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PER L’ARCHIMANDRITA PIETRO CAMODECA de’CORONEJ
AL CENTENARIO DELLA SUA MORTE
( Lo spirito contraddittorio anima la nostra razza )

FRANCESCO MOLFESE - GIUSEPPE MOLFESE - ANTONIO MOLFESE
 

INTRODUZIONE

Per questo breve ricordo su Mons. Pietro Camodeca de’ Coronej, desidero partire dalle conclusioni che il Prof. Laviola ha scritto nel suo magnifico libro pubblicato negli anni 60 ed al quale ci siamo ispirati e dal quale abbiamo desunto materiale originale. Potrebbe sembrare un plagio, ma la scomparsa completa dei documenti da casa Camodeca ci ha indotti a seguire solo questa via, per portare a compimento il nostro intento. Abbiamo voluto anche riportare la prefazione che ha caratterizzato una seconda pubblicazione.

“Giunti a questo punto, sembra a noi di aver ricostruita, servendoci, in primo luogo, dei suoi scritti, la figura di un uomo singolare che non poteva restare nell’oblio. Un uomo che ebbe un ingegno versatile e spazio, anche se non sempre con profondità, nei vari campi del sapere umano: filologia, letteratura, arte, archeologia, poesia, religione …… ……. un individuo complesso al quale non mancarono i riconoscimenti dei suoi contemporanei, e che sicuramente avrebbe potuto dare di più nel campo letterario, se fosse riuscito ad imbrigliare quel suo ingegnaccio che era un vulcano di idee e di progetti. Castroregio a lui deve molto, e con Castroregio la causa albanese e la Chiesa di rito greco. Il De Rada combatte le sue battaglie per la lingua e per la letteratura, Camodeca combatte per il rito, per i suoi confratelli, per la creazione di una diocesi autonoma. Forse indulse un po’troppo a certa deteriore lotta paesana e dimenticò per poco i nobili ideali di cui era preso quando terminò i suoi studi ed uscì entusiasta dal Collegio di San Demetrio e dal Seminario di Tursi. Se si fosse mantenuto sempre in quell’aura di studio sereno ci avrebbe, senz’altro, dato qualcosa di più duraturo e forse sarebbe arrivato più in alto nella carriera ecclesiastica. Ma tant’è l’uomo è schiavo dell’ambiente e non vi era (e non vi è) peggior ambiente di un piccolo centro dove, e lo abbiamo scritto più volte, è cosa estremamente difficile vivere al di sopra della lotta, degli interessi, delle invidie e delle gelosie inevitabili tra casato e casato e, quello che più meraviglia, tra membri, alle volte, di una stessa famiglia, perché, in fondo, nel piccolo centro, comune è il ceppo e comuni sono gli antenati. Considerato da questo punto di vista, il ritorno al paese fu un male per lui ……… . Nessuno può negargli l’attaccamento alla sua gente, al suo paese, alla sua stirpe, al Sommo Pontefice, alla Chiesa. Nessuno può misconoscere il suo contributo a tutte le iniziative, a tutti gli sforzi per risollevare e tenere in vita usi, tradizioni, lingua e rito. Ci sia consentito citarlo ancora una volta e trarre un ultimo ammaestramento e un chiarissimo monito. Si è soliti che i libri scritti in albanese, ciascuno, o istruito o no, pretenda leggerli col solo ausilio della lingua italiana, senza punto studiare l’alfabeto proprio secondo il quale sono scritti ………… . Il monito di Pietro Camodeca non ha perduto efficacia: proiettato nel futuro, è ancora palpitante di attualità. Oggi si pubblicano riviste e periodici scritti nella lingua albanese, ma la maggior parte di noi ben poco può leggere, ben poco può gustare della bellezza di una lirica, che, nella traduzione perde quasi sempre la sua freschezza e la sua originalità. Così muore la lingua, non è sufficiente per mantenerla in vita la tradizione orale. Ecco la necessità di uno studio sistematico, organico; ecco l’urgenza di un provvedimento legislativo che istituisca lo studio dell’albanese nei paesi albanofoni. Se ne discute da anni, si fa appello al dettato costituzionale per i diritti delle minoranze, si creano associazioni, ma ancora si assiste al lento e continuo tramontare della nostra lingua. Non si vuole ripetere il concetto: ma come si fa ad amarla la lingua scritta, se non si è’in grado di leggerla?...... Diventa vano il lavoro degli studiosi che si sobbarcano a sacrifici di ogni genere perché tutto non muoia, perché il folclore senza lingua è destinato a scomparire, a non essere compreso nel suo giusto valore, perché non solo una èlite possa essere capace di leggere, ma tutta la gente che vive nei paesi italo-albanesi. Uomini come Camodeca restano sempre attuali; ma, purtroppo, sono attuali anche le parole contenute nella lettera aperta, pubblicata in altra parte di questo lavoro, << lo spirito contraddittorio che anima la nostra razza ». Non devono sembrare fuori luogo queste nostre considerazioni: nel centenario della morte di Pietro Camodeca ci si consenta di nutrire la segreta speranza che il tributo di riconoscenza si estrinsechi da parte di tutti in un proposito di amare, esaltare e realizzare le cose che amarono, esaltarono e, in parte, realizzarono Gerolamo De Rada e Pietro Camodeca.”

 

PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

“Questa seconda edizione del saggio su Pietro Camodeca de’ Coronei vede la luce arricchita da un’appendice, nella quale trovano posto, insieme con alcune pagine inedite del Camodeca, due interessanti scritti di AntonioMolfese, medico e giornalista, che ha raccolto i “ Ricordi “ di sua madre, Donna Giuseppina Camodeca, nipote dell’Archimandrita, ed ha descritto un viaggio compiuto in Albania, in compagnia della stessa madre, alla ricerca delle radici. La nuova pubblicazione rappresenta un duplice atto di amore dei fratelli Francesco, Giuseppe ed Antonio Molfese verso lo zio Monsignore e verso la loro genitrice. Come nipoti, infatti, essi sono convinti che nessuna azione sia più meritoria di questa che vuol far rivivere le opere dell’Archimandrita e perpetuare il ricordo tra i posteri. Come figliuoli, poi, non potevano onorare in modo migliore ed offrire un omaggio più gradito e più significativo alla loro madre, il giorno in cui essa taglia felicemente il traguardo dei novantanni. Auguri, Donna Giuseppina, auguri: verso il secolo ed oltre!”

Trebisacce - Marzo 1992    

 

Si sta avvicinando il centenario della morte del mons. Pietro Camodeca de’ Coronej e si desidera preparare l’evento con qualche ricordo che questo prete di campagna dell’800 ha lasciato indelebile nella storia degli albanesi in Italia e nel suo paese.

 

PARTE PRIMA

CASTROREGIO: VITA IN PAESE. I RICORDI DI DONNA GIUSEPPINA

Castroregio, paese di 400 abitanti, era posto su un cocuzzolo esposto ai venti alle falde del massiccio del Pollino e quando tirava la tramontana bisognava rinforzare la chiusura delle finestre e dei balconi e la temperatura, già bassa di inverno, si abbassava ancora di più a tal punto che nelle stanze da letto gelava l’acqua nella brocca. Nonostante le molte coperte poste sul letto, il freddo si faceva ancora sentire per cui prima di coricarsi, oltre lo scaldino per ogni stanza, era invalso l’uso di prendere una bevanda calda a base di liquore di mandarino, rum e zucchero, « il punch ›› . Era un paese albanese al confine tra Calabria e Basilicata, posto su un cucuzzolo a circa 900 m. sul livello del mare, un osservatorio naturale privilegiato, dal momento che era un paese isolato, circondato da boschi e quindi in posizione ideale per l’osservazione degli eventi celesti. Posto nell’entroterra appenninico ad economia esclusivamente agricola, vi svolgeva la sua attività qualche artigiano (fabbro, falegname, calzolaio, sarto ecc). Nel circondario le colture prevalenti erano le cerealicole, pochi vigneti ed oliveti; non esisteva strada rotabile. I collegamenti con i comuni vicini avvenivano mediante cavalcatura ed il centro più vicino era Amendolara, collegata con una pessima strada a 2 ore di cavalcatura, dove esisteva anche una stazione ferroviaria. Le condizioni sanitarie erano precarie, come nella maggior parte dei paesi del sud, e vi esercitava un medico (non esisteva una farmacia). Non vi era acquedotto comunale, ne’ rete fognante e la erogazione dell’acqua proveniente da sorgenti locali avveniva mediante fontanini pubblici posti fuori dal paese. Non vi era posto telegrafico pubblico, ne’edificio scolastico e le scuole primarie erano tenute presso la casa dell’unica insegnante che teneva insieme le 5 classi. La maggior parte dei fanciulli (pochi in quanto gli albanesi usavano ed usano mezzi anticoncezionali empirici ma molto efficaci ed ogni famiglia non procreava più di un figlio), infatti, veniva adibita a svolgere lavori agricoli o lasciata a custodire le case in paese durante l’assenza dei genitori impegnati nei campi. Prima di addentrarci ad illustrare la figura di Mons. Pietro Camodeca, desideriamo riportare i ricordi di Donna Giuseppina, nipote prediletta di Don Pietro, che ha raccontato come si svolgeva la vita in Castroregio ai primi del ‘900 e nella sua famiglia.

Casa Camodeca, attigua alla chiesa, molto spaziosa ed articolata su tre piani con numerose camere da letto, salone e biblioteca, dove erano presenti migliaia di volumi (donati dopo le molte ruberie alla diocesi di Lungro), era anche dotata di una magnifica terrazza dalla quale si scorgeva il mare ed il golfo di Taranto. L’approvvigionamento dell’acqua per bere si faceva con i muli e con i barili che si riempivano ad una fontana situata all’inizio del bosco, chiamata « Mastursi ››, dove vi erano tre cannelle ed un abbeveratoio in pietra squadrata. Per le faccende domestiche si usava l’acqua di cisterna, che veniva alimentata con acqua piovana. La cisterna era costruita in modo che l’acqua prima di essere usata passasse attraverso filtri naturali di varia dimensione fino alla sabbia sottile, che tratteneva l’impurità grossolana ma anche i microbi. Quando si svuotava la cisterna (operazione che si faceva ogni 4-5 anni), si era soliti porre nel fondo delle pietre di calce viva, che, sciogliendosi, avrebbero reso l’acqua utilizzabile quasi potabile (l’acqua di calce è un buon disinfettante). Si soleva porre anche una sola anguilla, che aveva il compito di tenere pulita l’acqua da insetti ed altri animali. La illuminazione della casa era fatta con luce a olio e quando annottava il primo incarico della donna di servizio era quello di riempire le lampade ad olio che sarebbero rimaste accese tutta la notte. Poi si passò all’uso del petrolio e la casa molto grande era piena di lumi a petrolio che spesso bisognava riempire. Solo nel 1918, alla prima carica di olive a Frangili, fu deciso di “aggiustare” la casa e, per l’occasione, si mise in atto un nuovo sistema di illuminazione, che utilizzava il carburo come gas illuminante. Vi era una stazione di distribuzione, dove veniva posto il carburo in pietra, che, a contatto con acqua, produceva un gas chiamato « gas illuminante ››, che attraverso tubi veniva portato in tutte le stanze di rappresentanza ed una volta acceso illuminava gli ambienti. La casa era fornita di stalle per i tanti muli, che necessitavano per il trasporto di persone e di cose. Non vi erano, infatti, strade rotabili, che collegavano Castroregio ai paesi vicini (Amendolara, Oriolo), per cui l’unico mezzo di trasporto era il mulo. Venivano utilizzati muli martinesi (incrocio tra cavalle murgese ed asini di Martina Franca) in quanto erano alti di statura, molto forti ed abili specie ad attraversare corsi d’acqua in piena. I numerosi mulattieri, che con le loro famiglie abitavano nei pressi del palazzo, badavano alla cura degli animali, indispensabili all’andamento quotidiano della vita della famiglia.

I componenti della famiglia Camodeca de’Coronej erano i seguenti: Monsignor Pietro Camodeca, Archimandrita di Oriente (equivaleva a Vescovo dal momento che non esisteva un vescovo cattolico di rito albanese, come attualmente è il Vescovo di Lungro; le autorità ecclesiastiche gli avevano conferito questo titolo equipollente). Crispino Camodeca, proprietario terriero, che fu Sindaco di Castroregio per tutta la sua vita;

Domenico Camodeca, medico;
Alfonso Camodeca, Consigliere di Prefettura a Roma.

Riportiamo come era composta più nei dettagli la famiglia di Mons. Pietro Camodeca

 

FAMIGLIA CAMODECA

La famiglia era così formata:
- Monsignor Pietro Camodeca de’Coroney,Archimandrita di Oriente
- Crispino Camodeca e Rosa Rusciani, sua moglie, che ebbero i seguenti figli:
- Carolina che sposò Salvatore Lonigro, notaio: (5 figli)
- Antonio
- Crispino
- Armando
- Titina
- Rosa
- Marietta che sposò Costantino Blumetti, proprietario terriero (3 figli)
- Serafina
- Ettore
- Anna
- Salvatore che sposò Dilla Parapugna
- Francesco, medico, morto a 25 anni.
- Giuseppina che sposò Eugenio Molfese, medico (3figli)
- Francesco - Giuseppe - Antonio
- Domenico Camodeca, medico in Castroregio, che sposò Isabella Smilari
- Alfonso Camodeca, consigliere di Prefettura in Roma, che sposò Rita Marongiu Solinas
- Giuseppe Camodeca, proprietario , che sposò Lucia Camodeca (4 figli)
- Salvatore
- Francesco, Parroco di Civita
- Agostino, Presidente Corte di Appello di Napoli
- Antonio Camodeca, proprietario terriero, che sposò Maria Rosa Camodeca (3 figli)
- Pietro
- Francesco
- Domenica
- Caterina Camodeca che sposò Parisio Camodeca (4 figli)
- Domenico
- Francesco Antonio
- Rosa
- Domenica La vita religiosa era appannaggio di uno della famiglia Monsignor Pietro Camodeca de’ Coronej, come avremo modo di leggere più diffusamente in seguito.

Crispino Camodeca, padre di donna Giuseppina, era il sindaco del paese ed avendo la passione per la caccia per Natale organizzava la caccia al cinghiale nei boschi e poi inviava regali (pezzi di selvaggina) agli amici, sparsi per la nostra regione e anche nelle regioni limitrofe, a mezzo di corrieri espressi, mulattiere con quadrupede fino alla stazione di Amendolara e poi con il treno. Il paese, infatti, non aveva strade rotabili e solo i quadrupedi potevano trasportare le persone e le cose. Gli amici ricambiavano i doni inviando frutta invernale: bergamotti, arance, mandarini, castagne e dolci fatti in casa con mandorle e miele.




 

Domenico Camodeca, prestò nel piccolo paese della Calabria, Castroregio, la sua opera di medico. Studiò a San Demetrio Corone e conseguì la laurea in medicina presso l’Università di Napoli nel 1883.
Aveva sposato, Isabella Smilari, e dopo una prima permanenza come medico ad Alessandria del Carretto e a San Paolo Albanese (dove aveva incontrato la moglie), vinse il concorso come medico condotto. Alla proclamazione del Regno d’Italia, la forma più diffusa ed organizzata di assistenza sanitaria nel paese era certamente quella rappresentata dalle condotte mediche, istituto attraverso il quale le amministrazioni comunali, da sole o in consorzio, stipendiavano un sanitario per l’assistenza gratuita della popolazione povera. L’assistenza sanitaria di condotta era quindi disponibile per circa un terzo della popolazione italiana; tuttavia tale media nazionale celava profonde e sostanziali diversificazioni della diffusione della condotta medica. Era l’uomo che senza aiuto era capace di fare miracoli ed imprese incredibili; a disposizione dei pazienti per l’intero arco della giornata, a Pasqua e a Natale, a Ferragosto ed a Carnevale, di giorno e di notte. Aveva funzioni di pubblico ufficiale, esplicava la medicina preventiva, che quasi non esisteva, esercitava il controllo igienico, si fa per dire, nella circoscrizione del comune, praticava le vaccinazioni obbligatorie (quasi assenti a quei tempi) ed altri controlli, effettuava le prime rilevazioni necroscopiche e curava soprattutto le ferite da arma, in quanto frequenti erano le risse e spesso spuntavano i coltelli. Le difficoltà ambientali di diagnosi e di cura efficace, con gli scarsi mezzi a disposizione e le medicine di allora, il medico le affrontava con la forza della disperazione, come anche eventi morbosi spesso più grandi di lui. Ricoverare a quell’epoca un malato in ospedale, che per la maggior parte dei casi distava ore ed ore di viaggio tormentoso su strade impossibili a bordo di un quadrupede fino alla ferrovia con i mezzi approssimativi di allora, costituiva un caso di coscienza; il malato sarebbe arrivato in condizioni disperate vanificando qualsiasi tentativo di cura fosse stato intrapreso ed inoltre il ricovero ospedaliero sarebbe stato oneroso ed avrebbe assestato un fiero colpo alle magre finanze familiari (allora l’assistenza sanitaria era completamente a carico del cittadino). Si preferiva invece far visitare il paziente che non guariva a qualche medico di un paese vicino che aveva maggiore esperienza e che quindi poteva aiutare il giovane collega a formulare una diagnosi e prescrivere una terapia risolutiva. Allora, all’epoca del nostro medico classe 1860, laurea 1883, la farmacopea era dominata da farmaci galenici, oltre che da una lista di farmaci di pronto soccorso o di impiego più rischioso che il medico si procurava personalmente e custodiva gelosamente nell’armadio farmaceutico; dal momento che non vi era farmacia, potevano essere adoperati tempestivamente laddove la necessità lo avesse richiesto, come nel corso di una tormenta di neve o in una località distante molti chilometri dal più vicino centro abitato. Oltre all’onnipresente chinino, l’armamentario farmaceutico si avvaleva della valeriana, del laudano, della belladonna, che in opportune misture riuscivano a risolvere molti casi. Comparivano i sieri, uniche armi contro le affezioni batteriche, gli infusi di digitale, gli impacchi di linseme, gli impiastri, i preparati bromoiodici ed jodarsenici, quelli mercuriali, gli elisir, la canfora, il calomelano, l’olio di fegato di merluzzo, la china aromatica e ferrata, i liquori arsenicati, la caffeina, la bromo-lecitina, il salicilato di sodio, il boldo, la polvere di liquirizia, la stricnina ed altri preparati che oggi farebbero sorridere il giovane medico. Alcuni aspetti particolari coinvolgevano in quell’epoca l’opera del medico, giovane e preparato, ed interferivano con la serenità del suo svolgimento: aspetti che per i medici di oggi possono sembrare assurdi o patetici ma che allora potevano avere un peso (voglio riferirmi ad esempio alla convivenza e alla lotta con le superstizioni). Di fronte all’impotenza di allora della medicina ufficiale, era comprensibile da parte di popolazioni così sensibili e rassegnate alla legge della natura, il ricorso all’aiuto del sovrannaturale o meglio dell’extranaturale. Il bacio della mano che veniva tributato, e che ancora oggi è in qualche caso praticato, al medico tra le nostre genti, non era altro che un’ancestrale identificazione del potere misterioso e lontano del bene tradotto nelle spoglie tante volte modeste “dell’artefice del miracolo della guarigione e del recupero delle facoltà fisiche vitali”. Questo era anche il motivo per cui la popolazione era solita usare rimedi naturali per la cura di quasi tutte le malattie, così come avevano fatto i loro antenati. Erano in uso vini ed oli medicati, in questo favoriti dall’ottimo vino ed olio che si produceva nel paese, e la povertà del luogo induceva poi ad utilizzare medicine popolari tradizionali del popolo.
Alfonso Camodeca, consigliere di prefettura, che lavorava a Roma, nelle feste comandate rientrava in famiglia.

Era il 1910, il mese di Maggio, quando passavamo le notti insonni per osservare la cometa con la coda (Cometa di Halley); l’attesa era spasmodica dal momento che era stata messa in giro la voce che con l’evento celeste sarebbe venuta la fine del mondo. Quando arrivava Natale la famiglia si riuniva per la grande festa. Dei fratelli quattro vivevano nella stessa casa con le rispettive famiglie e sono vissuti insieme per tutta la vita. Per le feste natalizie e specie per il cenone si preparava la tavola con posate e candelabri d’argento per illuminare il pranzo di Natale, dal momento che a Castroregio non vi era luce elettrica. Al focolare si poneva un grosso ceppo, sia perché la stagione era molto rigida e sia perché c’era la leggenda che la Madonna asciugava al fuoco i panni che erano serviti per avvolgere Gesù alla sua nascita. Natale così come tutte le altre solenni festività si passava in famiglia, data anche la difficoltà degli spostamenti ed il clima inclemente. Durante il periodo della quaresima il vescovo della Diocesi S. E. Pulvirenti (allora Castroregio era nella Diocesi di Anglona- Tursi ora è nella Diocesi di Cassano Ionio) arrivava con due predicatori siciliani e il segretario particolare. Nel giorno dell’arrivo il Sindaco del paese si recava alla stazione di Amendolara per ricevere il Vescovo e condurlo a dorso di mulo a Castroregio, dove non vi era un albergo e si doveva far carico di ospitarlo con vitto e alloggio per almeno 15 giorni per tutta la durata della visita con tutto il seguito. Dal momento che si era in quaresima e il digiuno carneo era stretto, la padrona di casa doveva inventare menù per permettere agli illustri ospiti di non trasgredire alle regole (per la quaresima il digiuno carneo si osservava tre volte alla settimana: martedì, mercoledì e venerdì). Oltre che di pesce salato (baccalà o stoccafisso) si faceva uso di pesce fresco, per il cui approvvigionamento si inviava a Taranto uno dei mulattieri, il quale viaggiava di notte perché il pesce, di qualità, fosse servito agli illustri ospiti all’ora di pranzo. A Trebisacce si trovava anche il pescato fresco, ma quello di Taranto era più prelibato per specie e per sapore. Le case, anche se signorili, erano sprovviste di acqua corrente, luce elettrica e di riscaldamento, per cui era problematico, alcune volte, poter offrire un soggiorno accettabile, ma era il solo che la comunità più in vista potesse offrire. Quando fu il momento di rimodernare la casa, la famiglia Camodeca fu costretta a trasferirsi in un’altra abitazione durante il periodo dei lavori. Dal momento che la madre era paralizzata, a causa di un ictus cerebrale, il trasporto fu problematico così come la permanenza nella nuova casa, data anche la mancanza di comodità. Per “accomodare” la casa e fare il calcestruzzo furono chiamati specialisti del cemento che venivano da Milano, che usavano sabbia del mare portata a dorso di mulo e avevano cura di fare gli impasti nelle ore meno calde della giornata. Donna Giuseppina ricorda che vi era un vicino di casa molto vecchio, di nome Giovanni, che riceveva un vitalizio da suo padre in cambio della casa alla sua morte. Accadeva che con le amiche giocava vicino alla sua casa e lo prendeva in giro, per cui lui continuava a dire che lei veniva a rendere la sua vita difficile e accelerava la sua morte per entrare così più in fretta in possesso dell’abitazione. Pensiero di vecchio: « Per altri fini viene qui ››, continuava a ripetere Giovanni. Ricorda che quando la sorella Carolina andò in sposa al notaio Lonigro di Terranova 10/10/1910, il corteo nuziale, ora a bordo di macchine, allora a bordo di cavalcature, si snodava lungo la strada per andare a Terranova; bisognava attraversare il bosco di Castroregio, San Lorenzo Bellizio, Alessandria del Carretto e poi attraverso la porta del Pollino scendere a Terranova. Era un corteo di oltre 100/150 tra cavalli e muli tirati ognuno da mulattiere, dal momento che con questo mezzo bisognava trasportare anche la dote (bauli pieni di lenzuola, coperte e cose del genere). Giuseppina era piccola (aveva 8 anni) e per paura di perderla nella folla fu posta in testa alla cavalcata e così apriva il corteo. All’entrata del paese di Terranova le persone che erano venute a ricevere la sposa dicevano “ Don Salvatore ha scelto per moglie una bambina “. Anche in questa occasione i terranovesi mostrarono la loro poca perspicacia. Appena adolescente , da sola, dopo la perdita dei genitori e dei fratelli partiti per la guerra, Giuseppina ha dovuto mandare avanti il ménage famigliare, molto gravoso per le numerose incombenze che le proprietà della casa e della famiglia le imponevano. Le due sorelle erano andate spose e quindi vivevano lontano.
Tra i ricordi di Donna Giuseppina spicca quello del suo lavoro da adolescente, in quanto, appena sedicenne, dovette mandare avanti la casa, essendo morti i genitori nel 1915. Monsignore Camodeca aveva comprato nel 1912 dai Principi Pignatelli un oliveto, « Frangili », con oltre 1000 piante di olive, con una masseria a due piani posta al lato sinistro del fiume Ferro, oltre abitazioni per i coloni ed un trappeto per la molitura delle olive. Per rendere efficiente il trappeto fece montare una turbina a vapore di locomotiva che permetteva di spremere l’olio dai fiscoli.
Ai primi sentori della guerra furono fatte « le carte ›› per evitare il militare a uno dei fratelli, ma non fu possibile, per cui sia Salvatore, dottore in legge, che Francesco(chiamato Ciccio), medico, dovettero partire per la guerra. Nel 1918 si ebbe una « carica di olive ›› e la giovane,da sola, dovette amministrare la proprietà (aveva solo 16 anni d’età). Bisognava trovare personale per la raccolta e la molitura delle olive. Fortunatamente la manodopera non mancava perché allora, essendo tempi duri, la povertà regnava sovrana e ognuno si adattava a qualsiasi tipo di lavoro. Il salario mensile era di 1/2 tomolo di grano, 1 stoppello di legumi, 1 litro di olio e 4 lire di soldi. Alla fine della raccolta veniva anche dato un pagamento suppletivo in natura (olio) ed era una manna dal cielo. Solo verso il novembre del 1918 suo fratello Ciccio, medico, ebbe il permesso di venire dal fronte e si fermò un po’a casa ad aiutarla. La molitura delle olive avveniva in campagna dove c’era un trappeto, che veniva condotto durante la stagione olearia da operai stagionali leccesi, che durante la stagione della raccolta delle olive passavano in squadre per la Puglia, la Basilicata e la Calabria. Venivano pagati con 10 lire al mese oltre al vitto e l’alloggio. Erano per lo più muratori, che, durante il periodo di magra per il loro mestiere, si adattavano a fare i « trappitari ›› per mandare avanti la famiglia Per andare a Frangili da Castroregio bisognava attraversare il fiume Ferro a dorso di mulo. Infatti, tutti i trasporti di persone, specie attraverso i corsi di acqua, avvenivano a dorso di mulo (sono questi ibridi, dotati di particolare forza e statura elevata, che erano abituati ad attraversare corsi di acqua in piena). Sull’imbasto sedeva la persona da trasportare e sulla groppa sedeva il conducente, che durante il percorso incitava con la cavezza il mulo e lo guidava anche con grida, specie nei passaggi difficili. Nei periodi di piena l’acqua lambiva le scarpe delle persone a dorso del mulo e quando il fiume diventava impetuoso a causa della lunghe piogge, in quanto aveva un lungo ed esteso bacino di impluvio, era impossibile attraversarlo. Le persone che si trovavano dall’altra parte del fiume dovevano scendere verso Roseto Capo Spulico, attraversare il ponte ferroviario e attendere che l’acqua rientrasse nell’alveo, solo così il fiume si poteva di nuovo guadare. Si restava anche senza generi di prima necessità, per cui durante la raccolta delle olive, per sfamare decine di persone, quando veniva a mancare la farina si bolliva il grano e si mangiava il grano condito con molto olio, genere che non mancava mai. Quando poi funzionava il mulino si macinava il grano e con la farina si riuscivano a sfamare squadre di donne addette alla raccolta di olive. Oltre che in campagna vi era un trappeto anche in paese, dove venivano molite le olive. Come forza motrice del molino così come del trappeto veniva usata la vaporiera di una vecchia locomotiva di treno, che sfruttava la forza del vapore prodotta dall’energia termica per far girare le macine che erano di pietra e che sfregandosi rendevano in polvere il grano.
Zio Monsignore morì il 18 settembre del 1918, pare per una indigestione, dal momento che aveva la sera prima della morte mangiato formaggio « di quaglio ›› in grande quantità. Questo formaggio, per la eccessiva quantità di quaglio, provoca un processo di trasformazione dei componenti del formaggio stesso (proteolisi), che determina una particolare proliferazione dei vermi, i quali, a furia di scavare la forma, la bucano e la rendono simile al gorgonzola. Allora non si usava tenere sotto controllo la pressione arteriosa per cui si pensa che zio Monsignore sia morto per un ictus cerebrale provocato da un eccesso di istamina presente nel formaggio. Alla sua morte era a casa la nipote Carolina, la sorella maggiore di donna Giuseppina che era venuta a passare qualche tempo a casa dei genitori. Carolina era con Crispino appena nato, che era un macrosoma (un bambino grande), ed Antonio con la cameriera ‘ndoniella . Antonio era capriccioso e quando si intestardiva era capace di piangere per ore. La madre, che era molto buona, ma di carattere forte, non voleva cedere. Un giorno Antonio prese a piangere perché voleva bere e questa operazione doveva essere compiuta dalla mamma. Dal momento che ella era impegnata ad allattare il bambino piccolo, non poteva accontentarlo; egli pianse per ore prima di riuscire ad ottenere che la madre almeno toccasse la lancella prima che ‘ndoniella lo facesse bere. Capricci di bambini! La lancella era un recipiente di creta a forma di anfora svasata e della capacità di circa un litro, che si poneva alla finestra per tenere l’acqua fresca. Il principio per cui l’acqua doveva essere sempre fresca era dovuto al fatto che l’argilla, essendo porosa, faceva fuoriuscire dell’acqua che evaporando abbassava la temperatura. La spagnola, malattia che imperversò in tutto il mondo tra il 1918 e il 1919, non arrivò a Castroregio, forse perché per mancanza di strade rotabili gli scambi con persone infette furono molto limitati. L’unico mezzo di trasporto era il quadrupede, per cui il batterio, o virus, non si adattava al trasporto di questo mezzo. Dal momento però che Castroregio era un paese, anche se piccolo, autonomo con autorità costituita, le autorità sanitarie centrali per prevenire l’epidemia inviarono tutte quelle provvidenze ritenute necessarie per combattere il male (specie sostanze disinfettanti). Non avendo scoperto l’esatta causa del male (anche ora nonostante gli sforzi compiuti da scienziati e da storici non si è riuscita ad individuare la causa della malattia pur ipotizzando la sinergia di più batteri) si disinfettavano i luoghi aperti al pubblico con calce viva, che era allora il toccasana per la prevenzione delle malattie infettive, ed altri disinfettanti dell’epoca. Accadde che la popolazione di questo sperduto paesino vide arrivare, inviati dalle autorità centrali, bidoni di disinfettanti che dovevano essere impiegati per la disinfezione del paese, ma, forse anche sobillata da qualche intellettuale «illuminato del posto ››, si ribellò e si oppose a queste pratiche di disinfezione ritenute non necessarie e perfino dannose. Si riunirono tutti sulla piazza principale, si impadronirono del disinfettante scavarono una fossa e seppellirono i fusti in profondità. Infatti, l’arrivo di questo materiale era stato interpretato come un mezzo per diffondere il male alla stessa stregua degli untori della peste di Milano. Fu improvvisata una ballata che diceva: «faccia di sedere hai portato la morte senza occasione ››. Castroregio forse fu uno dei pochi paesi dell’Italia meridionale dove la spagnola non arrivò proprio. Il miglior nemico per combattere tale malattia era considerato il fumo di sigarette per giovani e anziani e anche una zia di donna Giuseppina, Isabella (detta Bella), settantenne, fumava; a dare queste indicazioni era stato un medico di Oriolo, paese vicino.
Una polmonite portò a morte nel 1926 il fratello Francesco (il cui nome venne trasmesso al coautore di questo libro su richiesta della madre del coautore donna Giuseppina) che si era laureato nel 1923 in medicina; Salvatore, l’altro fratello di donna Giuseppina, alla fine della guerra andò al Ministero degli Affari Esteri come funzionario di collegamento tra il Governo italiano e il Governo albanese. Era stato creato un apposito ufficio al Ministero degli Affari Esteri, che teneva relazioni con lo stato albanese retto da re Zogu.
La vitalità di donna Giuseppina, morta a 105 anni, era tale che, quando all’età di 84 anni, espresse il desiderio di conoscere la terra da cui erano partiti i suoi antenati, con i figli Antonio e Giuseppe e le rispettive mogli si decise di fare un viaggio in Albania.


 

SECONDA PARTE  - SEGUE >>       

 

 

 

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