2.1- Note biografiche di Andrea Molfese
“Fra gli uomini che diedero lustro alla cittadina di Ripacandida …
merita il primo posto il Padre don Andrea Molfese, sommo giurista”.
Così inizia un articolo apparso a firma di Domenico Sinisi sulla
rivista Regnum Dei dell’Ordine dei Teatini, n. 21-22 del
1950. Poiché “l’insigne nostro giurista è, però, al presente quasi
dimenticato nella Patria che gli diede i natali” l’autore si augura
di “contribuire a destarne la memoria fra i connazionali e a farlo
conoscere a chi lo ignora”.
Poche sono le fonti da cui rilevare i dati biografici. La prima, che
è la più importante, risale al 1622 ad opera del preposito generale
della Congregazione dei Chierici Regolari don Andrea Piscara
Castaldo, che premette alla pubblicazione del secondo tomo dei
Commentari un ampio profilo biografico di Molfese. Una seconda fonte
è del 1654 ed è di Domenico Montanaro, che nel curare e pubblicare a
sue spese l’edizione postuma del terzo libro dei Commentari alle
Consuetudini Napoletane antepone un breve cenno sull’autore
stilato da Francesco Bolvito. Altre notizie sono di Giuseppe Silos
(1666), di Antonio Francesco Vezzosi (1780) e, per ultimo, del
citato Domenico Sinisi, i quali però nulla di nuovo aggiungono a
quanto già noto, attingendo essi agli autori prima riferiti. Alcune
notizie, infine, traspaiono qua e là nelle opere dello stesso
Molfese.
Il
suo nome era Giovanni Andrea, il padre, piuttosto ricco, si chiamava
Alfonso, che aveva sposato una donna di Venosa, come egli ricorda
parlando di una causa trattata in tale città (“donde ho origine per
parte di madre”). Nacque nel 1573, come egli stesso attesta: “Ho
compiuto 42 anni il 6 del mese di gennaio 1616, come vidi annotato
nel libro dei Battezzati dell’arciprete della terra di Ripacandida,
mia patria. Sono nato nel 1573 il 6 gennaio e fui battezzato l’8
dello stesso mese e anno”.
Sino al 14° anno seguì nel seminario di Melfi gli studi inferiori,
curando una notevole preparazione nelle lettere umane e mostrando
una particolare devozione per la Madonna, che pregava in
continuazione e con molto fervore, chiedendone la protezione. Il
vescovo, conoscendo il suo animo e apprezzando le sue doti, con una
certa insistenza gli chiedeva di farsi sacerdote, ma lui si mostrò
sempre titubante o contrario per seguire la volontà di suo padre e
per questo interruppe gli studi, che riprese dopo sei anni, seguito
dall’arciprete don Leonardo Baffari. Con questi, nominato primo
lettore dei Sacri Canoni e Penitenziere dell’arcivescovado di
Napoli, si recò nella città partenopea, s’iscrisse alla facoltà di
giurisprudenza, laureandosi in utroque iure, ossia in diritto civile
ed ecclesiastico. Operò per oltre dodici anni nei Tribunali con
Paolo Staibano, suo maestro e con altri dotti, dai quali ricevette
pratica e dottrina, lesse molti autori di varie materie, patrocinò
cause civili, che lo resero famoso nel Foro.
Nel 1602, mentre con un collega, Tommaso Pelliccioni, stava
consultando del libri giuridici in una libreria di fronte alla
chiesa di San Gregorio Armeno, fu avvicinato da Andrea Avellino, un
sacerdote che divenne santo e che col suo apostolato cercava di
condurre a Dio anche i dottori in legge, e gli parlò dei Teatini,
invitandolo ad entrare nell’Ordine. Fu scosso profondamente dalla
morte di un suo giovane fratello, subì una crisi interiore, che
superò con la decisione sicura di dover entrare tra i secolari;
perciò, sebbene fosse un avvocato famoso, smise di esercitare
l’attività forense per dedicarsi al servizio di Dio da religioso.
Molfese, quindi, chiese ed ottenne di farsi chierico regolare. Il 7
marzo 1605, a 30 anni, entrò nel convento di Santa Maria degli
Angeli di Napoli, cominciò a formarsi secondo le regole
dell’Istituto e, passato un quadrimestre di accoglienza, il 16
luglio indossò l’abito e dopo l’anno di prova pronunciò i voti
solenni. Poi, compiuto il corso di Filosofia e Teologia, il 20
dicembre del 1608 fu suddiacono, l’anno dopo divenne diacono e il 23
settembre 1613 fu ordinato sacerdote.
Pur avendo un fisico gracile, continuò ad applicarsi
all’approfondimento delle scienze sacre; afflitto da salute avversa,
emorragia e febbre quasi continua, all’inizio di luglio del 1620 si
recò a Sorrento, dove era la Casa dei Teatini e la chiesa a
Sant’Antonio abate, ma qui fu colpito da pleurite e da febbre, che i
medici chiamano lypiria (fuoco di Sant’Antonio), sicché fu
costretto a ritornare a Napoli, dove morì l’8 agosto 1620, all’età
di 47 anni e dopo essere vissuto nell’Ordine per 16 anni.
La
sua vasta erudizione nel campo delle scienze teologico-giuridiche è
attestata dalle sue opere edite e inedite.
Le
prime sono:
1.Commentaria
ad consuetudinum neapolitanarum per quaestiones distributa. Tip.
Lazzaro Scorigio, Napoli 1613. A mo’ di presentazione al lettore
segue: “Habes hoc volumine, lector, successionum et
renunciationum omnium, alimentorum item, dotium, et donationum
propter nuptias amplissimam materiam, diligentissime explicata.
Accesserunt ejusdem auctoris consilia, quae his
ipsis rebus elucidandis mirifice faciunt. Opus omnibus
studiosis non solum in hac civitate, et Regno, sed etiam ubicunque
statuta vigent, ut stantibus masculis, foeminae non succedunt,
apprime utile, ut conspicienti patebit. [Hai, lettore, in questo
volume una vastissima materia, spiegata con molta cura, sulle
successioni, tutte le rinunzie, alimenti, doti e donazioni per
nozze. Sono stati aggiunti pareri dello stesso autore che servono in
modo straordinario a delucidare i medesimi argomenti. L’opera sarà
molto utile a tutti gli studiosi non solo in questa città e in
questo regno ma anche dovunque sono in vigore gli statuti per i
quali, in presenza di maschi, le donne non godano di successione,
come apparirà a chi la esaminerà].
L’opera è dedicata a Giovanni Montoya de Cordoba, Reggente di
Cancelleria.
Dopo pochi anni, nel 1616 mandò a stampa il secondo tomo, sempre per
i tipi di Lazzaro Scorigio, intitolandolo:
2.
Additionum ad quaestiones usuales seu ad primum volumen
commentariorum consuetudinum neapolitanarum. Habes hoc secundo
volumine, lector, non solum additiones ad totum primum volumen, una
cum textu earundem consuetudinum suis optato locis; verum etiam
variarum quaestionum diversarum materiarum, tum ad explicationem
proemii, tum etiam de contractibus inter virum et uxorem, de
consensu muliris viro praestito in alienationibus, ac de curialibus,
sive notariis, et eorum instrumentis amplissimam materiam, eadem
methodo sicut in primo volumine diligentissime explicatam.
Accesserunt etiam ad eorundem voluminum ornatum trigintaseptem alia
consilia materiarum admodum practicabilium, et in utroque foro
resolutarum. Opus etiam Ecclesiasticis, ut intuente patebit
prosiguum. [Hai in questo volume, o lettore, non solo delle
aggiunte a tutto il primo volume con il testo delle medesime
Consuetudini, arricchito di argomenti, ma anche di varie questioni,
di diverse materie sia sulla spiegazione del proemio sia anche sui
contratti tra marito e moglie, sul consenso della moglie dato al
marito che procede nelle vendite, sui curiali o notai e sui loro
strumenti, materia questa amplissima, spiegata molto accuratamente
con lo stesso metodo del primo volume. Sono stati aggiunti
all’apparato dei medesimi volumi 37 altre deliberazioni su materie
del tutto concrete e discusse in entrambi i tribunali. L’opera è
utile anche agli ecclesiastici, come sarà chiaro a chi l’esaminerà].
L’opera è dedicata a D. Francesco de Castro, già Viceré di Napoli e
in quell’anno nel Regno di Sicilia.
3.
Nel 1654, in edizione postuma, presso la tipografia di Ettore
Cicenia e a spese di Gian Domenico Montanari, da Francesco Bolvito
fu pubblicato il terzo tomo Commentariorum ad Consuetudinas
Neapolitanas per quaestiones distributorum, Opus Sacrae Theologiae,
legumque praesertim cultoribus omnibus, non solum alma in Civitate
Neapolitana ejusque magno in Regno apprime necessarium, verum etiam
ubique locorum degentibus valde proficuum, vastum contractum
praecipue, et quotidianam materiam continens, recentioribus
gravissimis supremorum orbis senatum decisionibus mirifice
repertum.
[L’opera di Sacra Teologia e delle leggi, molto necessaria
soprattutto ai cultori non solo dell’alma città di Napoli e del suo
grande Regno, ma molto proficua anche a tutti ovunque, contiene
un’ampia materia di contratti e cose quotidiane e abbonda delle
sentenze più recenti e importanti dei massimi tribunali del mondo].
4.
Altra opera sono i Promptuarii triplicis juris divini, canonici
et civilis, seu Summae moralis Theologiae et casuum conscientiae.
Pars I et II. La prima fu pubblicata a Napoli nel 1619 presso
Scipione Bonino, e la seconda dopo la sua morte nel 1621, presso
Lazzaro Scorigio, “ove sul principio ha il leggitore anche la sua
vita”. Nel frontespizio del primo volume si legge: “Hai in questo
volume, le materie dei principi della fede, dei sacramenti della
Chiesa, delle ore canoniche, dei benefici ecclesiastici, degli atti
umani, del peccato, delle leggi, dei principi del decalogo e della
chiesa, discusse in modo molto diligente, secondo le disposizioni
del diritto divino, canonico e civile”.
5.
Le opere inedite, che restarono nella casa dei RR.PP. dei SS.
Apostoli di Napoli, sono: 1. Expositio Bullae in Coena Domini;
2. Quaestiones jurisdictionales; 3.
Tractatus de restitutione; 4. De
censuris; 5. De judiciis; 6. De Episcopis; 7.
De Regularibus; 8. De immunitate ecclesiastica; 9.
De alienatione bonorum Ecclesiae; 10. Consilia in civili,
canonica et morali materia; 11. De utroque hominum
dispositione inter vivos et mortuos.
2.2 - Argomenti delle opere
La più importante delle opere sono i Commentari alle Consuetudini
Napoletane, che hanno ricevuto il plauso di tutti i
giureconsulti napoletani e degli stessi giudici, dai quali veniva
consultata prima di pronunciare una sentenza. Al riguardo Pietro
Giannone ebbe a scrivere: “Sorsero pure nel passato secolo altri
scrittori, i quali o per via di controversie o di decisioni o di
consigli, ovvero con trattati largamente scrissero sopra queste
nostre Consuetudini del Regno, fra i quali porta vanto il celebre
Molfesio, che più d’ogni altro in più volumi trattò di quelle, tanto
che oggi ai nostri Professori il diritto appartenente a queste
Consuetudini s’è reso una delle parti più necessarie per la
disciplina forense, la quale non meno che l’altre ha le sue
sottigliezze e i suoi intrighi, dove il numero dei tanti scrittori
l’han posta, e richiedesi perciò somma dottrina e perizia per ben
maneggiarla”.
La materia, il cui ordine ricalca fedelmente le Consuetudines di
Bartolomeo di Capua, promulgate dal re Carlo II d’Angiò nel 1306, è
esposta in tre volumi. Nel primo edito nel 1613, si esaminano
le successioni, le rinunzie, gli alimenti, le doti e le donazioni
per nozze; sono stati aggiunti pareri e approfondimenti che servono
a delucidare i medesimi argomenti.
Il volume è intitolato Commentario, perché tende alla spiegazione e
al chiarimento di tutte quelle cose che fino ad ora gli altri
giuristi hanno scritto su questa materia.
Nella prima parte si parla per sommi capi dell’esistenza delle
consuetudini e che cosa esse dispongano; nella seconda si tratta
delle persone e dei beni, nella terza della disponibilità degli
stessi, nella quarta si discute di quelli che succedono senza
testamento e della materia delle rinunce alla successione; nella
quinta degli alimenti da fornire, nella sesta del diritto delle
doti, nella settima del diritto alla quarta parte.
In particolare, si chiariscono gli argomenti riguardanti le successioni
ab intestato, che avevano per fondamento la conservazione dei
beni nella famiglia. Il testatore che moriva senza figli o
discendenti era obbligato a lasciare la metà dei beni paterni e
materni agli agnati o cognati dai quali i beni gli erano pervenuti.
Altri argomenti sono la facoltà che i figli di famiglia avevano di
fare testamento; la facoltà delle donne maritate a poter disporre di
una parte delle doti; gli alimenti che i padri e le madri dovevano
prestare ai loro figli; le doti e la quarta alla donna dovuta sui
beni del marito; i contratti tra marito e moglie; il modo di
divisione dell’eredità tra fratelli e del concorso della vedova che
aveva acquistato in proprietà la quarta costituita dal marito.
Molfese precisa nella Prefazione di non aver ritenuto riportare un
apparato troppo lungo degli argomenti né un’ampia citazione
bibliografica, perché “allegare tanti scrittori troppe volte suole
generare nausea e formare un grosso volume senza utilità”.
Nel Tomo secondo delle Aggiunte alle questioni usuali ovvero al Primo
volume del Commento alla Consuetudini Napoletane, pubblicato nel
1616, precede la trattazione degli argomenti la difesa dell’autore
contro i suoi detrattori e critici. Sono discusse le questioni sulla
potestà del re riguardo ai sudditi e ai loro beni; sul suo ufficio;
sulle forme della monarchia, della democrazia e dell’aristocrazia e
quale di queste sia la migliore; si esaminano i problemi dei
contratti tra marito e moglie, del consenso della moglie quando il
marito procede nelle vendite, per evitare rischi circa la quarta, la
dote e i diritti dotali; dei curiali o notai e dei loro strumenti,
perché questi siano autentici e facciano fede, in che modo debbano
essere fatti; se il notaio può rogare uno strumento in territorio
straniero; che cosa si debba al notaio per lo strumento.
Il tomo si compone di due parti. Nella prima, in dieci capitoli, sono
affrontati temi già trattati nel I tomo ma approfonditi con esempi
pratici desunti da processi realmente celebrati e con ulteriore
aggiunta di consigli e pareri personali dell’autore.
Dopo il Proemio, in cui è un accenno alle qualità del re, si discutono le
questioni relative alle persone e ai beni, alle successioni con e
senza testamento, alle rinunce, alla prestazione degli alimenti, al
diritto delle doti, al consenso della moglie, ai contratti tra
marito e moglie e agli strumenti fatti dai curiali napoletani.
La seconda parte è dedicata all’esame di casi particolari di carattere
pratico che si presentano di frequente nella realtà sociale e
trattati nelle cause. Essi sono esaminati riportando sentenze
emesse, decisioni del Sacro Consiglio Regio e l’opinione di giuristi
a quel tempo in auge, come V. de Franchis, F. D’Andrea, De Ponte ed
altri.
Gli argomenti sono piuttosto usuali e riguardano i rapporti economici
familiari e la compatibilità o meno dell’azione del foro laico e del
foro ecclesiastico, come, per esempio,
1. In un matrimonio contratto secondo il nuovo uso detto di Capuana e
Nido, i genitori sono esclusi dalla successione dei figli morti ab
intestato ed anche dalla loro legittima?
2. Il re può abilitare le donne ad avere i beni del maggiorato o del
fedecommesso?
3. È valida la sentenza di un giudice laico relativa ad un erede
ecclesiastico?
4. Un giudice ecclesiastico può giudicare un laico che in passato è stato
chierico?
5. L’emancipato che fa testamento è tenuto a lasciare la legittima ai
genitori?
6. Il chierico può disporre dei suoi beni e dei frutti del beneficio?
7. Gli ecclesiastici possono servirsi delle consuetudini napoletane?
8. È valido il matrimonio contratto per timore della morte del marito o
per salvare la vita della moglie?
9. L’erede deve soddisfare i creditori del defunto?
10. È valida una donazione fatta a condizione che passi ai figli
nascituri?
Il Trattato sui Contratti e le Ultime Volontà,
già approvato dalla Congregazione dei Chierici Regolari
dell’Ordine dei Teatini nel 1619, fu pubblicato postumo nel 1622.
Si tratta di un’opera accurata, utile e assai necessaria a tutti quelli
che nel foro si occupano del diritto civile ed ecclesiastico.
Dall’indice risultano i seguenti argomenti:
Del dominio e della potestà; Della divisione dei beni; Dei contratti in
generale; Dell’acquisto e della vendita; Dei censi; Dei cambi; Della
locazione e della conduzione; Dell’enfiteusi; Della società; Del
mutuo; Del comodato; Della dote; Della donazione; Dei pegni e delle
ipoteche; Della fideiussione; Del contratto delle assicurazioni; Dei
tributi.
Per le ultime volontà si discute dei testamenti; dei codicilli; dei
legati; dei fedecommessi; delle sepolture; del diritto della quarta,
ossia della quarta parte del patrimonio ereditario; dei tutori e dei
curatori; delle successioni con testamento
Il Prontuario dei tre diritti divino, canonico e civile, ossia di Somma
Teologia Morale e dei Casi di coscienza fu pubblicato nel 1619.
In questo volume Molfese si presenta “come consigliere di coscienza”
(conscientiae consiliarium), discute di alcuni aspetti dal volgo
chiamati “casi”, pone all’attenzione da che cosa, ammesso dalla
legge cristiana, un fedele debba evitare o seguire o abbracciare in
modo compiuto.
Perché il titolo Prontuario dei tre diritti? In questi libri di
Teologia Morale, dei Sacri Canoni e di Giurisprudenza da lui è stato
trattato più di quanto altri scrittori di casi di coscienza abbiano
nelle loro opere sin ad allora esposto; sicché non immeritatamente
ha potuto intitolare l’opera Prontuario dei Tre Diritti.
In modo semplice e breve Molfese si rivolge al popolo e alla massa di
Sacerdoti inesperti sui rudimenti della fede, sul sacramento
dell’Ordine, sull’Eucarestia, sulla Messa, sui sacramenti, tranne la
Penitenza, di cui si tratta nel settimo capitolo. Infine ai chierici
tenuti a recitare l’ufficio divino, è rivolto il discorso sulle Ore
canoniche e sui benefici che per loro sono stati istituiti, giacché
“chi serve all’altare dell’altare deve vivere” (1 Corint., 9: Qui
altari servit, de altari vivat). Nell’8° capitolo si tratta delle
azioni umane e del peccato come materia riprovevole del sacramento
della Penitenza questo sacramento; nel 9° delle leggi, nel 10° dei
precetti della chiesa e nell’11° del decalogo.
A completamento di tutti gli argomenti è il secondo volume, nel quale in
primo luogo si tratta dell’acquisizione delle proprietà e dei
contratti; si spiega la materia delle tasse e dell’usura; delle
ultime volontà; della restituzione, delle censure, delle sentenze,
del vescovo e della sua funzione e così pure del consiglio
provinciale, del sinodo diocesano, dell’ufficio del vicario e di
tutto ciò che concerne l’attività del vescovo. Poi vengono esaminati
vari argomenti canonici, come la vendita dei beni della chiesa, la
libertà, l’unità ecclesiastica e quant’altro non spiegato nelle
precedenti trattazioni.
Il Tomo terzo del Commento alle Consuetudini Napoletane è un’opera
postuma del 1654. Per gli argomenti discussi, è ritenuta molto
necessaria ai cultori sia della città di Napoli che del Regno, e
molto proficua a tutti; contiene un’ampia materia di contratti e
cose quotidiane e abbonda delle sentenze recenti e importanti dei
massimi tribunali del mondo.
Come si può rilevare da questo riassunto sommario delle opere, tutti gli
argomenti trattati da Molfese si ritrovano nel nostro Codice Civile,
ovviamente in una luce diversa, per i cambiamenti e gli sviluppi che
si sono verificati in quattro secoli di storia. Solo del lavoro e
dei suoi problemi nulla si dice nelle Consuetudini, perché non
vigeva il concetto moderno dell’impresa, i diritti e gli obblighi
non erano uguali per l’imprenditore e il lavoratore, il lavoro
subordinato non era tutelato da disposizioni precise, ecc.
Il nostro Codice civile, soggetto a continui aggiornamenti per rispondere
ad esigenze di innovazione avvertite nonché alle sentenze della
Corte Costituzionale e della Comunità Europea, tratta delle persone
fisiche e giuridiche, delle famiglie, le successioni, la proprietà,
l’enfiteusi, l’usufrutto, le servitù, i contratti, le promesse, il
lavoro, l’azienda, le società e si conclude con la tutela di
diritti.
Sarebbe interessante fare un confronto tra le questioni risolte da Molfese
e la normativa attuale. Agli esperti di giurisprudenza si rivolge
l’invito ad affrontare questo tema!
2.3 - Molfese: personalità e metodo di scrittura
La
personalità di Molfese come scrittore si rileva in molti luoghi
delle sue opere, ma in maniera precisa e totale emerge dalle
prefazioni nelle quali, rivolgendosi al lettore, spiega le finalità
ed il metodo propostisi nella loro redazione.
Nella prefazione dei Commentari del 1613 egli scrive che in passato sulle
Consuetudini napoletane “molte cose sono state trattate in modo
assai oscuro e confuso. Sono del parere che gli studiosi, per
conseguire chiarezza, debbano trattare l’argomento partendo dall’uso
di casi simili e ridurre in sintesi parecchi argomenti. Io quelle
cose che con molta fatica e grandissima difficoltà in altri libri
sono state ricercate, le ho definite in questo Commento in modo
sintetico e facile. […] Ed a ragione il volume è intitolato
Commentario, tendendo alla spiegazione e all’abbellimento di tutte
quelle cose che fino ad ora gli altri giuristi hanno scritto su
questa materia. Dunque, solo perché quei mietitori mi hanno
preceduto, io che faccio la spigolatura sarei stato inutile. Molte
cose essi hanno omesso che noi posteri abbiamo annotato. Molte cose
abbiamo reso migliori o più chiare sia nell’ordine che nello stile.
[…] nessuno mormori contro di me, come se avessi compiuto un’azione
inutile e, come si dice, avessi speso una fatica vana. Ciò che per
noi avrebbe potuto essere di lode molto volentieri abbiamo
eliminato, non ignaro che non c’è bisogno dell’edera per bere il
vino.
[…] Non ho ritenuto riportare un apparato troppo lungo degli
argomenti né un’ampia aggiunta di scrittori. Mi è sembrato opportuno
infatti tralasciare l’uno e l’altra, innanzitutto perché gli
scrittori e gli esperti non devono usare astruserie e argomenti
risolutori che sogliono adombrare la verità, ma devono procedere con
uno stile piano e facile …; in secondo luogo, perché allegare tanti
scrittori troppe volte suole generare nausea e formare un grosso
volume senza utilità. Perciò ho cercato di citare prima il testo o
la glossa o l’autore classico e poi riferire quello che assomma
tutti gli altri”.
Nella prefazione del 1619 Molfese fa cenno allo stile. «Il nostro
stile, lo confesso, è originale, senz’alcun ornamento; perciò potrò
da te, lettore, essere scusato per questa mia imperizia, soprattutto
perché con questo metodo semplice e con perspicace brevità ho voluto
e dovuto rivolgermi al popolo e alla massa di Sacerdoti inesperti.
Adottiamo questo metodo perché c’è l’intenzione di istruire i
sacerdoti e gli assistenti innanzitutto sui rudimenti della Fede
[…]. Innanzitutto qui mi presento come consigliere di coscienza,
discuto dei suoi aspetti che dal volgo sono chiamati “casi”, pongo
all’attenzione da che cosa un cristiano debba guardarsi, che cosa
evitare e per contro che cosa possa seguire o abbracciare e sia
ammesso dalla legge cristiana in modo compiuto o inopportuno. In
ciò, poi, non ho cercato per brevità di omettere l’attenzione sia
nel ricercare e investigare la verità delle stesse fonti sia anche
nello scegliere le sentenze preferibilmente tra maestri di diversa
opinione. […]
Io, per quanto badassi alla brevità, non ho potuto essere così breve
da non dividere questo mio lavoro in due Tomi. Ho sintetizzato il
più possibile i singoli argomenti e gli stessi autori, alcuni dei
quali per la citazione dei nomi e dei brani dei loro libri hanno
riempito intere pagine, ho riportato una buona selezione, per non
essere pedante. Dopo aver esposto la sentenza di qualsiasi dottrina,
che ho ritenuto più vera, l’ho confermata con l’autorità di un
testo, di una glossa, di un dottore classico ed importante. Infine,
se cito qualcuno più recente, questi potrà essere reperito in
qualche catalogo di tutti gli scrittori che hanno trattato lo stesso
argomento, se si vogliono conoscere per curiosità e consultarli».
“Stiano lontani, ora, – scrive nella prefazione del 1616 – quelli che
tendono insidie con lodi non originali e divorano gloriosi parti
appena pubblicati, mormorano tra sé, strepitano, eruttano e
propalano infamie. Mi piace non essere seguace di tale opera, forse
per il fatto che mi sembra di essere sciolto dai numeri e dai
calcoli di tutti, sicché dicono che a Ripacandida non c’è nulla di
buono. Ma costoro, nati da un cattivo genitore, precipitano nella
perfidia dei Farisei, essi che, come attesta Beda, non potendo
negare le opere di Cristo, tentano di pervertirle con una sinistra
interpretazione. Confesso che quanto posseggo è naturale, poiché mi
è stato dato tutto ottimamente; tutto è un dono reso perfetto
dall’alto, giacché discendo dal Padre della vita.
Nulla ho aggiunto che non fosse secondo me confermato dal diritto comune e
da quello consuetudinario, comprovato con annotazioni da illustri
autori e da senatori di questo regno. Se guardi l’ordine, la
disposizione, la serie, la selezione delle materie, i decreti delle
sentenze, la forza del ragionamento, tutto ciò ho derivato non dalla
mia immaginazione ma dal tesoro delle leggi e l’ho ordinato con tale
intento. Forse che quanto ho concepito con tanto studio, fatto anche
con salute malferma, non l’ho prodotto con tanta fatica, alimentato
a spese delle mie forze e con molti disagi, espresso con l’aiuto di
uomini famosi e condotto ad uno stato di perfezione? O è privo di
lode ciò che è scelto tra molti per formare una cosa sola e appena
si mostra in forma distinta nelle sue parti appare a parecchi in
modo sparso e confuso?
Poiché io (sia lontana la iattanza e l’ostentazione […]) ho
illustrato con le parole degli antichi e le sentenze dei maestri del
diritto Napodano e le leggi municipali dei Napoletani e le ho
portate ad uno stato tanto perfetto da dare insieme ricchezza di
dottrina e solidità a quanto in passato era poco sicuro, confutato,
assai confuso e poco chiaro, chi è che mi possa togliere e non darmi
il debito di lode?”.
Nell’opera postuma del 1622 il curatore ci dà un ritratto
dell’indole di Molfese con i tormenti, le ansie, le resistenze per
l’adesione alla vita sacerdotale e al suo ingresso nell’ordine
teatino, l’impegno nell’attività di ricerca e di educatore,
l’intensità dell’attività intellettuale, la gioia di sentirsi
protetto dalla Madonna e di essere servo di Dio.
2.4 - La formazione culturale di Andrea Molfese
Molfese vive in un ambiente culturale caratterizzato dal contrasto tra
anticurialisti e canonisti, tra Stato e Chiesa, tra coscienza
religiosa e coscienza pubblica, acuito dai deliberati disciplinari
del Concilio di Trento. Uno degli aspetti fu la lotta per la
preminenza della giurisdizione, rivendicata da parte ecclesiastica
con argomenti ispirati alla concezione etico-giuridica
medioevalistica dello Stato, contrastata però da quanti erano
assertori del regalismo anticurialista e del giusnaturalismo.
Nel regno di Napoli questa dialettica coinvolse tutte le componenti della
cultura, interessò filosofia, politica e diritto. Il
giurisdizionalismo napoletano si manifesta innanzitutto come difesa
dei diritti e delle prerogative spettanti alla potestà regia e sua
progressiva teorizzazione, anche se in una forma piuttosto parziale.
Da parte dei giuristi napoletani non si discuteva infatti della
regolarizzazione e del controllo delle materie ecclesiastiche da
parte dello Stato. Le finalità proprie dello Stato e della Chiesa
non dovevano contraddirsi né contrapporsi, mirando entrambi a
promuovere il perfezionamento dell’uomo e il suo benessere materiale
e spirituale.
I canonisti, da parte loro, difendevano i privilegi, che si facevano
apparire fondati su un diritto storicamente derivante
dall’infeudazione del regno alla Santa Sede con le conseguenze di
ordine politico e giurisdizionale che ne scaturivano.
Si afferma il concetto sull’origine dello Stato, che deriva direttamente
da Dio, al pari della Chiesa, la quale, perciò, perde quell’egemonia
conferitale dai curialisti. Si indicano i valori e gli elementi
sostanziali e distintivi che devono informare le istituzioni dello
Stato.
È ormai quasi del tutto scomparsa la pluralità di poteri e corpi intermedi
propri del Medioevo, a favore di un’autorità politica centrale
rappresentata dal sovrano, benché questa figura sia ancora
circonfusa di un alone religioso. Scrive infatti Matteo d’Afflitto
(1448-1523): “Il sovrano è definibile come il padre della giustizia,
perché ha il dovere di creare leggi giuste e costituzioni. Ma poiché
ha pure il compito di eseguire, amministrare e conservare la
giustizia, può essere definito anche figlio della giustizia … ed
esecutore della divina provvidenza sull’esempio di Dio”
Gli anticurialisti, infatti, consideravano rilevante il fatto
religioso con i suoi valori soprannaturali, ai cui principi si
dovevano informare le istituzioni dello Stato.
Essi tendevano a delimitare i contorni del potere monarchico,
considerandolo nei suoi rapporti con il corpo sociale. La monarchia
era intesa come una realtà non più patrimoniale ma pubblica, Il
sovrano deve consentire ai sudditi non solo di esprimere
valutazioni, riserve, suggerimenti e proposte sulla gestione dei
pubblici interessi, ma anche far sì che le decisioni adottate
fossero vincolanti per l’azione politica del governo.
“Optimus princeps – scrive Molfese – non gubernat ex suo solo arbitrio,
sed consilio, prudentia et sapientia aliorum virorum prudentum”[Un
ottimo principe non governa secondo il suo personale arbitrio, ma
con il consiglio, la prudenza e la saggezza di altri uomini].
I giuristi si adoperarono per l’individuazione degli elementi
caratterizzanti lo Stato, con i poteri tipici connotanti la sua
sovranità. La formulazione delle teorie dello Stato è antitetica a
quella delle Decretali ed avvia il superamento di quella fusione di
interessi tra Stato e Chiesa, caratteristica della età medioevale.
Tuttavia, le finalità proprie dello Stato e della Chiesa non
dovevano contraddirsi, dovendo entrambi promuovere il
perfezionamento dell’uomo e il suo benessere materiale e spirituale.
Il fulcro dello Stato è la legge naturale, che deve essere da guida alla
politica del re, è sovrana ed uguale per tutti, non escluso il re.
Se questi viola la legge naturale, il diritto delle genti o il
diritto comune è un tiranno, ma l’aver contravvenuto ai suoi
obblighi comporta solo conseguenze di ordine etico-religioso come
castigo del peccato.
Il potere è concepito come funzione di utilità pubblica: Ad principem
pertinet consulere non solum sibi sed etiam subditis, quia connexus
est status eorum[Al principe spetta provvedere non solo a sé ma
anche ai sudditi, perché è connesso il loro stato].
2.5 - Molfese tra curialisti e regalisti
L’aristocrazia intende difendersi dai provvedimenti del concilio di
Trento, dal quale si attendeva una riforma dell’ordine
ecclesiastico, una moderazione della potenza romana e un
restringimento dell’autorità degli Ecclesiastici, che andava oltre i
confini della potestà spirituale, con conseguente diminuzione di
quella temporale. Essa contrasta molte disposizioni ritenute
inconciliabili con la giurisdizione dello Stato, e si oppone, per
esempio, al potere dei tribunali ecclesiastici di giudicare i reati
nei quali fossero implicati dei religiosi, nonché ai privilegi
fiscali del clero.
Da giureconsulti come Nicola Spinelli, Antonio e Alessandro D’Alessandro,
Matteo d’Afflitto, Scipione Capece, Marino Freccia si postula il
rinnovamento della legislazione del regno con una diversa concezione
del rapporto di autorità, basato sul concetto del principe
depositario del potere. Le soluzioni adottate nelle Decisiones
della magistratura e del Sacro Regio Consiglio (la suprema corte
giudiziaria) intendono lo Stato come portatore e garante di
interessi generali nell’ambito della legge che è sovrana e uguale
per tutti, non escluso il re. “Rex non habet jurisdictionem
privativam totalem in laicos sibi subiectos, dum populus submittens
se Regi transtulit ei et in eum omne suum imperium et potestatem …
sibi a natura tributam; abdicative ita quod nil remansit penes
ipsum” [Il re non ha una giurisdizione privata totale sui laici a
lui sottomessi; il popolo, sottomettendosi al Re trasferisce a lui
ogni suo imperio e potestà, datagli dalla natura; sicché nulla gli è
rimasto].
Di contro, i curialisti, i difensori della superiorità della Chiesa sullo
Stato sono rappresentati in quel periodo dai Gesuiti, soprattutto
con Francesco Suarez (1546-1617), Luis de Molina (1535-1600) e R.
Bellarmino (1542-1621), tutti assertori della teocrazia. Lo Stato è
un corpus politicum mysticum, un organismo morale di diritto
naturale, specchio della saggezza di Dio. Esso nasce da un accordo
di persone che si sottomettono all’autorità suprema del potere
pubblico in un ordine voluto da Dio.
Molfese fa suo questo concetto dello Stato sia per influenza di questi
teologi sia per la conoscenza personale dei classici latini e greci,
dei testi sacri, di autori come gli Apologisti, i Padri della
Chiesa, sant’Agostino, san Tommaso, san Bonaventura, Isidoro.
L’origine della potestà del re promana direttamente da Dio, come è
dimostrato nelle figure bibliche di Noè, David ed altri dell’Antico
Testamento. I re sono vicari di Dio e amministrano sulla terra in
sua vece con leggi convenienti, esercitando un duplice potere:
dominativo e coattivo, ossia provvedendo alle necessità dei sudditi,
senza badare al proprio utile, eliminando le falsità, favorendo la
verità, punendo con pene degne gli uomini cattivi e i delinquenti,
sedando i dissidi che insorgono tra gli uomini.
Seguendo la tesi di Suarez, per Molfese nessun altro è superiore al
principe, se non il Sommo Pontefice e i vari Ecclesiastici, che
perciò devono essere onorati. Questi non sono sudditi del principe e
quindi sono esenti per diritto divino dalla giurisdizione secolare.
Il Papa ha la suprema giurisdizione spirituale su tutti i fedeli ed
anche la giurisdizione temporale indiretta, perché riguarda il bene
spirituale di tutta la cristianità. Egli può emanare leggi civili ed
abrogare le leggi ingiuste dei principi; può concedere ai principi
secolari di imporre nuove gabelle ai sudditi e proibire quelle
imposte ingiustamente. In tal caso di può incorrere nella scomunica
prevista dalla bolla In coena Domini.
Tuttavia, Molfese non disconosce la presenza e la funzione del re. Nella
IX questione del Proemio spiega l’origine e i poteri della
Monarchia, della Democrazia e dell’Aristocrazia. Tra queste la
migliore forma di governo è la Monarchia, una realtà pubblica,
perché provvede al bene della comunità più delle altre due. Ciò è
provato dalla stessa natura che volle che dovunque siano più cose ci
sia un solo capo a governare. Così nel mondo uno solo è il Sole, una
la Luna, uno il Primo Cielo, uno il Primo Moto che dà movimento agli
altri cieli; nel corpo animale uno è il cervello, dal quale
dipendono tutti i sensi, uno è il cuore, una la testa, ecc. Il
governo della Monarchia è più antico e più utile degli altri due,
più stabile e longevo, ed è bene che il sovrano si avvalga di uomini
saggi.
“Optimus Princeps non gubernat ex suo solo arbitrio, sed consilio,
prudentia et sapientia aliorum virorum prudentum, ex quorum operibus
et consilio adiuvatur in eius administratione, ut iustas leges
promulget, optimos viros in magistratibus ponat, iusta tributa et ex
iustis ac necessariis causis populo imponat, et alia faciat quae
eius optimam gubernationem concernunt: et sic includit in se modos
gubernandi Aristocratiae et Democratiae, quia licet illi viri non
ingrediantur ad talem gubernationem, nisi ex Principis mandato, ab
illis tamen adiuvatur, et in hoc attenditur consuetudo” [Un ottimo
principe non governa secondo il suo personale arbitrio, ma con il
consiglio, la prudenza e la saggezza di altri uomini, dalle cui
opere e consigli è aiutato nell’amministrazione, perché promulghi
leggi giuste, ponga uomini ottimi nelle magistrature, imponga al
popolo tributi giusti e per cause giuste e necessarie, e faccia
altre cose che riguardano il suo ottimo governo; in tal modo egli
include in sé i modi di governare dell’Aristocrazia e della
Democrazia. Benché tali rappresentanti non abbiano accesso a tale
governo, se non su mandato del Principe, questi tuttavia è da loro
aiutato e ciò è previsto dalla consuetudine].
Molfese con tale affermazione “adombra la democrazia parlamentare,
utopistica ed arrischiata teoria per quei tempi, ma che trova la sua
logica spiegazione nella controffensiva teorica alle tesi dei
regalisti. Egli scrive che la pregiudiziale della potestà politica
del monarca è costituita da quella del popolo, a tal punto che è
possibile un governo repubblicano nel quale il popolo eserciti
direttamente il potere”.
La potestà non viene al sovrano direttamente da Dio, ma traendo
origine dal diritto delle genti ed essendo stabilita per evitare
discordie e disarmonie nella società, gli deriva mediamente
attraverso il popolo: “Deus enim immediate nulli hominum hanc regiam
dedit potestatem” [Dio infatti non ha dato questa regia potestà
direttamente a nessun uomo].
2.6 - I meriti da Molfese acquisiti con il suo lavoro
Da quanto Molfese ha scritto è possibile derivare il suo ruolo nella
cultura del suo tempo, la valenza delle opere e, quindi, i meriti
acquisiti.
Da giurista ha affrontato il problema delle consuetudini in rapporto alle
leggi ed avvertito il contrasto tra foro laico e foro ecclesiastico,
ossia tra Chiesa e Stato. Spesso il suo discorso cade sulle diverse
questioni dei chierici (l’eredità, la disponibilità dei beni e dei
loro frutti, il chierico passato allo stato laicale, ecc.). Per
Molfese è sacrosanta la loro difesa. Essi, secolari o regolari, in
maggioranza di nobile famiglia, in quel tempo costituivano un
problema sociale assai rilevante. È noto che per la salvaguardia e
la conservazione delle proprietà fondiarie, l’eredità intera veniva
data al primogenito maschio, mentre gli altri figli erano obbligati
alla vita sacerdotale dal capofamiglia. Questi, in tal modo, essendo
spesso affittuario delle terre della chiesa, si garantiva il
pagamento del fitto e l’esenzione dalle tasse attraverso le rendite
percepite dal figlio sacerdote, quale partecipante dei beni della
chiesa o dell’ordine religioso di appartenenza.
A) Analisi dei diritti
Egli ha riordinato, analizzato e chiarito tutti i diritti in vigore nel
suo tempo, dando alle consuetudini un valore di certezza, di
immunità dalle iniquità e di impedimento alla menzogna dei testimoni
nei processi. Nel regno di Napoli c’era l’anarchia assoluta; la
legge vigente si basava sulle consuetudini, sugli usi trasmessi
dalla tradizione, che variavano da zona a zona. In alcuni territori
si seguiva il diritto dei Longobardi, per il quale nella successione
l’eredità spettava a tutti i figli; in altri vigeva il diritto dei
Franchi, il più diffuso, che assicurava la successione solo al
primogenito, tenuto a dare ai fratelli il paraggio e alla sorelle la
dote, tutti perciò costretti, per sopravvivere, a mettersi al
servizio di un signore o a farsi preti o ad entrare in convento a
monacarsi. Col differenziarsi dei ceti sociali, ogni comune si diede
uno statuto e sorse il diritto comune o municipale, che spesso
cozzava con le consuetudini locali. Queste, non ridotte in legge
scritta ma conservate dalla tradizione, divennero causa di liti a
causa dell’incertezza delle medesime. Spesso avveniva che il
litigante invocava per sé la consuetudine e produceva i testimoni
che favorivano la sua tesi. Al riguardo si aggiunge che nessuna fede
era dovuta alla testimonianza dei “rustici” nelle cause civili,
mentre era privilegiata la prova del cittadino nei giudizi con i
villani.
Si ravvisò allora la necessità da parte del sovrano di eliminare la
tradizione orale e dare mano alla forma scritta attraverso una
codificazione precisa, che diede luogo ad un proliferare di studi,
tendenti a delucidare, chiarire, interpretare e creare una
legislazione univoca, valida per tutto il regno e da osservarsi sia
nel tribunale civile che in quello ecclesiastico.
A Ripacandida vigeva il diritto municipale, con uno statuto proprio
fondato sul diritto dei Franchi, come ci attesta Molfese, citando un
caso giuridico riguardante alcune sorelle di quel paese, le quali,
escluse a causa dei maschi dalla successione dei beni, ricorsero al
giudice per ottenere il diritto di reclamare parte dell’eredità a
loro spettante per la morte dei genitori.
“Di questa questione – scrive Molfese – che suole presentarsi molto di
frequente non solo in questa città ma anche in tutto il regno, ho
scritto nel 1610, quando il caso si verificò nella mia patria
[Ripacandida] e quelle cose che avevo scritto trasmisi agli
inquisiti. Viste le allegazioni dall’ufficiale del luogo, non si
procedette di più in quella causa e le donne furono prosciolte
dall’accusa con grandissima gioia degli inquisiti e gran dolore
dell’ufficiale, che pensava di riempire il suo marsupio, perché
molti erano gli inquisiti e della migliore condizione; ma si
comportò bene e con la massima considerazione; infatti egli credette
agli allegati e non procedette nella causa”.
La questione si risolse brevemente. Le donne non avevano rinunciato alla
successione e quindi non potevano essere escluse dal diritto di
reclamare. Se avessero rinunciato, allora bisognava distinguere: se
avessero fatto la rinuncia secondo i termini della Costituzione del
regno e secondo le consuetudini, allora le donne non sarebbero
escluse dal diritto di reclamare per la morte dei genitori. Però
secondo la disposizione delle prammatiche di questo regno, le
sorelle sono escluse dal diritto di reclamare, perché la donna, per
aver avuto la dote, è esclusa dalla successione, e quindi ancor più
non succede quando è intervenuta la rinuncia.
Il problema più dibattuto al suo tempo era il rapporto tra Chiesa e Stato
e, di conseguenza, tra il foro esterno e quello ecclesiastico. Può
un ecclesiastico che ha commesso un reato essere giudicato dal
tribunale laico? Quale dei due è prevalente? La risposta
dipende dal concetto che si ha della legge e dello Stato.
Si è già detto dei curialisti e dei regalisti. Molfese si mostra assertore
di una monarchia limitata e sostenitore dell’accentramento politico
del Papa. Ogni potere viene da Dio, che, però, “immediate nulli
hominum hanc regiam dedit potestatem”. La potestà del sovrano trae
origine dal diritto delle genti e gli deriva attraverso il popolo.
Solo il Papa è investito direttamente di autorità, per compiere la
missione a lui affidata da Gesù. Tutti, non solo i religiosi, devono
obbedienza al vicario di Dio e sono legati dalle sue disposizioni
emanate attraverso le Bolle. “Le Bolle Apostoliche legano anche le
persone secolari non soggette alla Chiesa nelle cose temporali. La
Bolla parla in modo universale ed anche rispetto alle persone
laiche”.
Il principe, pertanto, al papa deve obbedienza, come suddito al
quale è affidato il compito di amministrare e guidare gli uomini al
benessere spirituale e materiale attraverso leggi che attendano
all’utilità comune e siano poche, perché più facilmente conosciute
ed osservate da tutti.
Il legislatore non può prevedere i vari casi che possano essere
codificati, ma affermare un principio generale, che indurrà il
giudice a farne l’estensione da un caso all’altro, benché non ci sia
espressione verbale, perché la legge non cessa la sua validità per
il cambiamento dei tempi.
B) Esame di casi reali
Il secondo merito di Molfese è che ci dà un quadro reale della società del
tempo. I casi da lui esaminati sono tratti tutti da sentenze del
Sacro Regio Consiglio (l’odierna Cassazione), che giudicava sulle
liti tra i nobili (principi, duchi, conti e marchesi), mai tra la
gente comune, riguardo alle successioni e alle eredità.
Era una società piuttosto maschilista. Come s’è accennato sopra, l’eredità
spettava solo ai figli maschi, soprattutto al primogenito, perché i
beni rimanessero nella famiglia e non si disperdessero in varie
particelle. Tutto era a danno della donna, che veniva esclusa dalla
successione, doveva vivere sottomessa; poteva sposarsi tra i 14 e i
16 anni con l’assenso del padre, le si dava solo la dote,
dettagliatamente elencata nei capitoli matrimoniali, di nessun bene
del marito poteva disporre; rimasta vedova, aveva diritto alla
restituzione della dote e dell’antifato o donazione per le nozze
costituita dal marito, nonché alla quarta parte della proprietà; con
tali beni era tenuta a dare la dote alle figlie nubili.
Si potrebbe continuare a dire di altri aspetti, per esempio, del diritto
degli alimenti da parte dei figli e della madre, della donazione per
le nozze fatta da un marito vecchio ad una moglie giovane o dalla
moglie nobile al marito non nobile, della dote che spetta solo se si
consuma il matrimonio, dell’adulterio, del divorzio, della
separazione, e di altro ancora.
Le sue opere hanno uno stile lineare e ordinato: per prima è posto il tema
diviso nelle sue argomentazioni, poi si spiegano le questioni in
modo esauriente e chiaro con il ricorso alle fonti del diritto, la
dimostrazione che la legge che si applica è corretta e, talora,
l’opportunità di allegare la ratio della legge alla decisione delle
cause.
C) La vera nobiltà
Come terza considerazione, bisogna sottolineare di Molfese il suo orgoglio
di essere un ripacandidese. Poiché a Napoli inizialmente non godeva
di grande stima, egli polemizza con i suoi detrattori ed espone un
metodo di lavoro. Ecco che cosa scrive nel 1616: “Che io sia
senz’altro cieco, lettore cristiano, se non vedo apertamente, per la
mia laboriosa opera a quante calunnie io mi esponga. Infatti, che
cosa diranno gli studiosi, anzi che cosa non diranno quando vedranno
che io abbia osato trattare una materia da parecchi sia in passato
che di recente trattata in modo diligente, vario e garbato? Vuoi tu,
– diranno – nuovo fondatore, che Penelope ritessa la tela, così come
tanti dotti e sapienti scrittori? Io, in verità, benché abbia da
poter rispondere con molte argomentazioni, ti dico questo soltanto:
poiché decisi di seguire l’autorità di uomini eccellenti e i loro
ammonimenti, non affidai alle stampe quest’opera prima che
l’avessero esaminata e giudicata con occhio severo famosi
giurisperiti. Stiano lontani, ora, quelli che tendono insidie con
lodi non originali e divorano gloriosi parti appena pubblicati,
mormorano tra sé, strepitano, eruttano e propalano infamie, e
dicono che a Ripacandida non c’è nulla di buono … Confesso che
quanto posseggo è naturale, poiché mi è stato dato tutto
ottimamente; tutto è un dono reso perfetto dall’alto, giacché
discendo dal Padre della vita. Seguo il detto del Signore
“Lasciateli, sono ciechi e vogliono essere guida di ciechi”.
Molfese non si sente inferiore agli altri per non essere nato in città e
contesta il concetto di nobiltà come era allora inteso. In più punti
della sua opera sostiene che non è vero che i nati in città siano
più nobili di quelli nati nei paesi: questi sono nobilitati dagli
uomini forniti di scienza o di arti che vi abitano, perché la vera
nobiltà proviene dalla scienza e dalla coerenza delle idee. Per
molti la nobiltà proviene dall’antica discendenza che assicura loro
delle preferenze e dei privilegi, come nel caso di chi ha sangue
regio. Per Molfese sono le virtù e i comportamenti più che la stirpe
antica a rendere nobili.
Egli così scrive: “Io sono nato in un paese, una piccola Terra, come è la
Terra di Ripa Candida, che è la mia Patria. … I nati in città sono
più nobili e preferiti ad altri che nascono in paesi e piccole
Terre. So dunque che la città rende nobili … ma so anche (per non
fare le lodi della mia Patria) che le persone per bene fornite di
scienza o di arti hanno nobilitato grandemente le loro patrie,
benché piccole, ed esse sono state preferite ai cittadini della
medesima città. So anche che la scienza rende nobili --- Se ho detto
bene ed ho seguito per questi Commenti un metodo corretto, anche se
fossi stato figlio di un libertino, per questa sola ragione sarei da
preferire ad altri. So ancora che, quando la nobiltà viene in
ragione dello stato, ossia degli antenati, quanto più antica è la
nobiltà, tanto maggiore essa è, tanto da preferirsi agli altri.
Sicché se la nobiltà discendesse da sangue regio, questi che
discendono da sangue regio sono preferiti ad altri. È chiaro che i
nati da sangue regio sono più noti, più insigni e più importanti e
per tali prerogative devono essere preferiti ad altri che non sono
ornati di tali prerogative. E so ancora che le virtù e i costumi
rendono nobili più della nobiltà degli antenati, perché la sola
nobiltà è quella che è ornata dai costumi”.
All’orgoglio per la sua opera e per il suo sentirsi nobile segue il suo
senso di umiltà e di obbedienza alle disposizioni della Chiesa. Al
termine di tutti i suoi lavori dichiara di sottoporsi al giudizio
della Chiesa perché siano corrette tutte le argomentazioni e di
sottomettersi con ogni umiltà.
D) Molfese e la sua patria
Come è ricordato Molfese a Ripacandida? Si deve andare fieri di questo
concittadino del quale nell’albero dei Teatini, conservato nella
chiesa di Sant’Andrea della Valle a Roma, c’è la foto di Molfese,
fornitaci gentilemnte dal direttore della biblioteca dei Teatini,
padre Robeto, nella quale, nella parte inferiore, si legge
ANDREA MOLFESE DA
RIPACANDIDA, FAMOSO PER L’INGEGNO E LA FORZA DEI SUOI SCRITTI.
Nel libro di don Giovanni Rossi “Vita del Gran Servo di Dio
Giambattista Rossi, Arciprete di Ripacandida”, è riportato il
testo della lapide posta su una finestra della casa:di Molfese:ALTIUS
ASCENDET SI SERVENT TEMPORA VIRES //
QUO PATRIAE POSCIT
MOLPHENTIENSE DECUS.
Egli molto si adoperò per Ripacandida, come si legge in un documento
anonimo del 1725, conservato nell’archivio parrocchiale della chiesa
di Santa Maria del Sepolcro:
“Ripacandida benché piccolo luogo ebbe però da secolo in secolo uomini
illustri, e della Padria zelanti, e benché le guerre del Regno e
massime l’ultime, che s’attaccarono per la divisione, tra
l’Aragonesi, e Francesi si trovasse immezo d’ambidue l’esserciti,
stanno lo Francese in Melfi, e lo Spagnuolo in Atella, restò
deteriorata eccessivamente, pure ripigliando spirito si ritrovò con
persone letterate e pie nel fine del Decimo sesto, e principio del
Decimo settimo, tra quali fiori sopra tutti l’assai chiaro, e famoso
Andrea Molfesio, tanto accreditato nella professione legale, per i
suoi celebri libri sopra le Costituzioni del Regno, e nella bontà
della vita per quello insegnò nella sua somma morale, e per quello
prattico trà chiostri Teatini, ove rese lo spirito a Dio con
concetto di Religioso Santo e perfetto. Questi guidò le cose di
Ripacandida cosi stando alla Patria, come dimorando in Napoli nel
secolo, e nella Religione istessa, come da varie Scritture antiche
ricavasi”.
Sono
espressioni di lode che possono dirsi anche per tanti altri, come,
per citarne alcuni, Camillo Guglielmucci, Giuseppe, Nicolò e Tommaso
Sapio, Leopoldo Chiari, i D’Addio, tutti personaggi che a
Ripacandida hanno dato lustro e gloria.
“Cum visum sim mihi videre multa
in hac re obscurius tractata et perturbatius esse dicta, Quam ex
usu fit consimilium rerum studiosis faciundum putavi, ut
claritatem confectaret, et plura in pauca conferrem et quae
magno labore ac summa difficultatein alijs erant perquirenda
libris; in istis, brevi et facili methodo digesta reperiant
Commentariis. [...] Iure etiam Commentaria nuncupatum, cum sit
ad dilucidationem et ornatum eorum omnium, quae hucusque
Prudentes alij in hac materia tradiderunt. Igitur, non quia illi
praecesserunt Messores, inanis ego fuerim, qui spicilegium
facio. Multa eos praeterire, quae nos posteri adnotavimus. Multa
praeterea, tum ordine, tum stylo meliora fecimus aut clariora.
[…] ne talis in me aliquis obganniat Zoilus, quasi actum egerim
atque (ut verbum est) oleum operamque perdiderim. Alioquin illa,
quae nobis laudi esse poterunt, libentissime suppressissem; non
ignarus vino vendibili nil opus esse hedera. […] Non sum usus
longiori argumentorum apparatu, nec magna Scribentium
allegatione; utrumque enim visum fuit relinquendum, Primum
quidem, quia Scribentes et Consulente suti non debent
superstitiosis subtilitatibus et argumentis, nam solent
veritatem adumbrare, sed plano et facili stylo procedere debent,
[…]. Secundum vero, quia tot adlegare Scribentes multoties solet
generare nauseam et magnum facere volumen sine utilitate.
Idcirco conatus sum prius citare Textum, vel Glossam, vel
Classicum Doctorem, et postea allegare illum, qui alios
cumulat”.
“Stilus noster, fateor, incoptus est et nullo propermodum
ornamento comendabilis. Attamen excusari in hac mea ruditate
apud te, Lector, potero, ea potissimum ratione, quod vulgi etiam
et imperitorum Sacerdotum turbae hac simplici methodo et
perspicua brevitate volui, atque adeo debui deservire. Methodum
denique hanc servamus, quia Sacerdotem et Confessarium instruere
animus est, idcirco primum de Rudimentis Fidei […]. In primis
conscientiae consiliarium hic me exibeo, de eius officijs, quae
casu vulgo vocant, quid Christianus cavere, vitareque debeat,
aut e contra sequi, amplectque possit, sive ex Christiana lege
teneatur, non fuse, molesteque disputo, sed ob oculos ipsos
pono. In his autem non adeo brevitati studui, ut aliquid a me
diligentiae tum in perquirenda vestigandaque ab ipsis fontibus
veritate, tum etiam in seligenda inter variantes Doctores
potiore sententia, omissum sciam. Id in causa est, Lector, me
quamvis brevitati studuerim, non potuisse tantum esse adeo
breve, quin in duos Tomos hic meus labor excreverit. Caeterum
res singulas ut plurimum paucis expedio et Authores ipsos, de
quorum nominibus locisque librorum citandis nonnulli paginas
totas impleverunt, ego selectissimos solum modo, ne fastidio
sim, adducere volui. Videlicet, post narratam doctrinae cuiusque
sententiam, quam veriorem aestimo, eam vel textus, vel Glossae,
vel Doctoris classici atque primarij authoritate firmare soleo.
Postremo recentiorem aliquem adijciens, apud quem catalogum
scriptorum omnium, qui de ea re tractaverunt, si quis curiose
omnes scire atque adire voluerit, poterit reperire.
“Exeant nunc qui alienis
laudibus insidiantur gloriososque foetus vix editos divorant,
submurmurent, perstrepitent, insanias eructent propalentque pro
libito me non esse illius operis parentem, ea fortasse ducti
ratione, quod omnibus numeris absolutum, omnium calculis
celebratum videntur, et a Ripacandida boni aliquid esse
negarent. Sed hi momo genitore orti in perfidiam Phariseorum
ruunt; qui, ut Beda attestatur, cum opera Christi negare non
possent, sinistra tamen interpretatione pervertere conabantur;
fateor ingenue meum esse et non meum, hoc quidem, quoniam omne
datum optimum et omne donum perfectum desursum est, descendens a
Patre luminum nihilque apposui, quod communi iure et
consuetudinario firmatum esse non senserim, et ab illustribus
auctoribus ac huius regni insigniorris notae Senatoribus
comprobatum. Illud autem, si attendas ordinem, dispositionem,
seriem, materiarum selectum, opinionum iudicium, sententiarum
decreta, rationum robur, quae non meorum sigmentorum penu sed ex
legum thesauro collegi, et qua vides arte digessi An non meum,
quod tot lucubrationibus in adversa etiam valetudine susceptis,
concepi, tanto labore peperi, mearum virium expensis alui,
multis incommodis educavi, famosorum hominum auxilio fovi, et
usque ad perfectum statum perduxi? An caret laude quod a multis
seligitur, ut in unum coeat et simul ac distinctius praestet
quod sparsim et confuse apud plures daret? […] Ergo, quod ego
(absit iactsantia et ostentatio), veterum distis magistrorumque
iuris sententijs Napodanum municipalesque Neapolitanorum leges
declaverim, et ad tam perfectum duxerim statum, ut parum firma,
refutata, quam multa ante confusa, illustrata, doctrinae
ubertatem et soliditatem simul haberet, quis est qui carpat et
laudum debitum non persolvat?”.
M.d’Afflitto, In utriusque
Siciliae Neapolisque Sanctiones et Institutiones Novissima
Praelectio, Venezia 1606, I, rubr. XXX, n. 8, f. 118).
A. Molfese, Additionum ad quaestiones usuales seu ad primum
volumen commentariorum consuetudinum neapolitanarum, tomo
II, Tip. Lazzaro Scorigio, Napoli 1616, Proemio, quaest. IX, nn.
36,37,43 e 44, pp. 37-38.
A. Molfese, Additiones, cit., p. 168, nn. 37- 38: … me
natum esse in quodam Oppido, sive Terra parva, ut est Terra
Ripae Candidae, quae mea est Patria … et sic nati in Civitate
nobiliores sunt et preferuntur aliis, qui in Oppidis et Terris
parvis nascuntur; n. 39 - Scio igitur quod Civitas nobilitat …
sed scio etiam (ut meae Patriae laudes reticeam) quod boni viri
scientia vel artibus prestantes Patrias, alioquin infimas,
maxime nobilitarunt, et ipsi praelati sunt Civibus eiusdem
Civitatis; n. 40 - Scio etiam scientiam nobilitare, ut superius
dictum est. Sed si bene locutus sum, et ad rectam methodum haec
Commentaria direxi, ac reduxi, etiam si fuissem filius
libertini, hanc solam ob causam aliis essem preferendus; n. 41-
Scio etiam, quod, dum nobilitas venit ratione status, sive ex
maioribus; quo antiquior est nobilitas, eo maior est, ut
caeteris praeferatur; n. 42: adeo ut, si nobilitas descenderet
ex sanguine Regio, isti, qui ex sanguine Regio descendunt,
praeferuntur aliis …; n. 44 - Clarum est, ut nati ex sanguine
Regio sint magis noti, magis insignes et magis alti; et ob tales
prerogativas debent aliis praeferri qui talibus
prerogativis decorati; n. 45 - Et scio etiam … quod virtutes et
mores plus nobilitant, quam progenitorum nobilitas, quia
nobilitas sola est, quae moribus ornatur.
G. Rossi, Vita del Gran Servo di Dio Giambattista Ross
arciprete di Ripacandida, Napoli 1752, Stamperia Muziana,
p. 5: “Nella sua casa di Ripacandida sita nel mezzo della strada
principale, detta alla francese, la Rue, in un marmo
sopra d’una finestra si vede scolpita la Croce de’ Teatini e
quello in cui vi eano scolpiti questi versi ALTIUS ASCENDET SI
SERVENT TEMPORA VIRES // QUO PATRIAE POSCIT MOLPHENTIENSE
DECUS”. Tale testo non sembra coincidente con l’epigrafe,
ancora esistente, seppure frammentata, sulla facciata della
casa: SERVANT TEMPORA VIRES // MOLFENSIE DEC.
Dall’integrazione delle due iscrizioni si dovrebbe leggere:
ALTIUS ASCENDET SI SERVANT TEMPORA VIRES // QUO PATRIA POSCIT
MOLFENSE DECUS
(Se il tempo gli conserva le forze, l’onore di Molfese
salirà più in alto di quanto la patria gli chieda).
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