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DON ANDREA MOLFESE DELL'ORDINE DEI TEATINI

LEO VITALE  -  GIANNI PETRELLI

 

Capitolo Secondo - Don Andrea Molfese, chierico regolare

2.1- Note biografiche di Andrea Molfese

 

“Fra gli uomini che diedero lustro alla cittadina di Ripacandida … merita il primo posto il Padre don Andrea Molfese, sommo giurista”. Così inizia un articolo apparso a firma di Domenico Sinisi sulla rivista Regnum Dei dell’Ordine dei Teatini, n. 21-22 del 1950. Poiché “l’insigne nostro giurista è, però, al presente quasi dimenticato nella Patria che gli diede i natali” l’autore si augura di “contribuire a destarne la memoria fra i connazionali e a farlo conoscere a chi lo ignora”.

Poche sono le fonti da cui rilevare i dati biografici. La prima, che è la più importante, risale al 1622 ad opera del preposito generale della Congregazione dei Chierici Regolari don Andrea Piscara Castaldo, che premette alla pubblicazione del secondo tomo dei Commentari un ampio profilo biografico di Molfese. Una seconda fonte è del 1654 ed è di Domenico Montanaro, che nel curare e pubblicare a sue spese l’edizione postuma del terzo libro dei Commentari alle Consuetudini Napoletane antepone un breve cenno sull’autore stilato da Francesco Bolvito. Altre notizie sono di Giuseppe Silos (1666), di Antonio Francesco Vezzosi (1780) e, per ultimo, del citato Domenico Sinisi, i quali però nulla di nuovo aggiungono a quanto già noto, attingendo essi agli autori prima riferiti. Alcune notizie, infine, traspaiono qua e là nelle opere dello stesso Molfese.

Il suo nome era Giovanni Andrea, il padre, piuttosto ricco, si chiamava Alfonso, che aveva sposato una donna di Venosa, come egli ricorda parlando di una causa trattata in tale città (“donde ho origine per parte di madre”). Nacque nel 1573, come egli stesso attesta: “Ho compiuto 42 anni il 6 del mese di gennaio 1616, come vidi annotato nel libro dei Battezzati dell’arciprete della terra di Ripacandida, mia patria. Sono nato nel 1573 il 6 gennaio e fui battezzato l’8 dello stesso mese e anno”[1].

Sino al 14° anno seguì nel seminario di Melfi gli studi inferiori, curando una notevole preparazione nelle lettere umane e mostrando una particolare devozione per la Madonna, che pregava in continuazione e con molto fervore, chiedendone la protezione. Il vescovo, conoscendo il suo animo e apprezzando le sue doti, con una certa insistenza gli chiedeva di farsi sacerdote, ma lui si mostrò sempre titubante o contrario per seguire la volontà di suo padre e per questo interruppe gli studi, che riprese dopo sei anni, seguito dall’arciprete don Leonardo Baffari. Con questi, nominato primo lettore dei Sacri Canoni e Penitenziere dell’arcivescovado di Napoli, si recò nella città partenopea, s’iscrisse alla facoltà di giurisprudenza, laureandosi in utroque iure, ossia in diritto civile ed ecclesiastico. Operò per oltre dodici anni nei Tribunali con Paolo Staibano, suo maestro e con altri dotti, dai quali ricevette pratica e dottrina, lesse molti autori di varie materie, patrocinò cause civili, che lo resero famoso nel Foro. 

Nel 1602, mentre con un collega, Tommaso Pelliccioni, stava consultando del libri giuridici in una libreria di fronte alla chiesa di San Gregorio Armeno, fu avvicinato da Andrea Avellino, un sacerdote che divenne santo e che col suo apostolato cercava di condurre a Dio anche i dottori in legge, e gli parlò dei Teatini, invitandolo ad entrare nell’Ordine. Fu scosso profondamente dalla morte di un suo giovane fratello, subì una crisi interiore, che superò con la decisione sicura di dover entrare tra i secolari; perciò, sebbene fosse un avvocato famoso, smise di esercitare l’attività forense per dedicarsi al servizio di Dio da religioso.

Molfese, quindi, chiese ed ottenne di farsi chierico regolare. Il 7 marzo 1605, a 30 anni, entrò nel convento di Santa Maria degli Angeli di Napoli, cominciò a formarsi secondo le regole dell’Istituto e, passato un quadrimestre di accoglienza, il 16 luglio indossò l’abito e dopo l’anno di prova pronunciò i voti solenni. Poi, compiuto il corso di Filosofia e Teologia, il 20 dicembre del 1608 fu suddiacono, l’anno dopo divenne diacono e il 23 settembre 1613 fu ordinato sacerdote.

Pur avendo un fisico gracile, continuò ad applicarsi all’approfondimento delle scienze sacre; afflitto da salute avversa, emorragia e febbre quasi continua, all’inizio di luglio del 1620 si recò a Sorrento,  dove era la Casa dei Teatini e la chiesa a Sant’Antonio abate, ma qui fu colpito da pleurite e da febbre, che i medici chiamano lypiria (fuoco di Sant’Antonio), sicché fu costretto a ritornare a Napoli, dove morì l’8 agosto 1620, all’età di 47 anni e dopo essere vissuto nell’Ordine per 16 anni.

La sua vasta erudizione nel campo delle scienze teologico-giuridiche è attestata dalle sue opere edite e inedite.

Le prime sono:

1.Commentaria ad consuetudinum neapolitanarum per quaestiones distributa. Tip. Lazzaro Scorigio, Napoli 1613. A mo’ di presentazione al lettore segue: “Habes hoc volumine, lector, successionum et renunciationum omnium, alimentorum item, dotium, et donationum propter nuptias amplissimam materiam, diligentissime explicata. Accesserunt ejusdem auctoris consilia, quae his ipsis rebus elucidandis mirifice faciunt. Opus omnibus studiosis non solum in hac civitate, et Regno, sed etiam ubicunque statuta vigent, ut stantibus masculis, foeminae non succedunt, apprime utile, ut conspicienti patebit. [Hai, lettore, in questo volume una vastissima materia, spiegata con molta cura, sulle successioni, tutte le rinunzie, alimenti, doti e donazioni per nozze. Sono stati aggiunti pareri dello stesso autore che servono in modo straordinario a delucidare i medesimi argomenti. L’opera sarà molto utile a tutti gli studiosi non solo in questa città e in questo regno ma anche dovunque sono in vigore gli statuti per i quali, in presenza di maschi, le donne non godano di successione, come apparirà a chi la esaminerà].

L’opera è dedicata a Giovanni Montoya de Cordoba, Reggente di Cancelleria.

Dopo pochi anni, nel 1616 mandò a stampa il secondo tomo, sempre per i tipi di Lazzaro Scorigio, intitolandolo:

2. Additionum ad quaestiones usuales seu ad primum volumen commentariorum consuetudinum neapolitanarum. Habes hoc secundo volumine, lector, non solum additiones ad totum primum volumen, una cum textu earundem consuetudinum suis optato locis; verum etiam variarum quaestionum diversarum materiarum, tum ad explicationem proemii, tum etiam de contractibus inter virum et uxorem, de consensu muliris viro praestito in alienationibus, ac de curialibus, sive notariis, et eorum instrumentis amplissimam materiam, eadem methodo sicut in primo volumine diligentissime explicatam. Accesserunt etiam ad eorundem voluminum ornatum trigintaseptem alia consilia materiarum admodum practicabilium, et in utroque foro resolutarum. Opus etiam Ecclesiasticis, ut intuente patebit prosiguum. [Hai in questo volume, o lettore, non solo delle aggiunte a tutto il primo volume con il testo delle medesime Consuetudini, arricchito di argomenti, ma anche di varie questioni, di diverse materie sia sulla spiegazione del proemio sia anche sui contratti tra marito e moglie, sul consenso della moglie dato al marito che procede nelle vendite, sui curiali o notai e sui loro strumenti, materia questa amplissima, spiegata molto accuratamente con lo stesso metodo del primo volume. Sono stati aggiunti all’apparato dei medesimi volumi 37 altre deliberazioni su materie del tutto concrete e discusse in entrambi i tribunali. L’opera è utile anche agli ecclesiastici, come sarà chiaro a chi l’esaminerà].

L’opera è dedicata a D. Francesco de Castro, già Viceré di Napoli e in quell’anno nel Regno di Sicilia.   

3. Nel 1654, in edizione postuma, presso la tipografia di Ettore Cicenia e a spese di Gian Domenico Montanari, da Francesco Bolvito fu pubblicato il terzo tomo Commentariorum ad Consuetudinas Neapolitanas per quaestiones distributorum, Opus Sacrae Theologiae, legumque praesertim cultoribus omnibus, non solum alma in Civitate Neapolitana ejusque magno in Regno apprime necessarium, verum etiam ubique locorum degentibus  valde proficuum, vastum contractum praecipue, et quotidianam materiam continens, recentioribus  gravissimis supremorum orbis senatum decisionibus  mirifice repertum. [L’opera di Sacra Teologia e delle leggi, molto necessaria soprattutto ai cultori non solo dell’alma città di Napoli e del suo grande Regno, ma molto proficua anche a tutti ovunque, contiene un’ampia materia di contratti e cose quotidiane e abbonda delle sentenze più recenti e importanti dei massimi tribunali del mondo]. 

4. Altra opera sono i Promptuarii triplicis juris divini, canonici et civilis, seu Summae moralis Theologiae et casuum conscientiae. Pars I et II. La prima fu pubblicata a Napoli nel 1619 presso Scipione Bonino, e la seconda dopo la sua morte nel 1621, presso Lazzaro Scorigio, “ove sul principio ha il leggitore anche la sua vita”. Nel frontespizio del primo volume si legge: “Hai in questo volume, le materie dei principi della fede, dei sacramenti della Chiesa, delle ore canoniche, dei benefici ecclesiastici, degli atti umani, del peccato, delle leggi, dei principi del decalogo e della chiesa, discusse in modo molto diligente, secondo le disposizioni del diritto divino, canonico e civile”.   

5. Le opere inedite, che restarono nella casa dei RR.PP. dei SS. Apostoli di Napoli, sono: 1. Expositio Bullae in Coena Domini; 2. Quaestiones jurisdictionales; 3. Tractatus de restitutione; 4. De censuris; 5. De judiciis; 6. De Episcopis; 7. De Regularibus; 8. De immunitate ecclesiastica; 9. De alienatione bonorum Ecclesiae; 10. Consilia in civili, canonica et morali materia; 11. De utroque hominum dispositione inter vivos et mortuos.

 

 

2.2 - Argomenti delle opere

La più importante delle opere sono i Commentari alle Consuetudini Napoletane, che hanno ricevuto il plauso di tutti i giureconsulti napoletani e degli stessi giudici, dai quali veniva consultata prima di pronunciare una sentenza. Al riguardo Pietro Giannone ebbe a scrivere: “Sorsero pure nel passato secolo altri scrittori, i quali o per via di controversie o di decisioni o di consigli, ovvero con trattati largamente scrissero sopra queste nostre Consuetudini del Regno, fra i quali porta vanto il celebre Molfesio, che più d’ogni altro in più volumi trattò di quelle, tanto che oggi ai nostri Professori il diritto appartenente a queste Consuetudini s’è reso una delle parti più necessarie per la disciplina forense, la quale non meno che l’altre ha le sue sottigliezze e i suoi intrighi, dove il numero dei tanti scrittori l’han posta, e richiedesi perciò somma dottrina e perizia per ben maneggiarla”[2].

La materia, il cui ordine ricalca fedelmente le Consuetudines di Bartolomeo di Capua, promulgate dal re Carlo II d’Angiò nel 1306, è esposta in tre volumi. Nel primo edito nel 1613, si esaminano le successioni, le rinunzie, gli alimenti, le doti e le donazioni per nozze; sono stati aggiunti pareri e approfondimenti che servono a delucidare i medesimi argomenti.

Il volume è intitolato Commentario, perché tende alla spiegazione e al chiarimento di tutte quelle cose che fino ad ora gli altri giuristi hanno scritto su questa materia.

Nella prima parte si parla per sommi capi dell’esistenza delle consuetudini e che cosa esse dispongano; nella seconda si tratta delle persone e dei beni, nella terza della disponibilità degli stessi, nella quarta si discute di quelli che succedono senza testamento e della materia delle rinunce alla successione; nella quinta degli alimenti da fornire, nella sesta del diritto delle doti, nella settima del diritto alla quarta parte. 

In particolare, si chiariscono gli argomenti riguardanti le successioni ab intestato, che avevano per fondamento la conservazione dei beni nella famiglia. Il testatore che moriva senza figli o discendenti era obbligato a lasciare la metà dei beni paterni e materni agli agnati o cognati dai quali i beni gli erano pervenuti. Altri argomenti sono la facoltà che i figli di famiglia avevano di fare testamento; la facoltà delle donne maritate a poter disporre di una parte delle doti; gli alimenti che i padri e le madri dovevano prestare ai loro figli; le doti e la quarta alla donna dovuta sui beni del marito; i contratti tra marito e moglie; il modo di divisione dell’eredità tra fratelli e del concorso della vedova che aveva acquistato in proprietà la quarta costituita dal marito.

Molfese precisa nella Prefazione di non aver ritenuto riportare un apparato troppo lungo degli argomenti né un’ampia citazione bibliografica, perché “allegare tanti scrittori troppe volte suole generare nausea e formare un grosso volume senza utilità”.

Nel Tomo secondo delle Aggiunte alle questioni usuali ovvero al Primo volume del Commento alla Consuetudini Napoletane, pubblicato nel 1616, precede la trattazione degli argomenti la difesa dell’autore contro i suoi detrattori e critici. Sono discusse le questioni sulla potestà del re riguardo ai sudditi e ai loro beni; sul suo ufficio; sulle forme della monarchia, della democrazia e dell’aristocrazia e quale di queste sia la migliore; si esaminano i problemi dei contratti tra marito e moglie, del consenso della moglie quando il marito procede nelle vendite, per evitare rischi circa la quarta, la dote e i diritti dotali; dei curiali o notai e dei loro strumenti, perché questi siano autentici e facciano fede, in che modo debbano essere fatti; se il notaio può rogare uno strumento in territorio straniero; che cosa si debba al notaio per lo strumento.

Il tomo si compone di due parti. Nella prima, in dieci capitoli, sono affrontati temi già trattati nel I tomo ma approfonditi con esempi pratici desunti da processi realmente celebrati e con ulteriore aggiunta di consigli e pareri personali dell’autore.

Dopo il Proemio, in cui è un accenno alle qualità del re, si discutono le questioni relative alle persone e ai beni, alle successioni con e senza testamento, alle rinunce, alla prestazione degli alimenti, al diritto delle doti, al consenso della moglie, ai contratti tra marito e moglie e agli strumenti fatti dai curiali napoletani.

La seconda parte è dedicata all’esame di casi particolari di carattere pratico che si presentano di frequente nella realtà sociale e trattati nelle cause. Essi sono esaminati riportando sentenze emesse, decisioni del Sacro Consiglio Regio e l’opinione di giuristi a quel tempo in auge, come V. de Franchis, F. D’Andrea, De Ponte ed altri.

Gli argomenti sono piuttosto usuali e riguardano i rapporti economici familiari e la compatibilità o meno dell’azione del foro laico e del foro ecclesiastico, come, per esempio,

1. In un matrimonio contratto secondo il nuovo uso detto di Capuana e Nido, i genitori sono esclusi dalla successione dei figli morti ab intestato ed anche dalla loro legittima?

2. Il re può abilitare le donne ad avere i beni del maggiorato o del fedecommesso?

3. È valida la sentenza di un giudice laico relativa ad un erede ecclesiastico?

4. Un giudice ecclesiastico può giudicare un laico che in passato è stato chierico?

5. L’emancipato che fa testamento è tenuto a lasciare la legittima ai genitori?

6. Il chierico può disporre dei suoi beni e dei frutti del beneficio?

7. Gli ecclesiastici possono servirsi delle consuetudini napoletane?

8. È valido il matrimonio contratto per timore della morte del marito o per salvare la vita della moglie?

9. L’erede deve soddisfare i creditori del defunto?

10. È valida una donazione fatta a condizione che passi ai figli nascituri?

 

Il Trattato sui Contratti e le Ultime Volontà,
già approvato dalla Congregazione dei Chierici Regolari dell’Ordine dei Teatini nel 1619, fu pubblicato postumo nel 1622.

Si tratta di un’opera accurata, utile e assai necessaria a tutti quelli che nel foro si occupano del diritto civile ed ecclesiastico.

Dall’indice risultano i seguenti argomenti:

Del dominio e della potestà; Della divisione dei beni; Dei contratti in generale; Dell’acquisto e della vendita; Dei censi; Dei cambi; Della locazione e della conduzione; Dell’enfiteusi; Della società; Del mutuo; Del comodato; Della dote; Della donazione; Dei pegni e delle ipoteche; Della fideiussione; Del contratto delle assicurazioni; Dei tributi.

Per le ultime volontà si discute dei testamenti; dei codicilli; dei legati; dei fedecommessi; delle sepolture; del diritto della quarta, ossia della quarta parte del patrimonio ereditario; dei tutori e dei curatori; delle successioni con testamento

Il Prontuario dei tre diritti divino, canonico e civile, ossia di Somma Teologia Morale e dei Casi di coscienza fu pubblicato nel 1619. In questo volume Molfese si presenta “come consigliere di coscienza” (conscientiae consiliarium), discute di alcuni aspetti dal volgo chiamati “casi”, pone all’attenzione da che cosa, ammesso dalla legge cristiana, un fedele debba evitare o seguire o abbracciare in modo compiuto.

Perché il titolo Prontuario dei tre diritti? In questi libri di Teologia Morale, dei Sacri Canoni e di Giurisprudenza da lui è stato trattato più di quanto altri scrittori di casi di coscienza abbiano nelle loro opere sin ad allora esposto; sicché non immeritatamente ha potuto intitolare l’opera Prontuario dei Tre Diritti.

In modo semplice e breve Molfese si rivolge al popolo e alla massa di Sacerdoti inesperti sui rudimenti della fede, sul sacramento dell’Ordine, sull’Eucarestia, sulla Messa, sui sacramenti, tranne la Penitenza, di cui si tratta nel settimo capitolo. Infine ai chierici tenuti a recitare l’ufficio divino, è rivolto il discorso sulle Ore canoniche e sui benefici che per loro sono stati istituiti, giacché “chi serve all’altare dell’altare deve vivere” (1 Corint., 9: Qui altari servit, de altari vivat). Nell’8° capitolo si tratta delle azioni umane e del peccato come materia riprovevole del sacramento della Penitenza questo sacramento; nel 9° delle leggi, nel 10° dei precetti della chiesa e nell’11° del decalogo. 

A completamento di tutti gli argomenti è il secondo volume, nel quale in primo luogo si tratta dell’acquisizione delle proprietà e dei contratti; si spiega la materia delle tasse e dell’usura; delle ultime volontà; della restituzione, delle censure, delle sentenze, del vescovo e della sua funzione e così pure del consiglio provinciale, del sinodo diocesano, dell’ufficio del vicario e di tutto ciò che concerne l’attività del vescovo. Poi vengono esaminati vari argomenti canonici, come la vendita dei beni della chiesa, la libertà, l’unità ecclesiastica e quant’altro non spiegato nelle precedenti trattazioni.

Il Tomo terzo del Commento alle Consuetudini Napoletane è un’opera postuma del 1654. Per gli argomenti discussi, è ritenuta molto necessaria ai cultori sia della città di Napoli che del Regno, e molto proficua a tutti; contiene un’ampia materia di contratti e cose quotidiane e abbonda delle sentenze recenti e importanti dei massimi tribunali del mondo.

Come si può rilevare da questo riassunto sommario delle opere, tutti gli argomenti trattati da Molfese si ritrovano nel nostro Codice Civile, ovviamente in una luce diversa, per i cambiamenti e gli sviluppi che si sono verificati in quattro secoli di storia. Solo del lavoro e dei suoi problemi nulla si dice nelle Consuetudini, perché non vigeva il concetto moderno dell’impresa, i diritti e gli obblighi non erano uguali per l’imprenditore e il lavoratore, il lavoro subordinato non era tutelato da disposizioni precise, ecc.

Il nostro Codice civile, soggetto a continui aggiornamenti per rispondere ad esigenze di innovazione avvertite nonché alle sentenze della Corte Costituzionale e della Comunità Europea, tratta delle persone fisiche e giuridiche, delle famiglie, le successioni, la proprietà, l’enfiteusi, l’usufrutto, le servitù, i contratti, le promesse, il lavoro, l’azienda, le società e si conclude con la tutela di diritti.

Sarebbe interessante fare un confronto tra le questioni risolte da Molfese e la normativa attuale. Agli esperti di giurisprudenza si rivolge l’invito ad affrontare questo tema!  

 

2.3 - Molfese: personalità e metodo di scrittura

La personalità di Molfese come scrittore si rileva in molti luoghi delle sue opere, ma in maniera precisa e totale emerge dalle prefazioni nelle quali, rivolgendosi al lettore, spiega le finalità ed il metodo propostisi nella loro redazione. 

Nella prefazione dei Commentari del 1613 egli scrive che in passato sulle Consuetudini napoletane “molte cose sono state trattate in modo assai oscuro e confuso. Sono del parere che gli studiosi, per conseguire chiarezza, debbano trattare l’argomento partendo dall’uso di casi simili e ridurre in sintesi parecchi argomenti. Io quelle cose che con molta fatica e grandissima difficoltà in altri libri sono state ricercate, le ho definite in questo Commento in modo sintetico e facile. […] Ed a ragione il volume è intitolato Commentario, tendendo alla spiegazione e all’abbellimento di tutte quelle cose che fino ad ora gli altri giuristi hanno scritto su questa materia. Dunque, solo perché quei mietitori mi hanno preceduto, io che faccio la spigolatura sarei stato inutile. Molte cose essi hanno omesso che noi posteri abbiamo annotato. Molte cose abbiamo reso migliori o più chiare sia nell’ordine che nello stile. […] nessuno mormori contro di me, come se avessi compiuto un’azione inutile e, come si dice, avessi speso una fatica vana. Ciò che per noi avrebbe potuto essere di lode molto volentieri abbiamo eliminato, non ignaro che non c’è bisogno dell’edera per bere il vino[3]. […]  Non ho ritenuto riportare un apparato troppo lungo degli argomenti né un’ampia aggiunta di scrittori. Mi è sembrato opportuno infatti tralasciare l’uno e l’altra, innanzitutto perché gli scrittori e gli esperti non devono usare astruserie e argomenti risolutori che sogliono adombrare la verità, ma devono procedere con uno stile piano e facile …; in secondo luogo, perché allegare tanti scrittori troppe volte suole generare nausea e formare un grosso volume senza utilità. Perciò ho cercato di citare prima il testo o la glossa o l’autore classico e poi riferire quello che assomma tutti gli altri”[4].

Nella prefazione del 1619 Molfese fa cenno allo stile. «Il nostro stile, lo confesso, è originale, senz’alcun ornamento; perciò potrò da te, lettore, essere scusato per questa mia imperizia, soprattutto perché con questo metodo semplice e con perspicace brevità ho voluto e dovuto rivolgermi al popolo e alla massa di Sacerdoti inesperti. Adottiamo questo metodo perché c’è l’intenzione di istruire i sacerdoti e gli assistenti innanzitutto sui rudimenti della Fede […]. Innanzitutto qui mi presento come consigliere di coscienza, discuto dei suoi aspetti che dal volgo sono chiamati “casi”, pongo all’attenzione da che cosa un cristiano debba guardarsi, che cosa evitare e per contro che cosa possa seguire o abbracciare e sia ammesso dalla legge cristiana in modo compiuto o inopportuno. In ciò, poi, non ho cercato per brevità di omettere l’attenzione sia nel ricercare e investigare la verità delle stesse fonti sia anche nello scegliere le sentenze preferibilmente tra maestri di diversa opinione. […]

Io, per quanto badassi alla brevità, non ho potuto essere così breve da non dividere questo mio lavoro in due Tomi. Ho sintetizzato il più possibile i singoli argomenti e gli stessi autori, alcuni dei quali per la citazione dei nomi e dei brani dei loro libri hanno riempito intere pagine, ho riportato una buona selezione, per non essere pedante. Dopo aver esposto la sentenza di qualsiasi dottrina, che ho ritenuto più vera, l’ho confermata con l’autorità di un testo, di una glossa, di un dottore classico ed importante. Infine, se cito qualcuno più recente, questi potrà essere reperito in qualche catalogo di tutti gli scrittori che hanno trattato lo stesso argomento, se si vogliono conoscere per curiosità e consultarli» [5].

“Stiano lontani, ora, – scrive nella prefazione del 1616 – quelli che tendono insidie con lodi non originali e divorano gloriosi parti appena pubblicati, mormorano tra sé, strepitano, eruttano e propalano infamie. Mi piace non essere seguace di tale opera, forse per il fatto che mi sembra di essere sciolto dai numeri e dai calcoli di tutti, sicché dicono che a Ripacandida non c’è nulla di buono. Ma costoro, nati da un cattivo genitore, precipitano nella perfidia dei Farisei, essi che, come attesta Beda, non potendo negare le opere di Cristo, tentano di pervertirle con una sinistra interpretazione. Confesso che quanto posseggo è naturale, poiché mi è stato dato tutto ottimamente; tutto è un dono reso perfetto dall’alto, giacché discendo dal Padre della vita.

Nulla ho aggiunto che non fosse secondo me confermato dal diritto comune e da quello consuetudinario, comprovato con annotazioni da illustri autori e da senatori di questo regno. Se guardi l’ordine, la disposizione, la serie, la selezione delle materie, i decreti delle sentenze, la forza del ragionamento, tutto ciò ho derivato non dalla mia immaginazione ma dal tesoro delle leggi e l’ho ordinato con tale intento. Forse che quanto ho concepito con tanto studio, fatto anche con salute malferma, non l’ho prodotto con tanta fatica, alimentato a spese delle mie forze e con molti disagi, espresso con l’aiuto di uomini famosi e condotto ad uno stato di perfezione? O è privo di lode ciò che è scelto tra molti per formare una cosa sola e appena si mostra in forma distinta nelle sue parti appare a parecchi in modo sparso e confuso?

Poiché io (sia lontana la iattanza e l’ostentazione […]) ho illustrato con le parole degli antichi e le sentenze dei maestri del diritto Napodano e le leggi municipali dei Napoletani e le ho portate ad uno stato tanto perfetto da dare insieme ricchezza di dottrina e solidità a quanto in passato era poco sicuro, confutato, assai confuso e poco chiaro, chi è che mi possa togliere e non darmi il debito di lode?”[6].

Nell’opera postuma del 1622 il curatore ci dà un ritratto dell’indole di Molfese con i tormenti, le ansie, le resistenze per l’adesione alla vita sacerdotale e al suo ingresso nell’ordine teatino, l’impegno nell’attività di ricerca e di educatore, l’intensità dell’attività intellettuale, la gioia di sentirsi protetto dalla Madonna e di essere servo di Dio.

 

2.4 - La formazione culturale di Andrea Molfese

Molfese vive in un ambiente culturale caratterizzato dal contrasto tra anticurialisti e canonisti, tra Stato e Chiesa, tra coscienza religiosa e coscienza pubblica, acuito dai deliberati disciplinari del Concilio di Trento. Uno degli aspetti fu la lotta per la preminenza della giurisdizione, rivendicata da parte ecclesiastica con argomenti ispirati alla concezione etico-giuridica medioevalistica dello Stato, contrastata però da quanti erano assertori del regalismo anticurialista e del giusnaturalismo.

Nel regno di Napoli questa dialettica coinvolse tutte le componenti della cultura, interessò filosofia, politica e diritto. Il giurisdizionalismo napoletano si manifesta innanzitutto come difesa dei diritti e delle prerogative spettanti alla potestà regia e sua progressiva teorizzazione, anche se in una forma piuttosto parziale. Da parte dei giuristi napoletani non si discuteva infatti della regolarizzazione e del controllo delle materie ecclesiastiche da parte dello Stato. Le finalità proprie dello Stato e della Chiesa non dovevano contraddirsi né contrapporsi, mirando entrambi a promuovere il perfezionamento dell’uomo e il suo benessere materiale e spirituale.

I canonisti, da parte loro, difendevano i privilegi, che si facevano apparire fondati su un diritto storicamente derivante dall’infeudazione del regno alla Santa Sede con le conseguenze di ordine politico e giurisdizionale che ne scaturivano.

Si afferma il concetto sull’origine dello Stato, che deriva direttamente da Dio, al pari della Chiesa, la quale, perciò, perde quell’egemonia conferitale dai curialisti. Si indicano i valori e gli elementi sostanziali e distintivi che devono informare le istituzioni dello Stato.

È ormai quasi del tutto scomparsa la pluralità di poteri e corpi intermedi propri del Medioevo, a favore di un’autorità politica centrale rappresentata dal sovrano, benché questa figura sia ancora circonfusa di un alone religioso. Scrive infatti Matteo d’Afflitto (1448-1523): “Il sovrano è definibile come il padre della giustizia, perché ha il dovere di creare leggi giuste e costituzioni. Ma poiché ha pure il compito di eseguire, amministrare e conservare la giustizia, può essere definito anche figlio della giustizia … ed esecutore della divina provvidenza sull’esempio di Dio”[7] Gli anticurialisti, infatti, consideravano rilevante il fatto religioso con i suoi valori soprannaturali, ai cui principi si dovevano informare le istituzioni dello Stato.

Essi tendevano a delimitare i contorni del potere monarchico, considerandolo nei suoi rapporti con il corpo sociale. La monarchia era intesa come una realtà non più patrimoniale ma pubblica, Il sovrano deve consentire ai sudditi non solo di esprimere valutazioni, riserve, suggerimenti e proposte sulla gestione dei pubblici interessi, ma anche far sì che le decisioni adottate fossero vincolanti per l’azione politica del governo[8].

“Optimus princeps – scrive Molfese – non gubernat ex suo solo arbitrio, sed consilio, prudentia et sapientia aliorum virorum prudentum”[Un ottimo principe non governa secondo il suo personale arbitrio, ma con il consiglio, la prudenza e la saggezza di altri uomini][9].

I giuristi si adoperarono per l’individuazione degli elementi caratterizzanti lo Stato, con i poteri tipici connotanti la sua sovranità. La formulazione delle teorie dello Stato è antitetica a quella delle Decretali ed avvia il superamento di quella fusione di interessi tra Stato e Chiesa, caratteristica della età medioevale. Tuttavia, le finalità proprie dello Stato e della Chiesa non dovevano contraddirsi, dovendo entrambi promuovere il perfezionamento dell’uomo e il suo benessere materiale e spirituale.

Il fulcro dello Stato è la legge naturale, che deve essere da guida alla politica del re, è sovrana ed uguale per tutti, non escluso il re. Se questi viola la legge naturale, il diritto delle genti o il diritto comune è un tiranno, ma l’aver contravvenuto ai suoi obblighi comporta solo conseguenze di ordine etico-religioso come castigo del peccato

Il potere è concepito come funzione di utilità pubblica: Ad principem pertinet consulere non solum sibi sed etiam subditis, quia connexus est status eorum[Al principe spetta provvedere non solo a sé ma anche ai sudditi, perché è connesso il loro stato][10]

 

2.5 - Molfese tra curialisti e regalisti

L’aristocrazia intende difendersi dai provvedimenti del concilio di Trento, dal quale si attendeva una riforma dell’ordine ecclesiastico, una moderazione della potenza romana e un restringimento dell’autorità degli Ecclesiastici, che andava oltre i confini della potestà spirituale, con conseguente diminuzione di quella temporale. Essa contrasta molte disposizioni ritenute inconciliabili con la giurisdizione dello Stato, e si oppone, per esempio, al potere dei tribunali ecclesiastici di giudicare i reati nei quali fossero implicati dei religiosi, nonché ai privilegi fiscali del clero.

Da giureconsulti come Nicola Spinelli, Antonio e Alessandro D’Alessandro, Matteo d’Afflitto, Scipione Capece, Marino Freccia si postula il rinnovamento della legislazione del regno con una diversa concezione del rapporto di autorità, basato sul concetto del principe depositario del potere. Le soluzioni adottate nelle Decisiones della magistratura e del Sacro Regio Consiglio (la suprema corte giudiziaria) intendono lo Stato come portatore e garante di interessi generali nell’ambito della legge che è sovrana e uguale per tutti, non escluso il re. “Rex non habet jurisdictionem privativam totalem in laicos sibi subiectos, dum populus submittens se Regi transtulit ei et in eum omne suum imperium et potestatem … sibi a natura tributam; abdicative ita quod nil remansit penes ipsum” [Il re non ha una giurisdizione privata totale sui laici a lui sottomessi; il popolo, sottomettendosi al Re trasferisce a lui ogni suo imperio e potestà, datagli dalla natura; sicché nulla gli è rimasto][11].

Di contro, i curialisti, i difensori della superiorità della Chiesa sullo Stato sono rappresentati in quel periodo dai Gesuiti, soprattutto con Francesco Suarez (1546-1617), Luis de Molina (1535-1600) e R. Bellarmino (1542-1621), tutti assertori della teocrazia. Lo Stato è un corpus politicum mysticum, un organismo morale di diritto naturale, specchio della saggezza di Dio. Esso nasce da un accordo di persone che si sottomettono all’autorità suprema del potere pubblico in un ordine voluto da Dio[12].

Molfese fa suo questo concetto dello Stato sia per influenza di questi teologi sia per la conoscenza personale dei classici latini e greci, dei testi sacri, di autori come gli Apologisti, i Padri della Chiesa, sant’Agostino, san Tommaso, san Bonaventura, Isidoro.

L’origine della potestà del re promana direttamente da Dio, come è dimostrato nelle figure bibliche di Noè, David ed altri dell’Antico Testamento. I re sono vicari di Dio e amministrano sulla terra in sua vece con leggi convenienti, esercitando un duplice potere: dominativo e coattivo, ossia provvedendo alle necessità dei sudditi, senza badare al proprio utile, eliminando le falsità, favorendo la verità, punendo con pene degne gli uomini cattivi e i delinquenti, sedando i dissidi che insorgono tra gli uomini.

Seguendo la tesi di Suarez, per Molfese nessun altro è superiore al principe, se non il Sommo Pontefice e i vari Ecclesiastici, che perciò devono essere onorati. Questi non sono sudditi del principe e quindi sono esenti per diritto divino dalla giurisdizione secolare. Il Papa ha la suprema giurisdizione spirituale su tutti i fedeli ed anche la giurisdizione temporale indiretta, perché riguarda il bene spirituale di tutta la cristianità. Egli può emanare leggi civili ed abrogare le leggi ingiuste dei principi; può concedere ai principi secolari di imporre nuove gabelle ai sudditi e proibire quelle imposte ingiustamente. In tal caso di può incorrere nella scomunica prevista dalla bolla In coena Domini[13].

Tuttavia, Molfese non disconosce la presenza e la funzione del re. Nella IX questione del Proemio spiega l’origine e i poteri della Monarchia, della Democrazia e dell’Aristocrazia. Tra queste la migliore forma di governo è la Monarchia, una realtà pubblica, perché provvede al bene della comunità più delle altre due. Ciò è provato dalla stessa natura che volle che dovunque siano più cose ci sia un solo capo a governare. Così nel mondo uno solo è il Sole, una la Luna, uno il Primo Cielo, uno il Primo Moto che dà movimento agli altri cieli; nel corpo animale uno è il cervello, dal quale dipendono tutti i sensi, uno è il cuore, una la testa, ecc. Il governo della Monarchia è più antico e più utile degli altri due, più stabile e longevo, ed è bene che il sovrano si avvalga di uomini saggi. 

“Optimus Princeps non gubernat ex suo solo arbitrio, sed consilio, prudentia et sapientia aliorum virorum prudentum, ex quorum operibus et consilio adiuvatur in eius administratione, ut iustas leges promulget, optimos viros in magistratibus ponat, iusta tributa et ex iustis ac necessariis causis populo imponat, et alia faciat quae eius optimam gubernationem concernunt: et sic includit in se modos gubernandi Aristocratiae et Democratiae, quia licet illi viri non ingrediantur ad talem gubernationem, nisi ex Principis mandato, ab illis tamen adiuvatur, et in hoc attenditur consuetudo” [Un ottimo principe non governa secondo il suo personale arbitrio, ma con il consiglio, la prudenza e la saggezza di altri uomini, dalle cui opere e consigli è aiutato nell’amministrazione, perché promulghi leggi giuste, ponga uomini ottimi nelle magistrature, imponga al popolo tributi giusti e per cause giuste e necessarie, e faccia altre cose che riguardano il suo ottimo governo; in tal modo egli include in sé i modi di governare dell’Aristocrazia e della Democrazia. Benché tali rappresentanti non abbiano accesso a tale governo, se non su mandato del Principe, questi tuttavia è da loro aiutato e ciò è previsto dalla consuetudine][14].    

Molfese con tale affermazione “adombra la democrazia parlamentare, utopistica ed arrischiata teoria per quei tempi, ma che trova la sua logica spiegazione nella controffensiva teorica alle tesi dei regalisti. Egli scrive che la pregiudiziale della potestà politica del monarca è costituita da quella del popolo, a tal punto che è possibile un governo repubblicano nel quale il popolo eserciti direttamente il potere”[15]. La potestà non viene al sovrano direttamente da Dio, ma traendo origine dal diritto delle genti ed essendo stabilita per evitare discordie e disarmonie nella società, gli deriva mediamente attraverso il popolo: “Deus enim immediate nulli hominum hanc regiam dedit potestatem” [Dio infatti non ha dato questa regia potestà direttamente a nessun uomo][16].

 

2.6 - I meriti da Molfese acquisiti con il suo lavoro

Da quanto Molfese ha scritto è possibile derivare il suo ruolo nella cultura del suo tempo, la valenza delle opere e, quindi, i meriti acquisiti.

Da giurista ha affrontato il problema delle consuetudini in rapporto alle leggi ed avvertito il contrasto tra foro laico e foro ecclesiastico, ossia tra Chiesa e Stato. Spesso il suo discorso cade sulle diverse questioni dei chierici (l’eredità, la disponibilità dei beni e dei loro frutti, il chierico passato allo stato laicale, ecc.). Per Molfese è sacrosanta la loro difesa. Essi, secolari o regolari, in maggioranza di nobile famiglia, in quel tempo costituivano un problema sociale assai rilevante. È noto che per la salvaguardia e la conservazione delle proprietà fondiarie, l’eredità intera veniva data al primogenito maschio, mentre gli altri figli erano obbligati alla vita sacerdotale dal capofamiglia. Questi, in tal modo, essendo spesso affittuario delle terre della chiesa, si garantiva il pagamento del fitto e l’esenzione dalle tasse attraverso le rendite percepite dal figlio sacerdote, quale partecipante dei beni della chiesa o dell’ordine religioso di appartenenza.

 

A) Analisi dei diritti

Egli ha riordinato, analizzato e chiarito tutti i diritti in vigore nel suo tempo, dando alle consuetudini un valore di certezza, di immunità dalle iniquità e di impedimento alla menzogna dei testimoni nei processi. Nel regno di Napoli c’era l’anarchia assoluta; la legge vigente si basava sulle consuetudini, sugli usi trasmessi dalla tradizione, che variavano da zona a zona. In alcuni territori si seguiva il diritto dei Longobardi, per il quale nella successione l’eredità spettava a tutti i figli; in altri vigeva il diritto dei Franchi, il più diffuso, che assicurava la successione solo al primogenito, tenuto a dare ai fratelli il paraggio e alla sorelle la dote, tutti perciò costretti, per sopravvivere, a mettersi al servizio di un signore o a farsi preti o ad entrare in convento a monacarsi. Col differenziarsi dei ceti sociali, ogni comune si diede uno statuto e sorse il diritto comune o municipale, che spesso cozzava con le consuetudini locali. Queste, non ridotte in legge scritta ma conservate dalla tradizione, divennero causa di liti a causa dell’incertezza delle medesime. Spesso avveniva che il litigante invocava per sé la consuetudine e produceva i testimoni che favorivano la sua tesi. Al riguardo si aggiunge che nessuna fede era dovuta alla testimonianza dei “rustici” nelle cause civili, mentre era privilegiata la prova del cittadino nei giudizi con i villani.

Si ravvisò allora la necessità da parte del sovrano di eliminare la tradizione orale e dare mano alla forma scritta attraverso una codificazione precisa, che diede luogo ad un proliferare di studi, tendenti a delucidare, chiarire, interpretare e creare una legislazione univoca, valida per tutto il regno e da osservarsi sia nel tribunale civile che in quello ecclesiastico.

A Ripacandida vigeva il diritto municipale, con uno statuto proprio fondato sul diritto dei Franchi, come ci attesta Molfese, citando un caso giuridico riguardante alcune sorelle di quel paese, le quali, escluse a causa dei maschi dalla successione dei beni, ricorsero al giudice per ottenere il diritto di reclamare parte dell’eredità a loro spettante per la morte dei genitori.

“Di questa questione – scrive Molfese – che suole presentarsi molto di frequente non solo in questa città ma anche in tutto il regno, ho scritto nel 1610, quando il caso si verificò nella mia patria [Ripacandida] e quelle cose che avevo scritto trasmisi agli inquisiti. Viste le allegazioni dall’ufficiale del luogo, non si procedette di più in quella causa e le donne furono prosciolte dall’accusa con grandissima gioia degli inquisiti e gran dolore dell’ufficiale, che pensava di riempire il suo marsupio, perché molti erano gli inquisiti e della migliore condizione; ma si comportò bene e con la massima considerazione; infatti egli credette agli allegati e non procedette nella causa”[17].        

La questione si risolse brevemente. Le donne non avevano rinunciato alla successione e quindi non potevano essere escluse dal diritto di reclamare. Se avessero rinunciato, allora bisognava distinguere: se avessero fatto la rinuncia secondo i termini della Costituzione del regno e secondo le consuetudini, allora le donne non sarebbero escluse dal diritto di reclamare per la morte dei genitori. Però secondo la disposizione delle prammatiche di questo regno, le sorelle sono escluse dal diritto di reclamare, perché la donna, per aver avuto la dote, è esclusa dalla successione, e quindi ancor più non succede quando è intervenuta la rinuncia.

Il problema più dibattuto al suo tempo era il rapporto tra Chiesa e Stato e, di conseguenza, tra il foro esterno e quello ecclesiastico. Può un ecclesiastico che ha commesso un reato essere giudicato dal tribunale laico?  Quale dei due è prevalente? La risposta dipende dal concetto che si ha della legge e dello Stato.

Si è già detto dei curialisti e dei regalisti. Molfese si mostra assertore di una monarchia limitata e sostenitore dell’accentramento politico del Papa. Ogni potere viene da Dio, che, però, “immediate nulli hominum hanc regiam dedit potestatem”. La potestà del sovrano trae origine dal diritto delle genti e gli deriva attraverso il popolo. Solo il Papa è investito direttamente di autorità, per compiere la missione a lui affidata da Gesù. Tutti, non solo i religiosi, devono obbedienza al vicario di Dio e sono legati dalle sue disposizioni emanate attraverso le Bolle. “Le Bolle Apostoliche legano anche le persone secolari non soggette alla Chiesa nelle cose temporali. La Bolla parla in modo universale ed anche rispetto alle persone laiche”[18]. Il principe, pertanto, al papa deve obbedienza, come suddito al quale è affidato il compito di amministrare e guidare gli uomini al benessere spirituale e materiale attraverso leggi che attendano all’utilità comune e siano poche, perché più facilmente conosciute ed osservate da tutti[19]. Il legislatore non può prevedere i vari casi che possano essere codificati, ma affermare un principio generale, che indurrà il giudice a farne l’estensione da un caso all’altro, benché non ci sia espressione verbale, perché la legge non cessa la sua validità per il cambiamento dei tempi.

 

B) Esame di casi reali

Il secondo merito di Molfese è che ci dà un quadro reale della società del tempo. I casi da lui esaminati sono tratti tutti da sentenze del Sacro Regio Consiglio (l’odierna Cassazione), che giudicava sulle liti tra i nobili (principi, duchi, conti e marchesi), mai tra la gente comune, riguardo alle successioni e alle eredità.

Era una società piuttosto maschilista. Come s’è accennato sopra, l’eredità spettava solo ai figli maschi, soprattutto al primogenito, perché i beni rimanessero nella famiglia e non si disperdessero in varie particelle. Tutto era a danno della donna, che veniva esclusa dalla successione, doveva vivere sottomessa; poteva sposarsi tra i 14 e i 16 anni con l’assenso del padre, le si dava solo la dote, dettagliatamente elencata nei capitoli matrimoniali, di nessun bene del marito poteva disporre; rimasta vedova, aveva diritto alla restituzione della dote e dell’antifato o donazione per le nozze costituita dal marito, nonché alla quarta parte della proprietà; con tali beni era tenuta a dare la dote alle figlie nubili.

Si potrebbe continuare a dire di altri aspetti, per esempio, del diritto degli alimenti da parte dei figli e della madre, della donazione per le nozze fatta da un marito vecchio ad una moglie giovane o dalla moglie nobile al marito non nobile, della dote che spetta solo se si consuma il matrimonio, dell’adulterio, del divorzio, della separazione, e di altro ancora.

Le sue opere hanno uno stile lineare e ordinato: per prima è posto il tema diviso nelle sue argomentazioni, poi si spiegano le questioni in modo esauriente e chiaro con il ricorso alle fonti del diritto, la dimostrazione che la legge che si applica è corretta e, talora, l’opportunità di allegare la ratio della legge alla decisione delle cause.

 

C) La vera nobiltà

Come terza considerazione, bisogna sottolineare di Molfese il suo orgoglio di essere un ripacandidese. Poiché a Napoli inizialmente non godeva di grande stima, egli polemizza con i suoi detrattori ed espone un metodo di lavoro. Ecco che cosa scrive nel 1616: “Che io sia senz’altro cieco, lettore cristiano, se non vedo apertamente, per la mia laboriosa opera a quante calunnie io mi esponga. Infatti, che cosa diranno gli studiosi, anzi che cosa non diranno quando vedranno che io abbia osato trattare una materia da parecchi sia in passato che di recente trattata in modo diligente, vario e garbato? Vuoi tu, – diranno – nuovo fondatore, che Penelope ritessa la tela, così come tanti dotti e sapienti scrittori? Io, in verità, benché abbia da poter rispondere con molte argomentazioni, ti dico questo soltanto: poiché decisi di seguire l’autorità di uomini eccellenti e i loro ammonimenti, non affidai alle stampe quest’opera prima che l’avessero esaminata e giudicata con occhio severo famosi giurisperiti. Stiano lontani, ora, quelli che tendono insidie con lodi non originali e divorano gloriosi parti appena pubblicati, mormorano tra sé, strepitano, eruttano e propalano infamie, e dicono che a Ripacandida non c’è nulla di buono … Confesso che quanto posseggo è naturale, poiché mi è stato dato tutto ottimamente; tutto è un dono reso perfetto dall’alto, giacché discendo dal Padre della vita. Seguo il detto del Signore “Lasciateli, sono ciechi e vogliono essere guida di ciechi”.

Molfese non si sente inferiore agli altri per non essere nato in città e contesta il concetto di nobiltà come era allora inteso. In più punti della sua opera sostiene che non è vero che i nati in città siano più nobili di quelli nati nei paesi: questi sono nobilitati dagli uomini forniti di scienza o di arti che vi abitano, perché la vera nobiltà proviene dalla scienza e dalla coerenza delle idee. Per molti la nobiltà proviene dall’antica discendenza che assicura loro delle preferenze e dei privilegi, come nel caso di chi ha sangue regio. Per Molfese sono le virtù e i comportamenti più che la stirpe antica a rendere nobili.

Egli così scrive: “Io sono nato in un paese, una piccola Terra, come è la Terra di Ripa Candida, che è la mia Patria. … I nati in città sono più nobili e preferiti ad altri che nascono in paesi e piccole Terre. So dunque che la città rende nobili … ma so anche (per non fare le lodi della mia Patria) che le persone per bene fornite di scienza o di arti hanno nobilitato grandemente le loro patrie, benché piccole, ed esse sono state preferite ai cittadini della medesima città. So anche che la scienza rende nobili --- Se ho detto bene ed ho seguito per questi Commenti un metodo corretto, anche se fossi stato figlio di un libertino, per questa sola ragione sarei da preferire ad altri. So ancora che, quando la nobiltà viene in ragione dello stato, ossia degli antenati, quanto più antica è la nobiltà, tanto maggiore essa è, tanto da preferirsi agli altri. Sicché se la nobiltà discendesse da sangue regio, questi che discendono da sangue regio sono preferiti ad altri. È chiaro che i nati da sangue regio sono più noti, più insigni e più importanti e per tali prerogative devono essere preferiti ad altri che non sono ornati di tali prerogative. E so ancora che le virtù e i costumi rendono nobili più della nobiltà degli antenati, perché la sola nobiltà è quella che è ornata dai costumi”[20].

All’orgoglio per la sua opera e per il suo sentirsi nobile segue il suo senso di umiltà e di obbedienza alle disposizioni della Chiesa. Al termine di tutti i suoi lavori dichiara di sottoporsi al giudizio della Chiesa perché siano corrette tutte le argomentazioni e di sottomettersi con ogni umiltà.

 

D) Molfese e la sua patria

Come è ricordato Molfese a Ripacandida? Si deve andare fieri di questo concittadino del quale nell’albero dei Teatini, conservato nella chiesa di Sant’Andrea della Valle a Roma, c’è la foto di Molfese, fornitaci gentilemnte dal direttore della biblioteca dei Teatini, padre Robeto, nella quale, nella parte inferiore, si legge ANDREA MOLFESE DA RIPACANDIDA, FAMOSO PER L’INGEGNO E LA FORZA DEI SUOI SCRITTI.

Nel libro di don Giovanni Rossi “Vita del Gran Servo di Dio Giambattista Rossi, Arciprete di Ripacandida”, è riportato il testo della lapide posta su una finestra della casa:di Molfese: ALTIUS ASCENDET SI SERVENT TEMPORA VIRES // QUO PATRIAE POSCIT MOLPHENTIENSE DECUS[21].

Egli molto si adoperò per Ripacandida, come si legge in un documento anonimo del 1725, conservato nell’archivio parrocchiale della chiesa di Santa Maria del Sepolcro:

“Ripacandida benché piccolo luogo ebbe però da secolo in secolo uomini illustri, e della Padria zelanti, e benché le guerre del Regno e massime l’ultime, che s’attaccarono per la divisione, tra l’Aragonesi, e Francesi si trovasse immezo d’ambidue l’esserciti, stanno lo Francese in Melfi, e lo Spagnuolo in Atella, restò deteriorata eccessivamente, pure ripigliando spirito si ritrovò con persone letterate e pie nel fine del Decimo sesto, e principio del Decimo settimo, tra quali fiori sopra tutti l’assai chiaro, e famoso Andrea Molfesio, tanto accreditato nella professione legale, per i suoi celebri libri sopra le Costituzioni del Regno, e nella bontà della vita per quello insegnò nella sua somma morale, e per quello prattico trà chiostri Teatini, ove rese lo spirito a Dio con concetto di Religioso Santo e perfetto. Questi guidò le cose di Ripacandida cosi stando alla Patria, come dimorando in Napoli nel secolo, e nella Religione istessa, come da varie Scritture antiche ricavasi”[22].

Sono espressioni di lode che possono dirsi anche per tanti altri, come, per citarne alcuni, Camillo Guglielmucci, Giuseppe, Nicolò e Tommaso Sapio, Leopoldo Chiari, i D’Addio, tutti personaggi che a Ripacandida hanno dato lustro e gloria.


[1] A, Molfese, Additionum ad quaestiones usuales seu ad primum volumen commentariorum consuetudinum neapolitanarum, Lazzaro Scorigio, Napoli 1622, tomo II, p. 10, n. 14.

[2] P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, Tip. Giovanni. Gravier, Napoli 1770, tomo 3°, libro 21, cap. 7, p. 82.

[3] I Romani nelle “orge” si cingevano il capo di edera in onore di Bacco.

[4] “Cum visum sim mihi videre multa in hac re obscurius tractata et perturbatius esse dicta, Quam ex usu fit consimilium rerum studiosis faciundum putavi, ut claritatem confectaret, et plura in pauca conferrem et quae magno labore ac summa difficultatein alijs erant perquirenda libris; in istis, brevi et facili methodo digesta reperiant Commentariis. [...] Iure etiam Commentaria nuncupatum, cum sit ad dilucidationem et ornatum eorum omnium, quae hucusque Prudentes alij in hac materia tradiderunt. Igitur, non quia illi praecesserunt Messores, inanis ego fuerim, qui spicilegium facio. Multa eos praeterire, quae nos posteri adnotavimus. Multa praeterea, tum ordine, tum stylo meliora fecimus aut clariora. […] ne talis in me aliquis obganniat Zoilus, quasi actum egerim atque (ut verbum est) oleum operamque perdiderim. Alioquin illa, quae nobis laudi esse poterunt, libentissime suppressissem; non ignarus vino vendibili nil opus esse hedera. […] Non sum usus longiori argumentorum apparatu, nec magna Scribentium allegatione; utrumque enim visum fuit relinquendum, Primum quidem, quia Scribentes et Consulente suti non debent superstitiosis subtilitatibus et argumentis, nam solent veritatem adumbrare, sed plano et facili stylo procedere debent, […]. Secundum vero, quia tot adlegare Scribentes multoties solet generare nauseam et magnum facere volumen sine utilitate. Idcirco conatus sum prius citare Textum, vel Glossam, vel Classicum Doctorem, et postea allegare illum, qui alios cumulat”.   

[5] “Stilus noster, fateor, incoptus est et nullo propermodum ornamento comendabilis. Attamen excusari in hac mea ruditate apud te, Lector, potero, ea potissimum ratione, quod vulgi etiam et imperitorum Sacerdotum turbae hac simplici methodo et perspicua brevitate volui, atque adeo debui deservire. Methodum denique hanc servamus, quia Sacerdotem et Confessarium instruere animus est, idcirco primum de Rudimentis Fidei […]. In primis conscientiae consiliarium hic me exibeo, de eius officijs, quae casu vulgo vocant, quid Christianus cavere, vitareque debeat, aut e contra sequi, amplectque possit, sive ex Christiana lege teneatur, non fuse, molesteque disputo, sed ob oculos ipsos pono. In his autem non adeo brevitati studui, ut aliquid a me diligentiae tum in perquirenda vestigandaque ab ipsis fontibus veritate, tum etiam in seligenda inter variantes Doctores potiore sententia, omissum sciam. Id in causa est, Lector, me quamvis brevitati studuerim, non potuisse tantum esse adeo breve, quin in duos Tomos hic meus labor excreverit. Caeterum res singulas ut plurimum paucis expedio et Authores ipsos, de quorum nominibus locisque librorum citandis nonnulli paginas totas impleverunt, ego selectissimos solum modo, ne fastidio sim, adducere volui. Videlicet, post narratam doctrinae cuiusque sententiam, quam veriorem aestimo, eam vel textus, vel Glossae, vel Doctoris classici atque primarij authoritate firmare soleo. Postremo recentiorem aliquem adijciens, apud quem catalogum scriptorum omnium, qui de ea re tractaverunt, si quis curiose omnes scire atque adire voluerit, poterit reperire.

[6] “Exeant nunc qui alienis laudibus insidiantur gloriososque foetus vix editos divorant, submurmurent, perstrepitent, insanias eructent propalentque pro libito me non esse illius operis parentem, ea fortasse ducti ratione, quod omnibus numeris absolutum, omnium calculis celebratum videntur, et a Ripacandida boni aliquid esse negarent. Sed hi momo genitore orti in perfidiam Phariseorum ruunt; qui, ut Beda attestatur, cum opera Christi negare non possent, sinistra tamen interpretatione pervertere conabantur; fateor ingenue meum esse et non meum, hoc quidem, quoniam omne datum optimum et omne donum perfectum desursum est, descendens a Patre luminum nihilque apposui, quod communi iure et consuetudinario firmatum esse non senserim, et ab illustribus auctoribus ac huius regni insigniorris notae Senatoribus comprobatum. Illud autem, si attendas ordinem, dispositionem, seriem, materiarum selectum, opinionum iudicium, sententiarum decreta, rationum robur, quae non meorum sigmentorum penu sed ex legum thesauro collegi, et qua vides arte digessi An non meum, quod tot lucubrationibus in adversa etiam valetudine susceptis, concepi, tanto labore peperi, mearum virium expensis alui, multis incommodis educavi, famosorum hominum auxilio fovi, et usque ad perfectum statum perduxi? An caret laude quod a multis seligitur, ut in unum coeat et simul ac distinctius praestet quod sparsim et confuse apud plures daret? […] Ergo, quod ego (absit iactsantia et ostentatio), veterum distis magistrorumque iuris sententijs Napodanum municipalesque Neapolitanorum leges declaverim, et ad tam perfectum duxerim statum, ut parum firma, refutata, quam multa ante confusa, illustrata, doctrinae ubertatem et soliditatem simul haberet, quis est qui carpat et laudum debitum non persolvat?”.  

[7] M.d’Afflitto, In utriusque Siciliae Neapolisque Sanctiones et Institutiones Novissima Praelectio, Venezia 1606, I, rubr. XXX, n. 8, f. 118). 

[8] F. De Ponte, De Potestate Proregis, Collateralis Consilii, Regnique regimine, Tarquinio Longo, Napoli 1611, p. 327.

[9] A, Molfese, Additionum ad quaestiones usuales, cit., p. 37.

[10] F. Pasquale, Tractatus amplissimus de viribus patriae potestatis quattuor in libris distinctus, Napoli, 1616, p. 14

[11] O. Montano, Controversiuarum forensium ad Consuetudines Neapolitanas feudales liber unicus, Tip. Roberto Mallo, Napoli 1644, p. 440.

[12] L’espressione è nelle lettere di san Paolo, ripresa, tra gli altri da Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, Roma 1949-1952, III, q. 48, a. 2. Ved. A. Di Bello, Ordine e Unità nel Medioevo, in Esercizi Filosofici, 4, 2009, pp. 3 ss.

[13] Quaest..XXII, n. 41 di Additionum ad quaestiones, cit., p. 298. 

[14] A. Molfese, Additionum ad quaestiones usuales seu ad primum volumen commentariorum consuetudinum neapolitanarum, tomo II, Tip. Lazzaro Scorigio, Napoli 1616, Proemio, quaest. IX, nn. 36,37,43 e 44, pp. 37-38.

[15] A. Lauro, Il giusnaturalismo pregiannoniano nel Regno di Napoli, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1974, p. 46.

[16] A. Molfese, Additionum ad quaestiones usuales, cit., p. 12.

[17] A. Molfese, Coomentaria, cit., quaest. XVIII.

[18] A. Molfese, Additiones, cit., quaest. XII, p. 86.

[19] Ibidem, quaest. X, nn.1-20, p. 83.

[20] A. Molfese, Additiones, cit., p. 168, nn. 37- 38: … me natum esse in quodam Oppido, sive Terra parva, ut est Terra Ripae Candidae, quae mea est Patria … et sic nati in Civitate nobiliores sunt et preferuntur aliis, qui in Oppidis et Terris parvis nascuntur; n. 39 - Scio igitur quod Civitas nobilitat … sed scio etiam (ut meae Patriae laudes reticeam) quod boni viri scientia vel artibus prestantes Patrias, alioquin infimas, maxime nobilitarunt, et ipsi praelati sunt Civibus eiusdem Civitatis; n. 40 - Scio etiam scientiam nobilitare, ut superius dictum est. Sed si bene locutus sum, et ad rectam methodum haec Commentaria direxi, ac reduxi, etiam si fuissem filius libertini, hanc solam ob causam aliis essem preferendus; n. 41- Scio etiam, quod, dum nobilitas venit ratione status, sive ex maioribus; quo antiquior est nobilitas, eo maior est, ut caeteris praeferatur; n. 42: adeo ut, si nobilitas descenderet ex sanguine Regio, isti, qui ex sanguine Regio descendunt, praeferuntur aliis …; n. 44 - Clarum est, ut nati ex sanguine Regio sint magis noti, magis insignes et magis alti; et ob tales prerogativas debent aliis praeferri qui talibus  prerogativis decorati; n. 45 - Et scio etiam … quod virtutes et mores plus nobilitant, quam progenitorum nobilitas, quia nobilitas sola est, quae moribus ornatur.      

[21] G. Rossi, Vita del Gran Servo di Dio Giambattista Ross arciprete di Ripacandida, Napoli 1752, Stamperia Muziana,  p. 5: “Nella sua casa di Ripacandida sita nel mezzo della strada principale, detta alla francese, la Rue, in un marmo sopra d’una finestra si vede scolpita la Croce de’ Teatini e quello in cui vi eano scolpiti questi versi ALTIUS ASCENDET SI SERVENT TEMPORA VIRES // QUO PATRIAE POSCIT MOLPHENTIENSE DECUS”.  Tale testo non sembra coincidente con l’epigrafe, ancora esistente, seppure frammentata, sulla facciata della casa: SERVANT TEMPORA VIRES // MOLFENSIE DEC.  Dall’integrazione delle due iscrizioni si dovrebbe leggere: ALTIUS ASCENDET SI SERVANT TEMPORA VIRES // QUO PATRIA POSCIT MOLFENSE DECUS (Se il tempo gli conserva le forze, l’onore di Molfese salirà più in alto di quanto la patria gli chieda).

[22] Archivio parrocchiale di Santa Maria del Sepolcro di Ripacandida, b. 3, anno 1725.

 

 

CAPITOLO III  - SEGUE >>       

 

 

 

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