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DON ANDREA MOLFESE DELL'ORDINE DEI TEATINI

LEO VITALE  -  GIANNI PETRELLI

 

Capitolo Primo – Aspetti sociali, politici e giuridici tra ‘500 e ‘600 a Napoli e nel Regno

1.1  - Napoli e l’aristocrazia

 

Napoli è stata per secoli il centro catalizzatore del meridione d’Italia grazie al suo sviluppo economico e culturale. Qui tanti giovani andavano a studiare, i ricchi borghesi si trasferivano per i loro affari, dando incremento ai traffici marittimi e rappresentando una minaccia per l’aristocrazia che dominava la città. 

Dal punto di vista urbanistico, Napoli era divisa in Piazze, formate da rioni, detti Tocchi o Tocci se abitati da famiglie di rango, Ottine quelli del popolo.

Il numero dei rioni variò nel corso dei secoli. In epoca normanna e angioina c’erano 4 seggi maggiori e 25 minori; con gli spagnoli il numero dei seggi fu portato a sette: quelli della Montagna o Somma Piazza, di Capuana, del Nilo o Nido, del Porto, di Portanova, di Forcella e del Popolo. I loro nomi erano dovuti rispettivamente alla collocazione nella parte più alta della città, alla presenza della famiglia Capuano, al rinvenimento della statua in marmo del fiume Nilo, eretta dai mercanti di Alessandria d’Egitto, o alla presenza di molti nidi di uccelli, al porto della città, alla porta nuova edificata dopo l’allargamento della cerchia muraria, alla presenza delle forche di giustizia e, infine, alla presenza del popolo grasso (mercanti, artigiani, liberi professionisti. Le famiglie di maggiore spicco erano quelle dei Carafa, Pignatelli, Afflitto, Sanfelice, Cicinello, Russo, Coppola Di Gennaro, Capuana, Capecelatro, Filomarino, Caracciolo, Vitagliano, Longo ed altri ancora[1].

La nobiltà ha partecipato al funzionamento del sistema di governo di Napoli e di quello del Regno, mantenendo un livello di autonomia rispetto al potere centrale del re e della chiesa. Le famiglie aristocratiche godevano di regole proprie e vivevano nel rispetto di tradizioni e costumanze locali; avevano diritto ai seggi o sedili nel Parlamento, che aveva specifiche competenze amministrative riguardanti 1) l’ordinamento edilizio e la tutela della pubblica salute, delle acque, del conio della moneta con il controllo del valore nominale; 2) le norme contrattuali matrimoniali (i capitoli) con le quali salvaguardare le doti di “paraggio” di donne morte senza figli, facendole ritornare alle famiglie di origine; 3) la vita morale, la tutela dei costumi e delle tradizioni delle famiglie residenti, il controllo del rispetto del culto religioso; 4) il controllo e la garanzia dell’ordine cittadino, la difesa delle torri e delle porte cittadine; 5) la concessione di lettere di cittadinanza e delle patenti di nobiltà all’aristocrazia del regno.

Quest’ultimo aspetto era molto rilevante e talvolta scabroso. I borghesi che dalla campagna si erano trasferiti a Napoli, qui avevano consolidato una posizione di particolare prestigio e conquistato un notevole peso contrattuale, tanto da chiedere il titolo di nobiltà e di essere annoverati tra i Seggi con i loro rappresentanti. Essi si ritenevano degni di quel titolo, per il concetto ormai diffuso che alla nobiltà di sangue era da preferire la nobiltà derivante dal sapere (nobilitas ex scientia praferenda est aliis nobilitatibus)[2] e secondo la “santissima scienza giuridica” (sanctissima legalis scientia), la “vera nobilitas” era da conferire a chi si faceva scudo di sapere e strumento di conoscenza e di servizio[3].

Con la patente di nobiltà i nuovi arrivati realizzavano una delle loro massime aspirazioni sociali: accedere all’aristocrazia ed essere ammessi nei suoi ranghi, per acquisire anche per sé quei privilegi di vario ordine dei quali godeva la vecchia nobiltà.    

 

 

1.2 – I Teatini

 

Nel XVI secolo si ebbe in Italia la nascita dei chierici regolari, come risposta a bisogni spirituali e materiali di livello locale, per iniziativa di laici o di preti. Il titolo fu assunto da vari istituti religiosi, che diedero vita ad un rinnovamento generalizzato con le loro attività nell’educazione, nella predicazione, nell’assistenza.

L'ordine venne fondato da Gaetano Thiene, Gian Pietro Carafa (vescovo di Chieti, arcivescovo di Brindisi e poi papa col nome di Paolo IV), Bonifacio de’ Colli e Paolo Consiglieri Ghislieri, che già vivevano insieme dal 1517 nell’Oratorio del Divino Amore, conducendo vita comune, legati dai voti di povertà, di castità e di obbedienza, senza nulla possedere, mossi dal fine di riformare il clero e di restaurare la regola primitiva di vita apostolica.

I quattro esposero al pontefice il loro progetto di costituire una fraternità di preti riformati, senza l’intenzione di creare un nuovo ordine. Il Carafa, scrivendo all'amico Gian Matteo Giberti (1 gennaio 1533), affermava: «...Che non paresse che si volesse far nova religione, si come in verità non volemo ne potemo. Et se ben potessimo, non vorriamo perché non volemo esser altro che chierici viventi secondo li sacri canoni in communi et de communi et sub tribus votis, perciocché questo è il mezzo convenientissirno a conservar la comune vita clericale»[4].

Con il breve Exponi nobis del 24 giugno 1524 papa Clemente VII concesse ai chierici di emettere i tre voti di povertà, obbedienza e castità; di condurre vita fraterna in comunità portando l’abito clericale in qualunque luogo da loro scelto sotto la protezione della Sede Apostolica, di eleggere ogni anno un superiore (che avrebbe portato il titolo di preposito), la cui carica poteva essere riconfermata non oltre un triennio; la facoltà di ammettere nuovi soci dopo un noviziato annuale; di poter provvedere agli uffici liturgici secondo i canoni.

I quattro emisero la loro solenne professione dei voti il 14 settembre 1524 nella basilica di San Pietro in Vaticano, nelle mani del vescovo di Caserta Giovan Battista Boncianni, delegato del pontefice. Essi conservarono la denominazione di chierici regolari, che riassumeva un programma di vita: come chierici si sarebbero occupati della cura delle anime, dell’amministrazione dei sacramenti e della predicazione; come regolari avrebbero dovuto condurre una vita comune e professare i tre voti.

La prima sede della comunità di sacerdoti fu presso la chiesa di San Nicola dei Prefetti in Campo Marzio: oltre a celebrare l'ufficio divino, i religiosi si dedicavano allo studio e all'assistenza agli ammalati presso il vicino ospedale di San Giacomo in Augusta.

Quando il titolo di chierici regolari fu assunto anche da altre congregazioni, tra le quali quelle dei barnabiti, dei gesuiti, dei somaschi, dei ministri degli infermi, dei caracciolini o chierici minori della madre di Dio, all’ordine fu aggiunto il nome di teatini, da Theate, nome latino della città di Chieti, dove il Carafa ricopriva la carica di vescovo.  

Il 30 aprile 1525 venne ammesso nell'ordine il primo postulante, il futuro cardinale di Trani, Gianbernardino Scotti, e poi altri candidati (quasi tutti provenienti dall'Oratorio del Divino Amore) che portarono a dodici il numero dei chierici teatini. Un incremento straordinario ebbe subito quest’ordine che passò dai 400 membri del 1600 ai 1400 del 1700.

I teatini ebbero come sede un edificio sul Pincio, che divenne un importante centro di spiritualità. Durante il sacco di Roma Gaetano e i suoi compagni vennero fatti prigionieri: riuscirono a mettersi in salvo e a rifugiarsi a Venezia, dove venne aperta la prima filiale dell'ordine presso la chiesa di San Clemente. Il 14 settembre 1527 Gaetano di Thiene venne eletto preposito della congregazione e poco tempo dopo, il 30 novembre 1527, la sede dell'ordine venne trasferita in San Nicola da Tolentino.

Lo scopo primario dei fondatori fu quello “di stabilire la vita comune tra i sacerdoti addetti alle cattedrali e alle parrocchie affinché essi potessero adoperarsi più efficacemente a riformare i costumi del Clero e del popolo cristiano”.

Dopo la morte di S. Gaetano (1547) la diffusione di quest'ordine fu assai rapida in Italia, perché lo zelo spiegato dai religiosi aveva attirato fra loro molti sacerdoti e anche vescovi, distintisi per santità, dottrina e nobiltà. Quando Gian Pietro Carafa nel 1555 divenne papa, affidò ai teatini il convento e la chiesa di S. Silvestro al Quirinale, che divenne la sede generalizia dell'ordine. Nel 1588 Costanza Piccolomini, duchessa di Amalfi, cedette il suo palazzo, dove si trasferì e vi è tuttora la sede generalizia dell’ordine in piazza Vidoni, e nei pressi venne edificata la chiesa di S. Andrea della Valle.  

In quel tempo i teatini avevano altre due case a Roma, cinque a Napoli e una ventina in altre città italiane. Nei secoli XVII e XVIII moltiplicarono ancora le loro sedi d'Italia e altre ne fondarono pure in Francia, Portogallo, Austria, Germania, nella Spagna ed anche nell'Armenia e paesi limitrofi, a Goa e nell'isola di Borneo. Nel sec. XIX l'istituto andò declinando, fino a che la S. Sede si propose di restaurarlo unendogli la Congregazione religiosa della S. Famiglia (1909) e quella di S. Alfonso de' Liguori (1910). Quest'unione durò fino al 1916, ed ora i teatini, ritornati alla regola primitiva, possiedono tre provincie religiose, d'Italia, di Spagna e del Colorado (Stati Uniti).

Secondo la regola, l'ordine non può possedere né fondi né rendite fisse e nemmeno può mendicare, dovendo confidare unicamente nella divina provvidenza e contare sulle offerte spontanee dei benefattori. I chierici si univano nel proposito di servire il Signore nella serenità di una scelta che rifuggiva dall’ansia dei beni e del possesso: “Servire il Signore senza affanno di patria e di casa, né preoccupazione di beni, cibo, vestiti” ed esercitarsi nella cura delle anime.

L’attività dei teatini influì grandemente sulla riforma della Chiesa, sia per ciò che riguarda il clero sia per la restaurazione della vita cristiana nel popolo, perché promossero la frequenza ai sacramenti, ripristinarono l'uso della predicazione, si dedicarono all'assistenza dei moribondi, in special modo dei condannati a morte, e alla conversione degli eretici e degl'infedeli, né trascurarono la direzione delle anime dedite alla perfezione e l'educazione della gioventù. Si distinsero anche per zelo e carità sia nel giubileo del 1525 a Napoli, sia durante la pestilenza del 1528.

Anche le missioni nei paesi infedeli debbono molto alla loro opera. L'istituzione del Collegio di Propaganda Fide a Roma fu dovuta ai consigli del teatino Michele Ghislieri (il futuro papa Pio V), e Urbano VIII sceglieva tra loro i rettori e i maestri per quel suo nuovo istituto. Il venerabile Avitabile, dopo aver trascorso 12 anni evangelizzando l'Armenia, continuò la sua opera a Goa nell'India portoghese.

 

 

1.3 – Le case dei Teatini a Napoli

 

Il maggiore apostolato dai Teatini fu sviluppato nel sud Italia e, soprattutto a Napoli. Qui l'11 febbraio 1533 venne fondata una casa grazie alla munificenza di Giovanni Antonio Caracciolo, conte di Oppido, e nel 1538 l’arcivescovo Oliviero Carafa (zio di Gian Pietro) diede all’ordine come sede la basilica di San Paolo Maggiore. Nella città partenopea, dove era forte l'influenza degli Spirituali o "criptoluterani" di Juan de Valdés da una parte e, per l’opposto, dei Sociniani, i chierici vennero impiegati, per la prima volta, in funzione antiereticale.

Le due case di San Paolo maggiore e dei SS. Apostoli con i loro chierici avevano il compito di migliorare la religiosità e la morale cristiana operando nei vari ambienti.

In San Paolo e nei locali annessi sorsero l’Oratorio del Divino Amore, che curava la formazione cristiana degli artigiani, la Congregazione della ‘Sciabica’, che organizzava missioni per il recupero degli operai ai doveri religiosi, l’Oratorio del SS. Crocifisso, detto dei Cavalieri, perché in esso si riunivano i nobili per attendere alle opera di beneficenza. Cittadini benestanti istituirono il Monte del SS. Sacramento per finanziare il culto del SS. Sacramento e la celebrazione delle ‘Quarant’ore’ e donare a dodici giovani povere la dote per maritarsi. Nel 1539, sotto la direzione di Giovanni Marinoni e dei padri Aurelio Paparo, Leonardo di Palma e Gian Domenico Lega, fu fondato il ‘Monte di Pietà’ per sottrarre i poveri agli usurai.

Anche i Teatini della Casa dei SS. Apostoli furono molto attivi: ospitavano la Confraternita di Maria SS. del Porto, frequentata dai medici che si impegnavano a curare gratuitamente ammalati poveri, e la Confraternita di Sant’Ivo, composta da giuristi e avvocati, che aiutavano i carcerati anche pagandone le spese processuali.

“La pastorale, la cultura e l’educazione della gioventù sono i servizi che i Teatini oggi offrono alla Chiesa e alla comunità civile, impegnati a continuare la missione di San Gaetano, fedeli alla propria vocazione che li vuole radicati nelle virtù, attivi nel servizio ecclesiale, attenti a perpetuare nella Chiesa e per la Chiesa e per la Chiesa i benefici del loro carisma e del loro ministero di chierici consacrati al Regno di Dio”.

All’ordine teatino appartennero uomini insigni per santità, per dottrina e per cultura. Ebbero gli onori degli altari tre santi: S. Gaetano (1480-1547), S. Andrea Avellino (1521-1608) S. Giuseppe Tomasi (1649-1713); due beati: Giovanni Marinoni (1490-1562), Paolo Burati d’Arezzo (1511-1578); e trecento fra Venerabili e Servi di Dio. Fu insigne moralista Antonio Diana (morto nel 1662); scrittore ascetico Lorenzo Scupoli (morto nel 1610); predicatore rinomato Gioacchino Ventura (morto nel 1861); uomini di cultura Andrea Molfese (morto nel 1620) e Tommaso Pelliccioni (morto nel 1631), entrambi convinti da sant’Andrea Avellino ad abbandonare l’attività forense e farsi teatini.

 

 

1.4 – La rivalità tra Gesuiti e Teatini

A Napoli, i primi ad insediare le missioni furono i gesuiti nel 1601. Essi si dedicarono alla formazione degli ecclesiastici con gli Esercizi spirituali, all’assistenza ai poveri, alle riconciliazioni pubbliche, alla predicazione ai corsi di catechismo, alla confessione, secondo le esigenze poste dal Concilio di Trento, imperniate soprattutto sull’istruzione del clero e delle masse. Ciò fece da modello alle altre missioni che sorsero successivamente.

A questo programma si attenne anche la missione dei teatini che sorse nel 1614, concepita per essere una missione permanente.

Notizie ci vengono dal teatino napoletano Valerio Pagano (1550-1631), i cui scritti rimasero inediti e sono tuttora conservati parte nella Biblioteca Nazionale di Napoli[5] e parte nell’archivio dei teatini di San Paolo.

Il 9 febbraio 1614 si tenne la prima missione per le strade di Napoli. Si andava per la città nei giorni di festa per insegnare la dottrina cristiana a chi oziava e per invogliare la gente alla confessione. I padri andavano in processione, con un grande crocifisso davanti e venti sacerdoti a seguirlo con in mano dei crocifissi più piccoli. Camminando cantavano le litanie dei Santi e della Madonna. Dove c’erano molte persone, un prete faceva una breve predica per allontanarle dal commettere peccati e, distogliendoli dagli spassi e dai passatempi del carnevale, le invitava ad unirsi alla processione. Quando questa giungeva nella chiesa di San Paolo, un prete con un sermone invitava i fedeli a confessarsi.

Questa prima missione s’inserisce in una vicenda che interessò i teatini e i gesuiti tra il 1614 e il 1615 e che è di particolare interesse per comprendere il clima religioso di quegli anni ed indagare sulla rivalità tra i due ordini religiosi.

Napoli era percorsa dalle trasformazioni teologiche e comportamentali, generate dal clima del postconcilio tridentino. Era dilagante il dibattito religioso, sembrava lecito a tutti discutere di teologia e mettere in discussione l’autorità papale. Contro l’ambiente cattolico circolavano gli insegnamenti dei teologi antitrinitari senesi di Socino, che, tra l’altro, mettevano in dubbio l’autorità del Pontefice e la validità del sacramento della Eucarestia. Notevole era anche l’influenza dei “criptoluterani” di Juan de Valdes, per i quali era prevalente l’aspetto mistico e il legame intimo e diretto con Dio[6]. Diffuso era il fenomeno delle “sante vive”, avversato dalla Chiesa, che non vedeva di buon occhio neppure le terziarie francescane, perché sfuggivano al suo controllo.   

Come riferisce Pagano, c’era a Napoli una donna, Giulia di Marco, che da semplice domestica aveva acquisito una cospicua eredità; divenne terziaria francescana e si diede a fare opere di pietà. Con il suo confessore, padre Aniello Arciero, formò un gruppo, il cui ideologo fu ritenuto Giuseppe De Vicariis, un gentiluomo napoletano caduto in disgrazia. Essi erano per l’applicazione letterale del detto di Gesù “Amatevi gli uni con gli altri”, sicché il “commercio carnale” non era peccato, anzi l’accoppiamento tra i sessi portava all’estasi mistica. Questa nuova “dottrina” sessuale attirava non tanto il popolino, nullatenente, quanto presso l’alta nobiltà napoletana, che si diede a praticare la “carità carnale” nella stessa casa di Giulia Di Marco, da tutti ritenuta santa, perché riusciva a dare sollievo alle anime tormentate, grazie alle rivelazioni di p. Arciero dei casi appresi in confessione.     

Questa piccola congregazione godeva della protezione dei gesuiti, che mal tollerarono la denuncia fatta dai teatini al tribunale napoletano del Sant’Uffizio con l’accusa di eresia. I tre, portati a Roma, furono riconosciuti colpevoli e il 12 luglio 1615 abiurarono nella chiesa romana di Santa Maria sopra Minerva.

Tra le due congregazioni c’erano rivalità. Nelle missioni popolari i gesuiti, non accettando le iniziative dei teatini, intervennero per limitare la concorrenza e fare opera di indebolimento. Secondo quanto riferisce Valerio Pagano, i gesuiti fecero pressione affinché alcuni dei padri teatini che si adoperavano nelle missioni lasciassero i teatini per unirsi a loro. Fallito il tentativo di persuasione, essi si rivolsero al vicario generale che fu spinto ad interrompere le missioni dei teatini e ad autorizzare solo i gesuiti a compierle. Scrive Pagano: «Fecero tante e tali manifatture che il Vicario ordinò a loro istanza che questi [i teatini] non uscissero, ma solo li Padri Gesuiti; essi fecero andar le guardie di sbirri per la città con ordine, che ritrovando altri che Padri Gesuiti a far questo esercizio li prendessero prigioni»[7]. Poco dopo, però, il Vicario, convintosi della efficacia delle missioni teatine, riaccordò loro il permesso di fare missioni a Napoli. Nella disputa intervenne anche il papa Paolo V per ben due volte, che invitò i teatini a continuare le missioni e ribadì il suo sostegno particolare ai missionari che le animavano[8].

Si rileva da ciò che si fronteggiavano due gruppi di potere rivali: il regno di Napoli e i gesuiti con l’aristocrazia iberico-napoletana da una parte, i teatini e la corte di Roma dall’altra. Tra i due ordini c’era la lotta per la conquista degli spazi cittadini, per l’egemonia religiosa, culturale e politica, che trovò facile terreno di scontro nel campo delle missioni.

La strategia missionaria teatina, più pacata, si proponeva come alternativa a quella “tutto fuoco” dei gesuiti, per ottenere la salvezza delle anime dei fedeli. Lo scopo della loro azione era identico, il mezzo per raggiungerlo era il pentimento, la confessione e la comunione. Diversa era la forma. Gli elementi della missione teatina erano: - la processione, che era il momento per eccellenza per raccogliere le anime; - le iniziative in campo sociale con interventi che si concentravano per lo più nel ricomporre le liti tra nemici e in campo matrimoniale, per arginare il fenomeno del concubinaggio, per dare le doti alle ragazze povere, per correggere i matrimoni non legittimamente contratti; - le confessioni e le comunioni generali: - la pacatezza del linguaggio per non suscitare reazioni emotive troppo forti nell’uditorio; - sermoni e sermoncini per attirare le persone ad unirsi alla processione; - catechesi per l’insegnamento della dottrina cattolica e la condanna delle eresie; - osservanza della Pastorale che dettava “obbedienza, modestia, controllo dei gesti, dei discorsi, esame di coscienza”. .   

Se le finalità erano identiche con risultati positivi, perché tra i due ordini c’era rivalità?

Molte erano le accuse ai gesuiti: l’abolizione della preghiera corale, la circonvenzione dei più deboli, il lassismo morale, l’avidità di potere politico ed economico, l’accoglienza come novizi di giovani di famiglie ricche, la creazione di un’élite secondo il nodello del collegio nobiliare sviluppatosi sulla matrice dei seminarium nobilium. Soprattutto era criticata l’istituzione di collegi di studi per la formazione di giovani discendenti da famiglie di alto rango, destinati ad essere classe dirigente, non dando prevalenza all’educazione delle masse, che vivevano nei quartieri periferici e nelle campagne. Era sotto accusa lo stesso modello educativo proposto dai gesuiti, considerato inadeguato per vari motivi, tra cui, per esempio, l’opera di distruzione nei confronti della cultura umanistica e l’inutilità del tempo speso “nelle metafisiche e in studi che non servono”, a scapito di discipline utili per la gestione degli affari e per l’esercizio delle professioni “alte”, necessarie alla borghesia nascente ben vista dai teatini.       

 

1.5 – L’inchiesta Innocenziana e la soppressione dei piccoli conventi

La soppressione di piccoli conventi si colloca nell’ambito delle riforme che la Chiesa attuava come applicazione del riassetto scaturito dalle decisioni del Concilio di Trento, previste dal capitolo “Riforma dei Religiosi”.

La riforma partiva dal presupposto della distinzione tra azione e contemplazione e della relativa puntualizzazione di regime di vita e di incombenze per il clero e per gli ordini religiosi: al clero compete l’azione pastorale per la cura dei fedeli nelle parrocchie, ai religiosi la vita contemplativa nelle comunità monastiche. Gli ordini religiosi non potevano accettare nuovi membri nei conventi che non fossero in grado di mantenerli e di non procedere a nuove fondazioni senza il consenso dell’ordinario.

Papa Innocenzo X Pamphili (1644-1655) formò una Commissione di cardinali e prelati di curia denominata Congregazione sullo stato dei Regolari, col fine di conoscere la situazione delle rendite economiche di tutti i conventi italiani, ritenute necessarie per la vita di una comunità religiosa. Il 17 dicembre 1649 fu promulgata, sotto forma di breve, la costituzione apostolica Inter coetera[9], con la quale si ordinava ai vari Ordini regolari una relazione che rendesse la situazione economico dei loro conventi e delle loro dipendenze (grangie ed ospizi), relativo all’edilizia, ai beni patrimoniali, all’amministrazione, alle spese sostenute e alla popolazione religiosa, e giudicasse se essa fosse congrua per mantenere nel convento il numero delle persone necessario per il culto divino e la regolare osservanza delle pratiche prescritte in ciascun istituto. Raccolti e vagliati tutti gli elementi dalla Congregazione, il papa con la costituzione Instaurandae regularis disciplinae del 15 ottobre 1652[10] metteva l’accento sulla circostanza negativa che il troppo scarso numero dei frati per convento impediva l’auspicata riforma degli Ordini religiosi ed il ripristino della regolare osservanza. Il documento comprendeva i seguenti punti:

Arenga – necessità di completare l’opera di riforma dei Religiosi;

Decreto – soppressione dei piccoli conventi;

Tempi – entro il limite massimo di sei mesi;

Pene – severissime ai superiori inadempienti e proibizione ai religiosi di ritornare ad esercitare nelle chiese lasciate libere;

Beni – destinazione ad usi pii.

Pertanto, su 6.238 conventini esistenti ne furono soppressi 1513 con 805 grangie; i religiosi furono redistribuiti nei conventi maggiori. Gli Agostiniani ne ebbero soppressi 342 su 817; i Benedettini 31 su 316; i Carmelitani 224 su 562; i Domenicani 128 su 5520; i Francescani (Minori Conventuali, Minori Osservanti, Cappuccini e Terzo Ordine) 513 su 2.870, i Gesuiti 3 su 127, i Servi di Maria 64 su 261 ed i Teatini 3 su 46[11].

I Teatini ne rimasero sostanzialmente immuni, disponendo di conventi con un numero piuttosto elevato di chierici, non inseriti in grossi giri d’affari né avevano in gestione estese proprietà terriere è interesse per operazioni finanziarie[12].

Nel 1649 l’inchiesta promossa dal Papa Innocenzo X colse i Teatini nel momento in cui si verificava a loro massima espansione. Un secolo prima erano soltanto 111, nel 1588 erano saliti a 352 e nel 1600 a 744. I religiosi provenivano per lo più dal ceto aristocratico, in genere nativi del luogo in cui sorgeva il convento di appartenenza. L’aumento era stato continuo e graduale, grazie ad una certa autonomia di cui godevano le sedi, che consentiva alla vita dell’Ordine dinamismo e sicurezza. Nel 1650 l’Ordine possedeva 46 conventi con un organico di 1.111 persone, ripartiti in quattro province: romana, che comprendeva la Liguria, l’Emilia Romagna, la Toscana e il Lazio, con 14 case ospitanti 341 persone, di Venezia e Milano, comprendente il Veneto, la Lombardia e il Piemonte, con 12 case e 255 religiosi, di Napoli con 13 case che ospitavano 341 religiosi, con fisionomia aristocratica, e di Sicilia e Calabria con 7 case con 174 religiosi. La presenza di “conventini” era pressoché irrilevante, esistendone soltanto tre in tutta la penisola, le case di Frascati, di S. Pier d’Arena e Foggia. 

Dai dati della relazione viene fuori un quadro della situazione economica dell’Ordine e dei rapporti sociali intrattenuti dai Teatini con le varie classi sociali e l’influenza dei conventi nella vita del luogo in cui sorgevano.

In tutte le province si rileva la presenza dei Teatini nei grossi centri urbani; tra i promotori e i fondatori delle case è un gran numero di nobili e di ecclesiastici; nella provincia veneta anche di personalità appartenenti alla borghesia cittadina. Frequenti erano i casi in cui le famiglie nobili avevano fatto abbracciare ai propri figli la vita religiosa, inserendoli nell’Ordine. Per converso, i Teatini intrattenevano con i nobili rapporti di natura spirituale, divenendo confessori di personalità influenti. Scarse erano le proprietà immobiliari e fondiarie, costituite soltanto dalle strutture conventuali da ristrutturare, le entrate derivavano dalle elemosine, incerte ma consuete, e da lasciti, che attestavano una situazione di disagio e di precarietà.

 

1.6 –Un cenno su due Teatini che hanno influito su Andrea Molfese

 

Prima di discorrere della figura di Andrea Molfese, è opportuno accennare a due Teatini che nella sua vita hanno avuto una parte importante: Sant’Andrea Avellino e Tommaso Pelliccioni, il primo un lucano e quindi un suo corregionale. 

A) Sant’Andrea Avellino 

Andrea Avellino (1521-1608), al secolo Lancellotto Avellino, lucano, nativo di Castronuovo (Potenza), dopo aver studiato lettere classiche, matematica e musica, fu consacrato suddiacono nel 1537 e si mise al servizio dello zio arciprete, Ordinato sacerdote, si recò a studiare a Napoli, frequentando la facoltà di diritto per conseguire la laurea in utroque iure. La partecipazione agli esercizi spirituali, la volontà di progredire nella via della perfezione interiore e di dedicarsi totalmente a Dio lo distolsero dalle aspirazioni di grandezza e lo spinsero ad abbracciare lo stato religioso.

Il 14 agosto 1556 entrò come postulante nell’ordine dei Chierici Regolari Teatini di San Paolo, come novizio cambiò il nome di battesimo con quello dell’Apostolo Andrea e a gennaio del 1558 prese i voti. Si distinse per la sua cultura e la sua vita ispirata all’insegnamento evangelico e per questo venne nominato maestro dei novizi, carica che ricoprì per dieci anni, e fu più volte preposito dei Teatini di San Paolo. Le sue regole come superiore erano: agire con fermezza e con dolcezza; imitare il Signore Gesù che prima insegnò con l’esempio e poi con la parola; tenere presente il monito di san Bernardo ai preposti “vedano tutto, dissimulino molto, correggano poco”; valutare la buona volontà dei confratelli, apprezzare il loro operato e farlo conoscere perché sia di esempio e di sprone per gli altri. 

Esercitò la professione di avvocato nel Foro ecclesiastico per patrocinare le cause dei poveri innocenti e “sollevare il prossimo dall’oppressioni altrui” e “tener lungi da sé quell’oziosità, che stimava tanto dannosa”. Abbandonò l’attività forense perché pentito di aver fatto assolvere un sacerdote con una bugia, dopo aver letto nel libro della Sapienza (1,11) la frase “os quod mentitur occidit animam” (la bocca che dice menzogne uccide l’anima).

Da allora “colle sue efficaci persuasive ne indusse molti a assentarsi per sempre da’ Tribunali, e ricovrarsi sicuri ne’ Chiostri. Non sono da tacersi fra gli altri quei due celeberrimi Avvocati in Napoli Andrea Molfesio e Tommaso Pelliccioni. Ritrovandosi questi in una Libraria a studiare materie spettanti al Foro, vi sopraggiunse … il nostro Santo, fattosi già Religioso, …, il quale osservandoli molto applicati a rivolgere libri Legali, prese da ciò le prime mosse a discorrere de’ gran pericoli, e scogli inevitabili della loro Professione. Poi facendo questo argomento: “Se D. Andrea in difender la causa d’un Prete innocente, senza un minimo interesse, cadde sé facilmente nel detestabile vizio della Bugia, con quanta maggior facilità mentiranno anche in pregiudizio altrui quei Avvocati, che perorano per arricchir se stessi, piucché per sollevare i loro Clienti, mentre l’ingordigia del guadagno trangugia, come l’acqua, le iniquità”. Entrambi risolsero d’imitare il suo esempio e rinunziando in tutto al secolo vestirono l’abito della stessa Religione Teatina, che poi maggiormente illustrarono colla Santità della loro vita, e con la Dottrina de’ loro scritti, dati alla pubblica luce”[13].

Poco dopo la sua morte, avvenuta nel 1608 ai piedi dell’altare, ebbe inizio il processo informativo per la beatificazione che si protrasse per circa dieci anni dal dicembre 1614 all’ottobre 1624. Furono ascoltati 164 testimoni, tra i quali Tommaso Pelliccioni, che attestarono la santità di vita di p. Avellino, i prodigi operati e la sua sollecitudine per la salvezza delle anime. Per tali meriti riconosciuti Andrea Avellino fu proclamato beato da papa Urbano VIII il 14 ottobre 1624. Negli anni successivi furono esaminati i miracoli a lui attribuiti. Dopo la verifica e l’approvazione di tre degli otto miracoli presentati a supporto del processo, due a Senise il 25 aprile 1669 e il 28 aprile 1675 ed il terzo a Castronuovo nel 1678, riportando in vita un bambino di tre anni, il beato Andrea Avellino fu proclamato santo da papa Clemente XI il 22 maggio 1712[14]

Sant’Andrea Avellino è considerato protettore degli avvocati e degli uomini di legge insieme con Sant’Ivo e Sant’Alfonso de’ Liguori.

 

B) Tommaso Pelliccioni

Tommaso Pelliccioni, di Napoli, dimostrò sin dalla prima età un ingegno prodigioso. All’età di dieci anni aveva appresso tutto delle lettere umane e si diede allo studio del diritto alla scuola di Pino Alfano. A quindici anni già partecipava a dibattiti su problemi giuridici, distinguendosi per la soluzione di questioni difficilissime con argomentazioni non comuni e guadagnandosi l’ammirazione generale, nonostante “tanta acerbità di età”. Divenne ben presto assai celebre nel foro di Napoli, tanto che molti colleghi si rivolgevano a lui per pareri e giudizi. In una lite tra religiosi ed un marchese, le parti si rivolsero a lui per dirimere la controversia. La sua sentenza fu favorevole ai religiosi; il marchese si appellò al Consiglio Collaterale, che confermò il giudizio di Pelliccioni. 

Fu molto amico di Andrea Molfese, che ne apprezzava la ricchezza del suo ingegno, amava trattare con lui di questioni legali, colpito dalla sua erudizione. Entrambi, per comune destino, furono distolti da Andrea Avellino dall’attività forense e persuasi alla vita del chiostro. Pelliccioni fece la solenne professione nell’ordine teatino a Napoli in Santa Maria degli Angeli il 19 Marzo del 1604.

Nonostante la salute malferma, fu sempre osservante delle regole dell’Ordine, al quale – diceva – bisogna dare molto e prendere poco. Fu umile e modesto, non rincorse mai la celebrità e disprezzò gli onori. Ebbe un tale ardore di carità verso il prossimo, che Clemente Alonso, rettore della casa dei Santi Apostoli, quando arrivava abbondante e ricca elemosina, diceva che era per la carità che Pelliccioni inculcava negli uomini[15]. Fu “gran direttore delle anime per condirle alla eterna salute, indefesso”, e si distinse sempre per la sua prudenza e l’integrità dei costumi, tanto che l’arcivescovo di Sorrento, Geronimo Provenzale, lo volle nella sua diocesi perché si prendesse cura dei sacerdoti.

Tormentato da gravissimi dolori di calcoli, cessò di vivere nella casa dei Santi Apostoli di Napoli l’8 Agosto 1631. “Meritò di esser detto eximii vir spiritus, et sive Litterarum praesidia, sive prudentiae numeros ac pietatem spectes, nostratibus perinde ac exteris commendatissimus”[16] (figura dallo spirito eccezionale, puoi ammirare in lui la difesa delle lettere umane, i numeri del sapere nonché la pietà, molto amato sia dai nostri concittadini che dagli stranieri).  

“Quella cognizione delle Leggi, e del Foro, che giovane aveasi acquistata, conservò per sì fatta maniera, che tutto immerso nelle occupazioni del Clericato poté dirsi in tutta la sua vita l’Oracolo della Giurisprudenza, a cui ricorrevasi da ogni parte, ed alle di lui risposte affidavansi le controversie più ardue”[17].

Tutte le sue opere sono state pubblicate postume. Ricordiamo Illustrium utriusque Juris Quaestiones Quinquaginta, in qua multa ad ustriusque Fori directionem perutilia delucide pertractantur. Neapoli, in Typographia Camilli Cavalli 1648, in foglio (cinquanta questioni di entrambi i diritti di illustri studiosi, in cui sono trattati con chiarezza molti argomenti assai utili alla direzione di entrambi i Fori). È opera postuma, pubblicata da p. Francesco Bolvito e dedicata ad Antonio Caracciolo, marchese di San Sebastiano, reggente a Napoli del Consiglio Collaterale, ammiratore di Pelliccioni per la sua dottrina. Lo stesso p. Bolvito fece stampare le Operette ascetiche dal Pelliccioni manoscritte. Altre opere sono Gli affetti della B. Vergine nella gravidanza, e nel parto e L’Anima Agonizzante, pubblicata in Napoli nel 1633. Questo opuscolo si divulgò molto tra le persone pie “saggiamente portate a tenersi vivo nello spirito il pensier della morte”, come ha scritto A.F.Vezzosi,

 

1.7 - La consuetudine come legge

 

Dall’alto medioevo alla prima età moderna le consuetudini regolarono sia i rapporti di diritto pubblico che quelli di diritto privato. L’autonomia, però, comportava molto spesso delle difformità nelle sentenze e negli atti amministrativi, per l’esistenza di un sistema normativo assai composito, che consentiva alla nobiltà la conservazione e l’esercizio di antichi privilegi, fondati sulla consuetudine e sugli usi avvertiti come superiori alle leggi,  Come si legge all’inizio del testo delle Consuetudini Amalfitane, se “lex est sanctio sancta, bona tamen consuetudo est sanctio santior, et quod ubi consuetudo loquitur, lex omnis tacet” (la legge è una sanzione santa, ma una buona consuetudine è una sanzione più santa e, dove la consuetudine parla, ogni legge tace)[18].

Frequenti erano le liti e le discordie tra i cittadini per l’incertezza delle consuetudini. Ognuno allegava per sé la consuetudine e per provarla produceva i suoi testimoni, che erano decisivi nella soluzione del litigio. Il re Carlo II d’Angiò, per togliere ogni incertezza e disciplinare in termini giuridicamente certi i rapporti personali e civili, fece raccogliere e scrivere in un volume gli usi della città di Napoli, volle che fossero ridotte in iscritto le consuetudini. Queste, raccolte in un volume, costituirono “le vere consuetudini” convenienti alla città di Napoli[19], furono approvate nel 1306, con il divieto ai giudici e a chiunque di allegare consuetudini non contenute nel testo.

Esse seguivano un ordine preciso e trattavano delle successioni ab intestato e poi di quelle ex testamento, della potestà che avevano i figli di testare, delle donne maritate, che, uscendo dalla patria potestà, potevano testare delle loro doti, secondo una certa quantità, e disporne in altro modo, degli alimenti dovuti dai genitori ai figli, delle doti e della quarta alla donna dovuta sui beni del marito, dei contratti tra i mariti e le mogli, degli strumenti fatti dai curiali. Dopo un intermezzo in cui si trattava di casi nei quali si poteva pignorare la roba altrui, della ragione del congruo, della testimonianza dei rustici e della servitù; si riprendeva con i contratti delle locazioni, dei pegni, delle compre e vendite.

In conseguenza di ciò, si ebbe una proliferazione di testi consuetudinari, con chiose, commenti ed edizioni di numerosi giureconsulti, anche se da nessuno fu avvertita l’esigenza di ridurre le parti controverse a principi stabili[20]. Il primo fu Sebastiano di Napoli, detto il Napodano, che pubblicò il suo lavoro nel 1351, acquistando autorità per la sua dottrina. Nel prosieguo degli anni si ebbero testi di altri autori, tra i quali Matteo d’Afflitto, Antonio Capece, Marino Freccia, Scipione Di Gennaro, Vincenzo de Franchis, Camillo Salerno, Bartolomeo Marziale, Giovanni Angelo Pisanello. “Non ultimo fra i comentatori del diritto consuetudinario fu il P. Molfesio”[21]

Da allora con il nome di Consuetudine si intese un certo diritto municipale, autorizzato dall’uso e dalla comune pratica di una città e di una provincia e, pertanto, avente forza di legge. La definizione è dovuta a Cicerone che nel De Inventione (libro 2, 67) così scrive: Consuetudinis ius esse putatur id, quod voluntate omnium sine lege vetustas comprobavit, ossia il diritto consuetudinario si ritiene essere ciò che per consenso universale senza l’intervento di una legge è stato approvato dall’uso antico[22].

Al riguardo Andrea Molfese svolge un ampio discorso, qui riportato nell’Appendice, nel cap. 11 del Nono Trattato relativo alle Leggi (De Legibus) del Promptuarii triplicis juris divini, canonici et civilis, seu Summae moralis Theologiae et casuum conscientiae, Pars prima.  

La consuetudine è il diritto non scritto, che si assume come legge quando questa manca; non usa lo stile proprio dei giudici e dei notai, è universale quella che riguarda un’ampia regione, e particolare se vige in un solo luogo. Quest’ultima è quadruplice: scritta, preterita, cioè introdotta da lungo tempo, titolata, se ha un titolo, e giudicata, quella adottata per due giudicature. Perché sia nell’uso, occorrono quattro condizioni: che sia razionale, sia nota al popolo, che caratterizzi gli atti per un tempo determinato e sia usata dalla maggior parte della gente. Circa i suoi effetti, sostituisce la legge quando questa manca, interpreta la legge, la elimina, si usa in ogni negozio. Non ha più vigore solo se abolita da una legge che dica il contrario della consuetudine, con la formula Non obstante quacumque consuetudine in contrarium.

Con le Consuetudini venivano regolati i rapporti di diritto civile in ordine a quattro grandi aree: la materia contrattuale, la sfera commerciale, i rapporti tra i coniugi, il governo della comunità. Molte norme dovettero tener conto dell’evoluzione sociale ed economica e dovettero subire dei mutamenti, con gli usi che si dissero “alla nova manera”, propri dei Sedili di Capuano e di Nido, riguardanti in particolare le doti[23]. Il campo dove la tradizione consuetudinaria manifestò la sua forza e la sua persistenza fu quello relativo ai rapporti tra i coniugi, sia negli aspetti contrattualistici (matrimoni e clausole dotali) sia nei profili successori. In questo ambito le modalità attraverso le quali si dispiegava sia la successione ab intestato che quella testamentaria confermavano il carattere e la tendenza della nobiltà a conservare alla famiglia il patrimonio avito. Ne conseguiva soprattutto una penalizzazione del figlio di famiglia e della donna, la quale “appariva quasi un semplice mezzo di trasmissione di beni che aveva portato dalla famiglia”[24].

Di contenuto più specifico erano le consuetudini che regolavano i rapporti privati tra le famiglie circa i seggi dei nobili. Particolari, come indicati da Molfese, furono gli usi di Capuana e Nido, i due seggi che si vantavano di raccogliere nel loro interno il patriziato più antico e più illustre[25]. Si disponeva di far ritornare le doti delle donne che morivano senza figli, oppure di questi in età pupillare o intestati (senza testamento) nella famiglia da cui erano uscite, e di non far passare i beni del marito, in caso di morte, nella famiglia della moglie.  

La materia dei testamenti, delle successioni, delle detrazioni di legittima e suoi privilegi, il nuovo modo di testare, la riduzione in forma pubblica delle ultime volontà, vivente ancora il testatore, i nuovi testamenti ordinati davanti al parroco, le disposizioni fatte a cause pie introdussero nuove contese. I maggiorati e le primogeniture si fecero così frequenti che la loro materia empì la giurisprudenza di nuovi termini, di nuove dispute. La successione intestata viene regolata in un modo dal diritto canonico, in un altro dalle consuetudini. Non minori liti procurarono l’enfiteusi, i censi, i cambi, i contratti di assicurazione. Si introdusse il diritto del ritratto, ossia del congruo, che regolava le servitù nei poderi. Nella dottrina delle doti si previdero i nuovi nomi di donativi, antifato e maffio (o mefio); per i matrimoni non viene più richiesto il consenso del padre o avo, nella cui potestà erano gli sposi. Le donazioni, le compre, le vendite e altre alienazioni introdotte per contemplazione del matrimonio, i contratti tra coniugi, tra padri e figli, prima proibiti, sono in uso nelle leggi civili.

Per tanti e nuovi argomenti la giurisprudenza si ampliava, si moltiplicarono gli avvocati, i procuratori, i curiali, i giureconsulti.

Anche altri paesi del regno osservavano le loro consuetudini e curarono di dare loro forma scritta. Famose erano, per esempio, quelle di Bari, precedentemente raccolte e compilate dai giudici Andrea e Sparano, da tutti lodate per la loro equità, contenenti regolamenti relativi all’attività giudiziaria[26].

L’individuazione per un certo territorio di consuetudini redatte non esclude una vigenza ed una pratica in altri territori, che, per ragioni diverse, non avevano formalizzato per iscritto le loro consuetudini; tuttavia, queste, per tradizione erano richiamate negli atti notarili.


 

[1] Per i nomi delle famiglie aristocratiche delle varie Piazze, ved. S. Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, G.B. Cappelli, Napoli 1601. In tutte le città del regno c’erano le Piazze con i Sedili dei nobili; a Potenza c’era un solo seggio, quello dei Possidenti, nell’attuale Piazza Sedile.

 

[2] F. Tontoli, Judicia dicia et vota quae novissime pro majori parte in foro aquilano prodita sunt, L’Aquila 1567, p. 53.

[3] G.B.Moscatelli, De doctoratus dignitate decore ac authoritate, Venezia 1602, p. 781.

[4] Biblioteca Vaticana, Barb, lat. 5697, f 35-37.

[5] Valerio Pagano, Breve relazione del Principio e dei Progressi de la Religione de’ Chierici Regolari e delle attioni d’alcuni di essi Padri notate da Don Valerio Pagano dell’istessa napolitano, como fu istituito, et hebbe principio l’Oratorio per la conversione de’ peccatori, detto la Sciabica, nella nostra Chiesa di San Paolo in Napoli, governata e retta da I nostri padri, Biblioteca Nazionale di Napoli, Fondo San Martino 564, ff. 319r-323r). L’opera porta la data del 1616.

[6] Secondo Juan de Valdés (1500 circa-1541) l’uomo raggiunge la salvezza non con le opere, che non hanno nessuna influenza, ma solo con la fede, come affermato da Lutero. Per contro, non si accede alla verità tanto con lo studio delle Sacre Scritture, quanto attraverso un’illuminazione interiore dello spirito per grazia divina. Il suo spiritualismo sminuiva profondamente il ruolo della gerarchia ecclesiastica, nonché i riti esteriori e le devozioni. Ved. M. Firpo, Juan de Valdés e la Riforma nell’Italia del Cinquecento, Laterza, Bari 2016.

[7] Ibidem, f. 323r.

[8] Sull’intera vicenda, ved. A. Arduino, Le congreghe sessuali- Inquietante storia di uno scandalo nella Napoli del 1600, Pref. di P.A. Rossi, E.C.G. Genova 1984, p.23. Si fonda su una delle versioni del manoscritto originale stilato da un teatino rimasto ignoto: Istoria di suor Giulia Di Marco e della falsa dottrina insegnata da lei, dal padre Aniello Arciero, e da Giuseppe De Vicariiis, n° 243 VIII, F. II- n° 263 VIII, B.45 –n°292 X, B.56 custodito presso la Biblioteca Nazionale di Napoli; B. Croce, Aneddoti di varia letteratura, II, Bari, Laterza, 1934, p.134 ss.

[9] Ved. Archivio Storico del Vaticano, A.A. Arm. I-XVIII, 5611.

[10] Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat., 7247, ff. 196r-200v; ASV.A.A., Arm. I-XVIII, 5655, edito in Bullarium Romanum, XV, 696-700.

[11] L’elenco dei conventi soppressi, datato 24 ottobre 1652, è in ASV.CSR, 49.

[12] Ved. M.  Campanelli, I Teatini, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1987.  

[13] P. D. Gaetano Maria Magenis, Vita di S. Andrea Avellino della Religione Teatina chierico regolare, tip. Giacomo Tommasini, Venezia 1714, p. 37.

[14] I tre miracoli sono descritti da P. D. Gaetano Maria Magentis, Vita di S. Andrea Avellino, sopra citato.

[15] G. Silos, Historia Clericorum Regolarium, Tip. Pietro d’Isola, Palermo 666, vol. III, p. 107.

[16] A.F.Vezzosi, I scrittori de’ Chierici Regolari detti Teatini, Stamperia della Sacra Congregazione di Propaganda Fide, Roma 1780, parte seconda, p, 168.

[17] Ibidem.

[18] Consuetudo Civitatis Amalphae, in Archivio Storico Italiano, G. P. Viesseux, Firenze 1842-44, tomo I, Appendice 8, luglio 1844, p. 274.

[19] A. Molfese, Additionum ad quaestiones usuales seu ad primum volumen commentariorum consuetudinum neapolitanaraum, tomo II, tip. Lazzaro Scorigio, Napoli 1616, quaest. XVII, n, 36, p. 58.

[20] G. Muto, “Lo Stile Antiquo”: consuetudini e prassi amministrativa a Napoli nella prima età moderna, in Melanges de l’Ecole Française de Rome, vol. 100 (1988), n. 1, pp.317-330

[21] G. Miraglia, Della legislazione e giurisprudenza napoletana dalla caduta dell’impero di occidente sinoggi, Napoli, Stab. Tipografia all’insegna dell’Ancora, 1842, p.23.

[22] Ved., al riguardo, M. Pescatore, Carattere fondamentale della consuetudine: parte che occupa nel sistema generale del diritto, in Annali di Giurisprudenza, tomo I, Torino, Tip. Mussano e Bona, 1839, pp. 82 e 177.

[23] Nei Capitoli Matrimoniali c’era il patto di contrarre le nozze secondo il costume dei Proceri e dei Magnati, cioè “alla vecchia manera”, o secondo il costume dei Patrizi dei Sedili Capuano e Nido, detto “alla nova manera”. Nel primo caso, l’antifato era costituito dalla terza parte della dote e spettava alla moglie per intero solo se fosse premorto il suocero, altrimenti solo la metà; nel caso dei Patrizi, che erano sostenitori della conservazione dei beni nelle famiglie, esso era costituito dalla metà della dote e spettava alla donna, morto il marito, per intero. Al riguardo, ved. N. Valletta, Delle leggi del Regno Napoletano, Tip. M. Morelli, Napoli 1776, vol. II, p. 272 ss.   

[24] G. Muto, op. cit., p. 323.

[25] A. Di Letizia, Degli usi de’ proceri et Magnati e di Capuana e Nido, Tipografia Pietro Perger, Napoli 1786; F. Capecelatro, Origini della città e delle famiglie nobili di Napoli, Napoli 1749, ristampa anastatica, Brenner, Cosenza 1989.

[26] Ved. il testo delle Consuetudini Baresi a cura del cav. Giulio Petroni, Napoli, Stamperia e Cartiere del Fibreno, 1860, p. XII; E. Besta, Il diritto consuetudinario di Bari e la sua genesi, in Scritti di storia giuridica meridionale (a cura di G. Cassandro), Bari 1962.

 

CAPITOLO II  - SEGUE >>       

 

 

 

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