘atto di richiamo’ avrebbe potuto farlo rientrare a Montevideo se non partiva subito. E lui aveva imparato che l’Uruguay era “la terra promessa” dove i figli sarebbero stati in grado di andare avanti. Così era partito. Senza lacrime. Senza parole vane. E per cinque anni aveva scritto lettere romantiche e appassionate e bellissime cartoline che ci mettevano due mesi per arrivare a Satriano e che Rosina custodì per tutta la vita. L’Italia divenne un Paese amato e lontano e a volte era un dolore molto grande che arrivava dentro buste bianche con le sbarre nere, ad annunciare la morte. Luigi aveva sempre scritto molto bene, aveva qualcosa del poeta, del letterato, del sognatore. Rosina era più timida e riservata. Col passar del tempo è stato sempre più lui ad occuparsi della corrispondenza. Scriveva ai suoceri, ai genitori; alla sorella. Ai cognati. Ralph era il suo cognato preferito e le sue lettere di risposta, scritte con cura, con una scrittura distinta, erano ascoltate con attenzione da tutta la famiglia quando Luigi le leggeva ad alta voce. Non appena i figli cominciarono a esprimersi anche in italiano e in inglese, Luigi e Rosina cercarono di far scrivere qualche lettera anche a loro. Con grande sforzo Lilina scrisse la sua prima lettera a “uncle Ralph” in inglese. Felice della sua lettera, ma preoccupato, per tutta risposta lo zio scrisse: “È possibile che invece di imparare la lingua di Dante questa bambina abbia imparato l’inglese? Ti prego di scrivermi in italiano, cara nipote!” Così fu fatto, d’allora. Tutti gli zii, i nipoti e i cugini si conobbero attraverso le lettere. Più tardi, gli ‘uruguayani’ andarono a Satriano. Si spaventarono per i danni subiti a causa dei terremoti. E rifecero la strada che la Rosina faceva con la cavalla o a piedi, due volte al giorno, per andare a lavorare la terra: ma stavolta in macchina. E salirono sulla torre di Satriano (ne avevano tanto sentito parlare) e pregarono nel piccolo altare della Madonna delle Grazie, e bevvero l’acqua fresca della montagna. E così godettero del ritorno a casa, alle radici, agli avi, per Luigi e per Rosina, tanto amati, tanto ricordati. I cugini oggi continuano a scambiarsi corrispondenza, parlano per telefono alle feste. In certe occasioni la voce pare diventare di cristallo quando si ascolta così vicino un suono così lontano. Luigi lavora nell’edilizia. Rosina, a casa, prepara i pacchi di alimenti e i vestiti da mandare a Satriano ‘per la guerra’. Lavora ai ferri per fare calze, giacche, magliette, guanti; fa anche dei lavori con la macchina da cucire per i parenti lontani. Quando si macellano gli animali preparano salumi e altri prodotti alimentari: tutto da mandare laggiù. Mandano anche lo zucchero, il riso, il caffè. Dopo la guerra questi invii diventano ancora più numerosi, per la particolare gravità del momento e per far sentire che la famiglia all’estero non si è dimenticata della famiglia e degli amici rimasti a Satriano. Nel 1942 nacque Giovanni Michele, in omaggio ai due nonni. Nel 1949 nacque Angelica Graziella, la gioia della vecchiaia, dicevano loro. In ditta si facevano due turni: fino alle cinque del pomeriggio si lavorava per i clienti, dopo le cinque Rosina e i figli aiutavano il padre “per imparare a costruirsi un futuro”. E inoltre “bisogna avere altre proprietà per ricavarne rendite”. “Non soltanto noi genitori dobbiamo andare in Italia. Quando ci saranno i soldi viaggerà tutta la famiglia insieme”, diceva Luigi. E Rosina era d’accordo. Ma i soldi erano necessari per altre cose: quattro ragazzi che dovevano studiare, scarpe per sei, vestiti e cibo per sei. Poi, la salute di Rosina ogni giorno più precaria. Rosina e Luigi sempre sognarono di ritornare in Italia. Non ci sono mai riusciti. Luigi realizzò tante costruzioni, perfino un edificio a sette piani. Rosina, che cucinava con amore le ricette del suo paese - le nocche, la pizza chiena, gli spaghetti all’alice e l’aglio per aspettare Gesù Bambino senza mangiare carne – aprì il ristorante La Campesiña e divenne un’impresaria di successo: la gente di tutti i quartieri della città mangiava da lei piatti saporiti, semplici e speciali. Allora, quando aveva soltanto cinquantasette anni, Luigi morì, colpito da ictus, il 2 aprile 1963. “Adesso davvero non riuscirà a rivedere l’Italia” piangeva Rosina. Mai più in paese, vicino alla fontana, alla Madonna dei Fiori, nella processione di San Rocco per la quale tutti gli anni aveva mandato dei soldi. Nonostante tutto, non c’era stata mai rottura di legami famigliari e Luigi e Rosina avevano conservato relazioni d’affetto molto forti, pur da terre così lontane. Quattro anni dopo la morte di Luigi, Ralph scrisse dagli Stati Uniti: “Rosina, siamo diventati vecchi. Vorrei che almeno una volta nella vita tutti noi cinque fratelli e sorelle potessimo riunirci in Italia”. Rosina si mise in viaggio con Angelica Graziella, la figlia più piccola. Ralph senza la moglie, che non poteva camminare dopo essere stata colpita da un ictus; Giuseppe (Joe), Donato e Carminella si trovavano a Satriano con le loro famiglie. Per il pranzo del ritrovo a tavola c’erano più di settanta persone, tutta la famiglia, in un paese dove gli abitanti si contavano in tremila, quando c’erano tutti. Fu un tempo felice. Breve. Bello. Poi morì Joe; dopo, Donato. Carminella. E Ralph, negli USA. Il 6 giugno toccò a Rosina, a Montevideo. Ora i cinque fratelli sicuramente stanno leggendo queste righe. E siccome è tempo di Natale, Rosina lassù attende che gli alici e l’aglio siano pronti per gli spaghetti e pensa che la sua lotta non è stata vana. Con lei, Luigi che amò tanto la sua famiglia e che lottò per darle un futuro, sa che tutti sono a posto. Fa niente per il dolore, lo spaesamento, la vita aspra, il pane amaro. Sono più di sessant’anni dall’arrivo di Rosina in Uruguay. Oggi, in tempi di internet, e-mail, satelliti e telefonini, in tempi di jet supersonici e di comunicazione in tempo reale, la vicenda di quella ragazza satrianese sembra poco credibile per le nuove generazioni dell’usa e getta e della cultura dell’immagine. Ma Rosina è un simbolo, rappresenta il paradigma della vita di tante e tante donne di grande coraggio e di forza d’animo, con la volontà necessaria a superare gli ostacoli. Nata in una piccola valle fra le montagne del sud Italia, senza mai aver oltrepassato i confini della provincia di Potenza, senza aver mai visto un treno o una nave o il mare o le città o il Nuovo Mondo, scommise per amore e cambiò il suo paese, la sua terra, i verdi oliveti e la cavallina per un baule pieno di sogni. Con la figlia in braccio, quanta angoscia, quanti dolori, quanti dubbi ci saranno stati nel suo cuore? Quante paure avrà subito nell’ultimo abbraccio ai genitori e ai fratelli? Avrà capito che quello sarebbe stato un addio, avrà capito che non avrebbe visto mai più i suoi cari così fieri di lei? Lei, che non era mai stata da sola con Luigi fino al giorno delle nozze; lei che amò quest’uomo da lontano quando appena riusciva a guardarlo durante la messa della domenica, lei che disse “sì” senza mai essere stata sfiorata dalla mano di lui; lei, che aveva conosciuto tutto insieme: la tenerezza, la passione, la gioia dei figli, la separazione terribile. Lei che aveva lasciato tutto dietro di sé: la protezione e l’amore dei genitori, dei suoi luoghi, la lingua, i modi di essere, le montagne, gli uccelli, il pecorino, l’olio del proprio oliveto, il cielo familiare… Lei, che sensazioni avrà avvertito su quel treno, nel porto, nel corso di quella ispezione minacciosa sul corpo suo e su quello della figlia? Ah Rosina. Cosa avrà pensato sulla Neptunia quando già scoloriva la terra italiana? Lei che mai aveva conosciuto il mare, ma solo ruscelli e fili d’acqua dalle montagne assetate del suo paese lucano. Quale terribile angoscia quando la nave ha preso fuoco in mezzo al mare? Quante notti senza dormire, quanta paura, Rosina? “A Montevideo, quando guardavo il cielo, non riconoscevo le stelle”, raccontava. Non riconosceva l’aria salata della costa, né il vento di mare, né il vento di terra, né la Croce del Sud di quelle notti nuove. Non riconosceva la lingua, i cibi, la musica, il cemento delle strade della capitale, così larghe e diverse dalle stradine di pietra di Satriano. Persa in una città sudamericana vasta di ottocentomila abitanti (oggi oltre un milione e mezzo), Rosina sotterrò nostalgia, ricordi, amori della giovinezza e si consegnò all’Uruguay. Lei e Luigi erano d’accordo: di non parlare mai in dialetto davanti ai figli; però i ragazzi dovevano imparare l’italiano. Di lavorare, e tanto, perché i figli potessero studiare e così riuscire attraverso gli studi ad essere “liberi”. Loro, che mai avevano conosciuto una sala teatrale, impararono ad apprezzare l’opera e Beniamino Gigli. Non perdevano nessuno degli spettacoli che il cantante teneva a Montevideo. Non perdevano le principali opere teatrali, i concerti, a costo di rimanere in piedi, desiderosi di momenti culturali, pur con qualche sacrificio economico. Luigi avvertiva un profondo desiderio di imparare e ‘farsi una cultura’. Ormai imprenditore edile, spiegò ai figli: “A casa mia nessuno di voi dovrà subire l’umiliazione di firmare la ricevuta dello stipendio con il dito”. E così ordinò a Maria di insegnare anche agli operai a leggere e scrivere. Finito il lavoro, verso le cinque, gli operai dovevano andare a lezione. Maria aveva allora… otto anni e trovava difficile accompagnare la mano agli allievi: mani grandi in manine di bimba. La bambina-insegnante, con le trecce che ricadevano sul tavolo mentre mostrava un mondo nuovo di parole a tutti gli operai, rispondeva felice alla richiesta del babbo, anche senza ben capire perché fosse poi così importante saper leggere e scrivere. Rosina, intanto, cucinava per tutti. Anche per questi uomini che non soltanto dovevano imparare a leggere e scrivere, dovevano anche mangiare e non sentirsi soli. Rosina cucinava e la famiglia e gli operai mangiavano insieme al lungo tavolo. Il segreto dei suoi piatti saporiti, spiegava lei, è questo: sono conditi con amore. Cuoca di forno a legna e forno a carbone, Rosina riuscì a cogliere tutti i sapori casalinghi della sua antica famiglia lucana: nessuno sapeva cucinare come lei. Era un onore per gli amici partecipare al gran tavolo famigliare, sempre numeroso e generoso. Il successo come impresaria di ristorante, pur con certi limiti, le permise di far conoscere i semplici sapori dell’aglio, del basilico, l’origano, l’anice, i fichi ripieni di noci, i pomodori seccati al sole e tante altre cose, a un pubblico a volte di cento persone in una sera. Inoltre è stata la pioniera, in quella zona, dei cibi pronti da portare a casa. Dopo cena Luigi leggeva ad alta voce per tutti: Cervantes, Leopardi, Carducci, D’Annunzio, la Bibbia, De Amicis… e i bambini e gli adulti piangevano ascoltando “Dagli Appennini alle Ande”. Le Ande erano vicine ma gli Appennini erano così lontani! Hanno allevato i figli con attenzione alla cultura e allo studio. Hanno insegnato loro l’amore verso la bellezza, la giustizia. La solidarietà. L’onestà. Ormai integrata nella comunità uruguayana, la famiglia non si sentì mai straniera. Pur continuando ad essere italiana. Curiosa simbiosi la cui sola piena comprensione può far interpretare non come una contraddizione ma come una ricchezza personale. Umile, semplice, con la terza elementare Rosina allevò quattro figli fino all’istruzione universitaria, fino al successo di professionisti apprezzati in Uruguay e all’estero. Non conobbe dubbi, né stanchezza, né egoismo, né insuccessi. Morì come visse: in pace, con l’amore intorno a sé. La sua vita ebbe un senso e meritò di essere vissuta. È stata amata e così resta nel ricordo, come moglie, come madre, come italiana. Con gratitudine per quel lamento o quella lacrima che non abbiamo mai sentito né visto.
Notizie essenziali sulla famiglia Atella – Vignola.
NonniMichele Vignola: sposò Angela Laviano. Entrambi nati e morti a Satriano di Lucania, (Potenza, Italia). Michele emigrò in Brasile e poi ritornò in Italia.
Figli: nati a Satriano di Lucania:
Raffaele: emigrò negli Stati Uniti, a New York (N. J.). Ritornò in Italia in due brevi viaggi in famiglia. Morì negli Stati Uniti. Giuseppe (Joe): emigrò negli Stati Uniti, New York. Ritornò in Italia. Morì a Satriano. Donato Carmelina Rosina: ritornò in Italia per una visita. Morì a Montevideo (Uruguay).
Giovanni Atella: sposò Raffaella Langone. Nati e morti a Satriano.
Figli, nati a Satriano di Lucania:
Luigi: morì in Uruguay, senza mai essere tornato in Italia. Donato: morì molto giovane in Uruguay, senza mai essere tornato in Italia. Sposò Secundina Monroy, spagnola. Padre di Giovanna e Carlo. Maria: è sempre vissuta in Italia. Sposò Antonio Lopardo. Morì a Satriano.
Genitori
Luigi Atella, Rosina Vignola.
FigliRaffaella (Lilina): nata in Italia, vive in Uruguay. Ha sposato Rodolfo Reale, argentino di origine italiana.Ha 68 anni. Ha studiato in Uruguay e all’università di Reggio Calabria, dove si laureò. Ha lavorato presso la Scuola Italiana di Montevideo – Casa dei Bambini; oggi è in pensione Giovanni Michele: nato in Uruguay, è cittadino italiano e Cavaliere della Repubblica Italiana. È giornalista dell’ANSA in Uruguay. Sposato a Mirtha Louzao, uruguayana; hanno due figli: Luis Ignacio (Luigi Ignazio), 21 anni, e Santiago, 18 anni.
Angelica Graziella: nata in Uruguay, è cittadina italiana. Notaio. È capo controllore notarile in una banca uruguay [1] Raffaella. [2] La Neptunia fu l’ultima nave a partire da Napoli prima della chiusura del porto per lo scoppio della seconda guerra mondiale. L’A. riferisce che i passeggeri erano stati ‘vilmente’ ispezionati prima della partenza dall’Italia per assicurarsi che non portassero oro o soldi all’estero. La nave ebbe anche un incidente durante il viaggio. [3] Si tratta delle banane. [4] Capitale della Repubblica Oriental del Uruguay. [5] Michele è il suocero, partito per il Brasile alla fine dell’800; Raffaele e Giuseppe sono i cognati. [6] Entrambi andarono poi a Camdem, New Jersey. In seguito Joe tornò in Italia; Ralph invece divenne un importante funzionario del comune di Camdem. Dopo diversi anni sposò negli USA Helen, di origini italiane. Ritornò in Italia solo per brevi visite. |
Storie
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