Storie di Donne Lucane
"racconti di figlie, madri, nonne."

Maria Schirone

 

 

Le edizioni de “Il Portale” Presentazione Nota della Curatrice
Intervento di apertura al premio "Storie di donne lucane"

Intervento di apertura al Premio
“Storie di donne lucane – racconti di figlie, madri, nonne”.

 

Partiamo da dati di riferimento ormai storici: la Basilicata è la regione italiana che in percentuale ha dato di più in termini di emigrazione; che è quanto dire: ha dato di più in energie, forza, capacità, potenzialità di sviluppo. Queste potenzialità sono state mandate ad esprimersi altrove. E mentre in Basilicata alcuni paesi si spopolavano e rischiavano l’estinzione, intere città e paesi esteri sorgevano o si riorganizzavano grazie all’apporto degli italiani tutti, dei lucani in particolare.

Non è un’affermazione retorica: sono tanti i lucani che hanno svolto un ruolo determinante nella configurazione di quartieri e città all’estero, e poi in economia, nella cultura e in altri campi.

Sono tanti gli studi su cause ed effetti dell’emigrazione; non ne parliamo qui perché ci porterebbe un po’ fuori del tema che ci vede insieme oggi. Ci limitiamo a dire che non sempre e non solo si partiva per necessità – anche se questo è certamente vero nella gran parte dei casi – e che le donne partite per ‘ricongiungersi al marito’, hanno poi cercato esse stesse di inserirsi nel lavoro, contribuendo alla ricchezza dei paesi di destinazione e segnando una differenza e un salto di qualità anche nella mentalità (in alcuni racconti che oggi premiamo ci sono esperienze di questo tipo).

Sta di fatto però che, in genere, le analisi più diffuse partono e arrivano agli emigranti uomini, certamente i protagonisti dell’esodo, colpiti essi stessi da quella spirale che mentre li portava via dalla Basilicata, rendeva al tempo stesso impossibile un miglioramento della situazione sul territorio per progressiva mancanza di manodopera. Spirale che solo negli ultimi vent’anni pare essersi arrestata, almeno come fenomeno di massa.

Le donne, quando presenti in questi studi, risultano diluite in una storia più generale. Nessuno vi ha davvero prestato attenzione. Eppure, la storia dell’emigrazione è fatta di voci maschili e femminili. Quei contratti agrari sfavorevoli e iniqui che hanno disperso in Europa i contadini e i braccianti fino agli anni ’70, sono gli stessi che mortificavano anche le donne contadine, le donne braccianti, le raccoglitrici di olive, le stagionali ecc. Spesso la mortificazione per le donne era anche più marcata. Quando nell’estate del ’45 la popolazione di Ginestra insorse per la mancanza d’acqua e migliaia di contadini invasero le terre c’erano anche le donne. Quando nel ’49 in Italia il salario medio dei braccianti era di 662 lire al giorno, nel Sud era di 390 lire, ma per le donne era di 195 lire. La media nazionale del salario mensile era di 18.300 lire, ma in Basilicata era di circa la metà, e per le donne la metà della metà.

Quando nel 1955 fu emanato un provvedimento per l’indennità di disoccupazione ai braccianti, le donne ne furono escluse, perché si sa, se non lavorano sono casalinghe, mica disoccupate. Sicché allo sciopero che seguì immediatamente per il contratto, vi fu una grande partecipazione di donne braccianti e lavoratrici dei campi. Come pure, tante contadine sono quelle che partecipano agli scioperi nell’ottobre e nel novembre del 1960: a MT sciopera l’80% delle raccoglitrici che lavorano fino a 10 ore per tre- quattrocento lire. E tante sono le donne fermate, arrestate, alcune rimaste uccise in quegli anni di occupazione delle terre al Sud come al Nord; e di emigrazione, dal Sud verso il Nord e verso l’Europa: la Germania, la Svizzera, la Francia, il Belgio. Eppure non se ne parla. Questa delle donne è una storia invisibile, come invisibili sono le loro partenze.

Poco si dice dell’emigrazione “di richiamo”, quella cioè delle famiglie, delle donne con o senza bambini, che partivano dopo, quando il capofamiglia già lontano aveva trovato una qualche sistemazione di lavoro e di casa. Ad esempio, se guardiamo alle statistiche relative alle donne emigrate in Belgio, troviamo che negli anni di più intensa emigrazione (anni ’50 e ’60) le donne sono curiosamente più numerose degli uomini. E’ chiaro il perché. Il maggior arrivo di donne negli anni ’50 è costituito da figlie di emigranti della prima ondata (cioè dal ’46) che sono state coinvolte nei ricongiungimenti dei nuclei famigliari. Il dato rallenta negli anni ’60, quando ancora interi convogli di uomini partivano per le miniere, e si ritrova poi in parità alla fine degli anni ’70, cioè quando marito, moglie, figli e figlie sono tutti ormai stabiliti nei nuovi paesi.

Al di là dei freddi numeri, non si può negare che le partenze siano state vissute almeno con una emotività diversa. Chi è partito con un obiettivo per così dire “attivo”, cioè per cercare il lavoro o con già un contratto sicuro, pur nel dramma dell’adattamento al nuovo, dello scontro tra culture e abitudini diverse, ha avuto comunque un fattore dalla propria parte: la motivazione.

Le donne invece, nella stragrande maggioranza sono partite dal proprio paese spinte al ricongiungimento della famiglia, spesso da poco costituita, ragazze che nulla conoscevano ancora non dico del mondo, ma neppure del resto della regione, e per le quali emigrare rappresentava la prima vera incognita della vita. Oppure, l’alternativa era di diventare per tutti una “vedova bianca”, così si chiamavano quelle che aspettavano il marito per Natale o per l’estate.

Hanno lasciato un ambiente fatto di poche cose, ma certe: la casa, la fontana, il vicolo, il vicinato: una rete di relazioni come solo i paesi mediterranei sanno costruire, una vita povera ma ricca di quella umanità che conosciamo nella nostra gente del Sud: lucana, calabrese, pugliese, campana… Per tutti, uomini e donne, la Basilicata è diventata ben presto “’a terra du ricorde”, come diceva il grande poeta lucano Albino Pierro, di Tursi (più volte candidato al Nobel e, ahimè, più noto a Stoccolma che in regione). Ebbene, com’è possibile che nelle analisi storiche e nelle Conferenze sull’emigrazione abbiano così poco rilievo proprio queste donne, così sradicate e catapultate in una realtà della quale ignoravano tutto, usanze, abitudini, alimenti… Al ruolo già normalmente ingrato della casalinga va ad aggiungersi il disagio dell’adattamento e soprattutto la difficoltà della lingua. Non motivata (almeno per qualche tempo) a un rapporto con gli altri, isolata nella possibilità di comunicare con i vicini o con i nuovi insegnanti dei figli. La confusione del presente, la nostalgia del passato, l’incertezza del futuro.

La realtà dell’emigrazione al femminile presenta dunque dei risvolti tuttora inediti. Sfugge alle cronache, alle statistiche, il dato che esiste quest’altra storia, parallela. Le donne nella storia non ci sono. Sembra che gli eventi siano mossi solo da uomini.

E’ una invisibilità ingiusta che non rende il merito della sofferenza condivisa, del cammino percorso da uomini e donne insieme nella nostra storia regionale e nazionale. Allora le donne nella storia dobbiamo farcele entrare noi. Per questo l’anno scorso, a Sciaffusa (1998), nel corso dell’affollata Conferenza “Lucane protagoniste in Europa”, invitammo tutte le donne lucane, dentro e fuori della Basilicata, a raccontarsi o a raccogliere le testimonianze delle donne di famiglia. Occorre costituire questa memoria storica al femminile, ricostruire qual è stato il percorso, in quali settori ci si è affermate, per completare con i tasselli giusti le vicende dell’emigrazione lucana, e quei profondi cambiamenti che sono in atto anche tra le lucane fuori della Lucania.

Perché il bilancio della donna emigrata, lucana in particolare, è pesante. Pezzi di vita che sono pezzi di storia.

Dal secolo scorso fino in tempi recenti, all’arrivo nei paesi ospiti le emigranti risultavano registrate spesso con una condizione “di casalinga” o di “disoccupata”; in realtà, ragazze fra i 16 e i 21 anni venivano reclutate soprattutto nel settore dell’abbigliamento, come sarte, pantalonaie, occhiellaie, o per lavori a domicilio, quando le case si trasformavano in botteghe e ci lavoravano anche i bambini molto piccoli, per quello che potevano fare. Non va dimenticato che nelle fasi di recessione degli stati ospiti, tra i lavoratori rimandati in patria si colpisce in primo luogo chi ha minore potere contrattuale, quindi in particolare le donne.

 Indagini mediche anche recenti danno proprio tra le donne emigrate i più frequenti casi di ricoveri e terapie per problemi mentali, stati d’ansia, depressione, legati a un mai raggiunto inserimento in condizioni estranee alle proprie abitudini.

Tuttora, su un campione di circa 1 milione di donne iscritte all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero, solo l’11 % dichiara una condizione lavorativa. Non escludiamo che sopravviva una realtà di “casalinghe” registrate come tali nei paesi di arrivo, ma che vengono reclutate al nero.

Per considerare tali questioni si stanno facendo i primi passi (a Roma, il Convegno Internazionale “Donna ed emigrazione”; in Svizzera, un convegno per le donne emigrate e immigrate; ecc.) necessari nell’affrontare la specificità storica della questione femminile anche in tema di migrazioni da e per i vari luoghi nel mondo.

Ci muoviamo in sostanza su un campo inedito. E proprio per questo bisogna rompere gli stereotipi. La donna lucana né in Basilicata né fuori è ormai più “la donna dallo scialle nero”, così dipinta da Levi e Scotellaro. È fatto giorno anche per lei. La battaglia per il riconoscimento e la conquista dei diritti politici, civili, sociali è stata ed è una battaglia di tutti, uomini e donne.

Le donne lucane studiano, lavorano, si inseriscono in campi impensabili fino a trent’anni fa, sebbene rimanga lo scarto tra la quantità di ragazze brave in tutti i livelli di scuola e la scarsa presenza a livello di dirigenti, presidi di scuole e facoltà universitarie.

Fuori della Basilicata le donne hanno trasformato il dramma in opportunità, hanno realizzato una inedita fusione tra culture, che rende spesso le donne lucane all’estero più avanti rispetto alle corregionali. Hanno dovuto confrontarsi con modi diversi di intendere il rapporto col lavoro, il rapporto coi figli, i tempi della famiglia. Questo è tanto più vero quanto più scendiamo come età e consideriamo le giovani generazioni, i figli e le figlie dei lucani all’estero. Se tra gli anziani, per una naturale autodifesa nell’impatto col nuovo, è più facile riscontrare una specie di cristallizzazione culturale, nelle abitudini e tradizioni che restano ferme nel tempo, ferme cioè al tempo della partenza, i giovani sono naturalmente più portati a un concetto più ampio di cultura, di intercultura, sono più precocemente europei, pur senza perdere di vista quella regione di cui hanno sentito raccontare dai genitori e dai nonni, e che talvolta tornano a conoscere un po’ da turisti.

Ebbene, mettere in comunicazione la Basilicata con la vostra realtà in evoluzione, farvi conoscere come e quanto essa cambi: questo è uno dei compiti che ci stiamo ponendo con le Associazioni lucane all’estero, un ruolo di "ponte" tra le due Basilicate. E, da parte vostra: farci conoscere le vostre esperienze, i percorsi di adattamento, di integrazione, le difficoltà comuni al cammino di uomini e donne per conseguire quegli irrinunciabili obiettivi di cittadinanza, di diritti comuni che oggi sono ancora negati in troppi paesi ospiti, come qui in Svizzera.

Obiettivi che sono politici, civili, sociali, in paesi dove donne e uomini vivono, lavorano, contribuendo al benessere di tutti. Si tratta di obiettivi specifici che le Associazioni possono svolgere aggregando nostri corregionali e connazionali, come luoghi propositivi, di lavoro coinvolgente i giovani e le giovani, perché non vada disperso il patrimonio di conoscenza delle proprie origini con il naturale avvicendarsi delle generazioni, e in un più ampio quadro di riferimento ai valori di democrazia, di lotta al razzismo e alla xenofobia, alla discriminazione etnica o di altro tipo, valori che affondano le radici proprio nella nostra storia di popolo migrante ovunque, e spesso discriminato, anche in tempi recenti, anche nella civilissima Europa. Raggiungere compiutamente i diritti politici, il diritto di voto amministrativo, superare gli ostacoli che si frappongono alla possibilità di cariche elettive da parte degli immigrati, rimuovere gli ultimi ostacoli al diritto di voto all’estero, possibilità questa che non dovrà vedervi in un ruolo di pura testimonianza ma soggetti propositivi degli italiani all’estero. Obiettivi che sono di tutti, uomini e donne.

E tuttavia: quante sono le donne presenti nelle Associazioni lucane? Quante quelle attive? Quante presidenti? Quante le donne elette nei COM.IT.ES.?

Dobbiamo superare la vecchia immagine della donna secondo cui la natura femminile implica esclusioni dalle responsabilità collettive. Anzi: incentivare la partecipazione della donna significa incentivare la stessa democrazia.

E’ una sfida all’idea che l’impegno, la passione nelle attività “altre” siano in antitesi ad altri ruoli più personali. Si tratta oggi di imparare a rispettare la differenza. Il problema, cioè, è di uscire da una ambiguità che costringe noi donne ad adeguarci al modello maschile di società anche negli impegni di lavoro o politici o sociali che siano.

Si tratta di far riconoscere il valore delle nostre altre attività, per superare quell’odioso aut-aut per cui essere impegnate debba necessariamente comportare pesanti rinunce, ai figli e ai propri tempi di vita familiare.

Si tratta di imporre alla società tutta il rispetto dei nostri tempi di vita, di lavoro, e di quella particolare condizione che fa, delle donne, delle madri. Innanzitutto, ma non solo, corresponsabilizzando anche gli uomini nella gestione delle cose di casa che riguardano entrambi. Insomma di tratta di non sentirci in svantaggio per una situazione che invece è il segno della nostra ricchezza e versatilità. Essere madre non può essere un “accidente” che impedisce la partecipazione alle attività collettive (sottolineo con passione questo punto perché so che c’è un problema diffuso di scarsa partecipazione delle donne nelle Associazioni dei lucani).

E invece proprio le donne lucane possono dire e dare tanto, sono ricche di preziose esperienze perché, staccandosi dalla propria regione, sono state determinanti nella difesa della propria famiglia dal trauma del distacco, conservando la cultura e l’identità lucana sia pure nelle semplici cose. E sono sempre loro che ricostruendo con i nuovi vicini una rete di relazioni, hanno contribuito all’innesto delle culture, operando inconsapevolmente quella originale fusione di cui dicevamo. All’interno della famiglia emigrata è la donna l’elemento determinante per mantenere o non mantenere, trasmettere o non trasmettere la cultura, le tradizioni, la lingua di origine; lei cura i rapporti con la famiglia rimasta al paese. E’ la donna cioè ad evitare che l’integrazione nei paesi di accoglienza si trasformi in perdita dell’identità di origine.

Questo ricco panorama di esperienze emerge dalle storie che avete voluto raccontare.

Intanto, con la premiazione di oggi ci auguriamo che le donne lucane escano dall’invisibilità, e si conosca la faticosa conquista di una propria identità anche nelle condizioni estreme della donna in emigrazione.

 

Maria Schirone  

componente della Commissione Regionale dei Lucani nel Mondo.

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