1.1
- Napoli e l’aristocrazia
Napoli è stata per secoli il centro catalizzatore del meridione
d’Italia grazie al suo sviluppo economico e culturale. Qui tanti
giovani andavano a studiare, i ricchi borghesi si trasferivano per i
loro affari, dando incremento ai traffici marittimi e rappresentando
una minaccia per l’aristocrazia che dominava la città.
Dal punto di vista urbanistico, Napoli era divisa in Piazze, formate da
rioni, detti Tocchi o Tocci se abitati da famiglie di rango, Ottine
quelli del popolo.
Il numero dei rioni variò nel corso dei secoli. In epoca normanna e
angioina c’erano 4 seggi maggiori e 25 minori; con gli spagnoli il
numero dei seggi fu portato a sette: quelli della Montagna o Somma
Piazza, di Capuana, del Nilo o Nido, del Porto, di Portanova, di
Forcella e del Popolo. I loro nomi erano dovuti rispettivamente alla
collocazione nella parte più alta della città, alla presenza della
famiglia Capuano, al rinvenimento della statua in marmo del fiume
Nilo, eretta dai mercanti di Alessandria d’Egitto, o alla presenza
di molti nidi di uccelli, al porto della città, alla porta nuova
edificata dopo l’allargamento della cerchia muraria, alla presenza
delle forche di giustizia e, infine, alla presenza del popolo grasso
(mercanti, artigiani, liberi professionisti. Le famiglie di maggiore
spicco erano quelle dei Carafa, Pignatelli, Afflitto, Sanfelice,
Cicinello, Russo, Coppola Di Gennaro, Capuana, Capecelatro,
Filomarino, Caracciolo, Vitagliano, Longo ed altri ancora.
La nobiltà ha partecipato al funzionamento del sistema di governo di
Napoli e di quello del Regno, mantenendo un livello di autonomia
rispetto al potere centrale del re e della chiesa. Le famiglie
aristocratiche godevano di regole proprie e vivevano nel rispetto di
tradizioni e costumanze locali; avevano diritto ai seggi o sedili
nel Parlamento, che aveva specifiche competenze amministrative
riguardanti 1) l’ordinamento edilizio e la tutela della pubblica
salute, delle acque, del conio della moneta con il controllo del
valore nominale; 2) le norme contrattuali matrimoniali (i capitoli)
con le quali salvaguardare le doti di “paraggio” di donne morte
senza figli, facendole ritornare alle famiglie di origine; 3) la
vita morale, la tutela dei costumi e delle tradizioni delle famiglie
residenti, il controllo del rispetto del culto religioso; 4) il
controllo e la garanzia dell’ordine cittadino, la difesa delle torri
e delle porte cittadine; 5) la concessione di lettere di
cittadinanza e delle patenti di nobiltà all’aristocrazia del regno.
Quest’ultimo aspetto era molto rilevante e talvolta scabroso. I borghesi
che dalla campagna si erano trasferiti a Napoli, qui avevano
consolidato una posizione di particolare prestigio e conquistato un
notevole peso contrattuale, tanto da chiedere il titolo di nobiltà e
di essere annoverati tra i Seggi con i loro rappresentanti. Essi si
ritenevano degni di quel titolo, per il concetto ormai diffuso che
alla nobiltà di sangue era da preferire la nobiltà derivante dal
sapere (nobilitas ex scientia praferenda est aliis nobilitatibus)
e secondo la “santissima scienza giuridica” (sanctissima legalis
scientia), la “vera nobilitas” era da conferire a chi si faceva
scudo di sapere e strumento di conoscenza e di servizio.
Con la patente di nobiltà i nuovi arrivati realizzavano una delle loro
massime aspirazioni sociali: accedere all’aristocrazia ed essere
ammessi nei suoi ranghi, per acquisire anche per sé quei privilegi
di vario ordine dei quali godeva la vecchia nobiltà.
1.2 – I Teatini
Nel
XVI secolo si ebbe in Italia la nascita dei chierici regolari, come
risposta a bisogni spirituali e materiali di livello locale, per
iniziativa di laici o di preti. Il titolo fu assunto da vari
istituti religiosi, che diedero vita ad un rinnovamento
generalizzato con le loro attività nell’educazione, nella
predicazione, nell’assistenza.
L'ordine venne fondato da Gaetano Thiene, Gian Pietro Carafa
(vescovo di Chieti, arcivescovo di Brindisi e poi papa col nome di
Paolo IV), Bonifacio de’ Colli e Paolo Consiglieri Ghislieri, che
già vivevano insieme dal 1517 nell’Oratorio del Divino Amore,
conducendo vita comune, legati dai voti di povertà, di castità e di
obbedienza, senza nulla possedere, mossi dal fine di riformare il
clero e di restaurare la regola primitiva di vita apostolica.
I
quattro esposero al pontefice il loro progetto di costituire una
fraternità di preti riformati, senza l’intenzione di creare un nuovo
ordine. Il Carafa, scrivendo all'amico Gian Matteo Giberti (1
gennaio 1533), affermava: «...Che non paresse che si volesse far
nova religione, si come in verità non volemo ne potemo. Et se ben
potessimo, non vorriamo perché non volemo esser altro che chierici
viventi secondo li sacri canoni in communi et de communi et sub
tribus votis, perciocché questo è il mezzo convenientissirno a
conservar la comune vita clericale».
Con il breve Exponi nobis del 24 giugno 1524 papa Clemente
VII concesse ai chierici di emettere i tre voti di povertà,
obbedienza e castità; di condurre vita fraterna in comunità portando
l’abito clericale in qualunque luogo da loro scelto sotto la
protezione della Sede Apostolica, di eleggere ogni anno un superiore
(che avrebbe portato il titolo di preposito), la cui carica poteva
essere riconfermata non oltre un triennio; la facoltà di ammettere
nuovi soci dopo un noviziato annuale; di poter provvedere agli
uffici liturgici secondo i canoni.
I
quattro emisero la loro solenne professione dei voti il 14 settembre
1524 nella basilica di San Pietro in Vaticano, nelle mani del
vescovo di Caserta Giovan Battista Boncianni, delegato del
pontefice. Essi conservarono la denominazione di chierici
regolari, che riassumeva un programma di vita: come chierici
si sarebbero occupati della cura delle anime, dell’amministrazione
dei sacramenti e della predicazione; come regolari avrebbero
dovuto condurre una vita comune e professare i tre voti.
La
prima sede della comunità di sacerdoti fu presso la chiesa di San
Nicola dei Prefetti in Campo Marzio: oltre a celebrare l'ufficio
divino, i religiosi si dedicavano allo studio e all'assistenza agli
ammalati presso il vicino ospedale di San Giacomo in Augusta.
Quando il titolo di chierici regolari fu assunto anche da
altre congregazioni, tra le quali quelle dei barnabiti, dei gesuiti,
dei somaschi, dei ministri degli infermi, dei caracciolini o
chierici minori della madre di Dio, all’ordine fu aggiunto il nome
di teatini, da Theate, nome latino della città di Chieti, dove il
Carafa ricopriva la carica di vescovo.
Il
30 aprile 1525 venne ammesso nell'ordine il primo postulante, il
futuro cardinale di Trani, Gianbernardino Scotti, e poi altri
candidati (quasi tutti provenienti dall'Oratorio del Divino Amore)
che portarono a dodici il numero dei chierici teatini. Un incremento
straordinario ebbe subito quest’ordine che passò dai 400 membri del
1600 ai 1400 del 1700.
I
teatini ebbero come sede un edificio sul Pincio, che divenne un
importante centro di spiritualità. Durante il sacco di Roma Gaetano
e i suoi compagni vennero fatti prigionieri: riuscirono a mettersi
in salvo e a rifugiarsi a Venezia, dove venne aperta la prima
filiale dell'ordine presso la chiesa di San Clemente. Il 14
settembre 1527 Gaetano di Thiene venne eletto preposito della
congregazione e poco tempo dopo, il 30 novembre 1527, la sede
dell'ordine venne trasferita in San Nicola da Tolentino.
Lo
scopo primario dei fondatori fu quello “di stabilire la vita comune
tra i sacerdoti addetti alle cattedrali e alle parrocchie affinché
essi potessero adoperarsi più efficacemente a riformare i costumi
del Clero e del popolo cristiano”.
Dopo la morte di S. Gaetano (1547) la diffusione di quest'ordine fu
assai rapida in Italia, perché lo zelo spiegato dai religiosi aveva
attirato fra loro molti sacerdoti e anche vescovi, distintisi per
santità, dottrina e nobiltà. Quando Gian Pietro Carafa nel 1555
divenne papa, affidò ai teatini il convento e la chiesa di S.
Silvestro al Quirinale, che divenne la sede generalizia dell'ordine.
Nel 1588 Costanza Piccolomini, duchessa di Amalfi, cedette il suo
palazzo, dove si trasferì e vi è tuttora la sede generalizia
dell’ordine in piazza Vidoni, e nei pressi venne edificata la chiesa
di S. Andrea della Valle.
In
quel tempo i teatini avevano altre due case a Roma, cinque a Napoli
e una ventina in altre città italiane. Nei secoli XVII e XVIII
moltiplicarono ancora le loro sedi d'Italia e altre ne fondarono
pure in Francia, Portogallo, Austria, Germania, nella Spagna ed
anche nell'Armenia e paesi limitrofi, a Goa e nell'isola di Borneo.
Nel sec. XIX l'istituto andò declinando, fino a che la S. Sede si
propose di restaurarlo unendogli la Congregazione religiosa della S.
Famiglia (1909) e quella di S. Alfonso de' Liguori (1910).
Quest'unione durò fino al 1916, ed ora i teatini, ritornati alla
regola primitiva, possiedono tre provincie religiose, d'Italia, di
Spagna e del Colorado (Stati Uniti).
Secondo la regola, l'ordine non può possedere né fondi né rendite
fisse e nemmeno può mendicare, dovendo confidare unicamente nella
divina provvidenza e contare sulle offerte spontanee dei
benefattori. I chierici si univano nel proposito di servire il
Signore nella serenità di una scelta che rifuggiva dall’ansia dei
beni e del possesso: “Servire il Signore senza affanno di patria e
di casa, né preoccupazione di beni, cibo, vestiti” ed esercitarsi
nella cura delle anime.
L’attività dei teatini influì grandemente sulla riforma della
Chiesa, sia per ciò che riguarda il clero sia per la restaurazione
della vita cristiana nel popolo, perché promossero la frequenza ai
sacramenti, ripristinarono l'uso della predicazione, si dedicarono
all'assistenza dei moribondi, in special modo dei condannati a
morte, e alla conversione degli eretici e degl'infedeli, né
trascurarono la direzione delle anime dedite alla perfezione e
l'educazione della gioventù. Si distinsero anche per zelo e carità
sia nel giubileo del 1525 a Napoli, sia durante la pestilenza del
1528.
Anche le missioni nei paesi infedeli debbono molto alla loro opera.
L'istituzione del Collegio di Propaganda Fide a Roma fu dovuta ai
consigli del teatino Michele Ghislieri (il futuro papa Pio V), e
Urbano VIII sceglieva tra loro i rettori e i maestri per quel suo
nuovo istituto. Il venerabile Avitabile, dopo aver trascorso 12 anni
evangelizzando l'Armenia, continuò la sua opera a Goa nell'India
portoghese.
1.3 – Le case dei Teatini a Napoli
Il
maggiore apostolato dai Teatini fu sviluppato nel sud Italia e,
soprattutto a Napoli. Qui l'11 febbraio 1533 venne fondata una casa
grazie alla munificenza di Giovanni Antonio Caracciolo, conte di
Oppido, e nel 1538 l’arcivescovo Oliviero Carafa (zio di Gian
Pietro) diede all’ordine come sede la basilica di San Paolo
Maggiore. Nella città partenopea, dove era forte l'influenza degli
Spirituali o "criptoluterani" di Juan de Valdés da una parte e, per
l’opposto, dei Sociniani, i chierici vennero impiegati, per la prima
volta, in funzione antiereticale.
Le
due case di San Paolo maggiore e dei SS. Apostoli con i loro
chierici avevano il compito di migliorare la religiosità e la morale
cristiana operando nei vari ambienti.
In
San Paolo e nei locali annessi sorsero l’Oratorio del Divino Amore,
che curava la formazione cristiana degli artigiani, la Congregazione
della ‘Sciabica’, che organizzava missioni per il recupero degli
operai ai doveri religiosi, l’Oratorio del SS. Crocifisso, detto dei
Cavalieri, perché in esso si riunivano i nobili per attendere alle
opera di beneficenza. Cittadini benestanti istituirono il Monte del
SS. Sacramento per finanziare il culto del SS. Sacramento e la
celebrazione delle ‘Quarant’ore’ e donare a dodici giovani povere la
dote per maritarsi. Nel 1539, sotto la direzione di Giovanni
Marinoni e dei padri Aurelio Paparo, Leonardo di Palma e Gian
Domenico Lega, fu fondato il ‘Monte di Pietà’ per sottrarre i poveri
agli usurai.
Anche i Teatini della Casa dei SS. Apostoli furono molto attivi:
ospitavano la Confraternita di Maria SS. del Porto, frequentata dai
medici che si impegnavano a curare gratuitamente ammalati poveri, e
la Confraternita di Sant’Ivo, composta da giuristi e avvocati, che
aiutavano i carcerati anche pagandone le spese processuali.
“La pastorale, la cultura e l’educazione della gioventù sono i
servizi che i Teatini oggi offrono alla Chiesa e alla comunità
civile, impegnati a continuare la missione di San Gaetano, fedeli
alla propria vocazione che li vuole radicati nelle virtù, attivi nel
servizio ecclesiale, attenti a perpetuare nella Chiesa e per la
Chiesa e per la Chiesa i benefici del loro carisma e del loro
ministero di chierici consacrati al Regno di Dio”.
All’ordine teatino appartennero uomini insigni per santità, per
dottrina e per cultura. Ebbero gli onori degli altari tre santi: S.
Gaetano (1480-1547), S. Andrea Avellino (1521-1608) S. Giuseppe
Tomasi (1649-1713); due beati: Giovanni Marinoni (1490-1562), Paolo
Burati d’Arezzo (1511-1578); e trecento fra Venerabili e Servi di
Dio. Fu insigne moralista Antonio Diana (morto nel 1662); scrittore
ascetico Lorenzo Scupoli (morto nel 1610); predicatore rinomato
Gioacchino Ventura (morto nel 1861); uomini di cultura Andrea
Molfese (morto nel 1620) e Tommaso Pelliccioni (morto nel 1631),
entrambi convinti da sant’Andrea Avellino ad abbandonare l’attività
forense e farsi teatini.
1.4 – La rivalità tra Gesuiti e Teatini
A Napoli, i primi ad insediare le missioni furono i gesuiti nel 1601. Essi
si dedicarono alla formazione degli ecclesiastici con gli Esercizi
spirituali, all’assistenza ai poveri, alle riconciliazioni
pubbliche, alla predicazione ai corsi di catechismo, alla
confessione, secondo le esigenze poste dal Concilio di Trento,
imperniate soprattutto sull’istruzione del clero e delle masse. Ciò
fece da modello alle altre missioni che sorsero successivamente.
A questo programma si attenne anche la missione dei teatini che sorse nel
1614, concepita per essere una missione permanente.
Notizie ci vengono dal teatino napoletano Valerio Pagano (1550-1631), i
cui scritti rimasero inediti e sono tuttora conservati parte nella
Biblioteca Nazionale di Napoli
e parte nell’archivio dei teatini di San Paolo.
Il 9 febbraio 1614 si tenne la prima missione per le strade di Napoli. Si
andava per la città nei giorni di festa per insegnare la dottrina
cristiana a chi oziava e per invogliare la gente alla confessione. I
padri andavano in processione, con un grande crocifisso davanti e
venti sacerdoti a seguirlo con in mano dei crocifissi più piccoli.
Camminando cantavano le litanie dei Santi e della Madonna. Dove
c’erano molte persone, un prete faceva una breve predica per
allontanarle dal commettere peccati e, distogliendoli dagli spassi e
dai passatempi del carnevale, le invitava ad unirsi alla
processione. Quando questa giungeva nella chiesa di San Paolo, un
prete con un sermone invitava i fedeli a confessarsi.
Questa prima missione s’inserisce in una vicenda che interessò i teatini e
i gesuiti tra il 1614 e il 1615 e che è di particolare interesse per
comprendere il clima religioso di quegli anni ed indagare sulla
rivalità tra i due ordini religiosi.
Napoli era percorsa dalle trasformazioni teologiche e comportamentali,
generate dal clima del postconcilio tridentino. Era dilagante il
dibattito religioso, sembrava lecito a tutti discutere di teologia e
mettere in discussione l’autorità papale. Contro l’ambiente
cattolico circolavano gli insegnamenti dei teologi antitrinitari
senesi di Socino, che, tra l’altro, mettevano in dubbio l’autorità
del Pontefice e la validità del sacramento della Eucarestia.
Notevole era anche l’influenza dei “criptoluterani” di Juan de
Valdes, per i quali era prevalente l’aspetto mistico e il legame
intimo e diretto con Dio.
Diffuso era il fenomeno delle “sante vive”, avversato dalla Chiesa,
che non vedeva di buon occhio neppure le terziarie francescane,
perché sfuggivano al suo controllo.
Come riferisce Pagano, c’era a Napoli una donna, Giulia di Marco, che da
semplice domestica aveva acquisito una cospicua eredità; divenne
terziaria francescana e si diede a fare opere di pietà. Con il suo
confessore, padre Aniello Arciero, formò un gruppo, il cui ideologo
fu ritenuto Giuseppe De Vicariis, un gentiluomo napoletano caduto in
disgrazia. Essi erano per l’applicazione letterale del detto di Gesù
“Amatevi gli uni con gli altri”, sicché il “commercio carnale” non
era peccato, anzi l’accoppiamento tra i sessi portava all’estasi
mistica. Questa nuova “dottrina” sessuale attirava non tanto il
popolino, nullatenente, quanto presso l’alta nobiltà napoletana, che
si diede a praticare la “carità carnale” nella stessa casa di Giulia
Di Marco, da tutti ritenuta santa, perché riusciva a dare sollievo
alle anime tormentate, grazie alle rivelazioni di p. Arciero dei
casi appresi in confessione.
Questa piccola congregazione godeva della protezione dei gesuiti, che mal
tollerarono la denuncia fatta dai teatini al tribunale napoletano
del Sant’Uffizio con l’accusa di eresia. I tre, portati a Roma,
furono riconosciuti colpevoli e il 12 luglio 1615 abiurarono nella
chiesa romana di Santa Maria sopra Minerva.
Tra le due congregazioni c’erano rivalità. Nelle missioni popolari i
gesuiti, non accettando le iniziative dei teatini, intervennero per
limitare la concorrenza e fare opera di indebolimento. Secondo
quanto riferisce Valerio Pagano, i gesuiti fecero pressione affinché
alcuni dei padri teatini che si adoperavano nelle missioni
lasciassero i teatini per unirsi a loro. Fallito il tentativo di
persuasione, essi si rivolsero al vicario generale che fu spinto ad
interrompere le missioni dei teatini e ad autorizzare solo i gesuiti
a compierle. Scrive Pagano: «Fecero tante e tali manifatture che il
Vicario ordinò a loro istanza che questi [i teatini] non uscissero,
ma solo li Padri Gesuiti; essi fecero andar le guardie di sbirri per
la città con ordine, che ritrovando altri che Padri Gesuiti a far
questo esercizio li prendessero prigioni».
Poco dopo, però, il Vicario, convintosi della efficacia delle
missioni teatine, riaccordò loro il permesso di fare missioni a
Napoli. Nella disputa intervenne anche il papa Paolo V per ben due
volte, che invitò i teatini a continuare le missioni e ribadì il suo
sostegno particolare ai missionari che le animavano.
Si rileva da ciò che si fronteggiavano due gruppi di potere rivali: il
regno di Napoli e i gesuiti con l’aristocrazia iberico-napoletana da
una parte, i teatini e la corte di Roma dall’altra. Tra i due ordini
c’era la lotta per la conquista degli spazi cittadini, per
l’egemonia religiosa, culturale e politica, che trovò facile terreno
di scontro nel campo delle missioni.
La strategia missionaria teatina, più pacata, si proponeva come
alternativa a quella “tutto fuoco” dei gesuiti, per ottenere la
salvezza delle anime dei fedeli. Lo scopo della loro azione era
identico, il mezzo per raggiungerlo era il pentimento, la
confessione e la comunione. Diversa era la forma. Gli elementi della
missione teatina erano: - la processione, che era il momento per
eccellenza per raccogliere le anime; - le iniziative in campo
sociale con interventi che si concentravano per lo più nel
ricomporre le liti tra nemici e in campo matrimoniale, per arginare
il fenomeno del concubinaggio, per dare le doti alle ragazze povere,
per correggere i matrimoni non legittimamente contratti; - le
confessioni e le comunioni generali: - la pacatezza del linguaggio
per non suscitare reazioni emotive troppo forti nell’uditorio; -
sermoni e sermoncini per attirare le persone ad unirsi alla
processione; - catechesi per l’insegnamento della dottrina cattolica
e la condanna delle eresie; - osservanza della Pastorale che dettava
“obbedienza, modestia, controllo dei gesti, dei discorsi, esame di
coscienza”. .
Se le finalità erano identiche con risultati positivi, perché tra i due
ordini c’era rivalità?
Molte erano le accuse ai gesuiti: l’abolizione della preghiera corale, la
circonvenzione dei più deboli, il lassismo morale, l’avidità di
potere politico ed economico, l’accoglienza come novizi di giovani
di famiglie ricche, la creazione di un’élite secondo il nodello del
collegio nobiliare sviluppatosi sulla matrice dei seminarium
nobilium. Soprattutto era criticata l’istituzione di collegi di
studi per la formazione di giovani discendenti da famiglie di alto
rango, destinati ad essere classe dirigente, non dando prevalenza
all’educazione delle masse, che vivevano nei quartieri periferici e
nelle campagne. Era sotto accusa lo stesso modello educativo
proposto dai gesuiti, considerato inadeguato per vari motivi, tra
cui, per esempio, l’opera di distruzione nei confronti della cultura
umanistica e l’inutilità del tempo speso “nelle metafisiche e in
studi che non servono”, a scapito di discipline utili per la
gestione degli affari e per l’esercizio delle professioni “alte”,
necessarie alla borghesia nascente ben vista dai teatini.
1.5 – L’inchiesta Innocenziana e la soppressione dei piccoli
conventi
La soppressione di piccoli conventi si colloca nell’ambito delle riforme
che la Chiesa attuava come applicazione del riassetto scaturito
dalle decisioni del Concilio di Trento, previste dal capitolo
“Riforma dei Religiosi”.
La riforma partiva dal presupposto della distinzione tra azione e
contemplazione e della relativa puntualizzazione di regime di vita e
di incombenze per il clero e per gli ordini religiosi: al clero
compete l’azione pastorale per la cura dei fedeli nelle parrocchie,
ai religiosi la vita contemplativa nelle comunità monastiche. Gli
ordini religiosi non potevano accettare nuovi membri nei conventi
che non fossero in grado di mantenerli e di non procedere a nuove
fondazioni senza il consenso dell’ordinario.
Papa Innocenzo X Pamphili (1644-1655) formò una Commissione di cardinali e
prelati di curia denominata Congregazione sullo stato dei
Regolari, col fine di conoscere la situazione delle rendite
economiche di tutti i conventi italiani, ritenute necessarie per la
vita di una comunità religiosa. Il 17 dicembre 1649 fu promulgata,
sotto forma di breve, la costituzione apostolica Inter
coetera,
con la quale si ordinava ai vari Ordini regolari una relazione che
rendesse la situazione economico dei loro conventi e delle loro
dipendenze (grangie ed ospizi), relativo all’edilizia, ai beni
patrimoniali, all’amministrazione, alle spese sostenute e alla
popolazione religiosa, e giudicasse se essa fosse congrua per
mantenere nel convento il numero delle persone necessario per il
culto divino e la regolare osservanza delle pratiche prescritte in
ciascun istituto. Raccolti e vagliati tutti gli elementi dalla
Congregazione, il papa con la costituzione Instaurandae regularis
disciplinae del 15 ottobre 1652
metteva l’accento sulla circostanza negativa che il troppo scarso
numero dei frati per convento impediva l’auspicata riforma degli
Ordini religiosi ed il ripristino della regolare osservanza. Il
documento comprendeva i seguenti punti:
Arenga – necessità di completare l’opera di riforma dei Religiosi;
Decreto – soppressione dei piccoli conventi;
Tempi – entro il limite massimo di sei mesi;
Pene – severissime ai superiori inadempienti e proibizione ai religiosi di
ritornare ad esercitare nelle chiese lasciate libere;
Beni – destinazione ad usi pii.
Pertanto, su 6.238 conventini esistenti ne furono soppressi 1513 con 805
grangie; i religiosi furono redistribuiti nei conventi maggiori. Gli
Agostiniani ne ebbero soppressi 342 su 817; i Benedettini 31 su 316;
i Carmelitani 224 su 562; i Domenicani 128 su 5520; i Francescani
(Minori Conventuali, Minori Osservanti, Cappuccini e Terzo Ordine)
513 su 2.870, i Gesuiti 3 su 127, i Servi di Maria 64 su 261 ed i
Teatini 3 su 46.
I Teatini ne rimasero sostanzialmente immuni, disponendo di conventi con
un numero piuttosto elevato di chierici, non inseriti in grossi giri
d’affari né avevano in gestione estese proprietà terriere è
interesse per operazioni finanziarie.
Nel 1649 l’inchiesta promossa dal Papa Innocenzo X colse i Teatini nel
momento in cui si verificava a loro massima espansione. Un secolo
prima erano soltanto 111, nel 1588 erano saliti a 352 e nel 1600 a
744. I religiosi provenivano per lo più dal ceto aristocratico, in
genere nativi del luogo in cui sorgeva il convento di appartenenza.
L’aumento era stato continuo e graduale, grazie ad una certa
autonomia di cui godevano le sedi, che consentiva alla vita
dell’Ordine dinamismo e sicurezza. Nel 1650 l’Ordine possedeva 46
conventi con un organico di 1.111 persone, ripartiti in quattro
province: romana, che comprendeva la Liguria, l’Emilia Romagna, la
Toscana e il Lazio, con 14 case ospitanti 341 persone, di Venezia e
Milano, comprendente il Veneto, la Lombardia e il Piemonte, con 12
case e 255 religiosi, di Napoli con 13 case che ospitavano 341
religiosi, con fisionomia aristocratica, e di Sicilia e Calabria con
7 case con 174 religiosi. La presenza di “conventini” era pressoché
irrilevante, esistendone soltanto tre in tutta la penisola, le case
di Frascati, di S. Pier d’Arena e Foggia.
Dai dati della relazione viene fuori un quadro della situazione economica
dell’Ordine e dei rapporti sociali intrattenuti dai Teatini con le
varie classi sociali e l’influenza dei conventi nella vita del luogo
in cui sorgevano.
In tutte le province si rileva la presenza dei Teatini nei grossi centri
urbani; tra i promotori e i fondatori delle case è un gran numero di
nobili e di ecclesiastici; nella provincia veneta anche di
personalità appartenenti alla borghesia cittadina. Frequenti erano i
casi in cui le famiglie nobili avevano fatto abbracciare ai propri
figli la vita religiosa, inserendoli nell’Ordine. Per converso, i
Teatini intrattenevano con i nobili rapporti di natura spirituale,
divenendo confessori di personalità influenti. Scarse erano le
proprietà immobiliari e fondiarie, costituite soltanto dalle
strutture conventuali da ristrutturare, le entrate derivavano dalle
elemosine, incerte ma consuete, e da lasciti, che attestavano una
situazione di disagio e di precarietà.
1.6 –Un cenno su due Teatini che hanno influito su Andrea Molfese
Prima di discorrere della figura di Andrea Molfese, è opportuno
accennare a due Teatini che nella sua vita hanno avuto una parte
importante: Sant’Andrea Avellino e Tommaso Pelliccioni, il primo un
lucano e quindi un suo corregionale.
A) Sant’Andrea Avellino
B) Tommaso Pelliccioni
Tommaso Pelliccioni, di Napoli, dimostrò sin dalla prima età un ingegno
prodigioso. All’età di dieci anni aveva appresso tutto delle lettere
umane e si diede allo studio del diritto alla scuola di Pino Alfano.
A quindici anni già partecipava a dibattiti su problemi giuridici,
distinguendosi per la soluzione di questioni difficilissime con
argomentazioni non comuni e guadagnandosi l’ammirazione generale,
nonostante “tanta acerbità di età”. Divenne ben presto assai celebre
nel foro di Napoli, tanto che molti colleghi si rivolgevano a lui
per pareri e giudizi. In una lite tra religiosi ed un marchese, le
parti si rivolsero a lui per dirimere la controversia. La sua
sentenza fu favorevole ai religiosi; il marchese si appellò al
Consiglio Collaterale, che confermò il giudizio di Pelliccioni.
Fu molto amico di Andrea Molfese, che ne apprezzava la ricchezza del suo
ingegno, amava trattare con lui di questioni legali, colpito dalla
sua erudizione. Entrambi, per comune destino, furono distolti da
Andrea Avellino dall’attività forense e persuasi alla vita del
chiostro. Pelliccioni fece la solenne professione nell’ordine
teatino a Napoli in Santa Maria degli Angeli il 19 Marzo del 1604.
Nonostante la salute malferma, fu sempre osservante delle regole
dell’Ordine, al quale – diceva – bisogna dare molto e prendere poco.
Fu umile e modesto, non rincorse mai la celebrità e disprezzò gli
onori. Ebbe un tale ardore di carità verso il prossimo, che Clemente
Alonso, rettore della casa dei Santi Apostoli, quando arrivava
abbondante e ricca elemosina, diceva che era per la carità che
Pelliccioni inculcava negli uomini.
Fu “gran direttore delle anime per condirle alla eterna salute,
indefesso”, e si distinse sempre per la sua prudenza e l’integrità
dei costumi, tanto che l’arcivescovo di Sorrento, Geronimo
Provenzale, lo volle nella sua diocesi perché si prendesse cura dei
sacerdoti.
Tormentato da gravissimi dolori di calcoli, cessò di vivere nella casa dei
Santi Apostoli di Napoli l’8 Agosto 1631. “Meritò di esser detto
eximii vir spiritus, et sive Litterarum praesidia, sive prudentiae
numeros ac pietatem spectes, nostratibus perinde ac exteris
commendatissimus”
(figura dallo spirito eccezionale, puoi ammirare in lui la
difesa delle lettere umane, i numeri del sapere nonché la pietà,
molto amato sia dai nostri concittadini che dagli stranieri).
“Quella cognizione delle Leggi, e del Foro, che giovane aveasi acquistata,
conservò per sì fatta maniera, che tutto immerso nelle occupazioni
del Clericato poté dirsi in tutta la sua vita l’Oracolo della
Giurisprudenza, a cui ricorrevasi da ogni parte, ed alle di lui
risposte affidavansi le controversie più ardue”.
Tutte le sue opere sono state pubblicate postume. Ricordiamo Illustrium
utriusque Juris Quaestiones Quinquaginta, in qua multa ad ustriusque
Fori directionem perutilia delucide pertractantur. Neapoli, in
Typographia Camilli Cavalli 1648, in foglio (cinquanta questioni
di entrambi i diritti di illustri studiosi, in cui sono trattati con
chiarezza molti argomenti assai utili alla direzione di entrambi i
Fori). È opera postuma, pubblicata da p. Francesco Bolvito e
dedicata ad Antonio Caracciolo, marchese di San Sebastiano, reggente
a Napoli del Consiglio Collaterale, ammiratore di Pelliccioni per la
sua dottrina. Lo stesso p. Bolvito fece stampare le Operette
ascetiche dal Pelliccioni manoscritte. Altre opere sono Gli
affetti della B. Vergine nella gravidanza, e nel parto e
L’Anima Agonizzante, pubblicata in Napoli nel 1633. Questo
opuscolo si divulgò molto tra le persone pie “saggiamente portate a
tenersi vivo nello spirito il pensier della morte”, come ha scritto
A.F.Vezzosi,
1.7 - La consuetudine come legge
Dall’alto medioevo alla prima età moderna le consuetudini regolarono
sia i rapporti di diritto pubblico che quelli di diritto privato.
L’autonomia, però, comportava molto spesso delle difformità nelle
sentenze e negli atti amministrativi, per l’esistenza di un sistema
normativo assai composito, che consentiva alla nobiltà la
conservazione e l’esercizio di antichi privilegi, fondati sulla
consuetudine e sugli usi avvertiti come superiori alle leggi,
Come si legge all’inizio del testo delle Consuetudini Amalfitane, se
“lex est sanctio sancta, bona tamen consuetudo est sanctio santior,
et quod ubi consuetudo loquitur, lex omnis tacet” (la legge è una
sanzione santa, ma una buona consuetudine è una sanzione più santa
e, dove la consuetudine parla, ogni legge tace).
Frequenti erano le liti e le discordie tra i cittadini per
l’incertezza delle consuetudini. Ognuno allegava per sé la
consuetudine e per provarla produceva i suoi testimoni, che erano
decisivi nella soluzione del litigio. Il re Carlo II d’Angiò, per
togliere ogni incertezza e disciplinare in termini giuridicamente
certi i rapporti personali e civili, fece raccogliere e scrivere in
un volume gli usi della città di Napoli, volle che fossero ridotte
in iscritto le consuetudini. Queste, raccolte in un volume,
costituirono “le vere consuetudini” convenienti alla città di Napoli,
furono approvate nel 1306, con il divieto ai giudici e a chiunque di
allegare consuetudini non contenute nel testo.
Esse seguivano un ordine preciso e trattavano delle successioni ab
intestato e poi di quelle ex testamento, della potestà che avevano i
figli di testare, delle donne maritate, che, uscendo dalla patria
potestà, potevano testare delle loro doti, secondo una certa
quantità, e disporne in altro modo, degli alimenti dovuti dai
genitori ai figli, delle doti e della quarta alla donna dovuta sui
beni del marito, dei contratti tra i mariti e le mogli, degli
strumenti fatti dai curiali. Dopo un intermezzo in cui si trattava
di casi nei quali si poteva pignorare la roba altrui, della ragione
del congruo, della testimonianza dei rustici e della servitù; si
riprendeva con i contratti delle locazioni, dei pegni, delle compre
e vendite.
In
conseguenza di ciò, si ebbe una proliferazione di testi
consuetudinari, con chiose, commenti ed edizioni di numerosi
giureconsulti, anche se da nessuno fu avvertita l’esigenza di
ridurre le parti controverse a principi stabili.
Il primo fu Sebastiano di Napoli, detto il Napodano, che
pubblicò il suo lavoro nel 1351, acquistando autorità per la sua
dottrina. Nel prosieguo degli anni si ebbero testi di altri autori,
tra i quali Matteo d’Afflitto, Antonio Capece, Marino Freccia,
Scipione Di Gennaro, Vincenzo de Franchis, Camillo Salerno,
Bartolomeo Marziale, Giovanni Angelo Pisanello. “Non ultimo fra i
comentatori del diritto consuetudinario fu il P. Molfesio”.
Da
allora con il nome di Consuetudine si intese un certo diritto
municipale, autorizzato dall’uso e dalla comune pratica di una città
e di una provincia e, pertanto, avente forza di legge. La
definizione è dovuta a Cicerone che nel De Inventione (libro
2, 67) così scrive: Consuetudinis ius esse putatur id, quod
voluntate omnium sine lege vetustas comprobavit, ossia il
diritto consuetudinario si ritiene essere ciò che per consenso
universale senza l’intervento di una legge è stato approvato
dall’uso antico.
Al
riguardo Andrea Molfese svolge un ampio discorso, qui riportato
nell’Appendice, nel cap. 11 del Nono Trattato relativo alle Leggi (De
Legibus) del Promptuarii triplicis juris divini, canonici et
civilis, seu Summae moralis Theologiae et casuum conscientiae, Pars
prima.
La
consuetudine è il diritto non scritto, che si assume come legge
quando questa manca; non usa lo stile proprio dei giudici e dei
notai, è universale quella che riguarda un’ampia regione, e
particolare se vige in un solo luogo. Quest’ultima è quadruplice:
scritta, preterita, cioè introdotta da lungo tempo, titolata, se ha
un titolo, e giudicata, quella adottata per due giudicature. Perché
sia nell’uso, occorrono quattro condizioni: che sia razionale, sia
nota al popolo, che caratterizzi gli atti per un tempo determinato e
sia usata dalla maggior parte della gente. Circa i suoi effetti,
sostituisce la legge quando questa manca, interpreta la legge, la
elimina, si usa in ogni negozio. Non ha più vigore solo se abolita
da una legge che dica il contrario della consuetudine, con la
formula Non obstante quacumque consuetudine in contrarium.
Con le Consuetudini venivano regolati i rapporti di diritto civile
in ordine a quattro grandi aree: la materia contrattuale, la sfera
commerciale, i rapporti tra i coniugi, il governo della comunità.
Molte norme dovettero tener conto dell’evoluzione sociale ed
economica e dovettero subire dei mutamenti, con gli usi che si
dissero “alla nova manera”, propri dei Sedili di Capuano e di Nido,
riguardanti in particolare le doti.
Il campo dove la tradizione consuetudinaria manifestò la sua forza e
la sua persistenza fu quello relativo ai rapporti tra i coniugi, sia
negli aspetti contrattualistici (matrimoni e clausole dotali) sia
nei profili successori. In questo ambito le modalità attraverso le
quali si dispiegava sia la successione ab intestato che quella
testamentaria confermavano il carattere e la tendenza della nobiltà
a conservare alla famiglia il patrimonio avito. Ne conseguiva
soprattutto una penalizzazione del figlio di famiglia e della donna,
la quale “appariva quasi un semplice mezzo di trasmissione di beni
che aveva portato dalla famiglia”.
Di
contenuto più specifico erano le consuetudini che regolavano i
rapporti privati tra le famiglie circa i seggi dei nobili.
Particolari, come indicati da Molfese, furono gli usi di Capuana e
Nido, i due seggi che si vantavano di raccogliere nel loro interno
il patriziato più antico e più illustre.
Si disponeva di far ritornare le doti delle donne che morivano senza
figli, oppure di questi in età pupillare o intestati (senza
testamento) nella famiglia da cui erano uscite, e di non far passare
i beni del marito, in caso di morte, nella famiglia della moglie.
La
materia dei testamenti, delle successioni, delle detrazioni di
legittima e suoi privilegi, il nuovo modo di testare, la riduzione
in forma pubblica delle ultime volontà, vivente ancora il testatore,
i nuovi testamenti ordinati davanti al parroco, le disposizioni
fatte a cause pie introdussero nuove contese. I maggiorati e le
primogeniture si fecero così frequenti che la loro materia empì la
giurisprudenza di nuovi termini, di nuove dispute. La successione
intestata viene regolata in un modo dal diritto canonico, in un
altro dalle consuetudini. Non minori liti procurarono l’enfiteusi, i
censi, i cambi, i contratti di assicurazione. Si introdusse il
diritto del ritratto, ossia del congruo, che regolava le
servitù nei poderi. Nella dottrina delle doti si previdero i nuovi
nomi di donativi, antifato e maffio (o mefio); per i matrimoni non
viene più richiesto il consenso del padre o avo, nella cui potestà
erano gli sposi. Le donazioni, le compre, le vendite e altre
alienazioni introdotte per contemplazione del matrimonio, i
contratti tra coniugi, tra padri e figli, prima proibiti, sono in
uso nelle leggi civili.
Per tanti e nuovi argomenti la giurisprudenza si ampliava, si
moltiplicarono gli avvocati, i procuratori, i curiali, i
giureconsulti.
Anche altri paesi del regno osservavano le loro consuetudini e
curarono di dare loro forma scritta. Famose erano, per esempio,
quelle di Bari, precedentemente raccolte e compilate dai giudici
Andrea e Sparano, da tutti lodate per la loro equità, contenenti
regolamenti relativi all’attività giudiziaria.
L’individuazione per un certo territorio di consuetudini redatte non
esclude una vigenza ed una pratica in altri territori, che, per
ragioni diverse, non avevano formalizzato per iscritto le loro
consuetudini; tuttavia, queste, per tradizione erano richiamate
negli atti notarili.
Per i nomi delle famiglie aristocratiche delle varie Piazze,
ved. S. Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, G.B.
Cappelli, Napoli 1601. In tutte le città del regno c’erano le
Piazze con i Sedili dei nobili; a Potenza c’era un solo seggio,
quello dei Possidenti, nell’attuale Piazza Sedile.
F. Tontoli, Judicia dicia et vota quae novissime pro majori
parte in foro aquilano prodita sunt, L’Aquila 1567, p. 53.
Sull’intera vicenda, ved. A. Arduino, Le congreghe sessuali-
Inquietante storia di uno scandalo nella Napoli del 1600,
Pref. di P.A. Rossi, E.C.G. Genova 1984, p.23. Si fonda su una
delle versioni del manoscritto originale stilato da un teatino
rimasto ignoto: Istoria di suor Giulia Di Marco e della falsa
dottrina insegnata da lei, dal padre Aniello Arciero, e da
Giuseppe De Vicariiis, n° 243 VIII, F. II- n° 263 VIII, B.45
–n°292 X, B.56 custodito presso la Biblioteca Nazionale di
Napoli; B. Croce, Aneddoti di varia letteratura, II,
Bari, Laterza, 1934, p.134 ss.
Ved. Archivio Storico del Vaticano, A.A. Arm. I-XVIII, 5611.
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