Dove la terra finisce
"i lucani in Cile"

 

 

PARTE III°  -  I LUCANI A SANTIAGO - Maria Schirone
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I lucani a Santiago - 1° I lucani a Santiago - 2° I lucani a Santiago - 3°
I lucani a Santiago - 4°

SCHEDA X

 

IL GOLPE

 

All’indomani del colpo di stato, il generale Augusto Pinochet fece rinchiudere gli oppositori nello stadio di Santiago, che in quei giorni conobbe una triste notorietà in tutto il mondo democratico. Se ne contarono 4.000, stipati sugli spalti e negli spogliatoi, mentre nel centro della capitale agiva la Dina, la polizia segreta. Nella palazzina rossa che oggi ospita una scuola di giornalismo si decideva della vita e della morte degli arrestati e si praticavano le torture, agli ordini del generale Manuel Contreras (oggi agli arresti in Cile), direttore esecutivo della Dina tra il ‘73 e il ‘77 e braccio destro di Pinochet. Era l’attuazione della parte cilena del "Piano Condor": l’eliminazione sistematica di migliaia di persone in Cile, Brasile, Bolivia, Argentina, Uruguay, proseguita fino agli anni ‘80. Gran parte di ciò che avvenne in quegli anni fu noto in Europa dai racconti degli esuli e degli scampati alle persecuzioni politiche; invece proprio in Cile, tra i non oppositori, il vero volto del regime è rimasto in gran parte nascosto sotto gli spessi strati della propaganda e della censura.

Santiago è apparsa in questi anni, e appare, una città che si sviluppa velocemente sul ‘culto dell’oggi’, nell’amnesia del suo più recente passato. L’ufficialità ha ‘rimosso’ il problema, senza chiarirlo, né pro né contro. Scrive L. Sepúlveda: “In Cile ci sono molti giovani ai quali per sedici anni di dittatura e quasi dieci di democrazia vigilata è stato negato il diritto a una memoria storica”. *

La destra non ha più del 25% di consenso, ma ricopre incarichi di potere reale. Solo per l’arresto di Pinochet, e grazie a una maggiore libertà d’informazione, molti cileni hanno cominciato a conoscere l’altra faccia del regime militare (venticinque anni dopo!). Il grave fatto dì cronaca giudiziaria su scala internazionale ha almeno il merito di fornire a chi non ha potuto sapere, l’informazione su ciò che è stato.

 

*L. Sepúlveda, “Quando fui torturato dai generali di Pinochet” “La Repubblica’, 14 feb. 1999.

 

I lucani partiti negli anni ‘50-’60 verso la città di Santiago hanno intrapreso prevalentemente attività nel settore dei generi alimentari e nella ristorazione, collocandosi in un ceto medio tra i più benestanti dell’America latina. Mano a mano che essi e i propri figli acquisivano livelli di studio superiori si sono aperte anche migliori opportunità di inserimento in fasce dirigenziali della società cilena.

Non stupisce quindi che nei più drammatici frangenti della recente storia di questo Paese essi si siano preoccupati di una possibile perdita, o erosione, dei traguardi cui erano faticosamente pervenuti. In molti testimoniano disagi nell’attività commerciale durante gli anni tra il 1971 e il 1973. “En el tiempo de la Unidad Popular de Salvador Allende, tuvimos a punto de perder el negocio, porque los empleados se querian quedar con el y no habian mercaderias pura poder trabajar habriamos el negocio pocas horas” (Felice Abiuso Famularo). “Tra il ‘70 e il ‘73 non si poteva lavorare, non c’era merce da vendere, neanche il pane” (Rocco G. Natalino D’Aloia, Ana Rosa Caputo, Rocco G. Moles Lavanga, Donato Iannuzzi). “Non c’era merce e c’era il mercato nero” (Domenico Martiniello). “Io ero in Iquique e il coprifuoco ci ha rovinato nel nostro lavoro” (Michele Viola Pisani).

Dialogando sui brevi anni del governo Allende e sul colpo di stato militare, l’espressione più ricorrente è: “rischiavamo l’isolamento come Cuba”; molti si astengono da un qualunque giudizio, positivo o negativo. Filippo Giordano Contini, operaio in un'officina meccanica (finché per un infortunio sul lavoro gli si è spezzato il braccio sinistro) è più esplicito:

“Non mi sono iscritto a nessun partito, per questo sto vivo... Vero?...”

Non manca tuttavia, tra i più giovani, chi afferma che niente può giustificare il ricorso alla violenza fisica sistematica, com’è avvenuto negli anni della dittatura (“Nunca mas! “, ci dicono, ‘mai più’)95, e chi avverte i nuovi problemi aperti dal liberalismo economico.

 

“Pinochet un dittatore? Ma no, porfavooor! “, dice con enfasi Rocco Inserrato nel suo studio che si affaccia su Avenida il de Septiembre... e definisce “eccessi” quelli che per noi sono state violazioni gravi dei diritti umani. Presidente della Federazione dei Lucani del Cile, Rocco è ingegnere, docente all’Università Cattolica di Santiago e consulente di Progettazione presso il Ministero delle Opere Pubbliche dal 1982. Nonché, aggiungiamo noi, uno degli otto fratelli Inserrato che, con le proprie famiglie, costituiscono già un nutrito nucleo di lucani a Santiago. Questi i fratelli: Nicola, emigrato tra il Cile e Milano, ristoratore; Gerardo gestisce il Ristorante San Marco in Santiago; Agata e Maria gestiscono una pizzeria nel centro della capitale; e ancora Lucia e Vito, commercianti; infine Antonio, ingegnere civile.

E’ proprio Antonio che ci parla delle vicende della sua famiglia.

"Mio padre Michele e suo fratello Rocco partirono da Tolve per il Cile nel 1938 insieme a mia nonna, Mariantonia D’Aloia, per raggiungere il nonno che era qui dal 1923. Lui, il nonno, tra il 1905 e il 1910 aveva lavorato nelle miniere degli Stati Uniti. Là erano nate mia madre e una zia. Poi era tornato in Italia finché nel ‘23 volle tentare ancora. Partì solo:

analfabeta, credette di imbarcarsi per l ‘Argentina e invece sbarcò a VaIparoìso96. Si ritrovò in Cile a a fare il distributore di pane; poi aprì un negozio di generi alimentari. Al paese rimase mia madre, Raffaella Mussuto. Papà era ‘vaccaro’, mamma casalinga. I primi tempi hanno vissuto male, si lavorava tutto il giorno e si guadagnava poco, solo per mangiare. Per questo decisero di emigrare. Nel ‘47 partì dal paese anche mio fratello più grande, Nicola, con un cugino, Vito Iannuzzi. Ma mio cugino Vito non si abituava all’estero, voleva ritornare a Tolve. Diceva che voleva mangiare pane e cipolla, però vivere al paese.

Ancora più tardi (era forse il 1954) partirono Gerardo e Agata. Ormai metà della famiglia era in Cile e metà in Italia. Sicché il 18 marzo 1955 siamo partiti: mia madre, con i miei fratelli Maria Carmela, Lucia, Vito, Rocco e io. Un mese dopo eravamo a Valpuraíso. Mamma si adattò a fare mille lavori: far da mangiare, lavare, stirare, fare pulizie ecc. Rocco tentava sempre di scappare, voleva tornarsene in Italia.

Nel 1969 abbiamo perso nostro padre e io dovetti lavorare di giorno e studiare di notte per laurearmi in ingegneria. Poi, da ingegnere, ho vinto una borsa di studio dall’Ambasciata d’Italia e sono stato due anni a Roma, tra il 1981 e il 1983, per un corso di specializzazione all’università. Nel frattempo a Roma ebbi anche un ‘offerta di lavoro, ma sono tornato a Santiago perché a quel punto avevo nostalgia della famiglia lasciata in Cile!

Tornato a Santiago, invece, non trovai un lavoro adeguato e mi adattai ad aiutare mio fratello Gerardo miei ristorante,finché non fui assunto da una società d’informatica, per la quale sono andato a lavorare anche a Città del Messico e a San Paolo del Brasile.

Avrei potuto accettare un lavoro per la Chilectra’, una ditta statale per l'energia elettrica, ma avrei dovuto rinunciare alla cittadinanza italiana e prendere quella cilena. Non ho voluto farlo. Oggi collabora con mio fratello Rocco in progetti d’ingegneria civile.”

 

95  In Iquique i lucani ricordano quattro conoscenti fucilati e alcuni desaparecidos.

96  A chi scrive risultano non poche testimonianze, dirette e indirette, di imbarchi ‘sbagliati’. Sarebbe interessante rilevare su più ampia scala i casi di destinazioni 'ufficiali’ diverse da quelle reali. L’aspetto è probabilmente da collegarsi alle provvigioni percepite dai 'vettori’, i procacciatori di emigranti per conto delle compagnie di navigazione. Cfr. anche il I° voI, della presente collana, M. Schirone, Quelli dal volto brullo: I lucani nel inondo, cit., p. 34.

 

La testimonianza di Antonio offre numerosi spunti di riflessione. La nostalgia è sempre e solo per il paese d’origine? Oppure, radicandoci altrove, ci sentiamo anche di altri luoghi? E dunque l’identità ce la costruiamo nel corso della nostra storia, individuale e collettiva, non è un marchio d’origine, ma evolve di pari passo con le nostre vicende. Per questo, per molti emigrati, tante volte ‘rimpatriare’ ha lo stesso sapore di una nuova partenza. Così come la terra che ci ospita assume anch’essa una nuova identità: è quella fatta delle diverse presenze che agiscono e collaborano alla ricchezza e allo sviluppo di quel paese. Non ci si può rinchiudere nella nostalgia delle proprie ‘radici’ senza far sviluppare la chioma dell’albero, né viceversa. Pena, stavolta sì, una crisi d’identità determinata dallo spaesamento. Antonio ha provato la nostalgia del Cile, dove ormai stava formando la sua vita, e poco dopo ha dovuto decidere se rinunciare alla cittadinanza italiana, scegliendo di mantenerla, nonostante le difficoltà.

Gerardo ha iniziato la sua vita a Santiago distribuendo carbone a domicilio, poi s’è caricato addosso i sacchi di frutta dalle quattro di notte per rivenderli al mercato. “Quando abbiamo cominciato a lavorare in generi alimentari c’era ostilità, ci dicevano che eravamo venuti a togliere il lavoro. Quando chiudevamo il negozio ci prendevano a sassate sulla porta. Una volta è sembrata quasi una guerra civile, perché sono arrivati una ventina di carabinieri a difenderci e a spiegare di non disturbarci “. Il primo passo in un ristorante è stato come lavapiatti. Oggi è orgoglioso del suo Ristorante San Marco, veneto solo nel nome per via dei gestori precedenti, ma in cui si mangia alla lucana. Il suo rammarico è “di non aver vissuto la gioventù, si doveva soltanto lavorare “. Agata, arrivata a 15 anni a casa della nonna, ha aiutato i fratelli nella vendita del latte. Non ha avuto il tempo di coltivare amicizie, Agata, perché “lavoravo molto, trasportava casse piene di bottiglie di latte da un negozio all’altro, sui pullman o viceversa”, dice. Lo ha fatto fino a venti anni; poi ha aiutato i fratelli e i cugini a pulire, lavare, cucinare, stirare.., e la madre a tirare su gli altri sette fratelli. Perché lei è la terza, ma la prima delle figlie femmine.

A lungo prive di amiche per la difficoltà della lingua sono rimaste anche Lucia e Maria Carmela. “Ci dicevano che eravamo scappati dalla guerra, che eravamo dei morti di fame  . Anche loro hanno aiutato i fratelli.

Le vicende dei fratelli Inserrato sono simili a quelle degli altri lucani partiti per il Cile nel dopoguerra. Molti di essi, arrivati nella capitale cilena aprirono una rivendita di generi alimentari, dopo aver provato l’esperienza di venditori di pane o latte. Così riferiscono Nicola Maria Albano Glisci97 (sarto); Rocco Natalino Frontuto (pastore), Rocco Giuseppe Natalino D’Aloia (contadino), Donato Iannuzzi Mussuto (“vaccaro”), Nicola Maria Inserrato Becce (meccanico a Potenza); tutti di Tolve.

“Repartidor de agua y pan “, commerciante in generi alimentari e poi gestore di ristorante è stata la trafila vissuta da Rocco Vaccarella Cervellino, agricoltore di Oppido con una lunga esperienza di emigrazione in Argentina, mentre suo padre aveva lavorato in Iquique nei primi anni del Novecento. Ricorda gli inizi difficili “con muchos problemas”, gli scarsi guadagni (“alcanzaba apenas para vivir”), soprattutto le incomprensioni por el idioma” (per la lingua), ma “cuanda se incendio el negocio, nos ayudaron mucho los vecinas y amigos chilenos “.

“Vendedor de vinos ( Viña Santa Cruz)” e di generi alimentari è l’attività di Rocco Lancellotti Scima, di Oppido, e aggiunge “que hemos tenido muchos altos y basos “.

Domenico Martiniello, barbiere a Tolve: “Ho fatto cento mestieri, ho venduto pane, latte, ghiaccio, sono stato al mattatoio". Ha anche svolto volontariato per 57 anni presso i Bomberos de ‘ "La Cisterna “. Oggi e ristoratore del “San Carlo”, una pensione-ristorante a sud della capitale, in un quartiere della buona borghesia abitato da italiani.

 

Vito Abbruzzese Armiento (falegname) e Rocco Giuseppe Moles Lavanga (contadino) iniziarono come piccoli commercianti in frutta e verdura. Prima del Cile, Vito aveva alle spalle un’esperienza di sei anni in Argentina; oggi gestisce un ristorante. Rocco dice di essersi trovato "male, abbastanza sacrificato” all’inizio.

Ristoratore è anche Lorenzo Damone Fiore, che a Tolve faceva il fabbroferraio. L’oppidese Gerardo Baccelliere da “campesino “è diventato ristoratore; in seguito ha aperto una lavanderia.

Rocce Donato Mussuto D’Aloia (contadino, Tolve) trovò lavoro come distributore di pane grazie ad un amico, Matteo Rienzi, che vendeva ghiaccio. Pasquale Miranda Luongo (coltivatore diretto, Oppido), in Cile da 50 anni, è stato “panadera, empleado de un tio en su panaderia “, poi “fabricante de calzado” e oggi “vendedorde calzado”. Diverse le attività provate anche da Giuseppe Scelsi (Oppido), “peluquero (parrucchiere, barbiere) y comerciante “.

 

97 Tra parentesi le attività svolte al paese prima della partenza.

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