Home Page

Artisti Lucani

Guest Book

Collaborazione

Torre Molfese

le OPERE

S. Arcangelo


<< INDIETRO

H  O  M  E

AVANTI >>

 

DON ANDREA MOLFESE DELL'ORDINE DEI TEATINI

LEO VITALE  -  GIANNI PETRELLI

 

Capitolo Terzo – Andrea Molfese nella critica

3.1 - Nota di don Francesco Bolvito

Preposito generale della Congregazione dei Chierici Regolari, che concesse la facoltà di “dare alle stampe il trattato sui contratti e le ultime volontà e sepolture composto da don Andrea Molfese, docente di entrambi i diritti e di Teologia, sacerdote della nostra Congregazione, e approvato col parere di personalità di rilievo della medesima religione delle stesse professioni” … Opera accurata, utile e assai necessaria a tutti quelli che nel foro si occupano di entrambi i diritti”. Napoli, Tipografia Lazzaro Scoriggio. 1622.

“Essendo il nostro Andrea Molfese andato via dai vivi da poco, autore di questa opera che vede la luce in edizione postuma, vorrei, o lettore cristiano, che tu considerassi la vita dell’autore sin dalla sua nascita. Sappi, dunque, che nacque nella cittadina di Ripacandida, della diocesi di Melfi, nel regno di Napoli, da genitori onesti e molto ricchi nell’anno 73 del precedente secolo [1573] e sino al 14° anno istruito in quegli studi che sogliono ornare quella età, quando il vescovo, conoscendo l’animo che si ha in tale età e gli impulsi generosi e per così dire i germogli ardenti della virtù prorompente, con discorsi continui desiderava che egli si cingesse della cintura della milizia sacerdotale. Ma lui, proferendo parole tergiversanti e titubanti, mostrava la volontà di suo padre. Una decisione così grave era, però, da riferirsi non alla persuasione umana ma all’ispirazione divina. E così avvenne. Infatti, pregando intensamente Andrea davanti all’altare della Vergine beatissima, alla quale si era votato totalmente sin dall’infanzia, a lui che pregava apparve la Santissima Madre che gli illuminò fortemente la mente, e non solo lo persuase ma anche gli ordinò la milizia sacerdotale, promettendogli una feconda messe di doni spirituali e la sua mano protettrice in perpetuo. Fatto più disposto da questa voce, preso dall’eccitazione, seguì quasi a gara qualsiasi cosa a quella conducesse, allontanando qualsiasi cosa da quella lo distogliesse e riprese con vivo sforzo gli studi di lettere umanistiche che aveva interrotto da un sessennio (aveva infatti quasi venti anni). Si annovera nella categoria del Signore, si reca a Napoli, non si occupa della scienza delle leggi, si regala la laurea in diritto civile ed ecclesiastico. Aveva un amico, a cui era assai legato da un’amicizia vecchia, privata e sincera. Questi aveva dato il nome al nostro gruppo religioso nella Casa napoletana di Santa Maria degli Angeli: decide con impeto inconsulto di avvicinarsi ancor più a costui, con l’intenzione di riprendere la legge abrogata dell’amicizia, il patto interrotto della comunanza, pensando così di rimuovere, scuotere e far cambiare l’animo del giovane. Ma avviene il contrario. Infatti, volgendosi a lui, comincia in modo prudente a considerare la grandezza di questo beneficio e, operando in lui la grazia divina, indagare e ponderare quanto la sua situazione stesse in un luogo pericoloso, scosceso e quasi precipitante. Questo nuovo compagno è irretito dalle funi di Saulo che cercava di rompere e perciò chiede di essere iscritto nel coro se non dei profeti, certamente di quelli che cantano le lodi di Dio con la voce e con le azioni. Intanto muore suo fratello ed egli è come avvolto da infiniti imbarazzi; tra i quali prevale la decisione sicura di dover entrare tra i secolari, pur essendo la via difficile; perciò si astiene dal patrocinio oneroso di cause e da attività pericolose e rinnova la sua opera di teoretica più di quella pratica, le Istituzioni sia civili che canoniche per le quali riceve pubblica lode.

Poteva quasi sembrare venir meno il suo ingresso nel gruppo religioso, non invero per il suo voto sempre saldo e non sopito, ma per causa dei Padri la cui indecisione durò per un periodo troppo lungo di un biennio. Tuttavia in questa costernazione psichica di nuovo si affidò alla Dei para, che già una volta aveva sperimentato come tutrice nella scelta dello stato ecclesiastico e religioso e ancor più di quello più perfetto, affinché la sentisse conciliatrice dei Patri e risolutrice di tutta la vicenda. La Vergine santissima annuì e sembrò parlare così a lui che la pregava: Entra, o figlio, in questo gruppo religioso e sperimenterai i Padri con te conciliati e me a te propizia. Pieno di gioia, va dall’amico, gli riferisce ogni cosa, sente che ciò è stato un beneficio assai grande e perciò doveva ringraziare molto Dio e fidarsi della Vergine, con il cui aiuto si eliminano ostacoli di vario genere e si rompe qualsiasi legame, e si congeda. A lui che andava via si fa incontro il Preposito della Casa, sino ad allora con animo avverso a lui, e guardando Andrea, parve che costui gli instillasse lentamente il desiderio di doverlo ammettere nell’Ordine. Perciò ritorna dall’amico e gli rivela ciò e gli viene ricordata l’apparizione della Vergine e la promessa. Fatto dunque il consulto con i Padri, si delibera di cooptarlo nel consorzio dell’Ordine, il che a lui molto tempo prima aveva predetto il nostro beato Andrea Avellino, come egli stesso costretto da sacro giuramento confessa nel processo della di lui    canonizzazione. Si stabilisce il giorno, che era sacro a S. Tommaso d’Aquino, dell’anno 1605, nel quale giorno, rivolgendo Andrea preghiere a questo Santo con cuore fervido vicino al sacro altare, parve il Santo Dottore così parlargli: Entra con animo lieto in questo gruppo, il Signore ti riempirà di sapienza, ma tu tendi a svuotarti del passato. 

Munito di questi presidii, cominciò a formarsi secondo il nostro Istituto e passato un quadrimestre di accoglienza ed un anno di prova, pronunciò i voti solenni; poi, compiuto il corso di Filosofia e Teologia, iniziato ai sacri ordini, affidò tutto se stesso alla redazione e all’esame di argomenti profani, benché afflitto da salute avversa, emorragia e febbre lieve e quasi continua; ma nonostante la salute e l’intenso ardore di divorare libri, mai sembrò cessare dallo zelo della preghiera, in cui si sperimenta un divino sollievo e l’abbiamo visto manifestare  molto frequentemente anche non volendo con cambiamenti del volto, sospiri ed emissione di gridi. Infine, all’inizio di luglio del 1620 fu colpito da febbre e desiderando il letto, confessò apertamente e festosamente che era arrivata l’ora suprema e il giorno molto desiderato in cui, spezzato il filo della vita, si sarebbe congiunto con Cristo. La malattia atroce per parecchio tempo sembrò mitigarsi, perciò si recò a Sorrento, città nel golfo marittimo di Napoli, dove è la nostra Casa e la chiesa a Sant’Antonio, autore di miracoli nella liberazione degli indemoniati, che egli desiderava venerare, ma qui fu colpito da pleurite e da febbre che i medici chiamano lypiria, sicché fu costretto a ritornare a Napoli, arricchito di questo guadagno, perché, come diceva, grazie a Dio, questi gli avrebbe fatto concludere in un tempo assai breve i dolori della malattia con l’arrivo della morte a passo veloce. Tra le sofferenze della malattia fu solito invocare la Vergine Deipara non con altro nome ma con quello solo di Madre sua, ed era contento, unico sollievo del suo animo, se poteva cantare alcune cantilene da lui composte tra le dense occupazioni degli studi ed anche prima della sua morte. Finita la vita, si cibò del nutrimento celeste; mentre veniva unto con l’Olio santo, immaginava di vedere vicino a sé Cristo fisso sulla croce tra la Beata Vergine, l’apostolo Giovanni e la Maddalena, e ad ogni unzione emanare dalla croce il suo preziosissimo sangue che purgava ogni senso che veniva unto. Prima che morisse, gli offrirono il liquido che usciva dal corpo di Sant’Andrea apostolo, che non rifiutò ma rimandò a tempo più opportuno, segnandolo per il giorno dopo; all’alba, ansando chiese quella bevanda e con molta devozione l’assunse, conseguendo di nuovo l’assoluzione dei peccati. Pronunciò ancora il possesso della fede e di nuovo i voti solenni, e morì l’otto agosto, il giorno dopo l’anniversario del transito al cielo del beato padre nostro Gaetano, vissuto nell’Ordine per 16 anni e compiuto 46 anni, sempre con illesa e illibata verginità fisica, la qual cosa una volta aveva aperto al confessore nell’ultimo tempo della sua vita, ed ora che doveva andare al tribunale del supremo Giudice confessò di aver detto il vero.

Scrisse parecchie opere, ma quelle che sinora hanno visto la luce sono i due volumi del Commentario delle consuetudini napoletane con l’aggiunta di consigli, che hanno ricevuto il plauso di tutti i giureconsulti napoletani e degli stessi giudici, tra i quali furono quelli che essendone privi quando trattavano azioni legali in aula, che i Romani chiamano Rota, ebbero disponibili quelli, come se scritti per l’occasione, e prima di pronunciare la sentenza avevano chi consultare.        

Pubblicò anche due volumi del Prontuario dei tre diritti. Tra le sue schede sono state scoperte molte cose che tuttavia hanno bisogno di cure particolari. Tali sono il terzo volume dei Commentari sulle consuetudini napoletane, l’esposizione della bolla In Coena Domini, Questioni giuridiche, il Trattato sulle restituzioni, le censure, i giudizi, i vescovi, i regolari, l’immunità della Chiesa, la vendita dei beni della Chiesa. Numerosi anche i Consigli in materia civile, canonica e morale. Quelli che sono di naso fine apprezzano molto i suoi scritti, cercando non tanto lo stile ben limato e il discorso forbito, quanto se insegna con sentenze vere, in modo conciso, chiaro e robusto, il che egli porta avanti egregiamente. A noi, rimasti con un grande desiderio di lui, sia lecito presumere che egli goda di quel sommo bene, alla cui gloria soltanto ha teso. Tu intanto, o cristiano lettore, sta’ bene”.  

 

3.2 Encomio di don Pietro Massario, protonotario apostolico della Santa Sede, Dottore di entrambi i diritti, Professo di Oratino (Campobasso) e di Napoli (da Commentaria ad Consuetudines Neapolitanas, tomo terzo, Tip. E. Cicconio, Napoli 1654, p. 7)

 

Andrea Molfese uscì dal mondo terreno al quale si dedicò ed ora si dedica al mondo delle stelle, che senza posa effettuano il loro corso. A lui mai piacque né di far valere né di conseguire qualcosa per suo interesse, ad imitazione del sole dal corso incessante, illustrando con gli scritti i Tribunali, giovando alle Corti, sostenendo gli Avvocati con l’opportuna illuminazione ed il benevolo influsso degli scritti. Succhiò, per così dire, le leggi dalle mammelle, si nutrì, appena nato, non del latte ma di inchiostro, destinato a portare il giorno sia al mondo forense che a quello sacro.

Scrittore famoso, voleva essere sulla bocca degli uomini, era tormentato dalla cupidità della fama, non abbandonando la predilezione per la gloria, per non buttar via i dotti allori, che col verde perenne adombrano le fronti degli eruditi e donano l’immortalità agli uomini di cultura. I giudici applaudirono il suo nome, i dotti veneravano Andrea, la folla dei clienti lo seguiva.  

Tuttavia, nudo fuggì via per entrare nella famiglia di Cristo e nell’Ordine religioso dei Teatini, che è superiore agli altri ordini per vera ricchezza; perciò, assai ricco non desidera alcuna eredità, se non Dio, egli che fu uno dei più fortunati dell’Ordine Minore perché senza fortuna, né ricerca le ricchezze umane ma quella celeste. Aggregato in questa famiglia, visse in una cella angusta da religioso, scrisse da persona dotta, come attestano questi monumenti che Domenico Montanari di nuovo mette in luce. Con la composizione dei suoi scritti questi diffonde il ricordo di Andrea, affinché dalla tomba piena di vita come da un cenere animato della favilla della Fenice la stessa morte rifiorisca nelle viole e nei gigli verdeggianti e vivaci. Gli uomini, dopo aver letto gli scritti, possano dire: forse che le viole non nascono dal tumulo e dalla favilla della fortuna? Andrea, benché morto, sembra risorgere grazie a te, Domenico, e già morto merita ampiamente di vivere nell’Olimpo, tra i Padri dell’Ordine Teatino, sulla bocca degli uomini. Lo stesso Padre, mentre provvederà ad assistere tanti Padri con adunanza a lui devota, elargirà degne grazie e farà in modo che a te, Domenico, gli abitanti della terra diano degni premi.      

 

 

3.2 bis – Nella stessa opera, a p. 4 è riportato il giudizio di Flavio Ventriglia, famoso avvocato napoletano, il quale, da lettore dell’opera di Molfese, scrisse: “Chi arde dal desiderio di leggere le leggi e penetrarne i segreti, o Andrea, s’incammini con la tua guida. I commenti che mostri diventano i compendi della via. La legge era stata inaccessibile, ora ne ha la strada” [De operis lectore ad auctorem: Qui leges legere et legum penetrare meatus incalet, Andrea, te duce carpat iter. Quae prodis Commenta, viae compendia produnt. Invia lex fuerat; nunc habet illa viam].  

 

3.3 - Nota di Giuseppe Silos di Bitonto, chierico regolare, riportata nella Storia dei Chierici Regolari, Tipografia di Pietro d’Isola, Palermo 1666, vol. 2°, pp. 418-420.

“Un altro che è morto nello stesso ventesimo anno di questo secolo [1620] fu Andrea Molfese, espertissimo di entrambi i diritti. E assai noto per le sue opere letterarie. Egli unì il sentimento religioso allo studio, come si può vedere sfogliando ed esaminando i suoi volumi e dalla pratica delle funzioni religiose. Francesco Bolvito, uomo colto del nostro Ordine, con la sua penna ha delineato un suo ritratto con garbo, come si ammira nella seconda parte della sua Summa di Teologia, che è opera postuma. Ne viene fuori che il volto di Molfese esprime anche la nostra storia.

Nato a Ripacandida, che è una città della diocesi di Melfi, da genitori benestanti, da fanciullo ebbe ingegno vivo che manifestò progressivamente nelle discipline, una certa docilità e facilità di memoria al di sopra della sua età. Il vescovo. Avendo ammirato l’ottimo comportamento del giovane e soprattutto la florida indole che faceva ben sperare negli studi, lo esortò a trasferirsi tra i chierici. Mentre ciò ora accettava ora rifiutava, decise di consultare non tanto il padre che l’aveva generato, quanto la Madre di Dio che l’aveva adottato. Invero, dall’infanzia si era affidato con matura deliberazione dell’anima alla protezione della Beatissima Vergine, il che è senza dubbio da ammirare in quella età, che raramente e solo con una particolare ispirazione divina suole accettare la forza di siffatto sentimento religioso. Dunque, in ginocchio davanti al suo altare, chiede consiglio alla gran Madre. Non c’è indugio; sente di essere spinto per un intimo impulso nell’istituto della vita clericale; si accorse che senza dubbio c’era una forza superiore e la presenza protettiva della volontà di Maria.  

Iniziò il chiericato a Napoli con quella facilità d’ingegno che ho detto; compì il corso di studi di giurisprudenza con egregia preparazione dottrinale e si laureò con plauso generale. Ardente ora di lode ora del desiderio di guadagno. Giovane si distinse nel foro e cominciò a consumere opera e veglia nel preparare le cause. Un lavoro pesantissimo, senza dubbio, e pieno di rischi, al quale si sottrasse poco dopo per un comando divino. Infatti, consultando una volta dei libri in biblioteca, come era sua abitudine insieme con Tommaso Pelliccione con il quale c’era concorde familiarità per affinità di studi e di costumi, si incontrò con Andrea Avellino. Questi, di pari età, vide che i giovani passavano sopra la polvere forense e non poté sopportare che non fossero avvisati dei pericoli dell’avvocatura e delle Cariddi e le Sirti del foro. Con molta forza persuasiva fece sì che Pelliccione si rifugiasse nel porto dell’Ordine religioso, fuggendo dalla passione per gli affari. Molfese invece rimase legato al patrocinio delle cause, non senza la predizione dello stesso Avellino che anche lui avrebbe abbracciato la disciplina dell’Ordine regolare.

Mutato l’interesse, montò in cattedra e si mise ad insegnare le leggi cesaree e pontificie, alieno dall’intenzione di entrare nell’Ordine religioso. L’amico cercava di distoglierlo da tale stato d’animo, senza tuttavia riuscirci. Molfese fu però colpito dall’ispirazione della sapienza divina. Si avvicinò a Santa Maria degli Angeli, dove Pelliccioni faceva il tirocinio, con l’intenzione di distoglierlo dal proposito e farlo uscire, ma sentì che una luce si diffondeva nell’animo, come dal seno materno. Così illuminato, avverte la leggerezza e l’inutilità delle cose umane, il valore di quelle divine e soprattutto l’eccellenza dello stato regolare; subito sente il trionfo della grazia divina. Sorse in lui un forte desiderio dell’abito dell’Ordine religioso e, non potendo ciò sopportare più a lungo, anche per gli stimoli e l’esempio dell’amico, interruppe la consuetudine della vita secolare e si aggregò al nostro Ordine.

Viene, ma per la morte del fratello, come da un vento contrario, fu allontanato da quel porto che già sembrava toccare. Per due anni lo trattennero le cure domestiche; cominciò a temere che i Padri per quel troppo lungo ritardo mutassero consiglio e decise di implorare l’aiuto solito e certo della Madonna, perché gli facesse maturare la decisione, gli conciliasse l’animo dei Padri nel conoscere la causa del ritardo e la sua costante intenzione in quel proposito. Mentre prega con fervore davanti alla sua immagine, gli sembra udire la voce della Vergine che diceva: “Entra in quest’Ordine religioso, o figlio; io ti sarò vicino e i Padri non saranno contrari”. Molfese fu pervaso da un intimo senso di piacere per aver conosciuto in concreto la benevolenza di tanta Madre ed ebbe certezza che Ella aderiva alle sue preghiere. Subito provò che ciò si avverava. Il preposito, che non aveva un giudizio benevolo verso di lui e il suo parere aveva molto peso presso gli altri; si mostrò favorevole, e i Padri, raccolti i voti, ammisero Molfese nell’Ordine con suffragio favorevolissimo.

Non posso fare a meno di affidare a questo scritto un fatto degno di memoria. Si è detto che egli fu accolto il 7 marzo, giorno sacro al famoso dottore della Chiesa San Tommaso d’Aquino. In quel giorno, mentre devotamente pregava davanti al suo altare, sembrò che così il santo gli parlasse: “Entra in questa comunità con animo gioioso; il Signore ti riempirà di sapienza, ma tu adoperati a renderti libero di quanto non pio”.

Per questo invito della Madonna e di San Tommaso diede il proprio nominativo all’Ordine e corrispose all’ardore con cui chiese di essere ammesso e al singolare zelo della virtù. Ora, essendo assai avido di sapere e portato per ogni specie di apprendimento, volle percorrere gli spazi della filosofia e della sacra teologia. Poiché piacciono le scienze e le arti buone, Molfese volle accedere alle dottrine e agli studi dei sacri canoni e delle leggi civili ed acquisì perspicacia e peso nella disquisizione degli argomenti e nella scelta delle sentenze, abbondanza e facilità nella loro spiegazione. Qualsiasi argomento occorresse per la comune disciplina egli si dava a scrivere e commentare. E nella gente s’era diffusa la sua fama d’ingegno e di cultura; i nobili si rivolgevano a lui nelle controversie più gravi ed anche gli uomini dotti. In queste consultazioni si conosceva che egli era da una parte eruditissimo e di acuto giudizio, dall’altra però aveva gli studi e soprattutto la perdita del suo guadagno.

È meraviglioso con quanta approvazione e lode prese i voti e i decreti. Non aveva però l’abitudine e la sicurezza fisica che lo sorreggesse nell’impegno sempre pronto e nelle veglie continue. Era solito avere una leggera e costante febbricola, soffriva di emorragia, per cui nulla nell’attendere agli studi era più molesto di ciò. Tuttavia si sforzava di superare l’insistenza della malattia con un ardore superiore alle sue forze. Cosa a cui stentiamo a credere, il vigore dell’anima sembrava aumentare in modo contrario allo stato di salute. Aveva tale l’urgenza degli studi che non voleva che si provasse per lui quotidiana pietà. Soprattutto molto portato al discorso, non permetteva che fosse distolto dal gusto delle lettere; anzi, passava il più del tempo nell’esercizio mentale. Era solito darsi assai spesso alla contemplazione in modo dolcissimo e indicava di ricevere nell’animo ispirazioni divine e chiarimenti con i sospiri, la voce e lo stesso movimento della bocca. Al contrario, agli uomini studiosi succede che, quando sono nell’esercizio dell’intelletto, raramente siano invasi da pii affetti che infiammino la volontà e diano adito acché ci sia in loro più luce e meno ardore. Questi hanno molto tempo per le occupazioni erudite ma troppo poco per conseguire e coltivare le virtù.

Nessuno ha affermato ciò di Molfese, il quale sembrava abbracciare ugualmente le virtù che alimentano l’intelletto e i costumi. Coltivò innanzitutto il culto non verso i Santi ma verso la Madonna, che chiamava col nome di Madre e non altrimenti. Dallo studio derivava modestia e umiltà e nulla avversava se non la fama e l’onore che gli venivano dal suo insegnamento. Molto paziente per la cattiva salute, sanava le sue malattie con la sopportazione e non con i rimedi richiesti dalla scienza, se non quando bisognava per le leggi dell’obbedienza sottostare al rigore della vita comune. Ricercava nella sua cella la povertà e non il desiderio di suppellettili raffinate; ebbe ne cuore la castità e il candore della mente, sì da conservare sino alla morte un’illibata integrità fisica e una floridezza verginale. Egli apriva ciò con sincerità al confessore e lo fece anche nell’ultimo istante della sua vita.

Tralasciamo di manifestare altri nomi delle sue virtù; è sufficiente affermare di lui che in un personaggio occupatissimo nello studio delle lettere e nell’amore per la religione, quasi nulla ci fu da riprendere con il quotidiano esame di coscienza. E con questo modo di vivere arrivò alla morte. A 46 anni, preso da febbre, stando a letto, ebbe la sensazione di prevedere l’ultimo giorno. Disse chiaramente che ormai si avvicinava l’ora che avrebbe interrotto il corso della vita mortale. Quando era preso dalla violenza del male, riceveva sollievo dall’invocazione assai frequente del nome della grande Madre e modulava alcune pie canzoncine che egli stesso, per moderare i suoi studi troppo intensi, aveva composto. Avendo fatto ciò il giorno prima della morte, sembrò di imitare con quell’ultimo canto il cigno, che esprime, come si dice, molto bene il candore della purezza. Spirò il giorno dopo dell’anniversario del nostro beato padre Gaetano, dopo aver ricevuto il santissimo sacramento, emesso di nuovo la professione di fede e rinnovato i voti dell’Ordine.

Le opere per le quali vegliò e che diede alla luce sono due volumi dei Commentari alle consuetudini napoletane, a cui si aggiunse postumo il terzo a cura di Francesco Bolvito; il  Prontuario dei tre diritti e due tomi di Somma teologica (Questi però non hanno visto la luce e si trovano nella biblioteca napoletana dei Santi Apostoli), l’Esposizione della bolla in Coena Domini; Questioni giuridiche; Trattato sulla restituzione, sulle censure, sui giudizi, sui Vescovi, sui Regolari, sull’immunità ecclesiastica, sulla vendita dei beni della chiesa; Numerosi consigli in materia civile, canonica e morale. Questi richiedono di essere limati e ben curati; arricchiranno non poco la materia letteraria, se saranno di dominio pubblico. Sono considerati di pregio dai grandi ingegni i frammenti e le antologie.

Infine, c’è il giudizio presso i dotti sul modo di scrivere di Andrea Molfese: di costoro è il parere comune che, oltre al modo di esprimersi, nulla è più dotto e robusto dei suoi scritti. Le Costituzioni Napoletane accolte con plauso testimoniano i Sedili napoletani nei quali si dispone che siano consultati i Commentari di Molfese, affinché quelli che sono preposti a giudicare derivino il parere per l’idea di una sentenza certa”.  

 

3.4 - Altra nota di Giuseppe Silos è riportata nel Catalogo degli Scrittori dei Chierici Regolari, Tipografia di Pietro d’Isola, Palermo 1666, vol. 3°, pp. 528-529.

“Andrea Molfese da Ripacandida, che è città della diocesi di Melfi, fu rinomato per dottrina e modi di vivere. Ebbe ingegno precoce e pronta facoltà mentale già da fanciullo. Poiché è assai utile e molto ricercata la giurisprudenza, a questa si rivolge Molfese e, terminato siffatto corso di studi a Napoli, fu onorato con pubblica laurea. Dalla scuola subito volò nel foro e prese a perorare liti e controversie. Ma subito insieme con Tommaso Pelliccione, giovane di finissimo ingegno e dedito alla stessa palestra del foro, su esortazione del Beato Andrea Avellino, fu richiamato da quella ardente passione per i giudizi. Pelliccione si ritirò subito dall’attività forense e dal mondo e si aggregò al nostro Ordine. Molfese, invece, mutate le vele, comincia a spiegare la giurisprudenza, non pensando affatto ad intraprendere la disciplina dell’Ordine religioso; anzi, tenta di far uscire l’amico dall’istituto dove era entrato. Questo fu per lui come un fuoco e per la facondia di Pelliccione la cosa operò diversamente. Egli, infatti, ne fu catturato e concepì allora l’intenzione della disciplina teatina. Gli fu vicino la gran Madre di Dio che sembrò a lui che pregava così parlasse: “Da’ il tuo nominativo a quest’Ordine, o figlio; mi adopererò perché i Padri ti accettino amorevolmente”.

Degno di memoria è anche questo. Nel giorno in cui fu accolto nell’Ordine, il 7 di marzo, festa di San Tommaso d’Aquino, rivolgendo preghiere alla sua immagine, da lì venne fuori questa voce: “Entra serenamente in questo Ordine; il Signore ti riempirà di sapienza; cerca di liberarti delle cose del mondo”. Dunque, sorretto da queste esortazioni, nel sesto anno di questo secolo [1606], nel giorno che abbiamo detto, si affidò alla comunità. Per avvicinarsi al diritto civile e canonico volle erudirsi nell’Ordine nelle discipline filosofiche e teologiche. Si procurò da ciò ingegno e penna e in breve la sua fama crebbe a Napoli. Fu subito nella stima di tutti e nelle controversie a gara lo chiamavano come arbitro, sapendolo eruditissimo e integerrimo. Occupatissimo negli studi, non dimentica di correggere la sua disciplina e qualsiasi tempo passasse nel commento soprattutto delle cose divine, lo riteneva un compendio degli studi.

Faceva molta attività mentale; né venivano meno, come accade agli uomini piissimi e dediti alla meditazione, sollievi interiori e piogge di delizie celesti che irrigavano il suo animo. Aveva devozione verso tutti i santi, ma ancor più verso la Genitrice di Dio. La venerava intimamente e con preghiere e non la chiamava che col nome di Madre. A lui fu molto vicina l’umiltà, che è la custode delle altre virtù. Non gli garbava ricevere lodi per la sua erudizione e i suoi scritti; era solito essere colpito molto spesso da una leggera febbricola e da altri fastidi fisici: in ciò particolare rimedio era la sopportazione e attendeva, nonostante, i mali, con insigne tolleranza ai suoi studi e ai suoi doveri religiosi. Ebbe chiara purezza di anima e di corpo, come sinceramente diceva al suo confessore, un candore illibato dalla culla alla morte.

Aggiungiamo un’altra sua virtù. A 46 anni, colpito dal male, sembra che abbia pronunziato apertamente che quel giorno sarebbe stato l’ultimo; e così fu. Morì tra le lodi della Madre di Dio in modo assai devoto. Era gran desiderio di tutto l’Ordine, poiché non sembrava così imminente la sua morte, che la materia letteraria potesse ancora essere sviluppata grandemente.

Gli scritti non presentano alcuna improprietà verbale, hanno erudizione e precisione; in modo chiaro, con rigore e con dottrina ha scritto Molfese, proprio come è il senso comune dei letterati.

Abbiamo dalla sua penna: Commentari alle consuetudini napoletane, parte prima, Napoli, con i tipi di Scipione Bonini, 1619; parte seconda dei medesimi Commentari, Napoli presso Lazzaro Scorigio 1621. A questi, a cura di Francesco Bolvito fu aggiunto il terzo tomo postumo, con i tipi napoletani: Prontuario dei tre diritti, ossia due tomi di Somma teologica, Napoli presso Lazzaro Scorigio, 1613. Molte altre opere aveva composto, che attendevano di essere riviste e limate; si trovano a Napoli nella biblioteca dei Santi Apostoli. Esse sono: Esposizione della bolla in Coena Domini; Questioni giuridiche; Trattato sulla restituzione, sulle censure, sui giudizi, sui Vescovi, sui Regolari, sull’immunità ecclesiastica, sulla vendita dei beni della chiesa; Consigli in materia civile, canonica e morale”.      

 

3.5 - Nota di Antonio Francesco Vezzosi, I Scrittori dei Chierici Regolari. Parte Seconda. Stamperia della Sacra Congregazione di Propaganda Fide. Roma 1780. pp. 68-71.

MOLFESI = Andrea = di Ripa Candida Castello della Diogesi di Melfi. Nacque di onesti e ricchi genitori nel 1573. Terminati i diciotto anni di sua età ne’ studj propri della sua adolescenza, e manifestato in essi un ingegno e ardente, e singolare nell’apprendere, e nel ragionare, portossi in Napoli, diedesi all’applicazione del Diritto sì civile che canonico; ne riportò la Laurea Dottorale; intraprese l’esercizio del Foro, il patrocinar le cause civili, esercizio aleae plenum. Contrasse amicizia con un giovane Napoletano della medesima professione, detto Tomaso Pelliccioni, di cui dovrem trattare a far luogo. Ed il Molfesio ed il Pelliccioni mentre in una bottega di Librajo, stavano insieme rivoltando e vedendo i Libri, com’è costume di chi e gli conosce, e gli ama, da S. Andrea Avellino, che per divin volere vi sopragiunse, furono ambidue esortati a non ingolfarsi negli imbarazzi del Foro, ed abbandonare un impiego assai pericoloso per la eterna salute. Il Pelliccioni s’arrendè ben tosto e fecesi Teatino. Non così il Molfesio, il quale anzi portandosi a trovare il suo amico nel ritiro del Noviziato, s’affaticò in persuaderlo a spogliarsi dell’Abito Religioso, ed a tornarsene al secolo. Ma che! Quel celeste Spirito che ubi vult spirat, e che i cuori degli uomini con dolce forza inclina e muove, fé sì che rimanesse avvinto da que’ lacci medesimi chi tentava svilupparne l’amico. Mutato volere il Molfesio vuol farsi Teatino; né altro più l’affanna che il timore di non esservi ammesso. In Napoli, in S. Maria degli Angeli, il dì 7. Marzo del 1605. fu accolto, e ai 16. Luglio del 1606 professò solennemente l’Instituto nella sua età di anni 30. Volle già Dottore e Causidico fare in qualità di giovane studente il corso e della Filosofia e della Teologia. Non visse Teatino che quindici o sedici anni. Gracile di complessione, febbre lenta che sovente l’attaccava, lo sputar sangue unito all’esatto adempimento de’ doveri del suo stato, ed all’assidua applicazione allo studio delle scienze, il ridussero finalmente nel 1620, all’ultimo de’ suoi giorni, il che seguì agli 8. Agosto. Un imagine di sua Vita ci descrisse il P. D. Francesco Bolvito in una sua Praemonitio ad Lectorem, che premesse alla Parte Seconda della Somma Morale del Molfesio medesimo rimasta nella di lui morte imperfetta sotto il torchio, e da esso ultimata. Il Silos pure seguendo il Bolvito e con nuovi lumi ornandolo, l’imagine medesima ci dipinge nella parte ii delle sue Istorie, Libro ix, a catte 418. 419. e 420. oltre quello che dipoi ne scrisse più in ristretto nel Libro xii. della Parte iii. pag. 528. e 529.

Le di lui opere sono.

I. Commentaria ad ConsuetudinesNeapolitanas per quaestiones distributa ….. Habes hoc Volumine, Lector, Successionu, et Renunciationum Omnium, limentorum item, Dotium et Donationum propter Nuptias, amplissimam materiam diligentissime explicatam. Accesserunt Consilia, quae ipsis rebus elucidandis mirifice faciunt. Neapoli ex Typographia Lazari Scorigii, 1613, in foglio, e di nuovo in foglio pure Neapoli typis Scipionis Bonini, 1619. Nella Prefazione esponendo il motivo di questa sua Opera, tutto lo rifonde sulla oscurità osservata da esso in chi fino a suoi giorni avea scritto sulle Consuetudini Napoletane; onde ingenuamente confessa non portare egli cosa nuova, o non detta da altri, ma esposta con chiarezza, renduta intellegibile, e raccolta insieme[1]. Accenna di poi la divisione di questo primo Tomo, che è in sette Parti, alle quali succedono i Consigli.

II Additionum ad Quaestiones usuales, seu ad primum Volumen Commentariorum Consuetudinum Neapolitanorum, Tomus secundus. Neapoli ex Typographia Lazari Scorigii, 1616, in foglio.  

III. Commentariorum in Consuetudines Neapolitanas, Tomus tertius. Opus posthumum. Neapoli et c., in foglio. La edizione di questo terzo Tomo, promesso dall’Autore nella sua Prefazione al secondo[2] si deve al P. D. Francesco Bolvito, che trovatolo tralle carte inedite del defonto Molfesio[3] si prese la cura di pubblicarlo. Con quale e quanto applauso siano dal pubblico di Napoli stati accolti i Comentarj del nostro Scrittore lo dice il Bolvito stesso nel luogo citato di sopra con queste parole: Commmentariorum in Neapolitanas Consuetudines Volumina duo[4] cum Consiliorum variorum Excepta omnium Neapolitanorum Juresconsultorum plausu, immo et Judicum ipsorum, ex quibus fuere, qui dum actu juri reddendo in aula, quam Rotam vocant, vacarent, apd se illa habuere, ut in re nata, et antequam sententiam dicerent, haberent quem consulerent.

IV. Promptuariii triplicis juris , divini, canonici, et civilis, seu Summae Moralis Theologiae et Casuum Conscientiae, pars Prima, Neapoli apud Lazarum Scorrigium, 1613. e di nuovo Neapoli apud Scipionem Boninum, 1619. in fogl. pag. 900. non compreso un copioso Indice delle cose notabili.

V. Summae Moralis Theologiea, Casuum Conscientiae, Pars secunda, seu Tractatus de Contractibus et ultimis Voluntatibus. Editio posthuma, Neapoli apud Lazarum Scorrigium, 1621. in fogl. pag. 301, senza l’Indice. Avea di questa seconda Parte parlato l’Autore sul fine della Prefazione alla prima; ma la morte gli tolse il contento di vederla compita. Sottentrò nella sollecitudine il Bolvito, il quale e la condusse a fine, e vi premesse quell’idea ed imagine della Vita del Molfesio, che è di sopra accennata. Nel 1622. dallo stesso Stampatore fu riprodotta in foglio, similmente sotto il titolo Praxis Contractuum, et Praxis ultimarum Voluntatum.

Delle Opere inedite ecco quel che scrisse il Bolvito: Inter schedulas vero ejus reperta sunt multa, quae tamen curis secundis indigent, Talia sunt. Commentariorum in Consuetudines Neapolitanas Volumen tertium (il quale fu poi dallo stesso Bolvito fatto stampare). Expositio Bullae in Coena Domini. Quaestiones jurisdictionales. Tractatus de Restitutione, de Censuris, de Judiciis, de Episcopis, de Regularibus, de Immunitate Ecclesiae, de Alienatione bonorum Ecclesiae. Consilia quoque in Civili, Canonica et Morali materia pene innumera.      

 

3.6 - Giudizio negativo di Lorenzo Giustiniani

 “Egli ne divenne sì istrutto per que’ tempi, che a dir degli scrittori consultavanlo come oracolo i professori del nostro foro sulle controversie, che insorgevano in materie consuetudinarie.

Egli non era fornito di quelle cognizioni, che sarebbero state necessarie a darci la vera spiega delle medesime. I suoi errori non sono che badiali, e la sua opera non sembra che un affastellamento di opinioni, di sentenze, di leggi, di casi, e di radissimo seppe colpire al segno.

Que’ che gli fiorirono dappresso, e che scriver vollero sulla stessa materia, gli ebbero a correggere non pochi di siffatti suoi travvedimenti, ma ancor costoro con poca felicità … Le nostre Consuetudini, a dire il vero non vantano niun degno commentatore, ed anche addì nostri è poco curato lo studio delle medesime. Se l’opera di Molfesio merita quell’applauso istesso, che riscosse ne’ tempi andati, come pretendesi da alcuni de’ moderni, io lo rimetto alla critica de’ buoni conoscitori di questo secolo. Egli ritrovasi di molto lodato da parecchi scrittori, e forse non tanto che meritato avrebbe la sua sola religiosità. Oltre de’ sullodati avvi il Toppi, l’Origlia, il Giannone, e molti altri scrittori del napolitano foro”[5].

Riguardo al 3° tomo dei Commentari, Giustiniani annota in tono ironico e sprezzante: “Ecco richiamata la teologia per rischiarare le nostre leggi consuetudinarie. Io mi vado immaginando, che se il Molfesio avesse portata più a lungo la sua vita, ci avrebbe lasciata una dozzina di tomi in foglio sulle nostre consuetudini, senza farcene diggiammai intendere il vero loro spirito”[6].

Giustiniani forse pretendeva che Molfese non si limitasse a costruire un diritto fondato sui postulati ontologici, ma sull’esperienza e sul valore teoretico dei fatti, nonché sulla storicizzazione delle norme giuridiche.

In realtà, tutti questi aspetti sono presenti nelle opere. I Commentari infatti sono un repertorio della giurisprudenza, corredato di chiarimenti e riferimenti bibliografici; un’opera assolutamente tecnica, rivolta a magistrati ed avvocati, che compendiava tutta la cultura giuridica elaborata nel 1500. Con la citazione dei casi, si vincolava il giudice al principio del precedente giurisdizionale.

È, pertanto, inspiegabile il giudizio negativo di Giustiniani, che pure aveva anteposto alla sua Biblioteca storica e topografica del Regno di Napoli il motto: “Nihil agere, quod non prosit” [Non fare nulla che non sia utile] ed anche scritto nella prefazione “Nullus enim liber est … qui non ex aliqua parte juvare queat” [Non ha alcun valore il libro che in aqualche modo non possa giovare][7].

Nel Regno si ha il passaggio da una fase di sviluppo economico ad una fase di crisi, con la formazione di due dinamiche sociali diverse per composizione dei ceti e per valori culturali. C’erano rivolte, i disordini crescevano, i vizi, le malizie e le frodi abbondavano; “perciò dovevano crescere i Professori e’ Curiali, de’ quali allora si avea maggior bisogno. Dove sono molte infermità è di mestieri, che vi siano molti medici, così corrotta la disciplina, è duopo, che si ricorra alle leggi”[8] Di qui, i repertori e l’adeguamento delle consuetudini.

Difficoltà, inoltre, provenivano dai rapporti con la Curia romana: da una parte la difesa delle prerogative dello Stato, dall’altra la recezione dell’ordinamento canonistico. La fonte della controversia era costituita dalle immunità che la Chiesa rivendicava per i chierici e per tutti i luoghi di culto. Come già detto in precedenza, Molfese toccava un problema sociale, assai rilevante nel suo tempo. I chierici, secolari o regolari, erano in maggioranza di nobile famiglia, tenuta, questa, alla conservazione dell’intero patrimonio. Data l’eredità al primogenito, gli altri figli erano obbligati alla vita sacerdotale dal capofamiglia, che in tal modo, essendo spesso affittuario delle terre della chiesa, si garantiva l’esenzione dalle tasse attraverso le rendite percepite dal figlio sacerdote, quale partecipante dei beni della chiesa o dell’ordine religioso di appartenenza.  

Nel 1568 la promulgazione della bolla In coena Domini aveva acceso i contrasti per la pretesa di Gregorio XIV di limitare il numero dei delitti per i quali si poteva godere dell’immunità[9]. La bolla colpiva la potestà dei principi, toglieva loro la sovranità dei loro Stati, sottoponeva il loro governo alla censura e scomunicava quanti si ponevano contro gli ordinamenti del Papa.

Da parte dei principi si reagì imponendo l’exequatur regio alla pubblicazione il giovedì santo della bolla, secondo il principio che bisognava vigilare affinché il governo non fosse perturbato e si sapesse ciò che potesse nuocere alla quiete e alla tranquillità dello Stato. Tuttavia ci sono esempi di non osservanza dell’exequatur. Il vescovo di Lavello e di Venosa Paolo Oberto e quello di Melfi Alessandro Rufino ebbero l’ardire di proibire le gabelle, procedendo contro i laici; il vicario di Lacedonia pubblicò la bolla senza l’autorizzazione regia, ma fu punito col sequestro dei beni patrimoniali[10].  

Nella seconda metà del secolo XVI si fa più insistente il discorso sul legalismo che promana dalla volontà del sovrano. I principali teorizzatori sono il magistrato Vincenzo de Franchis (1531-1601) e Giovan Francesco De Ponte (1541-1616). Questi con l’opera De Potestate Proregis, Collateralis Consilii, Regnique regimine, pubblicata a Napoli nel 1611, definisce il rapporto tra Chiesa e Stato. Buongoverno, stabilità politica, pace sociale non possono essere concetti metafisici; l’obiettivo dei governanti è quello di assicurare il benessere dei sudditi. Perciò il diritto è considerato come cognizione delle cose umane, come scienza del governo e panacea per ogni agire umano[11].

 

3.7 – Nota di Domenico Sinisi (da Regnum Dei, Anno VI-1950)

         P. D. Andrea Molfese C. R., giurista

Fra gli uomini che diedero lustro alla cittadina di Ripacandida, già turrita baronia normanna in Lucania, della Diocesi di Melfi e Ra­polla, merita il primo posto il Padre D. Andrea Molfese, sommo giu­rista dell’inclito Ordine dei Teatini. Egli nacque nel 1573 da Alfonso, onesto e ricco cittadino di Ri­pacandida. D’ingegno sveglio, assiduo allo studio e pronto al ragiona­mento, superò agevolmente le varie gradazioni dei suoi studi e all’età di diciotto anni s’iscrisse alla facoltà di giurisprudenza nella Univer­sità di Napoli. Addottoratosi in utroque iure, si distinse ben presto nel Foro napoletano patrocinando le cause civili e dimostrando acutezza di mente, profondità di coltura e onesta a tutta prova. Un giorno (si era nel 1602), mentre il Molfese s’intratteneva col suo amico Tommaso Pelliccioni e con altri colleghi, a consultare dei libri giuridici in una libreria di fronte alla chiesa di S. Gregorio Ar­meno, di proprietà di tale Andrea Pellegrino, furono avvicinati, certo per disegno divino, da Sant’Andrea Avellino, il cui apostolato si ri­volgeva, a quel tempo, a condurre anche a Dio i dottori in legge. Il Santo iniziò senz’altro un’edificante conversazione con loro. Dopo aver dimostrato tutti i pericoli della loro professione per la salute dell’anima, li esortò a non ingolfarsi negli imbarazzi del Foro e ad abbandonare una professione poco lucrosa per l’eterna salute, dato che gli -avvocati godevano fama, non però del tutto giustificata, di emeriti imbroglioni. Il Pelliccioni, convinto dalle dolci, persuasive e sante parole del Santo, si arrese, e ben presto si fece anch’egli Teatino. Non così fu per il nostro Molfese, il quale, anzi, s’affannò a persuaderlo a spogliarsi dell’abito religioso per tornarsene al secolo. Tutto fu inu­tile, anzi quel divino Spirito che «ubi vult spirat», e che i cuori degli uomini, con dolce forza inclina e muove, «fece sì che a quei lacci medesimi rimanesse avvinto anche colui che tentava scioglierne l’amico». Fu così che il Molfese, completamente cambiato, mutò il suo volere e, pur temendo di non riuscire nell’intento, chiese ed ottenne di farsi Chierico Regolare. Ecco come il Padre Francesco Bolvito C.R. racconta, nel suo classico latino, la miracolosa chiamata allo stato religioso dei due avvocati. «Accidit aliquando, ut [Avellunus] a]iquibus occurreret legum laurea donatis, et legum aliquot commentaria in bibliopolio pervolutantibus. In horum binos fìxit oblutum; velut ex alta specula contemplatus, quanto animarum lucro a forensibus aestu­bus et astubus, ad meliora illi studia possent transferri: statimque advocatorum pericula coepit exaggerare, et captiosa mendacia detesta­ri quibus ii crebro abundant, ut victores evadant, et se quoque iis aliquando tricis irretitum, divina comminatione torrente, ab illis effu­gisse. Hoc autem tanto impetu spiritus, tanto dolentis affectu dicebat, ac si tunc facinus quod ipsi videbatur horrendum, fuisset perpetratum et sentiret a tergo vindicem Deum: tanto etiam audientium fru­ctu, ut paulo post ambo forum aversati mundique transfugi, ad Christi se castra in hac Religione converterint. Militat adhuc eorum alter. Alter, hoc est, Andreas Molphetius, Beati tutela cumulata protectus celestem jam patriam, ut pie credendum, emeritus petiit».

Sembra che prima di entrare in Religione il Molfese avesse già abbracciato la carriera ecclesiastica ricevendo la Tonsura e gli Ordini minori. Così almeno si rileva dal catalogo dei Chierici Regolari compilato dal P. Francesco Del Monaco il quale dà del Molfese le seguenti notizie biografiche: «D. Andreas Molfese, Ripae Candidae: in saeculo Johannes An­dreas. Cler. 4 Min. Filius Alphonsi. Anno. 30 ingressus Neapoli, San­ctae Mariae Angelorum, 1605, 7 Martii, Praeposito D. Marcellino D’Oda. Habitum ibidem eodem anno 16 Ju]ii. Profess. ibidem 1606 eodem Praeposito. Subd. ibidem 1608, 20 Decembris. Diac. ibidem, 1609, 19 Decembris. Praesbit. ibidem 1613, 23 Septembris».

Da altre fonti storiche dell’Ordine sappiamo che il Molfese pro­fessò ai 16 di Luglio 1606 nel convento di Santa Maria degli Angeli e non in quello dei SS. Apostoli, come erroneamente ebbi io stesso a pubblicare in un articolo stampato recentemente sul quotidiano na­poletano “Roma». Quantunque già dottore ed avvocato, egli volle frequentare come chierico studente i corsi di Teologia e di Filosofia. Ancora prima di abbracciare la vita religiosa egli era di costumi retti ed esemplarissimi e anche se volle distogliere, come fu detto, dalla vita religiosa il suo compagno Pelliccioni, il suo tenore di vita reli­giosa fu sempre encomiabile. Il Padre Silos afferma che anche quando il Molfese fu costretto, suo malgrado, a difendere alcune cause civili, si comportò sempre da buon cristiano e finì poi col ritirarsi dalle aule della giustizia per dedicarsi all’insegnamento civile del diritto canonico e civile finché insoddisfatto anche di questa attività abbandonò il mondo per darsi tutto al servizio di Dio nello stato religioso nel quale, per altro, non visse che 15 o 16 anni. Gracile di complessione, e logorato da una febbre lenta che sovente l’attaccava con frequenti sbocchi di sangue, non cessò di adempiere esattamente i doveri del suo stato né interruppe mai l’assidua applicazione allo studio delle scienze sacre fino a che l’8 Agosto del 1620, secondo il P.D. Francesco Vezzosi C. R. serenamente si spense.

La sua vasta erudizione nel campo delle scienze teologhe-giuridiche,1 è attestata dalle sue opere edite e inedite, di cui diamo qui l’elenco completo.

1-Commentaria ad consuetudines neapolitana per questiones distribuita. Neapoli, ex tipografia Lazari Scorrigli, 1613. In folio, e riprodotta in Napoli (Scipione Bovini)1619.

2-Additionum ad Quaestiones usuales, seu ad primum volumen Commentariorum Consuetudinum Napolitanarum.Tomus secundus, Neapoli,ex Typografia Lazari Scorrigii,1616. In folio

3-Commentariorum in Consuetudines Neapolitanas.  Tomus tertius, opus postumum. Neapoli, ex Typografia Lazari Scorrigii 1621. In fol.

4-Promptuarii triplicis juris, seu Summa Moralis Theologiae et Casuum Conscientiae. Pars prima.Neapoli, apud Lazarum Scrigium, 1621. In fol.

5-Summa Moralis Theologiae et Casuum Conscientiae. Pars secunda seu Tractatus de Contractibus et ultimis voluntatibus. Editio postuma. Neapoli, apud Lazarum Scorrigium,1621. In fol. Riprodotta in Napoli, dallo stesso stampatore, nel 1622.

Opere inedite: 1) Expositio Bullae «In Coena Domini». — 2) Questiones jurisdictionales. — 3) Traetatus de Beatitudine. — 4) De Censuris.. — 5) De Iudiciis. 6) De Episcopis. — 7) De Regula­ribus. — 8) De Immortalitate Ecciesiae.

Ai quali il Bolvito aggiunge molti opuscoli a guisa di pareri o consigli su materie canoniche e morali6.

La più importante delle opere è «Commentaria ad Consue­tudines Neapolitanas» in 3 tomi, il cui terzo volume uscì postumo a cura del Bolvito il quale diede pure alle stampe la Seconda Parte del­la Summa Moralis del Nostro.

Con quale e quanto applauso siano stati accolti i «Commentaria» del nostro giurista, lo dice lo stesso Bolvito con queste parole: «Commentariorum in neapolitanas consuetudines Volumina duo, cum con­siliorum variorum auctario excepto, ornnium Neapolitanorum Iure­consultorum ipsorum, ex’ quibus fuere qui dum actu juri reddendo in aula, quam Rotam vocant, vacarent, apud se illa habuere, ut in re nata, et antequam sententiam dicerent, haberent quem consulerint».

Il Palermo nella sua operetta: «I Giureconsulti della Basilicata» dice che: «le Napoletane Consuetudini» non possono vantare un più degno Commentatore. Parecchi altri scrittori, tra cui il Toppi, l’An­tonino nella sua «Lucania», l’Origlia, il Giannone nella sua «Storia Civile» e molti altri parlano di lui con lode sincera. Cito soltanto il giudizio dell’ultimo: « Oltre a costoro, sorsero pure nel passato seco­lo altri scrittori, i quali o per via di controversie o di decisioni o di consigli, ovvero con trattati largamente scrissero sopra queste nostre Consuetudini del Regno, fra i quali porta il vanto il celebre Molfesio, che più d’ogni altro in più volumi trattò di quelle, tanto che oggi ai nostri Professori il diritto appartenente a queste Consuetudini s’è re­so una delle parti più necessarie per la disciplina Forense, la quale non meno che l’altre ha le sue sottigliezze ed i suoi intrighi, dove il numero dei tanti scrittori l’han posta, e richiedesi perciò somma dot­trina e perizia per ben maneggiarla».

Non dissimile è il giudizio che del nostro autore e delle sue opere fa Pietro Massario Protonotario Apostolico.

L’insigne nostro giurista è, però, al presente quasi dimenticato nella Patria che gli diede i natali. L’autore di queste notizie sarà pago se con la sua fatica e con le notizie raccolte, potrà contribuire a destarne la memoria fra i connazionali e a farlo conoscere a chi lo ignora.


 

[1] Nella Prefazione al secondo Tomo dell’Opera presente il nostro Scrittore ribattendo le indiscrete censure e dicerie, con cui erasi da alcuni attaccato il primo Tomo, con dire non essere del Molfesio ma di altri, perché di questi e non del Molfesio contiene la dottrina, tralle altre cose, scrive: An non meum quod tot lucubrationibus, in adversa etiam valetudine susceptis concepi, tanto labore peperi, mearum virium expensis alui, multis incommodis educavi, famosorum hominum auxilio fovi, et usque ad perfectum statum perduxi? An caret laude, quod a multis siligitur, ut in unum cocat, ut simulac distinctius praestet, quod sparsim et confuse apud plures daret? [Forse che quanto ho concepito con tanto studio, fatto anche con salute malferma, non l’ho prodotto con tanta fatica, alimentato a spese delle mie forze e con molti disagi, espresso con l’aiuto di uomini famosi e condotto ad uno stato di perfezione? O è privo di lode ciò che è scelto tra molti per formare una cosa sola e appena si mostra in forma distinta nelle sue parti appare a parecchi in modo sparso e confuso?]

[2] Ove dice di esso: Posterior Tomus materias omnium aliarum consuetudinum, et in utroque Foro discussas, et non inconcinne resolutas, complectens, quem jamdiu compleveram, ultimam, ut aiunt, manum expectat. Festino in ejus absolutione, ut citius, Deo adjuvante, proelio mandetur. [Il tomo successivo che contiene le materie di tutte le altre consuetudini sia quelle discusse in entrambi i fori sia quelle felicemente risolte, e che io già da tempo avevo completato, aspetta, come si dice, l’ultima mano. Mi affretto a perfezionarlo per mandarlo in campo con l’aiuto di Dio].

[3] Bolvito nella Praemonitio ad Lectorem della seconda Parte Summae Theologicae del nostro Molfesio: in Silos Parte II, pag. 420, e Parte III, pag. 529.

[4] Il terzo non era per anco pubblicato quando questo scriveva il Bolvito.

[5] L. Giustiniani, Memorie storiche degli scrittori legali del Regno di Napoli, tomo II, Stamperia Simoniana, Napoli 1787, pp. 270-273; M. Toppi, Biblioteca Napoletana, Tip. Antonio Bulifon, Napoli 1678, p. 14; G.G. Origlia, Istoria dello Studio di Napoli, Tip. G. Di Simone, Napoli 1753, vol. 2, p. 140; P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, Giovanni Gradier, Napoli, 1770, tomo III, libro XXI, cap. 7, p. 82. 

[6] L. Giustiniani, Memorie storiche, cit., p. 272.

[7] L. Giustiniani, Biblioteca storica e topografica del Regno di Napoli, V. Orsini, Napoli 1793, p. IX.

[8] P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, cit., tomo V, libro XXXVIII, cap. IV, p. 214.

[9] Ibidem, tomo V, libro XXXIII, cap. IV, p. 55.

[10] Ibidem, tomo V, libro XXXIII, cap. IV, p. 64.

[11] F. De Ponte, De Potestate Proregis, Collateralis Consilii, Regnique regimine, Tarquinio Longo, Napoli 1611, p. 327.

 

 

APPENDICE  - SEGUE >>       

 

 

 

[ Mailing List ] [ Home ] [ Scrivimi ]