Storie di Donne Lucane
"racconti di figlie, madri, nonne."
Maria Schirone

 

 

Senza lamenti, senza lacrime: La storia di Rosina Mamma contadina, mamma cittadina… Esperienze e sentimenti di una discendente di Lucani Una Visita a Montemurro

mia Satriano di Lucania

nel cuore degli Appennini

fatta di pietra e di argilla fatta di terra e lacrime

fatta di sogni e speranze

fatta di adii, di scarsi ritorni.

Satriano mia,

abitata da donne sole

da donne che zappano la terra

che camminano dietro l’aratro.

Che anche gravide

continuano a mietere.

Satriano di Lucania

dall’aria inebriata

dal profumo di malvarosa,

dalle rose d’aprile,

dalle viole, dai ligustri,

dalle ginestre sul pendìo

che portavano il sole in terra.

 

 

Quando ho aperto gli occhi alla luce, il mio pianto ha asciugato il tuo pianto…

 

Mamma, mammina mia,

mamma contadina

che sei stata tutta mia

che sono stata tutta tua

che hai difeso la mia vita

che hai tramutato il dolore

in rinnovata speranza.

Mamma, mamma contadina…

 

E appena le ritornarono le forze, riprese a lavorare in  campagna, qualche giorno alla canonica, un altro al Peschiere, e a quello più lontano, il Ramignuso, che per arrivarci doveva camminare più di un’ora, con una culla sulla testa nella quale portava me bambina, le zappe, un po’ d’acqua e di pane.

Mi cantava “Quel mazzolin di fiori…”, è stata la mia ninna nanna. La sera, prima di dormire, mi mostrava una fotografia e mi diceva: “Bacialo, è papà, ritornerà o ci chiamerà per andare da lui in America, me l’ha promesso!!”.

Ma c’erano uomini che mai ritornarono, e donne che sono rimaste sempre sole. Non tutti gli emigranti erano uomini di parola e non tutti hanno trovato all’estero la “terra promessa”.

In silenzio, il dubbio, l’incertezza laceravano il cuore di mia madre, e quando pensava che dormissi lasciava scorrere il pianto se quel giorno il postino non ci aveva portato niente. E poi, con rinnovata fede, all’alba continuava la sua lotta.

Intanto a Montevideo cosa faceva papà? Aveva subito capito che un contadino in città non ce la fa. Si impiegò come manovale della costruzione: non era richiesto per questo lavoro altro che la forza per caricare i mattoni e i secchi con la malta. Ma lui osservava attento quello che facevano gli altri, gli operai specializzati. Voleva andare avanti, specializzarsi anche lui, e chiese a un architetto di istruirlo.

Il prezzo di quelle lezioni era quasi tutto il suo salario. Ma occorreva mangiare, un posto letto, e altre cose. Così si mise d’accordo con i commercianti ambulanti che la domenica lavoravano al mercatino in via Tristan Narvaja, per impiantare e disfare le bancarelle. Alla fine della giornata, con qualche soldino in tasca e nelle mani un po’ di formaggio, salumi, frutta e verdura, che gli venivano offerti dai padroni dei negozi, si era fatto la scorta per la settimana. Mancava soltanto il pane e comprava quello del giorno precedente, che costava tanto meno.

Finite le lezioni e con la pratica fatta nel posto di lavoro, si presentò alle autorità nazionali a chiedere la “Patente de Construcción”, che gli avrebbe permesso di lavorare per conto suo. A rate comprò un terreno in un quartiere della periferia e si mise a fare la casa per dare alloggio ai suoi tesori lontani.

 

Babbo mio

mio babbo contadino

cresciuto tra le zolle

di Satriano di Lucania.

Babbo ormai cittadino

ti sei fatto muratore

spinto dall’amore e la speranza.

 

Trascorsero cinque anni circa, e un giorno arrivò a Satriano il postino con una lettera più grande delle altre: era l’atto di chiamata! Si doveva partire subito perché, si diceva, si avvicinavano tempi di guerra. Era il 1937.

Nei primi di luglio, con tanti bagagli e bauli, circondati dalla famiglia, partimmo da Satriano.

 

Mamma contadina,

oggi lascio la tua terra,

corri dietro l’amore,

l’ignoto, la speranza.

Abbraccia per l’ultima volta

la mia Mamma Grande.

 

Mio nonno Giovanni Atella e mia nonna Raffaela Langone sbiancarono in viso; si perdeva la speranza che il figlio ritornasse. Nonna Raffaela, piangendo, mi mise fra le mani un mazzolin di fiori, di fiori di malvarosa.

 

Addio Satriano mia,

mia Satriano di Lucania,

dal profumo di malvarosa…

 

Da Potenza andammo in treno a Napoli dove, una volta compiute le pratiche necessarie, ci imbarcammo sulla nave Neptunia della Lloyd Sabaudo, colma di emigranti, verso l’America, il Brasile, l’Argentina e l’Uruguay. Noi verso Montevideo, un nuovo mondo, un nuovo modo di vivere. Indimenticabili le sirene delle navi  quando si allontanano, e quel sentimento confuso nel cuore di bambina quando l’acqua circonda la nave e la terra s’allontana.

Il viaggio era lungo, e sempre il solito paesaggio, mare e cielo, cielo e mare. Quando si arrivava a un porto facevo una sola domanda: “È questa Montevideo?” Ma nel mio cuore ne nascondevo un’altra: “come sarà papà?”

Il primo agosto si avvistò un monticello sorgere dal mare. Era il “Cerro de Montevideo”. Dopo mezzogiorno la Neptunia ancorava nel porto di Montevideo. Il porto era un’arnia, tanta era la gente che veniva ad aspettare qualcuno. Mia madre mi teneva abbracciata e riconobbe, tra la folla, mio zio Donato Atella; e gridò: “Dov’è Luigi?”. Lo zio Donato rispose con un sorriso: “Accanto a te”.

E ci sentimmo afferrare da due braccia forti, quelle di un uomo che non smetteva di baciarci: era papà! Aveva fatto richiesta speciale per salutarci sulla nave. Scendiamo, lui mi solleva in alto e grida con orgoglio, presentandomi al mondo: “Ecco la piccola italiana!” E si sentirono come tuoni gli applausi dei compaesani che erano venuti ad aspettarci, in cerca di una lettera, di una notizia, di un pacchetto…

Poco dopo arriviamo alla nostra modesta casa e - mi sento stringere il cuore - nel piccolo giardino, proprio davanti alla porta d’entrata, superba, profumata, come in attesa, un vaso con fiori di malvarosa.

 

Malvarosa,

malvarosa del mio paese,

gentile lettera profumata

di mia nonna addolorata

mi dai il benvenuto

malvarosa di Montevideo,

sei il ponte d’unione

l’unione di due mondi

di una bambina confusa,

pianticella sradicata

in cerca di nuovo suolo.

 

Non capivo il linguaggio che si parlava intorno a me. È stato duro impararlo! Non mi fu permesso di parlare il mio dialetto. Papà mi insegnava le parole e dovevo parlare lo spagnolo per bene in modo da non essere chiamata “la gringa”quando qualche mese dopo avrei cominciato a frequentare le elementari. Sia in Argentina che in Uruguay veniva e viene chiamato ancora gringo lo straniero, in particolare l’italiano. Tanto è vero che un dramma, capolavoro di Florencio Sanchez[1] si intitola “La Gringa” e narra la storia di una famiglia italiana che ha una figlia, che per estensione chiamano gringa, e che al di sopra di ogni etnia fa prevalere i propri sentimenti e lotta per inserirsi nella società locale.

Un anno dopo, il 18 agosto 1938, nasce la mia prima sorella uruguayana, Maria Rosa, gioconda come una stella.

Poco dopo mia madre si ammala. Per due anni percorre trentadue ambulatori in cerca di una diagnosi. Deve essere ricoverata e le fanno un intervento chirurgico.

Lampi e tuoni di terrore si sentono nel mondo. Era scoppiata la guerra. Non più notizie dei cari, lavoro ce n’è poco, debiti tanti, un altro figlio si annuncia. Lo spazio è ormai troppo stretto per alloggiare tutti, bisogna ingrandire la casa… Ma come? Ho visto mia madre piangere e mio padre che la confortava.

Poi mamma prese un pacchettino e glielo diede, abbassando lo sguardo: erano i suoi gioielli, quelli che erano parte della sua dote, quelli che l’avevano adornata il giorno delle sue nozze, tra le altre quella catena d’oro lunga un metro e mezzo che era il suo orgoglio di sposa. Rimasero la fede e gli orecchini. Tutto il resto si convertì in denaro, mattoni, calce, malta…

 

Mamma, mammarella mia,

mamma mia contadina,

mamma ormai cittadina,

non piangere quell’oro

tu hai altri tesori

che valgono più dell’oro,

non ti deprimere,

non piangere.

 

Siamo nel 1942. Il 1° marzo, sistemati nella casa ampliata, nasce il secondo figlio uruguayano, Giovanni.

Il governo uruguayano rompe i rapporti diplomatici con l’Italia, rimpatria le autorità italiane, i contrattati, direttore e docenti italiani della Scuola Italiana di Montevideo; fra gli altri, il professor Andrea Fontanot. Si elabora la Lista Negra (la lista nera) nella quale compaiono i nomi degli italiani che avevano qualche tipo di impresa commerciale o industriale e si esortano gli abitanti della città a non comprarne le merci. Papà non fu incluso nella lista, data la modestia della sua impresa.

Un compaesano, anche lui muratore, ci fa visita un giorno e domanda: “Luigi, ce l’hai qualche figlio in età scolare?”

Babbo risponde: “Ne ho soltanto una e frequenta la scuola statale”.

“La devi trasferire alla Scuola italiana, con la massima urgenza – gli dice l’altro - altrimenti chiudono anche la Scuola, ci chiedono un minimo di 150 alunni perché possa continuare. Se la chiudono rimaniamo senza lingua, né cultura, saremo isolati nel mondo.”

E mio padre: “Ma come faccio a pagare?”

“Se non hai soldi paga con servizi, tu sei muratore, la dobbiamo conservare bella”.

Così, subito mio padre fece le pratiche per il trasferimento: irripetibili le cose che si sentì dire dalla direttrice e dalle insegnanti della scuola statale.

Com’era bella la nuova scuola! Occupava ben un mezzo isolato, con ampie scale di marmo, a tre piani, un pregevole lavoro dell’architetto italiano L. Andreoni, su iniziativa degli emigranti, per mantener viva la cultura italiana per i loro figli. E la Scuola Italiana di Montevideo rimase aperta! Si facevano lezioni secondo il programma ufficiale uruguayano; era consentito studiare la lingua italiana, la grammatica, qualche poesia piuttosto antica, ma erano vietate la storia e la geografia. Durante quegli anni non ho visto una sola carta dell’Italia. Lo Stato aveva assegnato alla nostra scuola un ispettore, il prof. Picaroni, che appariva in classe quando nessuno se l’aspettava. Lavoro triste il suo! Ma si poteva cantare, almeno qualche coro d’opera, durante le lezioni di musica. In questo modo si coltivavano le tradizioni, ci si preparava a difenderle in futuro.

Il momento duro per noi era l’uscita. Ci dicevano tante di quelle cose, delle quali un bambino non può comprendere né il senso né il perché, ma ci facevano arrossire e chinare la testa.

Siamo nel 1944. Finisce l’anno scolastico e gli alunni della sesta elementare dovevano iscriversi al Liceo: ma quale, se nessuno ci voleva? Il direttore, il Dottor Carlo Danza, lucano anche lui, ci promise di fare del suo meglio per farci rimanere uniti. Durante l’estate bussò a tante porte di alti funzionari statali e di genitori, per sapere se sarebbe stato possibile aprire una Scuola Media. Nel marzo 1945 si mise sul frontespizio una targa che diceva “Liceo Habilitado Italo-Uruguayano”. Vari trionfi in uno: Istituto con abilitazione nazionale, in periodo di guerra, e con una popolazione scolastica di…  18 alunni! Sono stata l’alunna n° 1 in ordine alfabetico di questo gruppo fondatore.

Gli ex alunni figli di emigranti si rimboccarono le maniche, quelli che studiavano medicina ci insegnavano le scienze, invece quelli che studiavano legge e scienze sociali ci facevano lezioni di storia, letteratura, ecc. Poi chi studiava lingue ci insegnava il francese. Erano giovanissimi, alcuni lucani come P. Chiancone, P. Sorrentino, A. Carabatta, G. Amendola. Anche gli emigranti residenti da tanto tempo vennero a farci lezioni, il pittore Kabregu e l’ing. E. Chiancone, tutti meridionali. Lavoravano a stipendio “zero”. Era un lavoro d’omaggio, d’amore per la cultura italiana.

Ormai la guerra è finita. Le poste riprendono a lavorare, e il sorriso ci si gela sulle labbra nel vedere le buste con l’orlo nero. La falce della Pallida aveva troncato le vite di Nonno Giovanni e di Nonna Raffaela!

                          

Non piangere babbo mio

come ti è stata matrigna

questa vita da emigrante.

Ma guarda, le tue radici

incominciano a fiorire!

 

Siamo nel 1947. Incominciarono a ritornare dall’Italia i più coraggiosi, fra cui il Maestro Andrea Fontanot che era stato rimpatriato al principio della guerra. Per pagare le spese, la Scuola deve dare in affitto a un altro liceo, il “Liceo Joaquín Suárez” una parte del suo locale.

La “Lista Negra” era ormai scomparsa. L’Italia, timidamente, mandò un incaricato d’affari per osservare l’ambiente. Qualche famiglia uruguayana manda i suoi figli alla Scuola Italiana di Montevideo e al Liceo Habilitado Italo-Uruguayo. Ci troviamo in un periodo di transizione. La cultura stava prevalendo. Un po’ di pubblicità poteva aiutare lo sviluppo della Scuola, sicché iniziò un programma sulla radio CX 48: “La Voce della Scuola Italiana”,che veniva trasmesso verso le sette di sera con notizie e tanta musica moderna. Lo stesso programma, ma specifico per cultura, letteratura, arte e musica classica italiana, si trasmetteva la domenica mattina alle ore 10. Regista di questo programma, il M.tro Fontanot. A me furono affidati la scelta del materiale, il lavoro di indagine e la voce al microfono. Così contribuivo a diffondere i nostri valori culturali.

Nel frattempo mamma di nuovo si ammalò, questa volta tanto più gravemente, da aver bisogno di quattro mesi di ricovero e di un chirurgo che rimettesse a posto i suoi reni. Avevo quindici anni, mi facevo in mille, volevo fare tutto, continuare a studiare, mantenere il programma alla radio, aver cura dei fratellini, far da mangiare per tutti e andare a trovare la mamma per farle coraggio. Finché mamma ritornò a casa, convalescente; la vita riprendeva. Ma un giorno arriva un’altra lettera col bordo nero: la mia Mamma Grande riposava per sempre.

In quel periodo cominciò ad arrivare in America un flusso di artisti; tra i più noti, Beniamino Gigli, Gino Becchi, Maria Caniglia, Tito Gobbi, Jorge Damiani, Caterina Gigli, Tito Schipa, Carlo Buti e la sua “rivista”, Emma Gramatica. Tutti vollero visitare la Scuola e ci incontrarono nell’Aula Magna “Luigi Pirandello”. Un tenero ricordo per Gigli che con una mano sulle mie spalle e l’altra su quelle di una compagna cantò sul podio una delle sue canzoni più sentite: “Mamma”.

Nell’immediato dopoguerra tanti compaesani volevano venire a Montevideo, ma avevano bisogno di un contratto di lavoro. Papà offrì la sua “Patente de Construcción” per fare questi contratti e portò in America parenti e sconosciuti, tanti italiani anche da località lontane come La Spezia. Mamma ospitava tutti, a tutti dava da mangiare, confortava con la sua tenerezza quegli emigranti che…

 

Con un sacco di speranze

e una borsa di rimpianti

chissà quale più pesante,

porta questo suo bagaglio

verso terra di promessa,

camminando a passo fermo

con coraggio l’emigrante.

 

Restan lì, nel suol natìo

amore, amici, le radici,

i suoi monti, il suo mare

pure il sole e il cielo blu

e la luna pellegrina

testimon del primo amore.

 

È arrivato in terra nuova

non comprende il linguaggio

ma si fa forte e “coraggio –

dice al cuor – devi lottare

ormai non c’è più la nave

or si deve lavorare

se si vuole ritornare.

 

Col suo sacco di speranze

la sua borsa di rimpianti

batte e batte e lavora

gringo, triste, l’emigrante.

Ma nella terra promessa

un dì scopre che c’è un sole

che c’è anche un cielo blu.

 

In questa nuova terra

trova amori, amici, affetti,

e pianta le nuove radici

e un’altra luna pellegrina

illumina il suo nido,

culla il sonno di speranze

di quei figli d’emigranti.

 

Col suo sacco di speranze

la sua borsa di rimpianti

con il cuor sempre diviso

or sorride l’emigrante;

eppur l’uomo dei due mondi

pensa ancora a quei monti

ogni giorno più lontani.

 

Col suo sacco di speranze

la sua borsa di rimpianti

vede le nuove radici!

Il gringo, quell’emigrante

ora guida i suoi figli nella terra promessa

che si chiama l’avvenire.


 

         Siamo nel ’48. Il Liceo Habilitado Italo-Uruguayo, con il nostro gruppo aveva potuto completare il primo ciclo; ma per ottenere la maturità magistrale, scientifica ecc., dovevamo frequentare il Preparatorios in un istituto statale. Ottenuta la maturità m’iscrissi all’università. Frequentai il primo anno, e poi: “Se non fa le pratiche per ottenere la cittadinanza uruguaiana non potrà continuare a studiare da noi”. Se avessi fatto le pratiche in quel momento, avrei perso la mia cittadinanza d’origine e non l’avrei mai potuta trasmettere ai miei figli. Ho cambiato strada, ho tentato con altri corsi, ma sempre la solita risposta.

Mi sono mantenuta italiana.

Siamo nel 1949. Il 4 febbraio una bella novità: nasce la beniamina, la piccola Graziella dagli occhi grigi e i capelli biondi. Mamma, non più tanto giovane, se la stringe al petto e dice: “Questa sarà la figlia che mi darà conforto nella vecchiaia”. È stato proprio così.

Papà attraversava un periodo critico di lavoro, e la mamma si fece avanti e mise su una piccola trattoria. Lei faceva tutto. Io e Maria Rosa l’aiutavamo come potevamo, dato che facevamo traduzioni dall’italiano per una rivista uruguaiana e inoltre si continuava a studiare. Giovanni, un ragazzino appena, faceva il cameriere. Graziella era troppo piccola.

La vita non era semplice. La fatica era troppa per una così debole salute. Dopo pochi anni l’attività fu trasferita a un’altra ditta.

Qualche tempo dopo conobbi un giovane argentino, Rodolfo Reale, figlio d’italiani e dopo un anno ci sposammo.

Per un certo periodo abbiamo vissuto in Argentina. Un paio d’anni dopo il nostro matrimonio, papà si ammalò gravemente e in poco più di due settimane si spense. Sembrava un pioppo, ma bastò un colpo per farlo cadere per sempre.

 

Mamma contadina

mamma cittadina

ormai donna d’affari

sempre in lotta

difendendo la famiglia.

 

Mamma, mammarella

se n’è andato il tuo compagno

chi può confortare il tuo cuore?

 

Erano rimasti con mamma, Graziella ancora bambina, Giovanni adolescente e Maria Rosa che aiutò ad avviare i fratelli piccoli. E mamma continuò a lottare e intuitivamente si fa donna d’affari, vende, paga, amministra.

A sessant’anni, accompagnata da Graziella, ritorna a Satriano per rincontrare i suoi altri quattro fratelli. Per lei i monti si sono avvicinati, per papà sono stati “ogni volta più lontani”.

Passano gli anni e mamma, circondata dai figli, si spegne.

 


 

Note aggiuntive

In questa storia intreccio i fiori della grande pianta nata dalle radici dei miei genitori emigranti.

 

Maria Rosa è una persona di indicibile capacità, va avanti con grinta nel settore della stampa. Ha studiato all’estero: a Houston, Texas, nel Minnesota (U.S.A.), nel Canada, in Italia e altrove. Ha lavorato nella direzione dei principali alberghi di Montevideo e Punta de l’Este. È stata direttrice di una rivista settimanale. È una delle giornaliste più quotate dell’Uruguay e ha ricevuto molte onorificenze, a livello nazionale e internazionale. Ha fondato l’Associazione Donne Giornaliste dell’Uruguay e ne è stata il primo presidente. Collabora con l’Istituto Italiano di Cultura per la diffusione della cultura italiana all’estero. Tuttora conduce un programma radiofonico su CX16, Radio Carve.

 

Giovanni, che papà chiamava affettuosamente “segretario”, è anche lui ben inserito nel giornalismo. Da anni è il rappresentante in Uruguay dell’agenzia italiana di notizie ANSA. Ha sposato Mirta Louzao e hanno due figli: Luigi, studente universitario, e il più piccolo, Santiago, che ha ottenuto la maturità scientifica. L’attività di Giovanni lo ha portato a collaborare con l’Ambasciata d’Italia e con l’Istituto Italiano di Cultura. Qualche anno fa è stato nominato Cavaliere della Repubblica Italiana.

 

Graziella, la beniamina, si è laureata in Giurisprudenza per poi diventare notaio. Fa un lavoro di media dirigenza in una delle più importanti banche nazionali, stimata per la professionalità, onestà, l’equilibrio nel risolvere situazioni difficili, ferma nelle sue risoluzioni ma con un umanissimo saper fare. È una donna non grande, ma “grande”.

 

Quanto a mio marito Rodolfo Reale, e me, abbiamo superato i quarant’anni di matrimonio, con due figli, Riccardo e Marcello. A loro mia madre, tenendoli sulle ginocchia, cantava “Quel mazzolin di fiori” e raccontava le storielle della lontana Satriano, “Cincillà d’uomini”, “Alì Babà Pipì Cocò”, “Petruzzo” e tante altre. Non appena ebbero l’età di frequentare la scuola materna, li iscrivemmo alla scuola italiana dove hanno fatto gran parte dei loro studi. Ottenuta la maturità scientifica si sono laureati in Informatica all’università e sono professionisti quotati nel loro lavoro.

Dal 1982 sono stata assunta alla Scuola Italiana, dapprima come assistente docente di lingue, poi come assistente della direzione didattica e oggi come segretaria. Nel 1986 la scuola italiana di Montevideo preparò i festeggiamenti del centenario. Sono stata invitata a organizzare la Commissione Rapporti Pubblici e Stampa e a integrare la Commissione Cultura. Si è lavorato sodo. In quell’anno, chilometri di colonne sono state pubblicate su tutta la stampa nazionale: quella mia piccola scuola si era trasferita dal vecchio edificio a un terreno di circa quindici ettari e con più di 15.000 metri quadrati di costruzione. Sui giornali fu definita “la piccola città della cultura”, un’importante presenza di ente educativo nella società uruguayana, frequentata da più di mille alunni, e in cui si organizzarono conferenze stampa, conferenze scientifiche e culturali, mostre d’arte con opere di artisti italiani o oriundi, concerti sinfonici, di musica lirica, un’operetta, qualche commedia. È stato un anno in cui la nostra cultura, le nostre radici, il contributo offerto alla cultura dell’Uruguay hanno raggiunto una pubblicità senza precedenti sulla stampa, alla radio e alla TV.

Seguivo a volte i corsi di aggiornamento di lingua e cultura italiana presso la Società Dante Alighieri, il cui presidente, dottor Biagio Rossi Masella, potentino, mi volle indirizzare all’università per stranieri “Dante Alighieri” per farmi usufruire di una borsa di studio e poter seguire un corso in Italia.

Nel 1990 il Circolo Lucano offrì per concorso, in accordo con altre regioni, dei viaggi, tipo borse di studio, in modo da far conoscere ai figli degli emigrati lucani le proprie radici e contemporaneamente far rendere conto dello sviluppo dell’Italia. Il viaggio fu vinto da Riccardo, il mio figlio maggiore.

Durante il viaggio di gruppo Riccardo corse a Satriano di Lucania a conoscere il paese dei nonni e della mamma. In una lettera mi diceva: “ Quando i tuoi cugini mi hanno portato nella casa dei nonni, la casa dove sei nata, mi è sembrato di stare sulla terra santa. Ci devi venire, mamma, ci devi venire”. Nel frattempo arrivò una lettera di accettazione per il corso presso l’Università per Stranieri, e l’avviso che questo sarebbe cominciato il 5 gennaio del ’91.

Riccardo, ritornato verso la fine di novembre, mi spingeva ad accettare, ma c’era un ‘ma’: il biglietto non era compreso nella ‘borsa’. Qualche giorno dopo, di ritorno dal lavoro a scuola, trovo sul mio cuscino una grande busta: era il biglietto comprato con i magri risparmi dei due ragazzini.

Il 2 gennaio partivo da Roma verso Satriano. Il percorso era semplice, la superstrada faceva godere la pianura laziale. Guardavo da finestrino; arrivati in Campania mi guardo le mani: erano bagnate, ero tra gli Appennini, quei monti scuotevano i ricordi nascosti per più di cinquant’anni dentro l’anima mia e si trasformavano in lacrime senza che me ne accorgessi. A Satriano, l’incontro con la famiglia. Il giretto per Satriano, poi la campagna, la Canonica, il Paschiere, il Ramignuso, la masseria dei nonni. Ogni pietra era una storia, la tua storia mamma mia, la mia storia dal profumo di malvarosa.

 

Durante e dopo il corso all’università ho fatto brevi visite a Satriano per qualche fine settimana. Volevo riempirmi gli occhi del paesaggio del paese mio. E oggi che ne sono lontana,

 

Ricordo ancora quella sera

di cielo sereno, di primavera,

quella sera in cui la luna

pascolava un gregge

di stelle d’argento.

 

Ricordo ancora quella sera

di primavera, di luna,

di stelle…, che pioveva

sul mio volto

solcato dal pianto.

 

Ricordo ancora quella sera

in cui la voce dei monti

faceva da sottofondo

alle nostre voci

diventate strane

diventate cupe.

 

Ricordo ancora quella sera

in cui ci siamo abbracciati

e abbiam detto: a domani!

 

Ricordo ancora

come s’è illuso il cuore

perché domani è forse mai.

 

Ma ricordo ancora

più fortemente

il vostro viso

stampato a fuoco

nella mia mente

dentro il mio cuore.


 

         Marcello, mio figlio minore, vince il concorso per il viaggio nel ’91 e anche lui, ritrovando le proprie radici, impara a conoscere meglio se stesso. Rientrando tutti e due i miei figliuoli dal profondo del cuore cantano agli emigranti:

 

Voglio cantare

una canzone antica

Voglio cantare

una canzone tutta mia

Voglio cantare

una canzone tutta tua

Voglio cantare

un canto che non passerà.

 

Voglio cantare

le sfide che affrontasti

Voglio cantare

la tua forza, la tua fede

Voglio cantare

la tua storia, emigrante,

Voglio cantare

al gringo che non scorderò.

 

Voglio cantare

una canzone nuova

Voglio cantare

le radici che mi desti

Voglio cantare

l’inno che m’insegnasti

Voglio cantare

a te, nonno emigrante.

 

Voglio cantare

una canzone antica

Voglio cantare

una canzone nuova

Voglio cantare

la tua storia, gringo caro

Voglio cantare

alla fede e all’amore.

 

Voglio cantare

un canto alla vita

Voglio cantare

un canto di speranza

Voglio cantare

al passato, al futuro

che tu mi desti

nonno gringo, emigrante.

 

 

Infine, col cuore sempre diviso, tante volte penso:

 

Mamma contadina,

babbo contadino,

ora entrambi cittadini

riposate del lavoro!

Oh, se mi fosse dato

vorrei vedere

un vostro sorriso.

 

E tante volte sogno:

 

Vi sogno cari miei monti

Ti sogno, o mia Satriano,

Satriano di Lucania

nel cuore degli Appennini

con le ginestre sul pendìo

che portano il sole in terra.


[1] Drammaturgo uruguayano di fine Ottocento di origine italo-spagnola.

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