Storie di Donne Lucane
"racconti di figlie, madri, nonne."

Maria Schirone

 

 

Partenze Il mio viaggio all’estero alla ricerca di un futuro migliore Non ancora diciottenne misi la vita in una valigia… Una lucana emigrata in Svizzera

Non ancora diciottenne misi la vita in una valigia…

 di Angela Maria Carlucci
(da San Fele a Oftringen, Svizzera)

 

Ricordo bene il giorno del mio matrimonio[1]. Era la fine di gennaio e le stradine del mio paese[2] erano coperte da uno strato di neve e ghiaccio. C’era un’atmosfera di magia, nonostante il freddo gelido. Entrammo in chiesa quando un’altra coppia appena sposata era sul punto di uscirne.

Gennaio e febbraio erano i mesi in cui tutti si sposavano. Giovani ragazze consacrate a mogli per poi partire verso paesi lontani. Così fu anche per me. Un mese dopo la cerimonia partimmo per la Svizzera, l’inizio di un viaggio che ai miei occhi di giovane donna lucana appariva come l’America. Avevo l’impressione che andando in Svizzera la mia vita, fino ad allora poco eccitante, sarebbe cambiata totalmente. Nella stazione, in mezzo a un vero e proprio formicaio di gente, non mi restava molto tempo per pensare. Salii decisa su quel treno, piena di speranza nel cuore.

Quando mi trovai per la prima volta alla frontiera con la Svizzera, a Chiasso, mi sembrò di essere sulla luna. Là si aspettava per delle lunghissime ore per poter passare la visita medica, separate dal marito. Le sale d’aspetto erano immense. Per trovare un bagno bisognava andare lontano. I medici parlavano italiano, ma poco. Ci trattavano molto freddamente. Ricordando oggi, mi pare di vedere i profughi provenienti dall’Africa, dall’Albania. Sembravamo anche noi venuti dal Terzo Mondo. Per passare la visita, come si diceva, avevo solo la carta d’identità.

I miei diciotto anni li ho compiuti in Svizzera. Per festeggiare siamo andati al cinema, soli, io e mio marito, senza poterlo dire agli amici. Sono arrivata il 27 febbraio del 1963 e il 7 marzo successivo ho compiuto gli anni, con un metro di neve che quell’anno è rimasta fino a giugno, quando in Italia si facevano già i bagni al mare. Quell’anno non siamo potuti tornare in Italia perché eravamo ‘stagionali’, sprovvisti di un permesso di residenza permanente. Ho rivisto i miei famigliari solo a Natale del 1963, quando sono rimasta a San Fele per un mese e mezzo, nell’attesa che ci rinnovassero il permesso per ritornare in Svizzera.

Aarau mi piacque tanto; era una bellissima città. Abitavamo con una coppia di anziani in una casa nei pressi di quella città piena di negozi, una vera gioia per me. Nella zona c’erano già molti italiani, amici e conoscenti di mio marito. Un mese dopo l’arrivo ho trovato lavoro. La prima mattina mio marito mi ha accompagnata alla stazione a piedi, un percorso di trenta minuti. Poi dovevo contare le stazioni – uno, due, tre, quattro – facendo ben attenzione a non saltare quella tabella con il nome della fermata che avevo scritto su un bigliettino. Per mia fortuna il primo giorno c’era lì una paesana ad aspettarmi per portarmi in fabbrica.

Era un lavoro durissimo, pieno di polvere e in mezzo a un rumore frastornante, ma a me piaceva. Sul lavoro ho stretto subito amicizia con le altre donne, soprattutto con le donne italiane. C’era una napoletana sposata con uno svizzero che si prestava a fare da interprete.

Per me era dura, ma essendo partita da un piccolissimo paese, era tutta un’altra vita con risvolti a suo modo interessanti, anche senza conoscere il tedesco. Per far la spesa non c’erano problemi: non bisognava parlare molto. Al limite, ci si capiva a gesti e la gente del luogo era molto gentile. Non mi sentivo discriminata dagli svizzeri perché molti di loro stavano peggio di me. Come ho già detto, noi vivevamo in una casa con una coppia di anziani svizzeri. Per me questa donna era come una seconda mamma.

Tutti i sabato sera si usciva con gli amici o con altre coppie per andare al cinema o a cena da qualcuno. Di sabato al cinema davano tutti i film italiani, quelli di Visconti, di Fellini, con Anna Magnani, con Sofia Loren, con quel belloccio di De Sica e così via. Di quei tempi conservo un bellissimo ricordo. A volte andavamo a ballare in un grande teatro adibito a sala da ballo. La domenica, a fare delle lunghissime passeggiate nel bellissimo parco con ippodromo. Era… l’America.

Dopo sei anni è nata la prima figlia. Questo evento non mi ha dato problemi, anche se non avevo famigliari vicini. La signora Bircher, una donnina molto dolce e comprensiva, era lì ad aiutarmi e dopo un mese ho ripreso a lavorare. Mi alzavo alle quattro e mezza, preparavo la bimba e la portavo da lei per poi andare a lavorare. Quando la bimba ebbe circa sette mesi la vecchina non la volle più perché crescendo avrebbe rovinato i fiori del suo giardino. Così l’ho portata dai nonni in Italia, con l’intenzione di rientrare. La nostra casa in paese era già completata. Avevamo voluto fare prima la casa e poi i figli, come tante altre coppie in emigrazione. Se fossi ritornata in Italia in età più giovane, e senza più la necessità di lavorare, avrei voluto una famiglia numerosa con tanti figli. Ma lavorare e accudire tanti bambini era all’epoca impossibile. Ed era anche una questione economica.

La bambina l’ho ripresa con me dopo due anni e mezzo, perché i nonni non stavano bene in salute. Pensavamo di rientrare prima che ella andasse a scuola. Nel frattempo è nato mio figlio.

Il legame con l’Italia di un tempo è sempre esistito: si ascoltava la radio, si leggevano giornali italiani, si tornava anche due volte l’anno in Italia, si scrivevano più lettere, perché il telefono non c’era, o costava troppo. Mi rammarica che oggi, con il telefono, si sia perduta l’abitudine di scrivere lettere. A me piaceva tanto scrivere lettere, l’emozione che suscitava l’arrivo di una cartolina o di una busta con francobolli e timbri postali…

Oggi sono contenta di essere qui in Svizzera. Ho acquisito la doppia cittadinanza e mi trovo bene. Non è che abbia timori a rientrare in Italia, ma mi mancano le amicizie di un tempo, non ho più legami stretti. Fino a che mia madre era in vita – l’ho persa qualche anno fa – non si è mai spento in me un certo desiderio di tornare. Ora desidero tornare solo per le vacanze. Nonostante io abbia ancora dei fratelli che vivono lì, sono certa che la mia vita è qui in questo paese. Qui non ho una casa tutta mia, ma ho comunque un appartamentino carino, ho un mio lavoro.

L’Italia è comunque bella – ma io non tornerei. Qui mi sento finalmente libera. Parlo la lingua del luogo, anche se non perfettamente. Ma qui si parla italiano quasi ovunque. Come italiani siamo ormai ben visti e apprezzati. Abbiamo sì passato tempi molto duri; come donne italiane abbiamo cresciuto la famiglia lavorando, perché gli uomini non davano nessun contributo in termini di aiuti in casa: il loro impegno era il solo lavoro fuori. Le faccende di casa e l’educazione dei figli erano compiti della donna; i rapporti con gli insegnanti dei figli li curava la mamma per non far perdere ore lavorative al papà. La donna lavorava con il pensiero dei figli che dovevano andare a scuola. Era un grande sacrificio, un grandissimo problema sapere i figli soli durante la giornata. Io ho sempre avuto la forza di andare avanti. Sempre con il pensiero di poter, prima o poi, tornare in Italia. Ho smesso di pensare al rientro quando i figli hanno iniziato le scuole medie: mi sono convinta che fosse giusto per loro restare e inserirsi bene qui.

Ho mantenuto le tradizioni gastronomiche italiane. Mi piace la cucina svizzera - mio marito prepara qualche piatto tipico svizzero, come la “roesti” di patate. A me piacciono più le lasagne, i cannelloni, il panettone. E il caffè fatto con la moka tradizionale non lo cambierei mai.

Sono fiera di essere italiana, e del sud Italia. E di essere della forte terra lucana. Noi donne  del sud abbiamo sempre lavorato di più rispetto alle donne emigrate dal nord Italia, che hanno sempre guardato a noi con una punta di superiorità. Sia queste che gli svizzeri ci incolpavano di lasciare soli i figli. Ma la grande sofferenza morale era bilanciata dal buon rendimento dei nostri figli a scuola. E forse questo rendeva tutti gelosi di noi donne meridionali.

L’istruzione mi è sempre stata a cuore. Non ancora diciottenne, ragazza di paese, avrei desiderato continuare gli studi ma l’amore mi ha indicato la strada da seguire, o almeno così pensavo quando mi sono sposata. Mio marito ed io volevamo concretizzare qualcosa, costruire una casa per poi rientrare e formare una famiglia, ma è andato tutto al contrario. Ero comunque troppo giovane per fare una scelta cosciente. Oggi a cinquantacinque anni, se tornassi indietro, vorrei non rifare la vita che ho fatto, vorrei divertirmi di più. Abbiamo risparmiato tanto per farci una casa, tanti sacrifici, per poi abbandonarla. Oggi prenderei una casa qui e mi rammarico di non averlo fatto prima.

La donna italiana in emigrazione un tempo era ’schiava’, tutta lavoro, casa, cucina e figli. Era libera solo la domenica pomeriggio, dopo aver fatto tutte le faccende di casa ed essersi messa in pari per la settimana successiva. Andava anche poco a messa per non venir meno ai compiti della casa. Si faceva il bucato a mano in mancanza della lavatrice, sgobbando come bestie, senza più sentirsi donne, solo stanche ed abbattute.

Non rifarei più questa vita. Mi dispiace aver perso tanti anni della mia gioventù in questo modo. Un giorno – più di dieci anni fa: ricordo ancora bene il profumo del caffè quella mattina – ho smesso di pensare al rientro e ho iniziato a vivere pienamente qui: “Sono una vera italiana, la mia patria è sempre l’Italia, ma oggi vivo qui in Svizzera”, mi è schizzato in mente. Rispetto alle amiche lasciate in paese credo di essere più avanti, finalmente cresciuta. Con dispiacere devo constatare che molte donne italiane che vivono qui in Svizzera sono ancora ferme ad una mentalità arretrata; persino le loro figlie pensano solo in termini di lavoro e casa. Il massimo della felicità per queste donne è di sposarsi e metter su famiglia, ripetendo i vecchi modelli portati un tempo dall’Italia. Restano, dentro, come bambine che si rivolgono al marito-padre. Alle giovani suggerisco di mettere radici dove si vive, di farsi una casa, non importa se piccola. E cercarsi o crearsi un lavoro, essere contente di trovarlo; non pensare a rientrare perché ciò non fa che lacerare l’anima.

Per me il lavoro è sempre stato importantissimo, sia per motivi economici che di affermazione sociale, per i contatti con la gente. Non ho fatto brutte esperienze, per fortuna; credo di comportarmi bene e cerco di essere gentile con tutti. Oggi ho molti amici svizzeri. Un tempo gli svizzeri erano più freddi e distaccati. Prima ero troppo chiusa anch’io, mentre oggi parlo con tutti. Prendo un caffè con le amiche, sono nel coro della chiesa, partecipo a gare di ballo. Da alcuni anni ho scoperto le associazioni culturali, il teatro, i concerti di musica classica, la discoteca con mia figlia, le pizzerie con gli amici e con mio marito. Ho proprio l’impressione che ora ci sia più vita. Tornare al mio paese per me sarebbe come emigrare nuovamente; temo che non potrei più inserirmi in quella società. Qui mi sento libera e psicologicamente indipendente.

Credo molto nell’istruzione piuttosto che nella dote per le giovani donne. Vorrei che lo capissero quelle giovani italiane che, anche qui in Svizzera, si fermano ai figli e alla casa: sono sacrificate e proiettate indietro nel tempo. Apparentemente libere, ma solo con gli anni si rivela che la loro non è stata vita, e si sono ingannate da sole. La vita è verso l’esterno. Ho trovato questa forza interiore, forse anche grazie all’appoggio di una madre ultrasettantenne. “Fai del bene e te ne sarà fatto”, mi diceva. Poi, dal dialogo con altre donne è iniziata la mia apertura verso il mondo. Prima che donna sono innanzitutto un essere umano. Per sentirmi libera ho lottato tantissimo. La mia bacchetta magica si chiama gentilezza: così non ho mai trovato cattiveria lungo il cammino. Non ho vergogna di commettere errori; con un sorriso si aprono molte porte. Così ho imparato ad occuparmi di molte cose. Il mio ‘risveglio’ è avvenuto molto tardi, anzi, troppo, mi sembra. Se penso che un tempo le donne erano completamente isolate, anche dalle altre donne… e questo non era dovuto all’emigrazione, ma alla mentalità arretrata, rimasta ancorata a modelli immutati nel tempo.

Un sogno nel cassetto ce l’ho: desidero tanto viaggiare. Vorrei conoscere altri paesi e altre culture: l’India, l’Africa, ovunque vi sia povertà, perché credo che lì ci sia anche più cuore. Vedendo scene di profughi mi affliggo, perché un tempo anche noi emigrati eravamo visti così. Credo nella sofferenza degli altri perché l’ho provata sulla mia pelle. La terra straniera solo dopo vent’anni ha iniziato a diventare un po’ meno straniera e un po’ più mia. È stata una scelta cosciente sebbene tardiva.

La valigia con cui sono partita è ormai oggetto del passato. Non voglio più perdere tempo: come donna ora mi sento viva.


 

[1] La storia è raccontata da Antonietta Bagarozza, madre dell’A.

[2] San Fele (Potenza).

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