Dove la terra finisce
"i lucani in Cile"
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A PICA
In questo territorio “más árido del mundo”, dove non piove
mai, dove “le pietre che durante il giorno sopportano temperature
fino a 50 gradi, ricevono nello notte l’abbraccio del freddo, fino a
zero gradi, e si spaccano con un mormorio minerale” (L.
Sepúlveda),
i lucani hanno reinventato le abilità contadine, le
competenze acquisite al paese e in famiglia prima della partenza e
sono diventati imprenditori della terra, vincendo sulla terra
sconosciuta e ostile. Loro, i lucani duri come il caliche81,
da contadini si
sono spinti a cercare, più che oro o argento, terre dove far
crescere ciò che avevano dovuto abbandonare.
L’agricoltura intrapresa dai lucani a Pica (nell’oasi del Tamarugól)
è un’agricoltura di adattamento alle condizioni del deserto. Per la
cui riuscita si è dovuto selezionare la terra, “lavarla” con acqua
potabile per estrarne tutti i sali e i minerali, mescolarla con rena
e guano. In questo modo, con
81 Lo strato solido della pompa salitrera.
L’ortocoltura delle oasi rende soprattutto verdura (lattuga,
bietole, carote) e frutta (arance, guayana, mango e ottime
‘liniette’, limoncelli verdi e molto profumati) e, benché nel
Norte Grande solo il 2% dei suoli sia coltivabile, la produzione è
in grado di far fronte anche ai consumi urbani di Iquique. Non solo:
l’andamento stagionale permette anche l’esportazione di primizie o
di prodotti dell’estate australe verso i Paesi del nostro emisfero,
quando da noi è inverno.
E’ qui che i lucani hanno introdotto nuove colture e hanno
contribuito allo sviluppo dell’oasi. Giulia Cervellino
Calzaretta, oppidese nata a Pica, oggi cinquantenne, dice che
prima che si insediassero i lucani, a lavorare la terra erano
soprattutto peruviani che attuavano colture per il mercato interno,
a breve raggio. A suo parere gli italiani hanno aperto Pica al
mercato e alle comunicazioni col resto del Cile. Come esempio
racconta che i suoi genitori, arrivati nel ‘22, introdussero ex
novo coltivazioni di peperoni, barbabietole, spinaci, e perfino
del peperoncino.
Gianni
Napoli
Corvalan,
ventitreenne nipote di oppidesi, nativo cileno, racconta che il
nonno Antonio Napoli, dopo alcuni anni di lavoro come operaio
metalmeccanico e poi alle comunicazioni nelle Forze Aeree CiIene,
venne a Pica dove acquistò un terreno deserto, che riuscì a
rendere produttivo. Il padre di Gianni (stesso nome del nonno:
Antonio Napoli) è nato a Humberstone, la ‘città fantasma’ (v’.
scheda VIII) e si è sempre occupato di agricoltura, conseguendo
anche la laurea di ingegnere agronomo. Con le competenze acquisite
ha innovato l’agricoltura introducendo nuove tecnologie (mentre
Gianni studia ingegneria civile a Valparaíso).
Angela Calzaretta Frontuto
(nata a Tolve nel ‘26, arrivata a Iquique con la nave “Virgilio”
all’età di dieci anni) ricorda che il padre, dopo aver venduto latte
a Iquique fino al ‘34, si trasferì con la famiglia a Pica dove prese
a fare l’agricoltore. Divenne proprietario di 7 ettari di terra
coltivati a frutta, limoni e uva da vino da salariati boliviani,
mentre lui andava a distribuire frutta e vino ai minatori delle
salitre re.
Dopo la chiusura delle miniere egli dirottò, su camion e treni, il
commercio della frutta nella II° a Regione verso Calama e
Antofagasta, là dove il rame soppiantava il nitrato di
soda nell’economia nazionale (siamo nell’area di Chuquicamata, la
miniera a cielo aperto più grande del mondo).
Per chi provava il ‘braccio di ferro’ con la terra desertica non era
impresa da poco. Innanzitutto per il problema dell’acqua. Prima del
1989 il costo dell’acqua per l’irrigazione era molto elevato e
andava ad aggiungersi ai costi ancora più alti dell’acqua potabile.
Vi erano poi i fattori imponderabili: catastrofi naturali, incendi
(della cui frequenza in questa regione s’è già detto), conseguenti
spese impreviste. Molti agricoltori non riuscivano a ricavarne un
guadagno decente e cambiavano o vi affiancavano un’altra attività.
Naturalmente anche qui si rendeva necessario che qualcuno
distribuisse acqua e latte: come Antonio Da Ponte (nonno del
giovane musicista Gianfranco),
che prendeva l’acqua dalle navi cisterne che arrivavano a Iquique e
col mulo la distribuiva di casa in casa. E nel tempo libero
distillava grappa.
Numerosi i lucani che si sono attivati anche in un altro settore
indispensabile per la vita nell’oasi, quello dei trasporti. La
famiglia di Giulia Cervellino
avviò, oltre all’agricoltura, anche un’attività di trasporto merci
e passeggeri, con camion e autobus da e per Iquique.
Agricoltura e trasporti furono le attività principali anche per
Domenico Vaccarella Ragone, contadino di Oppido, che ha lavorato
vent’anni nell’oasi di Pica, finché la ‘peste della mosca
azzurra’non rovinò tutte le colture di arance, limoni e mango
dell’azienda di cui era dipendente. Racconta che già in condizioni
di buon raccolto era dura tirare avanti “perché quello che mi
pagavano era una miseria, non potevo ‘acatà latte per le bambine
, e quindi oltre al lavoro della terra trasportava con un
camion la frutta a Iquique. Dopo la rovina della ‘mosca azzurra’ si
trasferì con un figlio a Iquique, prima a imbottigliare vino, poi
come gestore di un negozio di generi alimentari. Oggi vive a
Santiago.
Più complessa la vicenda di un’altra famiglia di trasportatori
lucani a Pica, quella di Rocco Frontuto Caputo, 53
anni, di Tolve. Suo padre era stato in Belgio nelle miniere di
Charleroi (le più pericolose tra le miniere belghe). Ma il passaggio
dalla vita di pastore a quella di minatore era stato troppo duro,
pericoloso. Intanto a Santiago del Cile c’erano le sorelle che lo
incitavano a partire. Finito il contratto minimo di cinque anni non
se l’era sentita di continuare quel rischio quotidiano per quattro
sudatissimi soldi. Rocco ricorda la povertà in Italia: “cipolle,
pane e acqua; carne uno
82 Per i rischi nelle miniere del Belgio cfr. M. Schirone, Quelli
dal volto bruno, 20 vol., I lucani in Belgio, Pianeta
Libro 1998, p. 40 e ss.
HORIZONTE NARANJA
...
Pica des flora en truenos verdes
y perfuma los suenos de los mangos
de la infancia...
(Pigmaliòn, 1989)
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