3.1 - Nota di don Francesco Bolvito
Preposito generale della Congregazione dei Chierici Regolari, che concesse
la facoltà di “dare alle stampe il trattato sui contratti e le
ultime volontà e sepolture composto da don Andrea Molfese, docente
di entrambi i diritti e di Teologia, sacerdote della nostra
Congregazione, e approvato col parere di personalità di rilievo
della medesima religione delle stesse professioni” … Opera accurata,
utile e assai necessaria a tutti quelli che nel foro si occupano di
entrambi i diritti”. Napoli, Tipografia Lazzaro Scoriggio. 1622.
“Essendo il nostro Andrea Molfese andato via dai vivi da poco, autore di
questa opera che vede la luce in edizione postuma, vorrei, o lettore
cristiano, che tu considerassi la vita dell’autore sin dalla sua
nascita. Sappi, dunque, che nacque nella cittadina di Ripacandida,
della diocesi di Melfi, nel regno di Napoli, da genitori onesti e
molto ricchi nell’anno 73 del precedente secolo [1573] e sino al 14°
anno istruito in quegli studi che sogliono ornare quella età, quando
il vescovo, conoscendo l’animo che si ha in tale età e gli impulsi
generosi e per così dire i germogli ardenti della virtù prorompente,
con discorsi continui desiderava che egli si cingesse della cintura
della milizia sacerdotale. Ma lui, proferendo parole tergiversanti e
titubanti, mostrava la volontà di suo padre. Una decisione così
grave era, però, da riferirsi non alla persuasione umana ma
all’ispirazione divina. E così avvenne. Infatti, pregando
intensamente Andrea davanti all’altare della Vergine beatissima,
alla quale si era votato totalmente sin dall’infanzia, a lui che
pregava apparve la Santissima Madre che gli illuminò fortemente la
mente, e non solo lo persuase ma anche gli ordinò la milizia
sacerdotale, promettendogli una feconda messe di doni spirituali e
la sua mano protettrice in perpetuo. Fatto più disposto da questa
voce, preso dall’eccitazione, seguì quasi a gara qualsiasi cosa a
quella conducesse, allontanando qualsiasi cosa da quella lo
distogliesse e riprese con vivo sforzo gli studi di lettere
umanistiche che aveva interrotto da un sessennio (aveva infatti
quasi venti anni). Si annovera nella categoria del Signore, si reca
a Napoli, non si occupa della scienza delle leggi, si regala la
laurea in diritto civile ed ecclesiastico. Aveva un amico, a cui era
assai legato da un’amicizia vecchia, privata e sincera. Questi aveva
dato il nome al nostro gruppo religioso nella Casa napoletana di
Santa Maria degli Angeli: decide con impeto inconsulto di
avvicinarsi ancor più a costui, con l’intenzione di riprendere la
legge abrogata dell’amicizia, il patto interrotto della comunanza,
pensando così di rimuovere, scuotere e far cambiare l’animo del
giovane. Ma avviene il contrario. Infatti, volgendosi a lui,
comincia in modo prudente a considerare la grandezza di questo
beneficio e, operando in lui la grazia divina, indagare e ponderare
quanto la sua situazione stesse in un luogo pericoloso, scosceso e
quasi precipitante. Questo nuovo compagno è irretito dalle funi di
Saulo che cercava di rompere e perciò chiede di essere iscritto nel
coro se non dei profeti, certamente di quelli che cantano le lodi di
Dio con la voce e con le azioni. Intanto muore suo fratello ed egli
è come avvolto da infiniti imbarazzi; tra i quali prevale la
decisione sicura di dover entrare tra i secolari, pur essendo la via
difficile; perciò si astiene dal patrocinio oneroso di cause e da
attività pericolose e rinnova la sua opera di teoretica più di
quella pratica, le Istituzioni sia civili che canoniche per le quali
riceve pubblica lode.
Poteva quasi sembrare venir meno il suo ingresso nel gruppo religioso, non
invero per il suo voto sempre saldo e non sopito, ma per causa dei
Padri la cui indecisione durò per un periodo troppo lungo di un
biennio. Tuttavia in questa costernazione psichica di nuovo si
affidò alla Dei para, che già una volta aveva sperimentato come
tutrice nella scelta dello stato ecclesiastico e religioso e ancor
più di quello più perfetto, affinché la sentisse conciliatrice dei
Patri e risolutrice di tutta la vicenda. La Vergine santissima annuì
e sembrò parlare così a lui che la pregava: Entra, o figlio, in
questo gruppo religioso e sperimenterai i Padri con te conciliati e
me a te propizia. Pieno di gioia, va dall’amico, gli riferisce ogni
cosa, sente che ciò è stato un beneficio assai grande e perciò
doveva ringraziare molto Dio e fidarsi della Vergine, con il cui
aiuto si eliminano ostacoli di vario genere e si rompe qualsiasi
legame, e si congeda. A lui che andava via si fa incontro il
Preposito della Casa, sino ad allora con animo avverso a lui, e
guardando Andrea, parve che costui gli instillasse lentamente il
desiderio di doverlo ammettere nell’Ordine. Perciò ritorna
dall’amico e gli rivela ciò e gli viene ricordata l’apparizione
della Vergine e la promessa. Fatto dunque il consulto con i Padri,
si delibera di cooptarlo nel consorzio dell’Ordine, il che a lui
molto tempo prima aveva predetto il nostro beato Andrea Avellino,
come egli stesso costretto da sacro giuramento confessa nel processo
della di lui canonizzazione. Si stabilisce il
giorno, che era sacro a S. Tommaso d’Aquino, dell’anno 1605, nel
quale giorno, rivolgendo Andrea preghiere a questo Santo con cuore
fervido vicino al sacro altare, parve il Santo Dottore così
parlargli: Entra con animo lieto in questo gruppo, il Signore ti
riempirà di sapienza, ma tu tendi a svuotarti del passato.
Munito di questi presidii, cominciò a formarsi secondo il nostro Istituto
e passato un quadrimestre di accoglienza ed un anno di prova,
pronunciò i voti solenni; poi, compiuto il corso di Filosofia e
Teologia, iniziato ai sacri ordini, affidò tutto se stesso alla
redazione e all’esame di argomenti profani, benché afflitto da
salute avversa, emorragia e febbre lieve e quasi continua; ma
nonostante la salute e l’intenso ardore di divorare libri, mai
sembrò cessare dallo zelo della preghiera, in cui si sperimenta un
divino sollievo e l’abbiamo visto manifestare molto
frequentemente anche non volendo con cambiamenti del volto, sospiri
ed emissione di gridi. Infine, all’inizio di luglio del 1620 fu
colpito da febbre e desiderando il letto, confessò apertamente e
festosamente che era arrivata l’ora suprema e il giorno molto
desiderato in cui, spezzato il filo della vita, si sarebbe congiunto
con Cristo. La malattia atroce per parecchio tempo sembrò mitigarsi,
perciò si recò a Sorrento, città nel golfo marittimo di Napoli, dove
è la nostra Casa e la chiesa a Sant’Antonio, autore di miracoli
nella liberazione degli indemoniati, che egli desiderava venerare,
ma qui fu colpito da pleurite e da febbre che i medici chiamano
lypiria, sicché fu costretto a ritornare a Napoli, arricchito di
questo guadagno, perché, come diceva, grazie a Dio, questi gli
avrebbe fatto concludere in un tempo assai breve i dolori della
malattia con l’arrivo della morte a passo veloce. Tra le sofferenze
della malattia fu solito invocare la Vergine Deipara non con altro
nome ma con quello solo di Madre sua, ed era contento, unico
sollievo del suo animo, se poteva cantare alcune cantilene da lui
composte tra le dense occupazioni degli studi ed anche prima della
sua morte. Finita la vita, si cibò del nutrimento celeste; mentre
veniva unto con l’Olio santo, immaginava di vedere vicino a sé
Cristo fisso sulla croce tra la Beata Vergine, l’apostolo Giovanni e
la Maddalena, e ad ogni unzione emanare dalla croce il suo
preziosissimo sangue che purgava ogni senso che veniva unto. Prima
che morisse, gli offrirono il liquido che usciva dal corpo di
Sant’Andrea apostolo, che non rifiutò ma rimandò a tempo più
opportuno, segnandolo per il giorno dopo; all’alba, ansando chiese
quella bevanda e con molta devozione l’assunse, conseguendo di nuovo
l’assoluzione dei peccati. Pronunciò ancora il possesso della fede e
di nuovo i voti solenni, e morì l’otto agosto, il giorno dopo
l’anniversario del transito al cielo del beato padre nostro Gaetano,
vissuto nell’Ordine per 16 anni e compiuto 46 anni, sempre con
illesa e illibata verginità fisica, la qual cosa una volta aveva
aperto al confessore nell’ultimo tempo della sua vita, ed ora che
doveva andare al tribunale del supremo Giudice confessò di aver
detto il vero.
Scrisse parecchie opere, ma quelle che sinora hanno visto la luce sono i
due volumi del Commentario delle consuetudini napoletane con
l’aggiunta di consigli, che hanno ricevuto il plauso di tutti i
giureconsulti napoletani e degli stessi giudici, tra i quali furono
quelli che essendone privi quando trattavano azioni legali in aula,
che i Romani chiamano Rota, ebbero disponibili quelli, come se
scritti per l’occasione, e prima di pronunciare la sentenza avevano
chi consultare.
Pubblicò anche due volumi del Prontuario dei tre diritti. Tra le sue
schede sono state scoperte molte cose che tuttavia hanno bisogno di
cure particolari. Tali sono il terzo volume dei Commentari sulle
consuetudini napoletane, l’esposizione della bolla In Coena Domini,
Questioni giuridiche, il Trattato sulle restituzioni, le censure, i
giudizi, i vescovi, i regolari, l’immunità della Chiesa, la vendita
dei beni della Chiesa. Numerosi anche i Consigli in materia civile,
canonica e morale. Quelli che sono di naso fine apprezzano molto i
suoi scritti, cercando non tanto lo stile ben limato e il discorso
forbito, quanto se insegna con sentenze vere, in modo conciso,
chiaro e robusto, il che egli porta avanti egregiamente. A noi,
rimasti con un grande desiderio di lui, sia lecito presumere che
egli goda di quel sommo bene, alla cui gloria soltanto ha teso. Tu
intanto, o cristiano lettore, sta’ bene”.
3.2 –
Encomio di don Pietro Massario, protonotario apostolico
della Santa Sede, Dottore di entrambi i diritti, Professo di Oratino
(Campobasso) e di Napoli (da Commentaria ad Consuetudines
Neapolitanas, tomo terzo, Tip. E. Cicconio, Napoli 1654, p. 7)
Andrea Molfese uscì dal mondo terreno al quale si dedicò ed ora si
dedica al mondo delle stelle, che senza posa effettuano il loro
corso. A lui mai piacque né di far valere né di conseguire qualcosa
per suo interesse, ad imitazione del sole dal corso incessante,
illustrando con gli scritti i Tribunali, giovando alle Corti,
sostenendo gli Avvocati con l’opportuna illuminazione ed il benevolo
influsso degli scritti. Succhiò, per così dire, le leggi dalle
mammelle, si nutrì, appena nato, non del latte ma di inchiostro,
destinato a portare il giorno sia al mondo forense che a quello
sacro.
Scrittore famoso, voleva essere sulla bocca degli uomini, era
tormentato dalla cupidità della fama, non abbandonando la
predilezione per la gloria, per non buttar via i dotti allori, che
col verde perenne adombrano le fronti degli eruditi e donano
l’immortalità agli uomini di cultura. I giudici applaudirono il suo
nome, i dotti veneravano Andrea, la folla dei clienti lo seguiva.
Tuttavia, nudo fuggì via per entrare nella famiglia di Cristo e
nell’Ordine religioso dei Teatini, che è superiore agli altri ordini
per vera ricchezza; perciò, assai ricco non desidera alcuna eredità,
se non Dio, egli che fu uno dei più fortunati dell’Ordine Minore
perché senza fortuna, né ricerca le ricchezze umane ma quella
celeste. Aggregato in questa famiglia, visse in una cella angusta da
religioso, scrisse da persona dotta, come attestano questi monumenti
che Domenico Montanari di nuovo mette in luce. Con la composizione
dei suoi scritti questi diffonde il ricordo di Andrea, affinché
dalla tomba piena di vita come da un cenere animato della favilla
della Fenice la stessa morte rifiorisca nelle viole e nei gigli
verdeggianti e vivaci. Gli uomini, dopo aver letto gli scritti,
possano dire: forse che le viole non nascono dal tumulo e dalla
favilla della fortuna? Andrea, benché morto, sembra risorgere grazie
a te, Domenico, e già morto merita ampiamente di vivere nell’Olimpo,
tra i Padri dell’Ordine Teatino, sulla bocca degli uomini. Lo stesso
Padre, mentre provvederà ad assistere tanti Padri con adunanza a lui
devota, elargirà degne grazie e farà in modo che a te, Domenico, gli
abitanti della terra diano degni premi.
3.2 bis – Nella stessa opera, a p. 4 è riportato il giudizio di
Flavio Ventriglia, famoso avvocato napoletano, il quale, da lettore
dell’opera di Molfese, scrisse: “Chi arde dal desiderio di leggere
le leggi e penetrarne i segreti, o Andrea, s’incammini con la tua
guida. I commenti che mostri diventano i compendi della via. La
legge era stata inaccessibile, ora ne ha la strada” [De operis
lectore ad auctorem: Qui leges legere et legum penetrare meatus
incalet, Andrea, te duce carpat iter. Quae prodis Commenta, viae
compendia produnt. Invia lex fuerat; nunc habet illa viam].
3.3 - Nota di Giuseppe Silos di Bitonto, chierico regolare,
riportata nella Storia dei Chierici Regolari,
Tipografia di Pietro d’Isola, Palermo 1666, vol. 2°, pp. 418-420.
“Un altro che è morto nello stesso ventesimo anno di questo secolo [1620]
fu Andrea Molfese, espertissimo di entrambi i diritti. E assai noto
per le sue opere letterarie. Egli unì il sentimento religioso allo
studio, come si può vedere sfogliando ed esaminando i suoi volumi e
dalla pratica delle funzioni religiose. Francesco Bolvito, uomo
colto del nostro Ordine, con la sua penna ha delineato un suo
ritratto con garbo, come si ammira nella seconda parte della sua
Summa di Teologia, che è opera postuma. Ne viene fuori che il volto
di Molfese esprime anche la nostra storia.
Nato a Ripacandida, che è una città della diocesi di Melfi, da genitori
benestanti, da fanciullo ebbe ingegno vivo che manifestò
progressivamente nelle discipline, una certa docilità e facilità di
memoria al di sopra della sua età. Il vescovo. Avendo ammirato
l’ottimo comportamento del giovane e soprattutto la florida indole
che faceva ben sperare negli studi, lo esortò a trasferirsi tra i
chierici. Mentre ciò ora accettava ora rifiutava, decise di
consultare non tanto il padre che l’aveva generato, quanto la Madre
di Dio che l’aveva adottato. Invero, dall’infanzia si era affidato
con matura deliberazione dell’anima alla protezione della Beatissima
Vergine, il che è senza dubbio da ammirare in quella età, che
raramente e solo con una particolare ispirazione divina suole
accettare la forza di siffatto sentimento religioso. Dunque, in
ginocchio davanti al suo altare, chiede consiglio alla gran Madre.
Non c’è indugio; sente di essere spinto per un intimo impulso
nell’istituto della vita clericale; si accorse che senza dubbio
c’era una forza superiore e la presenza protettiva della volontà di
Maria.
Iniziò il chiericato a Napoli con quella facilità d’ingegno che ho detto;
compì il corso di studi di giurisprudenza con egregia preparazione
dottrinale e si laureò con plauso generale. Ardente ora di lode ora
del desiderio di guadagno. Giovane si distinse nel foro e cominciò a
consumere opera e veglia nel preparare le cause. Un lavoro
pesantissimo, senza dubbio, e pieno di rischi, al quale si sottrasse
poco dopo per un comando divino. Infatti, consultando una volta dei
libri in biblioteca, come era sua abitudine insieme con Tommaso
Pelliccione con il quale c’era concorde familiarità per affinità di
studi e di costumi, si incontrò con Andrea Avellino. Questi, di pari
età, vide che i giovani passavano sopra la polvere forense e non
poté sopportare che non fossero avvisati dei pericoli
dell’avvocatura e delle Cariddi e le Sirti del foro. Con molta forza
persuasiva fece sì che Pelliccione si rifugiasse nel porto
dell’Ordine religioso, fuggendo dalla passione per gli affari.
Molfese invece rimase legato al patrocinio delle cause, non senza la
predizione dello stesso Avellino che anche lui avrebbe abbracciato
la disciplina dell’Ordine regolare.
Mutato l’interesse, montò in cattedra e si mise ad insegnare le leggi
cesaree e pontificie, alieno dall’intenzione di entrare nell’Ordine
religioso. L’amico cercava di distoglierlo da tale stato d’animo,
senza tuttavia riuscirci. Molfese fu però colpito dall’ispirazione
della sapienza divina. Si avvicinò a Santa Maria degli Angeli, dove
Pelliccioni faceva il tirocinio, con l’intenzione di distoglierlo
dal proposito e farlo uscire, ma sentì che una luce si diffondeva
nell’animo, come dal seno materno. Così illuminato, avverte la
leggerezza e l’inutilità delle cose umane, il valore di quelle
divine e soprattutto l’eccellenza dello stato regolare; subito sente
il trionfo della grazia divina. Sorse in lui un forte desiderio
dell’abito dell’Ordine religioso e, non potendo ciò sopportare più a
lungo, anche per gli stimoli e l’esempio dell’amico, interruppe la
consuetudine della vita secolare e si aggregò al nostro Ordine.
Viene, ma per la morte del fratello, come da un vento contrario, fu
allontanato da quel porto che già sembrava toccare. Per due anni lo
trattennero le cure domestiche; cominciò a temere che i Padri per
quel troppo lungo ritardo mutassero consiglio e decise di implorare
l’aiuto solito e certo della Madonna, perché gli facesse maturare la
decisione, gli conciliasse l’animo dei Padri nel conoscere la causa
del ritardo e la sua costante intenzione in quel proposito. Mentre
prega con fervore davanti alla sua immagine, gli sembra udire la
voce della Vergine che diceva: “Entra in quest’Ordine religioso, o
figlio; io ti sarò vicino e i Padri non saranno contrari”. Molfese
fu pervaso da un intimo senso di piacere per aver conosciuto in
concreto la benevolenza di tanta Madre ed ebbe certezza che Ella
aderiva alle sue preghiere. Subito provò che ciò si avverava. Il
preposito, che non aveva un giudizio benevolo verso di lui e il suo
parere aveva molto peso presso gli altri; si mostrò favorevole, e i
Padri, raccolti i voti, ammisero Molfese nell’Ordine con suffragio
favorevolissimo.
Non posso fare a meno di affidare a questo scritto un fatto degno di
memoria. Si è detto che egli fu accolto il 7 marzo, giorno sacro al
famoso dottore della Chiesa San Tommaso d’Aquino. In quel giorno,
mentre devotamente pregava davanti al suo altare, sembrò che così il
santo gli parlasse: “Entra in questa comunità con animo gioioso; il
Signore ti riempirà di sapienza, ma tu adoperati a renderti libero
di quanto non pio”.
Per questo invito della Madonna e di San Tommaso diede il proprio
nominativo all’Ordine e corrispose all’ardore con cui chiese di
essere ammesso e al singolare zelo della virtù. Ora, essendo assai
avido di sapere e portato per ogni specie di apprendimento, volle
percorrere gli spazi della filosofia e della sacra teologia. Poiché
piacciono le scienze e le arti buone, Molfese volle accedere alle
dottrine e agli studi dei sacri canoni e delle leggi civili ed
acquisì perspicacia e peso nella disquisizione degli argomenti e
nella scelta delle sentenze, abbondanza e facilità nella loro
spiegazione. Qualsiasi argomento occorresse per la comune disciplina
egli si dava a scrivere e commentare. E nella gente s’era diffusa la
sua fama d’ingegno e di cultura; i nobili si rivolgevano a lui nelle
controversie più gravi ed anche gli uomini dotti. In queste
consultazioni si conosceva che egli era da una parte eruditissimo e
di acuto giudizio, dall’altra però aveva gli studi e soprattutto la
perdita del suo guadagno.
È meraviglioso con quanta approvazione e lode prese i voti e i decreti.
Non aveva però l’abitudine e la sicurezza fisica che lo sorreggesse
nell’impegno sempre pronto e nelle veglie continue. Era solito avere
una leggera e costante febbricola, soffriva di emorragia, per cui
nulla nell’attendere agli studi era più molesto di ciò. Tuttavia si
sforzava di superare l’insistenza della malattia con un ardore
superiore alle sue forze. Cosa a cui stentiamo a credere, il vigore
dell’anima sembrava aumentare in modo contrario allo stato di
salute. Aveva tale l’urgenza degli studi che non voleva che si
provasse per lui quotidiana pietà. Soprattutto molto portato al
discorso, non permetteva che fosse distolto dal gusto delle lettere;
anzi, passava il più del tempo nell’esercizio mentale. Era solito
darsi assai spesso alla contemplazione in modo dolcissimo e indicava
di ricevere nell’animo ispirazioni divine e chiarimenti con i
sospiri, la voce e lo stesso movimento della bocca. Al contrario,
agli uomini studiosi succede che, quando sono nell’esercizio
dell’intelletto, raramente siano invasi da pii affetti che
infiammino la volontà e diano adito acché ci sia in loro più luce e
meno ardore. Questi hanno molto tempo per le occupazioni erudite ma
troppo poco per conseguire e coltivare le virtù.
Nessuno ha affermato ciò di Molfese, il quale sembrava abbracciare
ugualmente le virtù che alimentano l’intelletto e i costumi. Coltivò
innanzitutto il culto non verso i Santi ma verso la Madonna, che
chiamava col nome di Madre e non altrimenti. Dallo studio derivava
modestia e umiltà e nulla avversava se non la fama e l’onore che gli
venivano dal suo insegnamento. Molto paziente per la cattiva salute,
sanava le sue malattie con la sopportazione e non con i rimedi
richiesti dalla scienza, se non quando bisognava per le leggi
dell’obbedienza sottostare al rigore della vita comune. Ricercava
nella sua cella la povertà e non il desiderio di suppellettili
raffinate; ebbe ne cuore la castità e il candore della mente, sì da
conservare sino alla morte un’illibata integrità fisica e una
floridezza verginale. Egli apriva ciò con sincerità al confessore e
lo fece anche nell’ultimo istante della sua vita.
Tralasciamo di manifestare altri nomi delle sue virtù; è sufficiente
affermare di lui che in un personaggio occupatissimo nello studio
delle lettere e nell’amore per la religione, quasi nulla ci fu da
riprendere con il quotidiano esame di coscienza. E con questo modo
di vivere arrivò alla morte. A 46 anni, preso da febbre, stando a
letto, ebbe la sensazione di prevedere l’ultimo giorno. Disse
chiaramente che ormai si avvicinava l’ora che avrebbe interrotto il
corso della vita mortale. Quando era preso dalla violenza del male,
riceveva sollievo dall’invocazione assai frequente del nome della
grande Madre e modulava alcune pie canzoncine che egli stesso, per
moderare i suoi studi troppo intensi, aveva composto. Avendo fatto
ciò il giorno prima della morte, sembrò di imitare con quell’ultimo
canto il cigno, che esprime, come si dice, molto bene il candore
della purezza. Spirò il giorno dopo dell’anniversario del nostro
beato padre Gaetano, dopo aver ricevuto il santissimo sacramento,
emesso di nuovo la professione di fede e rinnovato i voti
dell’Ordine.
Le opere per le quali vegliò e che diede alla luce sono due volumi dei
Commentari alle consuetudini napoletane, a cui si aggiunse postumo
il terzo a cura di Francesco Bolvito; il Prontuario dei tre
diritti e due tomi di Somma teologica (Questi però non hanno visto
la luce e si trovano nella biblioteca napoletana dei Santi
Apostoli), l’Esposizione della bolla in Coena Domini; Questioni
giuridiche; Trattato sulla restituzione, sulle censure, sui giudizi,
sui Vescovi, sui Regolari, sull’immunità ecclesiastica, sulla
vendita dei beni della chiesa; Numerosi consigli in materia civile,
canonica e morale. Questi richiedono di essere limati e ben curati;
arricchiranno non poco la materia letteraria, se saranno di dominio
pubblico. Sono considerati di pregio dai grandi ingegni i frammenti
e le antologie.
Infine, c’è il giudizio presso i dotti sul modo di scrivere di Andrea
Molfese: di costoro è il parere comune che, oltre al modo di
esprimersi, nulla è più dotto e robusto dei suoi scritti. Le
Costituzioni Napoletane accolte con plauso testimoniano i Sedili
napoletani nei quali si dispone che siano consultati i Commentari di
Molfese, affinché quelli che sono preposti a giudicare derivino il
parere per l’idea di una sentenza certa”.
3.4 - Altra nota di Giuseppe Silos è riportata nel
Catalogo degli Scrittori dei Chierici Regolari, Tipografia
di Pietro d’Isola, Palermo 1666, vol. 3°, pp. 528-529.
“Andrea Molfese da Ripacandida, che è città della diocesi di Melfi, fu
rinomato per dottrina e modi di vivere. Ebbe ingegno precoce e
pronta facoltà mentale già da fanciullo. Poiché è assai utile e
molto ricercata la giurisprudenza, a questa si rivolge Molfese e,
terminato siffatto corso di studi a Napoli, fu onorato con pubblica
laurea. Dalla scuola subito volò nel foro e prese a perorare liti e
controversie. Ma subito insieme con Tommaso Pelliccione, giovane di
finissimo ingegno e dedito alla stessa palestra del foro, su
esortazione del Beato Andrea Avellino, fu richiamato da quella
ardente passione per i giudizi. Pelliccione si ritirò subito
dall’attività forense e dal mondo e si aggregò al nostro Ordine.
Molfese, invece, mutate le vele, comincia a spiegare la
giurisprudenza, non pensando affatto ad intraprendere la disciplina
dell’Ordine religioso; anzi, tenta di far uscire l’amico
dall’istituto dove era entrato. Questo fu per lui come un fuoco e
per la facondia di Pelliccione la cosa operò diversamente. Egli,
infatti, ne fu catturato e concepì allora l’intenzione della
disciplina teatina. Gli fu vicino la gran Madre di Dio che sembrò a
lui che pregava così parlasse: “Da’ il tuo nominativo a
quest’Ordine, o figlio; mi adopererò perché i Padri ti accettino
amorevolmente”.
Degno di memoria è anche questo. Nel giorno in cui fu accolto nell’Ordine,
il 7 di marzo, festa di San Tommaso d’Aquino, rivolgendo preghiere
alla sua immagine, da lì venne fuori questa voce: “Entra serenamente
in questo Ordine; il Signore ti riempirà di sapienza; cerca di
liberarti delle cose del mondo”. Dunque, sorretto da queste
esortazioni, nel sesto anno di questo secolo [1606], nel giorno che
abbiamo detto, si affidò alla comunità. Per avvicinarsi al diritto
civile e canonico volle erudirsi nell’Ordine nelle discipline
filosofiche e teologiche. Si procurò da ciò ingegno e penna e in
breve la sua fama crebbe a Napoli. Fu subito nella stima di tutti e
nelle controversie a gara lo chiamavano come arbitro, sapendolo
eruditissimo e integerrimo. Occupatissimo negli studi, non dimentica
di correggere la sua disciplina e qualsiasi tempo passasse nel
commento soprattutto delle cose divine, lo riteneva un compendio
degli studi.
Faceva molta attività mentale; né venivano meno, come accade agli uomini
piissimi e dediti alla meditazione, sollievi interiori e piogge di
delizie celesti che irrigavano il suo animo. Aveva devozione verso
tutti i santi, ma ancor più verso la Genitrice di Dio. La venerava
intimamente e con preghiere e non la chiamava che col nome di Madre.
A lui fu molto vicina l’umiltà, che è la custode delle altre virtù.
Non gli garbava ricevere lodi per la sua erudizione e i suoi
scritti; era solito essere colpito molto spesso da una leggera
febbricola e da altri fastidi fisici: in ciò particolare rimedio era
la sopportazione e attendeva, nonostante, i mali, con insigne
tolleranza ai suoi studi e ai suoi doveri religiosi. Ebbe chiara
purezza di anima e di corpo, come sinceramente diceva al suo
confessore, un candore illibato dalla culla alla morte.
Aggiungiamo un’altra sua virtù. A 46 anni, colpito dal male, sembra che
abbia pronunziato apertamente che quel giorno sarebbe stato
l’ultimo; e così fu. Morì tra le lodi della Madre di Dio in modo
assai devoto. Era gran desiderio di tutto l’Ordine, poiché non
sembrava così imminente la sua morte, che la materia letteraria
potesse ancora essere sviluppata grandemente.
Gli scritti non presentano alcuna improprietà verbale, hanno erudizione e
precisione; in modo chiaro, con rigore e con dottrina ha scritto
Molfese, proprio come è il senso comune dei letterati.
Abbiamo dalla sua penna: Commentari alle consuetudini napoletane, parte
prima, Napoli, con i tipi di Scipione Bonini, 1619; parte seconda
dei medesimi Commentari, Napoli presso Lazzaro Scorigio 1621. A
questi, a cura di Francesco Bolvito fu aggiunto il terzo tomo
postumo, con i tipi napoletani: Prontuario dei tre diritti, ossia
due tomi di Somma teologica, Napoli presso Lazzaro Scorigio, 1613.
Molte altre opere aveva composto, che attendevano di essere riviste
e limate; si trovano a Napoli nella biblioteca dei Santi Apostoli.
Esse sono: Esposizione della bolla in Coena Domini; Questioni
giuridiche; Trattato sulla restituzione, sulle censure, sui giudizi,
sui Vescovi, sui Regolari, sull’immunità ecclesiastica, sulla
vendita dei beni della chiesa; Consigli in materia civile, canonica
e morale”.
3.5 - Nota di Antonio Francesco Vezzosi, I Scrittori dei
Chierici Regolari. Parte Seconda. Stamperia della Sacra
Congregazione di Propaganda Fide. Roma 1780. pp. 68-71.
MOLFESI = Andrea =
di Ripa Candida Castello della Diogesi di Melfi. Nacque di onesti e
ricchi genitori nel 1573. Terminati i diciotto anni di sua età ne’
studj propri della sua adolescenza, e manifestato in essi un ingegno
e ardente, e singolare nell’apprendere, e nel ragionare, portossi in
Napoli, diedesi all’applicazione del Diritto sì civile che canonico;
ne riportò la Laurea Dottorale; intraprese l’esercizio del Foro, il
patrocinar le cause civili, esercizio aleae plenum. Contrasse
amicizia con un giovane Napoletano della medesima professione, detto
Tomaso Pelliccioni, di cui dovrem trattare a far luogo. Ed il
Molfesio ed il Pelliccioni mentre in una bottega di Librajo, stavano
insieme rivoltando e vedendo i Libri, com’è costume di chi e gli
conosce, e gli ama, da S. Andrea Avellino, che per divin volere vi
sopragiunse, furono ambidue esortati a non ingolfarsi negli
imbarazzi del Foro, ed abbandonare un impiego assai pericoloso per
la eterna salute. Il Pelliccioni s’arrendè ben tosto e fecesi
Teatino. Non così il Molfesio, il quale anzi portandosi a trovare il
suo amico nel ritiro del Noviziato, s’affaticò in persuaderlo a
spogliarsi dell’Abito Religioso, ed a tornarsene al secolo. Ma che!
Quel celeste Spirito che ubi vult spirat, e che i cuori degli
uomini con dolce forza inclina e muove, fé sì che rimanesse avvinto
da que’ lacci medesimi chi tentava svilupparne l’amico. Mutato
volere il Molfesio vuol farsi Teatino; né altro più l’affanna che il
timore di non esservi ammesso. In Napoli, in S. Maria degli Angeli,
il dì 7. Marzo del 1605. fu accolto, e ai 16. Luglio del 1606
professò solennemente l’Instituto nella sua età di anni 30. Volle
già Dottore e Causidico fare in qualità di giovane studente il corso
e della Filosofia e della Teologia. Non visse Teatino che quindici o
sedici anni. Gracile di complessione, febbre lenta che sovente
l’attaccava, lo sputar sangue unito all’esatto adempimento de’
doveri del suo stato, ed all’assidua applicazione allo studio delle
scienze, il ridussero finalmente nel 1620, all’ultimo de’ suoi
giorni, il che seguì agli 8. Agosto. Un imagine di sua Vita ci
descrisse il P. D. Francesco Bolvito in una sua Praemonitio ad
Lectorem, che premesse alla Parte Seconda della Somma Morale del
Molfesio medesimo rimasta nella di lui morte imperfetta sotto il
torchio, e da esso ultimata. Il Silos pure seguendo il Bolvito e con
nuovi lumi ornandolo, l’imagine medesima ci dipinge nella parte ii
delle sue Istorie, Libro ix, a catte 418. 419. e 420. oltre quello
che dipoi ne scrisse più in ristretto nel Libro xii. della Parte
iii. pag. 528. e 529.
Le di lui opere sono.
I. Commentaria ad ConsuetudinesNeapolitanas per quaestiones distributa
….. Habes hoc Volumine, Lector, Successionu, et Renunciationum
Omnium, limentorum item, Dotium et Donationum propter Nuptias,
amplissimam materiam diligentissime explicatam. Accesserunt
Consilia, quae ipsis rebus elucidandis mirifice faciunt. Neapoli ex
Typographia Lazari Scorigii, 1613, in foglio, e di nuovo in
foglio pure Neapoli typis Scipionis Bonini, 1619. Nella
Prefazione esponendo il motivo di questa sua Opera, tutto lo rifonde
sulla oscurità osservata da esso in chi fino a suoi giorni avea
scritto sulle Consuetudini Napoletane; onde ingenuamente confessa
non portare egli cosa nuova, o non detta da altri, ma esposta con
chiarezza, renduta intellegibile, e raccolta insieme.
Accenna di poi la divisione di questo primo Tomo, che è in sette
Parti, alle quali succedono i Consigli.
II Additionum ad Quaestiones usuales, seu ad primum
Volumen Commentariorum Consuetudinum Neapolitanorum, Tomus secundus.
Neapoli ex Typographia Lazari Scorigii, 1616, in
foglio.
III. Commentariorum in Consuetudines Neapolitanas, Tomus tertius. Opus
posthumum. Neapoli et c., in foglio. La edizione di questo terzo
Tomo, promesso dall’Autore nella sua Prefazione al secondo
si deve al P. D. Francesco Bolvito, che trovatolo tralle carte
inedite del defonto Molfesio
si prese la cura di pubblicarlo. Con quale e quanto applauso siano
dal pubblico di Napoli stati accolti i Comentarj del nostro
Scrittore lo dice il Bolvito stesso nel luogo citato di sopra con
queste parole: Commmentariorum in Neapolitanas Consuetudines
Volumina duo
cum Consiliorum variorum Excepta omnium Neapolitanorum
Juresconsultorum plausu, immo et Judicum ipsorum, ex quibus fuere,
qui dum actu juri reddendo in aula, quam Rotam vocant, vacarent, apd
se illa habuere, ut in re nata, et antequam sententiam dicerent,
haberent quem consulerent.
IV. Promptuariii triplicis juris , divini, canonici, et civilis, seu
Summae Moralis Theologiae et Casuum Conscientiae, pars Prima,
Neapoli apud Lazarum Scorrigium, 1613. e di nuovo Neapoli
apud Scipionem Boninum, 1619. in fogl. pag. 900. non compreso un
copioso Indice delle cose notabili.
V. Summae Moralis Theologiea, Casuum Conscientiae,
Pars secunda, seu Tractatus de Contractibus et ultimis Voluntatibus.
Editio posthuma, Neapoli apud Lazarum
Scorrigium, 1621. in fogl. pag. 301, senza l’Indice. Avea di
questa seconda Parte parlato l’Autore sul fine della Prefazione alla
prima; ma la morte gli tolse il contento di vederla compita.
Sottentrò nella sollecitudine il Bolvito, il quale e la condusse a
fine, e vi premesse quell’idea ed imagine della Vita del Molfesio,
che è di sopra accennata. Nel 1622. dallo stesso Stampatore fu
riprodotta in foglio, similmente sotto il titolo Praxis
Contractuum, et Praxis ultimarum Voluntatum.
Delle Opere inedite ecco quel che scrisse il Bolvito: Inter schedulas
vero ejus reperta sunt multa, quae tamen curis secundis indigent,
Talia sunt. Commentariorum in Consuetudines Neapolitanas Volumen
tertium (il quale fu poi dallo stesso Bolvito fatto stampare).
Expositio Bullae in Coena Domini. Quaestiones jurisdictionales.
Tractatus de Restitutione, de Censuris, de Judiciis, de Episcopis,
de Regularibus, de Immunitate Ecclesiae, de Alienatione bonorum
Ecclesiae. Consilia quoque in Civili, Canonica et Morali materia
pene innumera.
3.6 - Giudizio negativo di Lorenzo Giustiniani
“Egli ne divenne sì istrutto per que’ tempi, che a dir degli scrittori
consultavanlo come oracolo i professori del nostro foro sulle
controversie, che insorgevano in materie consuetudinarie.
Egli non era fornito di quelle cognizioni, che sarebbero state necessarie
a darci la vera spiega delle medesime. I suoi errori non sono che
badiali, e la sua opera non sembra che un affastellamento di
opinioni, di sentenze, di leggi, di casi, e di radissimo seppe
colpire al segno.
Que’ che gli fiorirono dappresso, e che scriver vollero sulla stessa
materia, gli ebbero a correggere non pochi di siffatti suoi
travvedimenti, ma ancor costoro con poca felicità … Le nostre
Consuetudini, a dire il vero non vantano niun degno commentatore, ed
anche addì nostri è poco curato lo studio delle medesime. Se l’opera
di Molfesio merita quell’applauso istesso, che riscosse ne’ tempi
andati, come pretendesi da alcuni de’ moderni, io lo rimetto alla
critica de’ buoni conoscitori di questo secolo. Egli ritrovasi di
molto lodato da parecchi scrittori, e forse non tanto che meritato
avrebbe la sua sola religiosità. Oltre de’ sullodati avvi il Toppi,
l’Origlia, il Giannone, e molti altri scrittori del napolitano foro”.
Riguardo al 3° tomo dei Commentari, Giustiniani annota in tono ironico e
sprezzante: “Ecco richiamata la teologia per rischiarare le nostre
leggi consuetudinarie. Io mi vado immaginando, che se il Molfesio
avesse portata più a lungo la sua vita, ci avrebbe lasciata una
dozzina di tomi in foglio sulle nostre consuetudini, senza farcene
diggiammai intendere il vero loro spirito”.
Giustiniani forse pretendeva che Molfese non si limitasse a costruire un
diritto fondato sui postulati ontologici, ma sull’esperienza e sul
valore teoretico dei fatti, nonché sulla storicizzazione delle norme
giuridiche.
In realtà, tutti questi aspetti sono presenti nelle opere. I Commentari
infatti sono un repertorio della giurisprudenza, corredato di
chiarimenti e riferimenti bibliografici; un’opera assolutamente
tecnica, rivolta a magistrati ed avvocati, che compendiava tutta la
cultura giuridica elaborata nel 1500. Con la citazione dei casi, si
vincolava il giudice al principio del precedente giurisdizionale.
È, pertanto, inspiegabile il giudizio negativo di Giustiniani, che pure
aveva anteposto alla sua Biblioteca storica e topografica del
Regno di Napoli il motto: “Nihil agere, quod non prosit” [Non
fare nulla che non sia utile] ed anche scritto nella prefazione
“Nullus enim liber est … qui non ex aliqua parte juvare queat” [Non
ha alcun valore il libro che in aqualche modo non possa giovare].
Nel Regno si ha il passaggio da una fase di sviluppo economico ad una fase
di crisi, con la formazione di due dinamiche sociali diverse per
composizione dei ceti e per valori culturali. C’erano rivolte, i
disordini crescevano, i vizi, le malizie e le frodi abbondavano;
“perciò dovevano crescere i Professori e’ Curiali, de’ quali allora
si avea maggior bisogno. Dove sono molte infermità è di mestieri,
che vi siano molti medici, così corrotta la disciplina, è duopo, che
si ricorra alle leggi”
Di qui, i repertori e l’adeguamento delle consuetudini.
Difficoltà, inoltre, provenivano dai rapporti con la Curia romana: da una
parte la difesa delle prerogative dello Stato, dall’altra la
recezione dell’ordinamento canonistico. La fonte della controversia
era costituita dalle immunità che la Chiesa rivendicava per i
chierici e per tutti i luoghi di culto. Come già detto in
precedenza, Molfese toccava un problema sociale, assai rilevante nel
suo tempo. I chierici, secolari o regolari, erano in maggioranza di
nobile famiglia, tenuta, questa, alla conservazione dell’intero
patrimonio. Data l’eredità al primogenito, gli altri figli erano
obbligati alla vita sacerdotale dal capofamiglia, che in tal modo,
essendo spesso affittuario delle terre della chiesa, si garantiva
l’esenzione dalle tasse attraverso le rendite percepite dal figlio
sacerdote, quale partecipante dei beni della chiesa o dell’ordine
religioso di appartenenza.
Nel 1568 la promulgazione della bolla In coena Domini aveva acceso
i contrasti per la pretesa di Gregorio XIV di limitare il numero dei
delitti per i quali si poteva godere dell’immunità.
La bolla colpiva la potestà dei principi, toglieva loro la sovranità
dei loro Stati, sottoponeva il loro governo alla censura e
scomunicava quanti si ponevano contro gli ordinamenti del Papa.
Da parte dei principi si reagì imponendo l’exequatur regio alla
pubblicazione il giovedì santo della bolla, secondo il principio che
bisognava vigilare affinché il governo non fosse perturbato e si
sapesse ciò che potesse nuocere alla quiete e alla tranquillità
dello Stato. Tuttavia ci sono esempi di non osservanza
dell’exequatur. Il vescovo di Lavello e di Venosa Paolo Oberto e
quello di Melfi Alessandro Rufino ebbero l’ardire di proibire le
gabelle, procedendo contro i laici; il vicario di Lacedonia pubblicò
la bolla senza l’autorizzazione regia, ma fu punito col sequestro
dei beni patrimoniali.
Nella seconda metà del secolo XVI si fa più insistente il discorso sul
legalismo che promana dalla volontà del sovrano. I principali
teorizzatori sono il magistrato Vincenzo de Franchis (1531-1601) e
Giovan Francesco De Ponte (1541-1616). Questi con l’opera De
Potestate Proregis, Collateralis Consilii, Regnique regimine,
pubblicata a Napoli nel 1611, definisce il rapporto tra Chiesa e
Stato. Buongoverno, stabilità politica, pace sociale non possono
essere concetti metafisici; l’obiettivo dei governanti è quello di
assicurare il benessere dei sudditi. Perciò il diritto è considerato
come cognizione delle cose umane, come scienza del governo e panacea
per ogni agire umano.
3.7 – Nota di Domenico Sinisi (da Regnum Dei, Anno VI-1950)
P. D. Andrea Molfese C. R., giurista
Fra gli uomini che diedero lustro alla cittadina di Ripacandida, già
turrita baronia normanna in Lucania, della Diocesi di Melfi e
Rapolla, merita il primo posto il Padre D. Andrea Molfese, sommo
giurista dell’inclito Ordine dei Teatini. Egli nacque nel 1573 da
Alfonso, onesto e ricco cittadino di Ripacandida. D’ingegno
sveglio, assiduo allo studio e pronto al ragionamento, superò
agevolmente le varie gradazioni dei suoi studi e all’età di diciotto
anni s’iscrisse alla facoltà di giurisprudenza nella Università di
Napoli. Addottoratosi in utroque iure, si distinse ben presto nel
Foro napoletano patrocinando le cause civili e dimostrando acutezza
di mente, profondità di coltura e onesta a tutta prova. Un giorno
(si era nel 1602), mentre il Molfese s’intratteneva col suo amico
Tommaso Pelliccioni e con altri colleghi, a consultare dei libri
giuridici in una libreria di fronte alla chiesa di S. Gregorio
Armeno, di proprietà di tale Andrea Pellegrino, furono avvicinati,
certo per disegno divino, da Sant’Andrea Avellino, il cui apostolato
si rivolgeva, a quel tempo, a condurre anche a Dio i dottori in
legge. Il Santo iniziò senz’altro un’edificante conversazione con
loro. Dopo aver dimostrato tutti i pericoli della loro professione
per la salute dell’anima, li esortò a non ingolfarsi negli imbarazzi
del Foro e ad abbandonare una professione poco lucrosa per l’eterna
salute, dato che gli -avvocati godevano fama, non però del tutto
giustificata, di emeriti imbroglioni. Il Pelliccioni, convinto dalle
dolci, persuasive e sante parole del Santo, si arrese, e ben presto
si fece anch’egli Teatino. Non così fu per il nostro Molfese, il
quale, anzi, s’affannò a persuaderlo a spogliarsi dell’abito
religioso per tornarsene al secolo. Tutto fu inutile, anzi quel
divino Spirito che «ubi vult spirat», e che i cuori degli uomini,
con dolce forza inclina e muove, «fece sì che a quei lacci medesimi
rimanesse avvinto anche colui che tentava scioglierne l’amico».
Fu così che il Molfese, completamente cambiato, mutò il suo
volere e, pur temendo di non riuscire nell’intento, chiese ed
ottenne di farsi Chierico Regolare. Ecco come il Padre Francesco
Bolvito C.R. racconta, nel suo classico latino, la miracolosa
chiamata allo stato religioso dei due avvocati. «Accidit aliquando,
ut [Avellunus] a]iquibus occurreret legum laurea donatis, et legum
aliquot commentaria in bibliopolio pervolutantibus. In horum binos
fìxit oblutum; velut ex alta specula contemplatus, quanto animarum
lucro a forensibus aestubus et astubus, ad meliora illi studia
possent transferri: statimque advocatorum pericula coepit
exaggerare, et captiosa mendacia detestari quibus ii crebro
abundant, ut victores evadant, et se quoque iis aliquando tricis
irretitum, divina comminatione torrente, ab illis effugisse. Hoc
autem tanto impetu spiritus, tanto dolentis affectu dicebat, ac si
tunc facinus quod ipsi videbatur horrendum, fuisset perpetratum et
sentiret a tergo vindicem Deum: tanto etiam audientium fructu, ut
paulo post ambo forum aversati mundique transfugi, ad Christi se
castra in hac Religione converterint. Militat adhuc
eorum alter.
Alter, hoc est, Andreas Molphetius, Beati tutela cumulata
protectus celestem jam patriam, ut pie credendum, emeritus petiit».
Sembra che prima di entrare in Religione il Molfese avesse già
abbracciato la carriera ecclesiastica ricevendo la Tonsura e gli
Ordini minori. Così almeno si rileva dal catalogo dei Chierici
Regolari compilato dal P. Francesco Del Monaco il quale dà del
Molfese le seguenti notizie biografiche: «D. Andreas Molfese, Ripae
Candidae: in saeculo Johannes Andreas. Cler. 4 Min. Filius
Alphonsi. Anno. 30 ingressus Neapoli, Sanctae Mariae Angelorum,
1605, 7 Martii, Praeposito D. Marcellino D’Oda. Habitum ibidem eodem
anno 16 Ju]ii. Profess. ibidem 1606 eodem
Praeposito. Subd. ibidem 1608, 20 Decembris. Diac. ibidem, 1609, 19
Decembris. Praesbit. ibidem 1613, 23 Septembris».
Da altre fonti storiche dell’Ordine sappiamo che il Molfese
professò ai 16 di Luglio 1606 nel convento di Santa Maria degli
Angeli e non in quello dei SS. Apostoli, come erroneamente ebbi io
stesso a pubblicare in un articolo stampato recentemente sul
quotidiano napoletano “Roma». Quantunque già dottore ed
avvocato, egli volle frequentare come chierico studente i corsi di
Teologia e di Filosofia. Ancora prima di abbracciare la vita
religiosa egli era di costumi retti ed esemplarissimi e anche se
volle distogliere, come fu detto, dalla vita religiosa il suo
compagno Pelliccioni, il suo tenore di vita religiosa fu sempre
encomiabile. Il Padre Silos afferma che anche quando il Molfese fu
costretto, suo malgrado, a difendere alcune cause civili, si
comportò sempre da buon cristiano e finì poi col ritirarsi dalle
aule della giustizia per dedicarsi all’insegnamento civile del
diritto canonico e civile finché insoddisfatto anche di questa
attività abbandonò il mondo per darsi tutto al servizio di Dio nello
stato religioso nel quale, per altro, non visse che 15 o 16 anni.
Gracile di complessione, e logorato da una febbre lenta che sovente
l’attaccava con frequenti sbocchi di sangue, non cessò di adempiere
esattamente i doveri del suo stato né interruppe mai l’assidua
applicazione allo studio delle scienze sacre fino a che l’8 Agosto
del 1620, secondo il P.D. Francesco Vezzosi C. R. serenamente si
spense.
La sua vasta erudizione nel campo delle scienze teologhe-giuridiche,1
è attestata dalle sue opere edite e inedite, di cui diamo qui
l’elenco completo.
1-Commentaria ad consuetudines neapolitana per questiones
distribuita. Neapoli, ex tipografia Lazari Scorrigli, 1613. In
folio, e riprodotta in Napoli (Scipione Bovini)1619.
2-Additionum ad Quaestiones usuales, seu ad primum volumen
Commentariorum Consuetudinum Napolitanarum.Tomus secundus,
Neapoli,ex Typografia Lazari Scorrigii,1616. In folio
3-Commentariorum in Consuetudines Neapolitanas.
Tomus tertius, opus postumum. Neapoli, ex Typografia Lazari
Scorrigii 1621. In fol.
4-Promptuarii
triplicis juris, seu Summa Moralis Theologiae et Casuum
Conscientiae. Pars prima.Neapoli, apud Lazarum Scrigium, 1621. In
fol.
5-Summa Moralis
Theologiae et Casuum Conscientiae. Pars secunda seu Tractatus de
Contractibus et ultimis voluntatibus. Editio postuma.
Neapoli, apud Lazarum Scorrigium,1621. In fol. Riprodotta in Napoli,
dallo stesso stampatore, nel 1622.
Opere inedite: 1) Expositio Bullae «In Coena
Domini». — 2) Questiones jurisdictionales. — 3)
Traetatus de Beatitudine. — 4) De Censuris.. — 5) De
Iudiciis. — 6) De Episcopis. — 7) De Regularibus.
— 8) De Immortalitate Ecciesiae.
Ai quali il Bolvito aggiunge molti opuscoli a guisa di pareri o
consigli su materie canoniche e morali6.
La più importante delle opere è «Commentaria ad Consuetudines
Neapolitanas» in 3 tomi, il cui terzo volume uscì postumo a cura
del Bolvito il quale diede pure alle stampe la Seconda Parte della
Summa Moralis del Nostro.
Con quale e quanto applauso siano stati accolti i «Commentaria» del
nostro giurista, lo dice lo stesso Bolvito con queste parole:
«Commentariorum in neapolitanas consuetudines Volumina duo, cum
consiliorum variorum auctario excepto, ornnium Neapolitanorum
Iureconsultorum ipsorum, ex’ quibus fuere qui dum actu juri
reddendo in aula, quam Rotam vocant, vacarent, apud se illa habuere,
ut in re nata, et
antequam sententiam dicerent, haberent quem consulerint».
Il Palermo nella sua operetta: «I Giureconsulti della Basilicata»
dice che: «le Napoletane Consuetudini» non possono vantare un più
degno Commentatore. Parecchi altri scrittori, tra cui il Toppi,
l’Antonino nella sua «Lucania», l’Origlia, il Giannone nella
sua «Storia Civile» e molti altri parlano di lui con lode sincera.
Cito soltanto il giudizio dell’ultimo: « Oltre a costoro, sorsero
pure nel passato secolo altri scrittori, i quali o per via di
controversie o di decisioni o di consigli, ovvero con trattati
largamente scrissero sopra queste nostre Consuetudini del Regno, fra
i quali porta il vanto il celebre Molfesio, che più d’ogni altro in
più volumi trattò di quelle, tanto che oggi ai nostri Professori il
diritto appartenente a queste Consuetudini s’è reso una delle parti
più necessarie per la disciplina Forense, la quale non meno che
l’altre ha le sue sottigliezze ed i suoi intrighi, dove il numero
dei tanti scrittori l’han posta, e richiedesi perciò somma dottrina
e perizia per ben maneggiarla».
Non dissimile è il giudizio che del nostro autore e delle sue
opere fa Pietro Massario Protonotario Apostolico.
L’insigne nostro giurista è, però, al presente quasi dimenticato
nella Patria che gli diede i natali. L’autore di queste notizie sarà
pago se con la sua fatica e con le notizie raccolte, potrà
contribuire a destarne la memoria fra i connazionali e a farlo
conoscere a chi lo ignora.
L. Giustiniani, Memorie storiche degli scrittori legali del
Regno di Napoli, tomo II, Stamperia Simoniana, Napoli 1787,
pp. 270-273; M. Toppi, Biblioteca Napoletana, Tip.
Antonio Bulifon, Napoli 1678, p. 14; G.G. Origlia, Istoria
dello Studio di Napoli, Tip. G. Di Simone, Napoli 1753, vol.
2, p. 140; P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli,
Giovanni Gradier, Napoli, 1770, tomo III, libro XXI, cap. 7, p.
82.
P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, cit.,
tomo V, libro XXXVIII, cap. IV, p. 214.
|