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PER L’ARCHIMANDRITA PIETRO CAMODECA de’CORONEJ
AL CENTENARIO DELLA SUA MORTE
( Lo spirito contraddittorio anima la nostra razza )

FRANCESCO MOLFESE - GIUSEPPE MOLFESE - ANTONIO MOLFESE
 

PARTE TERZA

PRIMI ALBANESI IN CALABRIA

Con la liberazione della penisola di Morea - cosi chiamata perché era appartenuta a Roma e perché somiglia ad una foglia dell’albero di more, e di Corone, città dominio di Genova e Venezia che controllava l’impero ottomano, intorno al 1535, grazie al trattato di pace di Costantinopoli, ad altri accordi diplomatici tra Carlo V e il Sultano Solimene II e all’intervento di Andrea Doria, ammiraglio genovese, alle nobili famiglie cattoliche greche albanesi della città fu consentito l’espatrio nel Regno di Napoli. Carlo V, stupito del loro valore e di come era stata difesa la città di Corone,

inviò duecento navi mercantili per trarre in salvo le famiglie nobili tra cui i Camidi, da cui Camodeca, menzionati come “ciertos caballeros que an venido de Coron”, i quali, temevano la vendetta dei musulmani. Volendo omaggiare i profughi insignì loro del Regio Cavalierato (REGIO CAVALIERATO CORONEO DIPLOMA IMPERIALE DATO IN MOREA il 22/11/1533). “… potevano cavalcare con briglie e speroni, non pagavano tasse e dazi, si potevano stabilire a loro scelta in uno dei villaggi di Calabria Puglia Sicilia e Basilicata, potevano portare armi per il regno ed era stato loro assegnato un appannaggio di 70 ducati ”. Il viaggio dalla Morea, distante dal Regno di Napoli non oltre 900 miglia marine, alle coste calabre e lucane fu compiuto a bordo di caravelle o galee, che percorrevano con venti buoni in media 100 miglia al giorno, per cui il viaggio durò 9/10 giorni più le fermate. Nel caso il viaggio terminasse nel porto di Napoli, il tempo di percorrenza si raddoppiava. I primi sbarchi avvennero a Napoli ed ancora oggi vi sono delle zone dei vari quartieri di Napoli chiamate quartieri dei greci o decumani. Il viaggio in nave necessitava di approvvigionamento idrico, per cui, dove vi erano le condizioni permettenti, le barche con carene piuttosto piatte potevano avvicinarsi alla riva ai luoghi dove fare l’acquata (cosi era chiamato il rifornimento idrico). I viveri non deperibili, stipati nelle navi, permettevano ai fuggitivi di alimentarsi a sufficienza data anche la brevità del tragitto. Oltre che qualche suppellettile di pregio, oggetti personali (abiti, gioielli ed altro), furono portati sulla nave anche cavalli, che sarebbero serviti per la sistemazione dei primi campi provvisori. Scrive Bisignano: ” Vi erano state in precedenza altre emigrazioni di greci albanesi, ma quella del 1535 fu senza dubbio la più consistente emigrazione di un popolo, che aveva resistito per molti decenni con tanto eroismo all’invasione dei Turchi, e che era costretto a lasciare con tanta amarezza, per sempre, la terra natia, privandosi delle cose più necessarie, approdando in lidi di popoli stranieri, con idioma, usi, costumi differenti dai propri, sorretto, soltanto dalla fede in Dio e dalla speranza di trovare nelle nuove terre condizione di vita migliore . A tale proposito il Papa Paolo II in una lettera indirizzata a Filippo Duca di Borgogna – descriveva, con drammatici accenti, la miserevole condizione dei profughi sbarcati in Italia. Molti di questi albanesi si fermarono a Napoli, altri nell’isola di Lipari, mentre, in gran parte, preferirono stabilirsi nei vari paesi dell’Italia meridionale ed insulare, già popolati dai loro connazionali nelle precedenti migrazioni. Un altro gruppo di profughi, fondarono o ripopolarono in Lucania, in provincia di Potenza, i paesi: Barile, Brindisi di Montagna Maschito, Ginestra, S. Costantino Albanese, S. Paolo Albanese, Giorgio Lucano o Mendullo; in provincia di Cosenza: Castroregio e Farneta, in Campania, provincia di Avellino, Greci. Questi godettero, a differenza degli altri profughi, della protezione del Sovrano di Spagna, di privilegi speciali, come quello di non pagare dazi fiscali, di potersi stabilire nei villaggi albanesi delle Puglie, della Calabria e della Sicilia, come si evince da una lettera — dispaccio dell’Imperatore Carlo V, inviata da Genova l’8 aprile del 1533 al Viceré di Napoli, con la quale lo stesso disponeva l’assegnazione di villaggi e terre “in Puglia o in Calabria o altra parte di cotesto reame onde a noi sembra possono vivere e mantenersi, con un appannaggio di settanta ducati di moneta dalla nostra tesoreria all’anno”. “L’inserimento sociale dei profughi consentì anche il ripopolamento di terre abbandonate e, quindi, una nuova espansione demografica, con la formazione di ambienti culturali omogenei, ma incontrò, per lo più, la diffidenza e l’incomprensione degli abitanti del luogo. I baroni feudali ed ecclesiastici ne sfruttarono la miseria, inserendoli nei lavori più umili, perché ritenuti “barbari e rozzi”, a causa dei loro “riti magici”, dell’appartenenza alla chiesa ortodossa d’Albania, separata da Roma, dopo lo scisma d’oriente del 1054. Disperazione, miseria, ribellione e servitù accompagnarono le famiglie di quanti coraggiosamente scelsero la terra straniera, piuttosto che la sottomissione ai Turchi. Avevano lasciato ogni cosa nella terra di origine, compreso il loro cuore, ma portarono con loro un ricco patrimonio spirituale e culturale” Dunque, un popolo, quello di cui parla lo scrittore Bisignano, che, nonostante fosse fortemente avversato in terra straniera e sopraffatto dalle comunità locali, in condizioni di estremo bisogno e di forte sudditanza nei confronti dei feudatari, non si arrese, non chinò il capo, non dimenticò la storia di popolo martoriato, ma lottò, tenacemente, per sopravvivere, ma anche per mantenere viva la propria identità, la fede e le tradizioni dei Padri. Fu così che sorsero intorno alla metà del 1500 nella parte meridionale del regno di Napoli altre colonie albanesi. Tra questi primi profughi vi furono gli antenati di Pietro Camodeca, che si insediarono alle falde del monte Pollino e che, dopo un villaggio di capanne provvisorie tra i boschi, fondarono il paese di Castroregio (il nome deriva da quello di un castello regio che sorgeva sulla sommità del monte). Circa la nascita e l’insediamento di Castroregio sono state avanzate varie versioni, rimandiamo ai vari autori che hanno illustrato la storia. Sui contrafforti del monte Pollino in Calabria, come “scrive Laviola”, sorse il primo casale dove presero momentanea dimora i profughi venuti dalla Morea sul piano tra le querce di Cerviola, fatto di capanne a paglia, chiamato Xorza, che significa piccola città. A Castroregio, nel 1534, giunsero, provenienti da Corone, le famiglie Di Lazzaro, Ierovante, Camodeca, Pappadà ed altre, che si unirono alla “popolazione già esistente” ……. Alcune famiglie, tra cui i Camodeca, come scrive sempre Laviola, diedero una sistemazione urbanistica al villaggio, che secondo alcune fonti, era già stato fondato. Con la costruzione della chiesa il nuovo insediamento, chiamato poi Castroregio, fu trasferito sulla sommità di una altura, e con la costruzione delle prime case acquistò l’aspetto di un paese. Come nido d’aquila si specchiava sull’alto Jonio, sul quale avevano veleggiato le navi dei profughi provenienti dalla opposta sponda dove sorgeva la patria di origine. Il paese sorge tra il fiume Ferro ed il fiume Straface, su una sommità a quota 819 metri. Il panorama è incantevole, perché quivi è possibile osservare il golfo di Taranto in tutta la sua magnificenza. Da ricerche effettuate anche dal Prof. Laviola, è stato confermato che la famiglia Camodeca è stata una famiglia di spicco nella piccola comunità fin dal suo nascere; vi mantenne una superiorità incontrastata e ne condizionò la vita religiosa, politica ed amministrativa, un feudalesimo non legalizzato, ma di fatto esistente. Ebbero in mano le redini che condizionarono lo sviluppo del paese e la loro casa, dominante e attigua alla chiesa, fu il centro del paese, dove risiedevano tutti i membri della famiglia. La famiglia Camodeca per il ruolo predominante che ha esercitato nel piccolo paese ha conservato alcuni registri di battesimo risalenti alla fine del 1500, ridotti, in verità, un po’ male, forse a causa di un principio d’incendio, ma salvati e sottratti definitivamente all’inclemenza del tempo ed all’incuria degli uomini. Salvatore Camodeca, unico erede maschio vivente della famiglia, senza prole, ha curato nei limiti del possibile la conservazione della casa di Castroregio disabitata ed ha limitato lo scempio che ladri e vandali hanno compiuto nella casa di famiglia. Il fratello Francesco, altro erede, appena dopo la laurea in medicina all’età di 25 anni morì di polmonite. La nobile famiglia esercitò una figura di spicco nel paese senza interruzioni fino agli albori del nuovo Regno d’Italia, perché fu proprio un Camodeca il primo sindaco di Castroregio, dopo la caduta dei Borboni.
Infatti, il decreto di nomina é del 22 settembre 1861, si legge: << Una tale scelta non è come altra volta l’effetto della isolata fiducia del Governo, ma sibbene di quella fiducia che, partendo dalla pubblica opinione, e per mezzo di voti, determina il governo attuale a valutare i pregi dello Individuo, e chiamarlo alla carica, facendosi sacrifici degli interessi dj Famiglia, per applicarsi temporaneamente al vantaggio pubblico e corrispondere all’aspettazione dei cittadini, dando opera ad energica, patriottica ed onesta amministrazione ». Sacrificare gli interessi di famiglia per il vantaggio pubblico era, come é scritto a chiare lettere, il primo compito dell’uomo politico di allora Salvatore Camodeca, che aveva sofferto il carcere, perché in una perquisizione, eseguita nella sua casa, era stata trovata una copia dello Statuto della Giovine Italia. Questa era la stirpe, questo il paese e questa la famiglia di Pietro Camodeca de’Coronei.




 

B) INFANZIA, PRIMI STUDI E ORDINAZIONE SACERDOTALE

Pietro Camodeca nasce l’11 Ottobre 1847 da Francesco Camodeca e Rosina Basile, in un periodo turbolento in quanto si stava realizzando l’unità d’Italia. Frequentò le scuole elementari nel suo paese ed in seguito continuò gli studi nel Collegio italo-greco di San Adriano in San Demetrio Corone, nel quale dimorerà per sei anni consecutivi in qualità di alunno interno. Il Collegio di S. Demetrio giocò un ruolo di primaria importanza nella vita sociale e politica delle colonie albanesi di Calabria e di Basilicata. Dopo il 1860, proprio nel periodo in cui Pietro Camodeca fu alunno del Collegio, erano tornati i vecchi professori con a capo il Marchianò, colui il quale nel 1848, chiuso il Collegio, era corso con tutti gli alunni a combattere a Campotenese. Nel 1860 Garibaldi attraversando la Calabria sale verso Napoli e le sue schiere si ingrossano anche con il contributo degli italo albanesi, i quali ebbero per lui una stima e una adorazione sincera e profonda confinante con l’idolatria, perché riconoscevano in lui le virtù che erano state possedute in sommo grado dal loro eroe Scanderbeg. Nel Collegio Italo greco di San Demetrio egli apprese a meraviglia il latino ed il greco. Gli alunni gareggiavano a scuola, due volte la settimana, oltre che con le lezioni giornaliere, a ben comporre in prosa e versi ed i più distinti erano fatto segno all’attenzione di tutto il convitto, mediante pubbliche lodi e con particolare trattamento a pranzo e a cena. Pietro Camodeca rivelò subito il suo ingegno vivace e si affermò come uno degli alunni più preparati. Sveglio ed attivo, studiò con serietà e gettò le basi solide di quella preparazione umanistica che lo accompagnò per tutta la vita, ponendolo sempre su un piano di prestigio. Le sue simpatie erano per la lingua greca, che gli divenne molto familiare. Nell’anno scolastico 1865-66 riportò il premio della medaglia d’onore per essersi distinto negli esami finali. Dopo sei anni di permanenza, Pietro Camodeca, deciso a seguire gli studi teologici e intraprendere la carriera ecclesiastica, dovette cambiare sede, perché, dal1864, la scuola di San Demetrio era stata costituita in Ginnasio-Liceo, assoggettata conseguentemente alle leggi dello Stato ed erano stati soppressi gli studi del ramo ecclesiastico. Egli lasciò, pertanto, il collegio, e la sua <<montagnola folta di querciuoli che con la sottostante luminosa vallata aveva acceso il suo estro poetico>>, prese congedo dagli amici numerosi e dalle famiglie, che tante volte lo avevano avuto ospite, e si trasferì nel Seminario di Tursi, sede della diocesi a cui apparteneva la natia Castroregio. Tursi era un piccolo centro nel cuore della Basilicata e dal 1500 sede dell’antica diocesi di Anglona, di cui rimane in piedi solo la cattedrale del secolo XI, alta su un colle sovrastante la pianura di Policoro, l’antica Eraclea della Magna Grecia.

.

A Tursi fu costretto a trasferirsi per intraprendere gli studi di teologia; comincia una nuova vita per lui: diversi gli studi, diversi i professori, diverso il rito nelle funzioni della chiesa, diverso perfino il linguaggio dei suoi colleghi. Appena ventenne, il Camodeca era già padrone della lingua greca e di quella latina; non ci meraviglia, il fatto che, essendo ancora seminarista, il vescovo Acciardi, conosciutolo ed apprezzatolo, gli affidò l’incarico dell’insegnamento del greco, che accettò con entusiasmo, iniziando cosi una delle attività giovanili a lui più care: l’insegnamento. I suoi discepoli, che poi erano quasi suoi coetanei, lo stimavano perché riconoscevano in lui la superiorità che gli derivava dalla preparazione e dalla formazione. Nell’insegnamento egli portò il fervore del neofita, l’erudizione dello studioso e la dirittura del sacerdote, fermo nelle sue credenze, egli, che era diventato prete non per calcolo. Nell’anno scolastico 1868-69 venne nominato insegnante di latino e greco nell’Istituto Petta di Oriolo Calabro, un paese che rappresentava, in quell’epoca, un centro di studi in cui confluivano i giovinetti delle famiglie abbienti della zona.

Nel 1870-71 tornò all’insegnamento nel Seminario di Tursi e, nello stesso tempo, portò a compimento i suoi studi teologici. Non possedendo, però, l’età prescritta per essere ordinato sacerdote chiese la dispensa al Sommo Pontefice, accordata il 7 marzo del 1871, ed il Camodeca venne ordinato Sacerdote dal Vescovo Acciardi il 25 marzo dello stesso anno, Domenica delle Palme. In precedenza, dallo stesso Pontefice Pio IX — referente il Segretario della S. Congregazione di Propaganda Fide per gli Affari del Rito Orientale — era stata data al Vescovo di Anglona e Tursi<< la facoltà di conferire al chierico Pietro Camodeca gli ordini minori e maggiori nel rito latino continuando, pero, lo stesso a rimanere nel proprio rito greco » . Nell’anno scolastico 1873-74 viene chiamato ad insegnare storia e geografia nell’Istituto Cirino di Napoli, per passare, l’anno successivo, a Viggiano, professore di lingua latina e greca nel Collegio Silvio Pellico. Appena giovinetto Camodeca con una precoce vena poetica a ricordo dell’avvenimento, l’allontanamento da Corone, scrisse una mirabile rapsodia pervasa da un’amarezza cocente. C’era in essa lo strazio della partenza coatta e la nostalgia dei boschi, delle terre e delle case di Corone. Un canto di sofferta tristezza in cui si intrecciavano sentimenti di odio e di disprezzo verso i Turchi.

 

“Le nostre possessioni ed i nostri beni
noi li abbiamo lasciati in Corone;
ma abbiamo Cristo con noi!
O bella Morea!
Accorati e con gli occhi velati dal pianto
noi ti compiangiamo, o Albania! .......... …….
abbiamo Cristo con noi!
[…]
….. abbiamo la Santa Vergine Maria con noi!
O bella nostra Morea
…. ma abbiamo il Papa con noi! ,
O Morea;
O Albania! Addio….”


Giuseppe Garibaldi

 

C) INSEGNAMENTO E PRIME PUBBLICAZIONI

Nel Convitto Municipale di Viggiano, dove era stato nominato vicerettore e direttore spirituale, insegnò latino e greco. Nel grosso centro lucano, dove fioriva un circolo di tendenze spiccatamente anticlericali, Camodeca condusse numerose schermaglie e diatribe e rivelò la sua indole di vivace polemista. Laviola, nel suo volume, ha avuto la possibilità e l’occasione di riportare suoi scritti ed appunti non sempre pubblicati; il suo lavoro è stato quello di portare alla luce almeno le pagine inedite più significative e tale impostazione giustifica, pertanto, le frequenti e numerose citazioni.

La pubblicazione del sonetto

<< Le tasse e le consorterie in Italia »,
che riportiamo, causò la sua prima polemica.
<< Oh cara Italia, per giardini e ville
e per bellezze d’arte impareggiata:
vedi che in faccia al mondo t’han macchiata
turpi consorterie e camerille.
<< Di che ti vanti omai se cento e mille
ingrassano il tuo seno ed angariata
é la plebe che langue disprezzata,
_ e crescon di discordie le faville?
<< Mira una volta e piangi... in la sentina
é prostrata e languente e negli affanni
la gente robustissima latina!
<< Un giorno, sette... ed or molti tiranni
ti sbranano dai monti alla marina:
come ti sei ridotta in quindici anni!

Un anonimo sonetto di risposta, sostenne di aver parlato male di Garibaldi, del quale si esaltava il nuovo corso impresso all’Italia, ignorando, l’anonimo, che il Camodeca non era un prete borbonico ed aveva, anzi, al suo attivo una tradizione familiare di indiscusso patriottismo. Pietro Camodeca ribatté e giustificò il contenuto del suo sonetto, non risparmiando le sue frecciate all’anonimo. Così rispose: << Tu non hai capito neanche per ombra il mio sonetto. Io non parlavo di tasse e balzelli [….] Ma degli abusi della camorra[…] - le tasse si devono pagare, esse sono la vita- ma di tasse giuste; di camorra nella riscossione, mai! Senza questa selva di impiegati, senza questa setta invereconda che ha portato la miseria nelle famiglie e ritardato per scoraggiamento le arti e le industrie in Italia, e con una (non parecchie centinaia) buona, chiara e positiva legge di riscossione>>. << Smettete l’abito altiero dello aristocratico, scendete giù nel basso ceto, procurate di convivere ed immedesimarvi un tantino con questo……e vedrete come è amara e stentata la vita …..e vedrete se la gente latina…..non è prostata nella sentina >>> (sono parole che si adattano alla situazione attuale dell’Italia, n.d.a.) La polemica non si esaurì e nuova esca al fuoco fu gettata dal canonico Francesco Paolo Caputi, su un periodico di Marsico Nuovo, << Il maestro elementare» n. 14 e 15 - 1875 >>, che sebbene l’abbiamo cercato nei vari archivi non siamo stati in grado di reperirlo. Il Camodeca era giovane, esuberante e non a corto di argomenti; perciò affrontò il nuovo avversario con veemenza, determinazione ed argomenti appropriati. Gli scritti originali, riportati da Laviola, nella sua pubblicazione e che sono andati definitivamente perduti, dimostrano, anche, che il carattere di Don Pietro non era dei più dolci e che la sua penna non venne intinta nel miele. Egli si faceva trascinare dall’impeto, era un combattente di razza, difficilmente riusciva a frenare le irruenze e a dominare le passioni. Forse ciò, in avvenire, creò situazioni tese e rappresentò uno dei lati negativi del suo ministero sacerdotale, ostacolando ascese che per tanti altri requisiti, egli avrebbe meritato. Nel 1876 vide la luce in Napoli un volumetto dal titolo “Dissertazione sulla pronunzia delle lettere greche “; la prima pubblicazione di un certo impegno del “Mons. Pietro Camodeca sacerdote di rito greco” come egli volle qualificarsi. L’operetta sarebbe dovuta servire di prefazione ad un manuale di grammatica greca, almeno secondo quanto asseriva l’autore nell’avvertimento iniziale e nella prima pagina. <<Incoraggiato da parecchi buoni amici, e da non pochi direttori di istituto, a raccogliere qua e là tutto quello che finora i grammatici scrissero di buono in fatto di lingua greca, e quindi a fare un acconcio e succinto manuale, utilissimo per le scuole secondarie, non potemmo resistere alle loro amorevoli insistenze e ci accingemmo all’opera comunque malagevole e scabra ». << Ci parve pero troppo sconveniente incominciare così di botto la grammatica, senza esordire un pochino e chiarire con una breve ed accurata critica, un punto di storia linguistica: la pronunzia dell’alfabeto greco ».
L’autore si proponeva di dimostrare che “le lettere dell’alfabeto greco si pronunziarono dai piu vetusti scrittori di quella nazione, quali si pronunziano adesso in tutta la Grecia e nelle sue colonie”. Scrive Laviola: ”Nell’operetta egli accenna ad un suo scritto inedito dal titolo << Paleologia », che noi non abbiamo trovato tra le sue carte”.
Sappiamo, però, che in esso, egli cercò di dimostrare che l’idioma albanese é l’elemento pelasgo restato in Grecia dopo l’ultima emigrazione di questa gente, e che Erodoto nel libro I, 57, Tucidide nel libro IV, 109 e Platone nel Cratilo, chiamano lingua pelasga” . I tranquilli soggiorni nei convitti, dove prestò la sua opera, lo indussero a intensi studi filologici, un siffatto genere di studi che, tra l’altro, rappresentava anche la ricerca di un sussidio didattico. Diligenza encomiabile, questa che era prerogativa di coloro i quali nell’insegnamento portavano salda preparazione e calda passione, in una parola di coloro che profondamente e sinceramente sentivano la vocazione e il tormento del magistero. Numerosi sono gli appunti che egli scrisse sugli argomenti che sarebbero stati trattati nelle sue lezioni: appunti sul 1° libro dell’Iliade, su Socrate e ancora osservazioni, etimologie e differenze notate studiando diversi autori greci . La lingua greca, come si può facilmente notare, rappresentò un polo di attrazione per il Camodeca; egli ne divenne padrone e riuscì a coglierne tutte le sfumature. Mons. Pietro fu un umanista per il quale la Grecia e Roma erano le patrie ideali, in cui l’anima sua trovava appagamento e quiete e intensamente ne godeva. Tra gli scrittori latini le sue preferenze andarono al poeta Orazio. Molte lodi vennero all’autore additato come un benemerito della diffusione della cultura greca. Particolare interesse e valore rivestì la lettera che Gerolamo De Rada gli scrisse a proposito di tale pubblicazione; essa ci dimostrò, tra l’altro, che le relazioni tra i due erano già in atto nel 1876. L’attività poetica rappresentò un aspetto della personalità di Pietro Camodeca, ingegno versatile e multiforme, il lato meno appariscente, quello che egli con una certa ritrosia non volle scoprire, preso com’era da studi severi e tutto assorbito dalla realizzazione di alcune iniziative che avrebbero avuto risonanza larghissima tra le popolazioni di origine albanese dell’Italia meridionale. Fu quella poetica un’attività preminentemente giovanile: versi di un collegiale, che rimasero inediti. Il manoscritto, che anche nel titolo << L’Olimpo>> di Pietro Camodeca denotò il giovanile entusiasmo e la mentalità scolastica dell’autore, recava la data del 1868. I versi furono scritti durante la sua permanenza nel Collegio di San Demetrio e nel Seminario di Tursi. I sonetti, che tali furono quasi tutti i componimenti, rappresentarono, più che altro, delle esercitazioni accademiche. La raccolta portava sul frontespizio due versi di un poeta locale, ricordato nella nostra letteratura per una sua “onda di meridionale e canora eloquenza”. Nicola Sole, che, nato nella vicina Senise nel 1821, aveva studiato nello stesso Seminario di Tursi ed era morto da pochi anni. «..... Non é misera valle la terra a lui ch’oltre la tomba ha fede ». I sonetti furono composti in particolari circostanze, scritti di getto nell’impeto improvviso di un sentimento o di un’impressione, come quello « A Serafina Bellusci per la morte del figlio sacerdote »: « Deh cessa, o Madre, alfin in tanto duolo di trarre i giorni avvolti in nero ammanto, non volermi turbare il bel consuolo che godo lieto in Ciel tra il riso e il canto.» Troviamo tra le carte, scrive sempre LAVIOLA, qualche sonetto che sembra indulgere ad una certa trivialità di linguaggio, testimonianza di un ambiente infuocato di invidie e di gelosie, che, nel piccolo centro montano, si risolvevano, o meglio, degeneravano in una lotta sorda e senza esclusione di colpi Riportiamo la prima strofa di un suo sonetto.

«Tu un prete sei della più bassa lega,
ch’ogni giorno Gesù meni al bargello:
tu della Chiesa hai fatto una bottega,
e di tua casa un lurido bordello! »

Camodeca non permetteva che gli si pestassero i piedi ed aveva sempre pronto il suo scudiscio, quando le calunnie assumevano la forma del cannibalismo morale. Assente fu la poesia di argomento amoroso. Il Camodeca, al quale, d’altra parte, come sacerdote di rito greco, era concessa la facoltà di contrarre matrimonio, non restò certamente insensibile al fascino delle donne della sua terra, ma nessuna traccia é rimasta tra i suoi scritti.Tra le memorie di Donna Giuseppina, sua diretta nipote, aleggia il ricordo che tante lotte che zio monsignore dovette sostenere erano rivolte alle calunnie che venivano a lui rivolte perché era molto sensibile all’avvenenza femminile. Il suo aspetto mastodontico, i lineamenti fini, la barba lunga procuravano tanti desideri a molte donne del tempo. Crediamo opportuno, a questo punto, menzionare un’altra attività, connessa con quella poetica ed alla quale il Camodeca si dedicò con passione e con lusinghieri risultati: quella del traduttore. Tra le leggende albanesi la più suggestiva è, senz’altro, quella di Costantino e Iurindina; portò a termine solo la traduzione non letterale della leggenda ed egli stesso sul frontespizio scrisse « La leggenda di Iurindina» in forma lirica parafrasata.

 

D) PRIMI INCARICHI RELIGIOSI E PROGETTO DELL’EPARCHIA

Dopo il suo insegnamento in alcuni convitti e collegi sparsi nelle regioni limitrofe (della Campania, della Basilicata e della Calabria) si aprì per Camodeca un altro mondo, nel quale le polemiche non erano solo cartacee ( come quelle con il canonico Caputi e i notabili di Viggiano), ma assumevano toni di violenza e sconfinavano nella diffamazione. Nei piccoli centri la lotta delle idee era un pretesto, molte volte, per celare propositi di predominio nell’ambiente locale. Nel 1879 Don Pietro, trentenne, esuberante, in possesso di una salda cultura umanistica, ritorna al suo paese Castroregio, dove nuove esperienze lo attendono, quando viene nominato parroco di Santa Maria ad Nives . I reduci dalle guerre ed i protagonisti dei vari moti erano pervasi da spirito anticlericale e il loro atteggiamento nei confronti del Pontefice, del Clero e della Chiesa era tenacemente ostile ed il Papa era ritenuto nemico dell’Unità d’Italia. Nei piccoli centri bersaglio era il prete e la lotta si accendeva e si acuiva in rapporto alla sua statura morale. Alcuni sacerdoti soccombevano, perché gli avversari avevano in mano il potere ed appartenevano, quasi sempre, a famiglie ricche ed influenti. In molti di questi sacerdoti si era creato un complesso di inferiorità e, qualche volta, si alleavano con i potenti, tra i quali si erano inseriti anche elementi dal passato non sempre chiaro. Il Camodeca, che possedeva purità di intenti e di ideali, non poteva tollerare certe situazioni e, levando alta la voce, sferzava i mercanti della patria e i piccoli milites gloriosi della politica locale. Don Pietro, per formazione spirituale, per carattere e per censo, non si piegava e portava nella lotta coraggio e fierezza. Anche contro di lui fu ingaggiata una lotta sorda e spietata, sollevata contro la sua persona da uomini che, inizialmente, forse in buona fede, si tramutarono, poi, in denigratori violenti e senza scrupoli. Lotte siffatte assumevano forme più bellicose proprio nei piccoli comuni, anzi erano in rapporto inverso al numero degli abitanti. Bisognava averle vissute alcune situazioni che si creavano nei centri con scarsa popolazione e isolati dal resto del mondo, per potersi fare un’idea di quanto deleterie fossero le passioni e con quanto odio e livore si guardavano persone che abitavano a pochi passi da sempre e che si incontravano tutti i giorni e tutte le ore, perché una sola era la strada del paese. Egli non era un uomo comune, non era il modesto prete del paese dagli umili natali; aveva tutta una formazione, nella quale la componente umanistica e teologica tenevano il primo posto. Accettò la lotta, non avendo potuta evitarla, e sopportò le amarezze che essa gli procurò; all’assalto rispose con armi pari, non ritenendosi inferiore a nessuno dei suoi avversari e convinto che la sua fosse la causa giusta. In qualche occasione trascese, dimenticando la sua posizione di sacerdote, forse per difendere quello che rappresentava il prestigio di una famiglia, che riconosceva in lui il proprio capo. La sua nomina a parroco col titolo di Arciprete della Chiesa di Santa Maria della Neve non fu, certamente, accolta con piacere dai nemici della sua famiglia. Questo prete ferrigno, ricco, dalle focosità e dalle impennate drastiche della gente della sua razza, faceva ombra: rappresentava un po’un ostacolo alle mire di molti. La nomina ad arciprete certamente dette un grande impulso alle opere parrocchiali e la giovane età del novello sacerdote riuscì a restituire lustro alle funzioni del tempio e assistenza spirituale ai fedeli. Le opere eseguite nel lungo periodo del suo mandato per rendere più accogliente e più bella la Chiesa furono tante. I rapporti degli italo-albanesi con il clero latino avevano raggiunto limiti non più superabili e la situazione di disagio in cui versavano le comunità albanesi di rito greco non sfuggì al Camodeca, il quale era stato costretto a farne quotidiana esperienza nell’assolvimento della sua attività di sacerdote e di parroco. La politica di favore, adottata in un primo momento nei riguardi dei profughi, aveva subito, con l’andar del tempo, un cambiamento in senso inverso, per diversi motivi: alcuni, di ordine pubblico, imputabili agli stessi albanesi, altri, di ordine religioso, imputabili, invece, alle autorità ecclesiastiche diocesane. Il progetto avanzato dal Camodeca, cioè di farsi propugnatore di una diocesi autonoma (eparchia), rappresentò un’esigenza sentita e reale. I rapporti degli italo-albanesi, dunque, con il clero latino si trascinavano, ormai da tempo, in un clima di diffidenza latente, ma continua; era stata, in ogni tempo, da parte degli ordinari diocesani un’azione di lenta erosione e di sottile distruzione del rito: né erano mancate, a seconda dei casi e delle circostanze, le lusinghe e le minacce. Molti nuclei albanesi non avevano saputo opporsi e avevano dovuto abbandonare il rito tradizionale per cambiarlo con quello latino, quello del proprio vescovo. Esempi di questi cambiamenti vi furono anche nelle decisioni di alcuni Sinodi. (Nel terzo Sinodo di Cassano, apertosi il 17 novembre 1591; lo stesso divieto viene ribadito dal Sinodo del 1623 e nel Sinodo dell’aprile del 1651.) Nessuna meraviglia, dunque, se alcuni scrittori parlano di un popolo albanese ribelle che non riusciva ad amalgamarsi con la popolazione indigena. La pressione fu tenace, continua e costante e voci di protesta si levarono e giunsero fino a Roma, tanto che il Pontefice Paolo III si rivolse ai quattro vescovi latini di Cosenza, Bisignano, Rossano e Anglona e Tursi, facendo loro presente che avrebbe provveduto a sanzioni severe se avessero continuato a dare molestia al clero albanese per la pratica delle loro speciali liturgie. Tale esigenza era maggiormente avvertita proprio nella seconda metà dell’ottocento e già sappiamo che lo stesso Camodeca aveva dovuto chiedere alla Sacra Congregazione il permesso di ricevere la ordinazione sacerdotale da un vescovo latino, Mons. Acciardi. Il disegno della creazione di una diocesi autonoma occupava la mente di Pietro Camodeca ed a lui andava il merito di averlo espresso e reso di pubblico dominio. Purtroppo i tempi non erano maturi ed egli chiuse gli occhi alla vigilia della realizzazione del progetto per il quale tante battaglie aveva combattuto. I vescovi ed i parroci latini, calpestando le Bolle papali, li tormentavano incessantemente per la loro religione greca.

« La Bolla di Leone X del 18 maggio 1521 così si esprimeva: « Tamen Ordinarii locorum latini, ubi in praesenti Graeci morantur, quotidie molestant, perturbant, et inquietant ». « Questo dualismo di greci e latini fu mal tollerato dai vescovi diocesani, i quali, approfittando dei tempi e delle circostanze, commisero non lievi usurpazioni ai nostri privilegi, alle nostre usanze ed ai nostri riti, fino a latinizzare la maggior parte dei nostri paesi ».

Tutto preso da questo grandioso disegno, Camodeca si rivolse, nel novembre del 1886, a tutti i confratelli di rito greco e li incitò a collaborare e sentire tutta l’importanza e la portata dell’avvenimento. Nel gennaio dell’anno successivo inviò una lettera circolare ai vescovi di Anglona e Tursi, di Cassano Ionio, di Rossano e delle diocesi riunite di San Marco e Bisignano. Le sue idee erano chiare: egli andava diritto allo scopo e sapeva che la meta doveva essere raggiunta; la sede del nuovo vescovo sarebbe stata Spezzano, che era stata costretta ad abbandonare il rito greco fin dal 1568 e che avrebbe potuto riprenderlo con il seducente ed ambizioso miraggio di essere scelta come capoluogo della nascente diocesi. Quale atteggiamento assunsero i vescovi interpellati? Il problema delicatissimo investiva interessi di vario genere e di varia natura. Era umano che nessuno volesse volontariamente favorire smembramenti e riduzioni nella propria giurisdizione e per uno spirito di conservazione ogni cedimento sarebbe stato ritenuto quasi un sintomo di debolezza. La parola chiarificatrice sarebbe dovuta venire anche dall’alto, da Roma, ma i vescovi interpellati non furono entusiasti della proposta del Camodeca. Il solo vescovo di Anglona e Tursi, mons. Rocco Leonasi, nella cui giurisdizione cadeva Castroregio e quindi il Camodeca (e ciò dimostra la stima in cui egli era tenuto), rispose con una lettera nella quale esplicitamente si diceva subordinato alle disposizioni della Santa Madre Chiesa. Mons. Antonio Pistocchi, vescovo di Cassano e nativo di Cerchiara, inviò in risposta una lettera garbata nella quale, tuttavia, non ravvisava un’esplicita accettazione della proposta. Gli altri vescovi non tolleravano la diminuzioni delle loro parrocchie. L’eco di tale progetto fu vasta ed è doveroso riportare da un raro volumetto, edito a Bologna il 1887, una pagina, che è dedicata al nostro Don Pietro e, nello stesso tempo, è una conferma dell’interesse che egli aveva saputo polarizzare attorno al suo disegno ed alla sua persona. In occasione del Giubileo sacerdotale del Sommo Pontefice Leone XIII, Pietro Camodeca ebbe l’onore di umiliare a Sua Santità un indirizzo, unitamente a parecchie migliaia di firme di italo-albanesi, per felicitarsi con lui del lieto avvenimento e per reclamare la autonomia ecclesiastica con la creazione di una diocesi con a capo un vescovo indigeno di rito greco. Si tenne in Chiaromonte, nel 1888, in provincia di Potenza, una memorabile accademia in onore di Leone XIII, alla quale con il vescovo ed il clero parteciparono i notabili della diocesi di Anglona e Tursi. Il Camodeca vi rappresentò tutti gli italo-albanesi ed in quella occasione prese la parola e fu il suo dire un vero trionfo. « E’ necessario, scrive l’autore del volumetto, il canonico Daniele Virgallita di Terranova di Pollino, dire qualche cosa di questo parroco; giacché col suo discorso seppe infondere tanto affetto nel pubblico per la sede di Pietro, e per le condizioni del clero albanese sulle spiagge dell’Ionio, che nessuno potrà dimenticare per tutta la vita! Il parroco ha nome Pietro Camodeca dei Coronei ed è sulla quarantina. Studiò nel Collegio di San Demetrio, ma compì gli studi ecclesiastici nel Seminario di Tursi, e dal vescovo di Anglona e Tursi si ebbe con dispensa pontificia l’ordinazione, mancando allora il vescovo pel rito italo-greco. Educato tra i latini, mantenne con essi affettuose relazioni, e ne fu contraccambiato egualmente; di qui a che nella solenne circostanza dell’accademia non volle, o meglio non poté fare a meno, per l’affetto onde è legato ai latini di trovarsi in mezzo a loro e prendere parte alla gioia. Alto, di bello aspetto, occhio vivace, lunga la barba, scendevagli al petto …… eloquente, inneggiò a Leone XIII nell’idioma greco, leggendone anche la traduzione in lingua italiana e poscia si fè a leggere un discorso sublime per la semplicità e nobiltà del concetto.»
Il discorso del simpatico oratore fu applaudito poiché egli con la sua parola facile ed eloquente conquistò l’animo degli ascoltanti, muovendoli tutti in favore della sua causa, patrocinata con amore e zelo indicibile . La stampa, e non solo quella cattolica, non poté ignorare una proposta di così grande portata e si espresse, infatti, favorevolmente al progetto del Camodeca, il quale raccolse e pubblicò, nel volumetto ricordato prima, gli scritti che riguardavano tale sua iniziativa. Scrissero parole di assenso “La Libertà cattolica “ di Napoli del 3 agosto 1887, la «Voce della Verità » dello stesso giorno e il « Fiamuri » del De Rada.

Noi non sappiamo se nel 1919, quando il Papa Benedetto XV istituì la Diocesi autonoma di Lungro, qualcuno abbia ricordato colui che quarant’anni prima aveva posto il problema e che solo da pochi mesi, stanco ma non domo, per le mille lotte sostenute, riposava nel piccolo cimitero della natia Castroregio.

 


Campanile di Castroregio

 

E) INTERESSI CULTURALI E RAPPORTI CON IL MONDO ITALO-ALBANESE

Camodeca svolse in campi diversi numerose attività: passò senza difficoltà dalla dissertazione sulla pronunzia delle parole greche, alla realizzazione di un vino, per il quale aveva coniato un nome significativo e pubblicitario insieme “ Trut mer”:

“ Che piglia il cervello! “ , «Che dà alla testa ». Ma di queste e altre sue occupazioni di natura pratica egli nel suo paese, ed in quelli limitrofi, fu un precursore ed un pioniere. Certo non gli mancarono i mezzi per la attuazione delle sue iniziative. Meraviglia non poco questa poliedricità in un uomo che viveva in un borgo, rappresentato da poche case sferzate da tutti venti e ammantate di bianco fin dalla prima neve; eppure egli mantenne stretti rapporti con tanti studiosi del suo tempo e veniva raggiunto fin lassù da tante pubblicazioni e riviste, da tanti periodici e giornali! Egli fu l’uomo dotto della vasta zona, allora depressa, compresa tra le propaggini del Pollino e le coste ioniche. Non poté, perciò, non subire le sollecitazioni degli studi di storia e di archeologia; infatti, venne preso dal fascino di questa scienza perché, era risaputo, le nostre contrade erano e sono la testimonianza più viva di un passato che affondava le sue radici nel mondo greco. Poté avvicinarsi a questo mondo, in quanto la conoscenza profonda della lingua greca lo poneva nella felice condizione di poter consultare direttamente le fonti storiche. Per motivi inerenti al suo ministero sacerdotale e per suoi affari personali, egli si recava spesso in Amendolara, un paese che distava pochi chilometri da Castroregio e che conservava una tradizione di studi su ricerche archeologiche mai interrotte. Camodeca vi era spesso chiamato per predicare ai fedeli, specie nella ricorrenza della festa del Patrono, perché era un bravo oratore, sapeva porgere gli argomenti con un certo stile, ma nello stesso tempo anche addentrarsi nel mondo delle lettere e delle arti. Il Laviola nel suo volume riporta note e appunti di Camodeca scritti su giornali riviste e pezzi di carta sparsi. Vi sono note su Amendolara e sulla Cappella dell’Annunziata, presentate, per lo più, sotto forma di interrogativi, ai quali l’autore avrebbe dovuto dare delle risposte.

Scrive Laviola: “Non deve meravigliare il fatto che, troppe volte, noi citiamo e trascriviamo parole, frasi o intere pagine del Camodeca. Ciò noi lo facciamo deliberatamente, perché é questo l’unico modo per far conoscere scritti che sono inediti e resteranno tali, trattandosi di appunti e non di opere complete. Questa precisazione era necessaria, come pure l’assicurazione che tutto il materiale, di cui ci siamo serviti nella composizione di questo nostro modesto lavoro, é gelosamente conservato nell’avita casa della natia Castroregio”

Egli scriveva « Essendo questo luogo (cappella dell’Annunziata di Amendolara) (n.d.a) in mezzo tra Siri, Eraclea Sibari e Turio cosa doveva essere? Non è certamente una città, perché di ciò nulla nella storia, o, se mai, quale era? Un porto? Un mercato pubblico? Un paese? Una tenuta principesca? ….”.…….. “Rapporti archeologici in generale. Ispezioni. Esortazione ai cittadini di Amendolara a custodire scrupolosamente un siffatto tesoro di antichità “. Vi era, poi, lo schizzo della cappella, disegnato dallo stesso Camodeca (non mancava, infine, un elenco degli autori consultati.)» Tali appunti risalivano alla fine del secolo scorso e, perciò, meravigliavano, come pure meravigliano altri appunti che riportavano i passi originali in latino e in greco di tutti gli autori consultati. Le osservazioni sopra trascritte mettevano in risalto la versatilità dell’ingegno del nostro Don Pietro ed il suo metodo di ricerca.
L’autore poco più che ventenne, pur essendo ancora studente di teologia, insegnava latino e greco, all’Istituto Petta di Oriolo Calabro. Durante questo periodo presero vita numerose opere manoscritte che sono rimaste tali e che sono andate definitivamente perdute se non per qualche appunto riportato dal Laviola.

Il breve studio non portato a termine “Dissertazione sul Protestantesimo”, Oriolo 20 Aprile 1869, era, pertanto, opera principalmente scolastica e rappresentava solo una esercitazione accademica. Allo stesso genere si possono assegnare altri due brevi saggi « L’Errore del Secolo » che, per il Camodeca, era il razionalismo, e « Cupido e Psiche e l’Arte Critica », che, scriveva Laviola, ” non abbiamo trovato” Anche un trattatello sulle «Divinazioni presso gli italo-albanesi» rimase incompiuto: eppure esso si presentava già ricco di interesse (perciò ne dette un saggio, come scriveva sempre Laviola) ed avrebbe portato un contributo non trascurabile a quel genere di studi ed alla conoscenza del nostro popolo. « Tra gli albanesi vi sono ancora molte superstizioni di tal genere con le quali la gente crede divinare il futuro in diversi modi. Il canto notturno del gufo è segno di lutto in quella famiglia sopra la cui casa il gufo si è posato a cantare. Questa credenza era generalizzata anche presso la gente latina.

IL canto della gallina, non nel modo consueto, è segno di perturbamento dell’aria, di terremoto, di morte in persona di uno della famiglia. — La si ammazza subito. E’ segno di infortunio l’incontro di qualche serpente che attraversa orizzontalmente la strada del viandante. -Questo era anche presso i greci. E’ triste segno l’inciampo al limitare della porta prima di partire di casa la mattina. -Era questo anche presso i romani. » «Anche per mezzo di certe erbe si pretende scoprire l’avvenire: sono diverse le combinazioni di erbe a cui si attribuisce una forza misteriosa» . « Si masticano le foglie di una certa erba, poi si spandono e si applicano al braccio. Se la foglia porta sopore è segno che l’amante o la persona per cui la si è messa vuole del bene alla persona che l’ha applicata. Il forno non si deve lasciare mai vuoto. Si cacciano le focacce, poi si lascia una e via le « carveglie» (i pani), poi si toglie quell’una.» “Se uno vuole orinare la notte davanti la casa, non può; o se è necessitato, deve sputare tre volte” . «Cosi come si é sciolto il sale, si sciolga il tumore e ritorni la salute », queste parole si pronunziano mentre il pezzo di sale, che è servito per toccare il tumore, si liquefà nell’acqua dove, dopo l’uso, è stato gettato. « Nel fascino si dice: « Lontani gli occhi maligni: non sono né medico né medichessa, ma è il nome del Signore del Cielo» «Le ossa di un rospo pestate erano un potentissimo filtro per muovere una donna ad amare un giovine. Tale era l’amore che la donna presa da cieca libidine, seguiva l’uomo ovunque, senza che forza alcuna la distogliesse. Questo filtro doveva dopo essere dedicato allo spirito maligno con delle misteriose parole e poi posto nella Chiesa e precisamente sotto o vicino o dirimpetto all’altare maggiore» . « Altri bruciano le foglie del lauro e traggono argomenti di amore dal crepitare delle foglie. Nel fare le magie, o meglio dei giuochi magici di prestigio, si crede che chi abbia una lacerta o un ramarro nascosto sotto le vesti veda gli inganni ottici dell’altro. Bruciare il giogo usato o parte di esso spezzato è un peccato».

Scriveva Laviola: « di appunti come questi ve ne sono altri ed anche con riferimento ai classici, segnati un po’dappertutto, il più delle volte su foglietti volanti o sui margini dei giornali». Pietro Camodeca era tra gli italo-albanesi molto in vista e non solo tra il clero; egli era una personalità di primo piano tra coloro che erano impegnati alla soluzione dei vari problemi inerenti le comunità albanesi. Le sue visite a Roma erano frequenti e di non breve durata; negli Uffici della Congregazione di Propaganda Fide egli era di casa e la figura di questo sacerdote greco, dal portamento maestoso e dalla lunga barba fluente, era notissima in tutta la zona di Torre Argentina, dove era situata la sua abituale pensione. Era un innamorato di Roma, dei suoi monumenti, dei suoi archivi e delle sue biblioteche. Molte note c’erano tra le sue carte e molti appunti, frutto di ricerche negli archivi vaticani, riguardanti sempre l’Albania e gli italo-albanesi. L’una e gli altri erano in cima ai suoi pensieri. Nella grande città andava alla scoperta di tutto ciò che aveva attinenza con la storia degli italo-albanesi, del rito, delle bolle pontificie, che gli sarebbero servite per preparare lo studio e chiedere la istituzione della diocesi autonoma di rito greco. Allacciò in questo periodo le sue amicizie non solo con uomini di chiesa, ma anche con uomini politici. Non solo i confratelli guardavano lui come guida, ma uomini di ben altra statura, assorti in studi severi, non tralasciarono occasione per scrivergli, chiedere consigli, sollecitare raccomandazioni presso le alte sfere di Propaganda Fide e presso le genti della sua zona, su cui esercitava tanta influenza e presso la quale godeva di tanto prestigio. Gerolamo De Rada nell’agosto del 1895 da Trebisacce, dove si trovava per i bagni, scriveva al Camodeca a Castroregio e gli manifestava il desiderio di poterlo vedere per << convenire, per un paio di giorni almeno, su cose diverse ma tutte care ad entrambi »Gli comunicava inoltre la imminente comparsa del periodico “Fiàmuri Arberit” . Una figura di prima grandezza nel movimento per la causa della rinascita e l’indipendenza dell’Albania fu, senz’altro, quella di Anselmo Lorecchio di Pallagorio( Catanzaro), che gli propose la stampa di una rivista non letteraria ma politica, che prendesse a cuore le sorti dell’Albania. La rivista venne pubblicata e fu «La Nazione Albanese », l’organo che rappresentò per parecchi lustri una bandiera di fede e di patriottismo, in quanto pose all’attenzione del popolo italiano e, in particolar modo, a quella degli italo-albanesi il problema della indipendenza dell’Albania dal giogo ottomano. Camodeca annunziava che era riuscito ad ottenere un sussidio per la pubblicazione della rivista e il Lorecchio al riguardo gli espose altri problemi, altri disegni che aveva in mente- Il primo numero della Rivista usci il 15 Marzo del 1887. A Pietro Camodeca si rivolgevano parroci di piccole chiese e confratelli, a lui esponevano i propri bisogni e quelli della propria chiesa e dei propri fedeli: egli donava consigli, forniva arredi sacri, sovvenzionava con denaro



 Erano parroci di comuni depressi, come Plataci, dove il tempo si era fermato e gli uomini a stento riuscivano a raggiungere un sia pur minimo tenore di vita e vivevano con le bestie e come le bestie, finché non esplodevano ed allora si avevano i tumulti e il sangue scorreva per le strade. Il parroco rappresentava l’unica luce di cultura, ma era quasi sempre povero e squallide erano le chiese. Tra questi ricordiamo Demetrio Chidichimo, un buon patriota e un buon cultore di lettere di Plataci: un sacerdote preparato, che riportò tutti gli avvenimenti del suo tempo ed aveva tradotto e dato alle stampe documenti antichi ( alcuni dei salmi di Davide). In una lettera, che egli inviò al Camodeca, dava la misura esatta di quello che il nostro Don Pietro rappresentava per i sacerdoti albanesi. « L’altro ieri seppi che tu sei a Roma, tu eterno cive dell’eterna città. Beato te che di tratto in tratto esci dal lezzo e dalla povertà dei nostri tuguri e ti spazi fra le bellezze seducenti e incantatrici di monumenti che parlano il linguaggio della grandezza e non l’infinto della miseria e dell’invidia! Se non avessi saputo che eri costà, io stavo proprio per venire a sorprenderti in Castro-regio. Cosi ho dovuto rinunziare al desiderio grande di poterti abbracciare[…..]fammi per carità avere qualche poco di stoffa per pianeta od altro, qualche elemosina di S.Messe……». I sacerdoti italo-albanesi avvertivano la mancanza di un proprio vescovo, che potesse sentire, comprendere i loro problemi, che parlasse la stessa lingua e seguisse lo stesso rito. Lettere di questo tenore si scrivevano solo a confratelli, che si erano ritenuti al di sopra per virtù e per dottrina; non si apriva il proprio animo al primo venuto, non si mettevano a nudo i propri sentimenti. Gli attestati di stima, di cui Pietro Camedeca era fatto segno da parte di tanti qualificati galantuomini, si concretò in un significativo riconoscimento ottenuto nel primo congresso linguistico albanese svoltosi nei giorni 1-2 e 3 ottobre 1895 a Corigliano Calabro. Si riunirono, in quella circostanza, gli uomini più rappresentativi delle nostre colonie. Al congresso dette la sua adesione, tra gli altri, Francesco Crispi, allora Presidente del Consiglio dei Ministri, il quale si dichiarò> albanese di sangue e di cuore » .
Pietro Camodeca vi partecipò tra i primi e la sua presenza si rivelò in alcuni momenti determinante: egli prese la parola sui vari argomenti posti all’ordine del giorno e fu nominato componente della commissione incaricata della compilazione di un dizionario. Nella seduta pomeridiana del giorno 2 si posero le basi e si creò la Società Nazionale Albanese, che aveva lo scopo di affratellare le varie colonie albanesi per l’incremento degli studi linguistici delle sacre memorie patrie. I congressisti ebbero la possibilità di riconoscere ed apprezzare le qualità del Camodeca, la sua lucidità nella impostazione dei problemi ed il suo dinamismo, e non fu, quindi, una sorpresa, quando, esaurito lo scrutinio, proprio egli risultò eletto nella carica di Presidente effettivo della Società Nazionale Albanese, mentre al De Rada andò la Presidenza onoraria. Un trionfo meritato ed un giusto riconoscimento, perché egli alla causa aveva dato sempre tutto se stesso. Nel secondo congresso linguistico albanese, svoltosi a Lungro, nei giorni 20 e 21 febbraio 1897, Gerolamo De Rada comunicò all’assemblea che l’arciprete Pietro Camodeca de’Coronej, per motivi familiari era stato costretto a dare le dimissioni. Dimessosi il Camodeca, gli successe nella carica di Presidente il Cav. Uff. Anselmo Lorecchio.

Oriolo Calabro


Compilato da Pietro Camodeca De' Coronesi
 

 

F) PRODUZIONE LETTERARIA, DIFESA DELLA CHIESA E DELLE TRADIZIONI.

Camodeca nella sua produzione letteraria produsse numerosi manoscritti e pochi volumi a stampa. Egli era l’autore di un dizionario albanese, dato alle stampe solo in parte; Pietro Camodeca de’Coronei (Dizionario pelasgo-abanese italiano.- Roma - Tip. Befani, 1900) . Furono pubblicate solo le lettere A e B e fu il pomo della discordia di tutta quella generazione di intellettuali, galantuomini entusiasti, ma testardi, alle volte, e fieri della propria opinione. Riteneva di avere idee chiare in proposito sull’argomento e sosteneva che la lingua vera era quella che si parlava, mentre De Rada tentava di crearne una letteraria; essa andava scritta come si pronunziava ed andava usata sempre, anche nelle manifestazioni e nelle celebrazioni pubbliche. Interminabili discussioni sorsero tra linguisti e glottologi, circa la pubblicazione del vocabolario ed al Camodeca, autore del dizionario, un amico inviò la sua brava lettera aperta che riportiamo.

« L’idea di compilarlo definitivamente questo benedetto vocabolario è vecchia, e tu lo sai, come lo spirito contradditorio che anima la nostra razza. Prima del De Rada, quanti altri non hanno sognato di vedere il loro nome appiccicato sul frontone di un grosso volume che doveva chiamarsi vocabolario albanese. Ed ancora si sogna, ed io temo che anche tu, amico mio carissimo, resterai qualificato come un sognatore impenitente».

Il Camodeca, però, come era suo costume, si dedicò con entusiasmo alla compilazione del vocabolario albanese: un lavoro indubbiamente di grande impegno, uno dei primi del genere in ordine di tempo. Se poi si tiene conto delle polemiche, di cui abbiamo fatto cenno, maggiore fu la fatica, ma il nostro autore si buttò a capofitto e le ricerche lo assorbirono per anni. Tutti questi studi sulla lingua andarono perduti? Prima di dare una risposta a questi interrogativi, bisogna precisare che tutte le carte e i manoscritti in originale di Pietro Camodeca, riguardanti il dizionario o comunque la lingua, si trovavano presso l’Istituto Linguistico dell’Università di Copenaghen, in Danimarca. Il Prof. Gangale, il glottologo che si era interessato dei manoscritti del Camodeca, riuscì a portarli in Danimarca, operazione che, in precedenza, aveva fatto anche per quelli di Giuseppe Serembe. Essi furono ceduti perché formassero oggetto di studio da parte dei filologi di quell’Istituto, ma ciò non avvenne; auspichiamo che ciò possa, un giorno, avvenire. Attualmente i manoscritti (vocabolario e modi di dire) vengono studiati ed interpretati dal Prof. Francesco Altimari, dell’Università di Calabria e dalla sua scuola, che li darà alle stampe quanto prima. Durante un lungo periodo della sua vita dinamica il Camodeca coltivò due idee linguistiche, i cui limiti, a sua insaputa, si confusero: una raccolta di materiale lessicologico e un’altra di proverbi. Né l’una né l’altra furono portate a termine: del dizionario, come abbiamo scritto, comparvero solo le prime due lettere. E’difficile stabilire a quale delle due idee egli abbia prima pensato: forse, opina il Gangale, fu il dizionario e solamente tentando di dare degli esempi a fianco di ciascuna parola egli si accorse della natura del proverbio. In seguito fu talmente preso dal lavoro che cominciò a scrivere lunghi elenchi di proverbi, senza rendersi conto dei casi in cui li aveva composti egli stesso (l’epoca della raccolta coincise col periodo che va dal 1870 alla fine del secolo). Sebbene avesse ricevuto una cultura umanistica e discendesse da una famiglia di feudatari (la parola è usata da numerosi scrittori), il Camodeca si avvicinò alla lingua ed allo spirito dei contadini, senza le inibizioni non linguistiche che tormentarono il moralista De Rada. Il fondamento della lingua registrata era sicuramente il linguaggio del popolino e dei domestici, che egli sentì durante la sua infanzia: risulta, infatti, da qualche nota che verso il 1865 una donna nonagenaria frequentava la sua casa e proprio da essa egli ascoltò vecchie canzoni popolari. Le case dei ricchi dei nostri paesi, come si sa, erano il luogo dove si incontravano vecchie donne senza protezione, le quali, in cambio del cibo, rendevano dei piccoli servizi. D’altronde la lingua di Castroregio, quella di Plataci e di Farneta, costituirono un gruppo conservatore delle parlate albanesi per l’isolamento secolare delle tre località, meno esposte agli influssi della lingua italiana. I giornali dell’epoca riportano che a Castroregio, per la morte del re Umberto I, il Sindaco Crispino Camodeca fece celebrare un servizio funebre ed organizzò una pubblica manifestazione, durante la quale i discorsi vennero pronunziati nella madre lingua albanese. Questo stava a dimostrare che il fuoco di Don Pietro aveva acceso l’ambiente e Castroregio viveva in pieno, nel rito, nei costumi e nella lingua, la sua vita di centro albanese. Pietro Camodeca era un innamorato di tutto ciò che era legato al suo popolo: tradizioni, usi, lingua, rito; desiderava che il patrimonio non si sperdesse nel tempo e si adoperò con ogni mezzo, perché fosse conosciuto al di là della stretta cerchia diocesana e regionale. I suoi scritti trovarono ospitalità su riviste a diffusione internazionale. Un saggio dello stile di Don Pietro fece rivivere uno spettacolo (1900), cioè la descrizione dell’arrivo e delle accoglienze che il popolo di San Paolo Albanese riservò al vescovo di Anglona e Tursi, Mons. Pujia, in visita pastorale. «Come comparve il Vescovo, ad un certo punto, vicino e prospiciente all’abitato, una salva di moschetteria partita dagli uomini che erano andati ad incontrarlo, diede il segnale al paese, donde si rispose immediatamente con lo sparo di mortaretti e col suono delle campane. Vidi allora sbucare da altra via una bandiera, portata da un uomo fiancheggiato da un altro armato di moschetto, e questi due dall’aspetto marziale erano seguiti da due file di donne vestite a festa, con abiti rossi ingallonati, che tenendosi per mano l’una all’altra unite venivano ballando e cantando nella lingua patria. Canzoni di lode al leggendario nostro eroe Giorgio Castriota Skanderbeg, l’atleta di Gesù Cristo! Mons. Pujia, contento di queste spontanee, entusiastiche e non mai viste dimostrazioni di affetto e di fede viva, si compiacque rivolgere a quei buoni fedeli una parola di ringraziamento, ed evocando nella sua mente i ricordi della loro nobile storia, li esortò a perseverare nell’amore di Gesù Cristo, perché l’esodo doloroso degli avi loro dalla madre-patria a queste rive incantate d’Italia, l’addio al domestico focolare ed alle aure dolci dei patrii monti avvenne appunto per la fierezza del loro carattere e per la nobiltà del loro sentire!» . Finita la visita, cantando altre canzoni tradizionali, il corteo accompagnò il vescovo fino all’uscita del paese, ove, cessando definitivamente i festeggiamenti, ciascuno andò a baciargli la mano, augurandogli il buon viaggio. La mente viva e sveglia di Camodeca escogitò anche un progetto che avrebbe dovuto interessare tutto l’orbe cattolico. Sul soglio di Pietro vi era il vecchio Leone XIII (1898), il Papa al quale il Camodeca aveva già proposto l’istituzione della diocesi autonoma per gli italo-albanesi. Dal piccolo borgo di Castroregio si levò una voce per proporre un gesto di tangibile solidarietà verso il romano pontefice. Il suo progetto era grandioso e non si esauriva nei limitati confini della propria diocesi e della propria nazione, ma si allargava, abbracciando tutto il mondo cattolico. Leggiamo dagli stessi suoi scritti. « Nelle critiche ed anormali condizioni economiche in cui oggi versa la Santa Sede, il rinvenire dei mezzi che possono agevolare in qualche modo l’esplicazione della sua grande, alta e nobile missione civilizzatrice del mondo, ci sembra cosa estremamente utile ed accettevole, massima quando questi mezzi provengono spontaneamente sotto la forma collettiva della cooperazione e della associazione. Non è chi non conosca quali vantaggi e quali consolazioni abbia avuto in questi ultimi tempi il cuore afflitto del Sommo Pontefice dalla carità promossa e riscossa spontaneamente sotto il titolo dell’obolo di S. Pietro, con cui il Santo Padre seppe lenire le sventure che colpirono le città ed i popoli; e sussidiare le missioni estere, che tanto bene apportano alla civiltà ed all’umanità! Ed ora che gli alti concetti della papale Enciclica Orientalium Dignitas hanno riempito il mondo di non vane speranze, per superare le difficoltà che naturalmente le possono intralciare il cammino, viviamo certi che non potrà mai dirsi inutile e superfluo ogni sussidio che muova in aiuto di questa opera, esplicandosi nella forma di un obolo novello. E’cosi che facciamo voti che all’obolo di San Pietro, seguisse l’obolo di San Paolo, inteso nel concorso economico dei parroci di tutto l’orbe cattolico». « Ciascuno di noi, ed in ogni lembo di suolo irradiato dal sole della cristianità, sentirà l’animo commosso piegarsi alla voce riverente del proprio vescovo diocesano che lo chiami al tenue contributo pel trionfo della grande e nobile causa - l’unione delle chiese - e verserà in ciascun anno la piccola somma di lire dieci, poiché, se e vero che per la chiesa noi godiamo il beneficio parrocchiale, è d’altro canto ben giusto che del beneficio medesimo, una cosi minima parte, che nulla sottrae al necessario per vivere, sia invertito in pro del Sommo Pontefice, Capo Supremo della Chiesa. In tale guisa anche col nostro speciale concorso l’idea grandiosa per l’unione delle chiese avrà un impulso ed un vantaggio, e potremo un giorno esultare vedendo radunato tutto il gregge sotto un sol pastore, et fiat unus Pastor et unum ovile!»…. ….« L’Obolo di San Paolo, ove avrà la fortuna della sovrana approvazione, dovrebbe essere raccolto esclusivamente dai vescovi, ciascuno nella propria diocesi, ed inviato a Roma nel dicembre di ciascun anno per essere poi, da chi venisse proposto, offerto al Santo Padre nel giorno dell’Epifania, siccome i doni dei Re Magi al Bambino Gesù»! Non vi fu chi non si rese conto, leggendo quanto sopra, della chiarezza e della concretezza delle idee di Pietro Camodeca, della sua naturale capacità ad impostare problemi di largo interesse e di vasta risonanza. Accanto agli studi linguistici ed alle proposte di aiutare il Santo Padre con delle opere di beneficenza Pietro Camodeca concepì anche la creazione di una diocesi autonoma per gli Albanesi di Calabria e di Basilicata, di cui abbiamo già parlato. Il Collegio di S. Adriano di San Demetrio Corone dopo il 1860 aveva subito un profondo mutamento con la progressiva eliminazione dell’amministrazione ecclesiastica; il vescovo perdette man mano la sua autorità e nella scuola entrò la mentalità dei tempi nuovi.

Pietro Camodeca concepì, allora, la creazione di una diocesi autonoma per gli Albanesi di Calabria e Basilicata, con una propria giurisdizione, non accettando la nuova situazione e il cambiamento di indirizzo di studi del collegio, che non educava più, secondo le prescrizioni del fondatore e dei sommi pontefici, i giovani destinati al sacerdozio. Con la collaborazione dell’amico Gugliemo Tocci, che era stato deputato, si adoperò affinché, il collegio italo-greco venisse inserito nel movimento per la unione delle Chiese, creato dall’Enciclica “Orientalis Magistralis” di Leone XIII «eretto al fine di servire gli interessi spirituali dei greci d’Italia e di quelli della madre patria»,. Nello stesso tempo si adoperò perché «fosse ripristinato ed ampliato l’antico collegio Internazionale italo-greco di San Basilio di Roma, eretto a beneficio degli italo-greci e dei greci esteri, in cui gli alunni sacerdoti (usciti da Sant’Adriano e quelli provenienti di Sicilia e di Grecia e dall’impero ottomano) potessero venire a perfezionarsi nelle superiori discipline teologiche e filosofiche » . L’azione, s’intende, sarebbe dovuta essere concordata anche con la Santa Sede, ma i tempi non erano favorevoli e perciò nulla si poté fare per arrestare la laicizzazione del Collegio. La trasformazione del Collegio rappresentò l’inizio di un periodo di decadenza, non solo per il clero albanese, ma per tutta la vita delle colonie. Per Camodeca il Collegio era un centro di coesione che così si sarebbe sfaldato, e, d’altronde, anche il progetto della egemonia ecclesiastica per il mantenimento del rito e conseguentemente della lingua era stato accantonato. Camodeca volse, poi, con tanta passione l’opera sua anche al campo pastorale: egli si dedicò dalla cura delle anime, venne assorbito dai compiti del suo ministero ed anche qui portò il suo entusiasmo e il suo dinamismo insieme con la formazione e l’ardore della sua carità. Dal verbale di una visita pastorale, effettuata da Mons. Pujia, si ricavano notizie che si riferiscono alle opere compiute dal Camodeca, quasi sempre a sue spese. Venne eseguita la chiusura delle tombe nella chiesa, venne riattato il pavimento, costruita la balaustra che divide l’iconostasio dal centro della chiesa, rifatti i due quadri della SS.— Annunziata e di San Nicola di Bari. La chiesa, costruita nel 1551 e terminata e consacrata dopo 50 anni, fin dal 1888 era senza porte, senza finestre, senza tetto. Dalla solerzia e dallo zelo del Camodeca fu trasformata in una modesta casa del Signore, ornata di marmi e di pitture, riattata, in una parola, ab imis fundamentis. Riportiamo dal verbale citato (archivio Camodeca) «La chiesa non è sufficiente a contenere l’intiera popolazione. E’isolata da tre parti e dalla 4‘ attacca con un vaglio scoverto della nobile famiglia Camodeca de’Coronej, che furono i fondatori del paese. Non esistono i quadri della Via Crucis, e non si pratica questo devoto esercizio. Esiste un solo banco per la famiglia Camodeca de’Coronei, permesso da Mons. Leonasi contro la contribuzione di L. 100 erogata a favore dei restauri. Vi si tollera l’uso di qualche sedia». Anche il Battistero fu riattato dal Camodeca e vennero, a sue spese, restaurate le tre statue, esistenti nella chiesa, Sant’Antonio di Padova, il Rosario e la Madonna della Neve. Ai due quadri, che ornavano la chiesa, vennero aggiunti altri sei. Non gli mancò, ad opera compiuta, il riconoscimento da parte delle autorità ecclesiastiche centrali: infatti, in data 28 settembre 1894, il prefetto della Sacra Congregazione di Propaganda Fide per gli affari di rito orientale gli scrive: « ho appreso con mia soddisfazione le cure da V. S. impiegate per condurre a termine i restauri di codesta chiesa parrocchiale » .


La Cappella di San Rocco, costruita nel 1846-48, tutta lesionata, fu legata con catene di ferro ed abbellita di tre altari di marmo e di un quadro di Santa Lucia.

Camodeca fu un costruttore in tutti i campi ed anche un coraggioso ed un intransigente, perché solo gli uomini forti sono capaci di eliminare quegli abusi che nei nostri piccoli centri si tramandano da sempre e sono quasi radicati nell’anima del popolo. Anche l’ALBANIA, come nazione giovane, in questo periodo, stava rigenerandosi ed il clero albanese d’Italia poté aiutare queste modificazioni. La principessa Dora d’Istria-, in una intervista rilasciata alla famosa Revue des deux mondes di Parigi, aveva intuito, con molta chiarezza, il contributo che gli italo-albanesi avrebbero potuto dare alla causa della rigenerazione dell’Albania. Aveva, infatti, dichiarato: « Il clero albanese d’Italia, di cui la tolleranza ed il patriottismo si sono in più d’una occasione manifestati in modo tanto segnalato, non perverrà egli d’altronde, specialmente ora che i rapporti fra le due rive dell’Adriatico si fanno più frequenti, ad esercitare un’azione salutare nel senso della conciliazione? In generale gli Albanesi dell’Italia meridionale, che hanno serbato in modo così fedele e pietoso il culto degli avi e le tradizioni nazionali, possono rendere considerevoli servizi ai loro fratelli d’Oriente».

Ismail Kemal, del quale in casa Camodeca si conservava una fotografia con dedica autografa, alla presenza dei delegati di tutte le regioni della Albania, il 28 novembre 1912, innalzava a Valona la bandiera della patria libera e indipendente. Si coronava, in parte, con successo un’azione intrapresa da vari lustri, che aveva interessato tutti i nostri uomini migliori. Una prova della partecipazione di Don Pietro, viva ed attiva a questa realizzazione, poté essere considerato un suo progetto per la trasformazione della casa di Scanderbeg, religiosamente da lui visitata, per la prima volta, nel 1887 a Roma. Tra le sue carte esistevano degli appunti che noi riassumiamo. «Acquistare la casa di Scanderbeg in Roma per farne un centro ed una rappresentanza degli albanesi: addobbarla e creare un museo nel quale dovrebbero trovare posto un busto di marmo dell’eroe e, oltre il suo ritratto, vi dovrebbero anche figurare le armi del grande condottiero». Nel telegramma di congratulazioni al Presidente del Governo provvisorio dell’Albania, Camodeca ricorda di essere stato il primo Presidente della Società Nazionale Albanese; tale Società era stata fondata nel 1895, in occasione del primo Congresso albanese di Corigliano Calabro e le sue sezioni erano sorte in tutti i comuni italo-albanesi. Organo della società fu il periodico “La Nazione Albanese”, fondato e diretto da Anselmo Lorecchio. Il Camodeca aiutò tale pubblicazione, la sovvenzionò e le fece avere dei contributi.

Altro giornale battagliero fu « La Nuova Albania » diretto da Gennaro Lusi, di Greci ( Avellino). Lo spirito battagliero, nonostante l’età e le delusioni, non era venuto meno e quel suo volersi sentire il rappresentante ufficiale di tutti gli italoalbanesi di Calabria e di Basilicata era ancora presente nel suo animo.


 

G) RICONOSCIMENTI, NOMINE RELIGIOSE ED INIZIATIVE PER LA RINASCITA DEL SUO PAESE

Tra le personalità religiose più in vista delle colonie italo-albanesi, tra i nomi che venivano proposti alla guida della chiesa di rito grecoalbanese come ARCHIMANDRITA E VICARI0 GENERALE DEGLI ITALO-ALBANESI, quello di Pietro Camodeca ricorse con più frequenza. Egli, infatti, era in possesso di tutte quelle doti che servivano a formare la personalità di un prelato, che doveva esercitare il suo alto e difficile ministero in un ambiente che andava riformato ed avviato verso nuove mete; era un uomo energico, che aveva la forza di opporsi alla marea che saliva e che, nello stesso tempo, sapeva arginare fermenti e aspirazioni in atto. Camodeca, ormai cinquantenne, era figura nota non solo negli ambienti romani, ma in tutti i comuni italoalbanesi della Calabria e Basilicata. La nomina, però, non venne forse per alcune sue prese di posizione ed alcuni suoi giudizi sui Gesuiti, che non erano stati dimenticati. Anche gli avversari del suo paese, pochi ma spietati, lo attaccarono sul piano della moralità, spargendo voci calunniose, lanciando accuse infamanti, che trovarono il loro epilogo nei Tribunali, ma dalle quali egli ne uscì indenne. Ma gli odi dei piccoli centri erano tenaci e i meriti quasi mai venivano riconosciuti per quel deteriore sentimento di invidia, che avvelenava l’ambiente di tutti i piccoli comuni, tramandando e perpetuando inimicizie e rancori. Don Pietro, però, era uno scoglio e resistette a tutti i marosi, anche se, amareggiato, si vide costretto ad inviare al Papa la seguente supplica.

«Io sottoscritto, D. Pietro Arciprete Camodeca dei Nobili Coronei da Castroregio, diocesi di Anglona e Tursi, avendo saputo da fonte sicura a, che intorno al mio nome è stato qualche appunto presso la congregazione del Santo Ufficio; perché cosi hanno voluto i miei nemici, i quali, per odio di partito, più che ferire la mia famiglia che domina nel paese per mente e posizione sociale, si sono divertiti di i ferire me sacerdote che la rappresento». « Santità, io tengo moltissimo al buon nome ereditato dagli avi miei, i quali vennero nel 1535 5 da Corone della Morea, dopo che questa città venne definitivamente in potere dei Turchi, portando seco la spada e la croce e ci tengo altresì per essere io in cura di anime.
« Pertanto supplico la Santità Vostra vigile custode della verità e della giustizia e l’avrò come da Dio consolatore degli oppressi ».

Gli incarichi e le successive nomine dimostrarono che le gerarchie ecclesiastiche e le autorità civili non avevano dato credito alle voci tendenziose messe in giro per distruggere un uomo, che troppo aveva dato, ed avrebbe ancora dovuto dare al suo paese e alla sua gente, in quanto ottenne: • Nel 1895 la nomina a Presidente della Società Nazionale Albanese, • Nel 1898 dal vescovo Mons. Pujia la nomina di Vicario Generale per le parrocchie italo-greche, in conformità delle prescrizioni della Bolla “ Etsi Pastoralis “ del Santo Pontefice Benedetto XIV.

Nel 1899, su proposta del Ministro dell’Interno, gli fu conferita dal Re la nomina di Cavaliere della Corona d’Italia, come riconoscimento per gli atti di filantropia compiuti nel proprio paese. Nel 1903, nel sinodo diocesano di Anglona e Tursi, venne nominato Esaminatore, Giudice sinodale e Vicario degli albanesi di quella diocesi. L’anno seguente, Mons. Giovanni Barcia, vescovo di Croia, lo nominò vicario Generale degli italo-greci della Calabria e della Basilicata.

« Quale persona idonea per mente e cuore, ed a me ben nota ed accetta, da impromettersi sicuri risultamenti di zelo chiesastico e civile nella missione che gli ho affidato  »

Lo stesso vescovo inoltrò, anche una proposta al Sommo Pontefice perché il Camodeca fosse nominato suo Coadiutore. I vescovi latini, delle diocesi meridionali, non riuscivano sempre a capire i problemi di questa gente che parlava un’altra lingua e seguiva un altro rito e i cui sacerdoti avevano la facoltà di sposarsi; inoltre, il vescovo greco, sempre lontano, non conosceva i paesi, né le persone, e le sue mansioni erano molto limitate. Tutte queste considerazioni inducevano ad esprimere un giudizio negativo sull’operato delle autorità ecclesiastiche centrali, le quali non avrebbero dovuto procra-stinare l’istituzione della diocesi autonoma di rito greco, per la quale tanto si era battuto il Camodeca. Il titolo, che più degli altri fu un segno di distinzione, gli venne dall’oriente, quale riconoscimento dei suoi alti meriti, acquisiti nel campo delle rivendicazioni e del suo attaccamento al rito greco. Sua Beatitudine Cirillo VIII, Patriarca di Antiochia, di Alessandria, di Gerusalemme e di tutto l’Oriente, nominò, infatti, il Rev.do Arciprete D. Pietro Camodeca dei nobili Coronei di Castroregio, Archimandrita. Riportiamo integralmente il testo del decreto di nomina, che si trova conservato in casa Camodeca.


Già lo stemma della famiglia Camodeca de Coronej, “una stella che da occidente manda un raggio di luce sulla mezzaluna contro la quale un pugno punta la spada”, mostrava la fierezza della sua razza. In una pubblicazione, in lingua francese, edita dal Collegio Pontificio Greco, vennero descritti i solenni festeggiamenti svoltisi per il quindicesimo centenario di S. Giovanni Crisostomo, a Roma, dove convennero personalità da tutto il mondo orientale. Il 12 febbraio 1907, alla presenza del Papa, venne celebrato un solenne pontificale in rito bizantino e nel citato volume, tra le immagini delle più alte dignità ecclesiastiche presenti, è riprodotta anche quella del Camodeca, la stessa che comparve nel lavoro, con la seguente didascalia << Le Rév. Archimandrite Pierre Camodeca dei nobili Coronei, Representant les colonies albaneises de la Calabre » .
Ai primi del 1900 l’Italia da poco riunita tentava di ripartire così come le regioni meridionali, dove la povertà era più evidente.
L’agricoltura produceva il fabbisogno per la popolazione, ma vi erano delle nicchie di territorio dove si producevano prodotti di qualità che potevano rappresentare la nazione anche all’estero. Questa era la Calabria, dove un piccolo paese, Castroregio, produceva ed esportava prodotti apprezzati nel mondo. Il Camodeca era una personalità polivalente, che agli studi severi per le iniziative culturali e religiose accoppiò alcune realizzazioni nel campo dell’agricoltura e della industria. Più che servirci di quanto scritto su questo argomento e sulle sue atti-vità preferiamo riportare quello che fu pubblicato su « Il Lavoro Internazionale illustrato », un’autorevole rivista specializzata che si stampava a Napoli. Nei numeri 4 e 5, dell’ottobre-novembre 1906, e 6 e 7, del dicembre-gennaio 1906-1907, furono dedicate intere pagine al Camodeca, del quale venne pure pubblicata la fotografia accanto al panorama di Castroregio. «Tra le altre cose ed opere di carità e di filantropia cittadina, fece costruire un mulino a vapore ed un oleificio dove si estraeva un ottimo olio, premiato in tutte le maggiori esposizioni italiane ed esteri» All’Esposizione di Salerno del 1870 figuravano, meritevolmente ad uno dei primi posti, dei generi commestibili del cav. Camodeca dei nobili Coronej da Castroregio (Cosenza), cui l’aristocrazia del casato non impediva un lavoro assiduo. «...Il suo olio era di pura oliva; non imbrogli di filtri o di chimiche composizioni, ma tale e quale era colato dai torchi. Nella cottura dei cibi esso poteva sostituire con vantaggio, senza tema di disgusto, il burro o il grasso. Anche il vino era un ottimo prodotto, un vino bianco da dessert, che portava il caratteristico nome albanese di Trutmer, parola che vuol dire: far girare la testa. Questo vino univa alla robusta sostanza una delicata fattura, che lo rendeva gradevolissimo, sì da poter fare splendida figura in qualsiasi aristocratico pranzo». «Di vero e proprio latte di vacca, erano i caciocavalli, anch’essi di produzione propria. Nulla avevano da invidiare ai migliori della Basilicata e delle Puglie, e se ne producevano di tutte le forme e grandezze, per lo più piccoli, per soddisfare le richieste dei mercati locali e per non farli deteriorare all’aria: erano apprezzati per la bontà, per il sapore squisito e per la sicurezza che ispirava la loro manifattura». « Il formaggio di ghiande era una novità e una specialità nel contempo introdotta dal cav. Camodeca. » «L’idea della fabbricazione di questi formaggi di ghiande fu suggerita al Cav. Camodeca dal fatto che si perdevano i due terzi del prodotto delle querce in tempo di carica, per mancanza assoluta di commercio, mentre poi, in tempi di scarsezza, si desiderava il necessario; questi formaggi di ghiande erano un pasto assai desiderato e buono per i suini, secondo esperienze fatte ed accertate; la manipolazione di essi era facile e poco costosa. Se questa nuova industria, di cui il cav. Camodeca gettò le basi con intuito così lodevole ed ispirazione tanto felice, si fosse estesa su vasta scala, i primi a ricavarne un frutto e un utile sarebbero stati gli agricoltori e gli allevatori di suini; gli uni per i guadagni che avrebbero ricavato dalla vendita di questi formaggi, gli altri per il pasto, igienico e benefico, che avrebbero dato ai propri animali, migliorandone le qualità intrinseche.

...Nel cavaliere Camodeca si fondevano insieme le qualità migliori del carattere calabrese con quello albanese. Pure altre volte abbiamo detto dei suoi arditi impianti industriali, come il molino a vapore, l’oleificio, in cima al monte, sulle cui coste si arrampica Castroregio dalle belle vigne e dagli scuri olivi ». « E’pertanto con nostro grande compiacimento che registriamo le onorificenze spettate al Cav. Camodeca a Salerno: diploma e medaglia d’oro e Gran Premio per gli squisiti caciocavalli; così pure per il bellissimo olio puro d’oliva e per il limpido e fragrante Trutmer e per i pani di ghiande per i suini: non solo presso di noi sono stimati i bei prodotti del Cavalier Camodeca, ma anche fuori d’Italia: a Bruxelles, all’ope-roso uomo toccarono altissime onorificenze per il purissimo olio e il generoso Trutmer. Il cavalier Pietro Camodeca trovò pure il tempo di dedicarsi a studi e ricerche letterarie e filo logiche intorno al greco, all’albanese e all’italiano in relazione con le predette lingue ». «Il cavalier Camodeca si recò dal sindaco, nelle cui mani depose dieci mila lire- somma abbastanza considerevole- per istituire due premi per quei contadini che facessero alcune determinate piantagioni nel modo migliore e più razionale» (n.d.a. per prolungare nel tempo queste magnifiche produzioni). La citazione sopra riportata era stata ripresa da una rivista seria, qualificata a livello nazionale; d’altra parte era servita a delineare la figura di Don Pietro sotto un particolare suo aspetto e a dimostrare che il patrimonio avuto venne tenacemente salvaguardato e consolidato dal suo lavoro assiduo, tenace e intelligente. Anche gli ultimi anni della sua vita furono operosi; egli, che aveva affrontato in ogni epoca della sua esistenza problemi di varia natura, si accorgeva, ora, che l’isolamento del suo piccolo paese era un fattore negativo per qualsiasi tentativo di rinascita; per modificare un tale stato di fatto, lavorò con la sua nota passione, sfruttando le sue amicizie e le sue aderenze. A Terenzio Tocci, in una lettera del 1916, chiese il suo appoggio autorevole; il senatore Martuscelli ed i deputati La Cava e Sprovieri vennero sollecitati per il disbrigo di pratiche familiari, ma anche di interesse collettivo. Anche con costoro seppe mantenere i rapporti su un piano di sincerità e di dignità, dal momento che nelle contese elettorali egli faceva la sua scelta e poi si schierava apertamente, senza ricorrere al doppio gioco, perché incapace di venir memo alla parola data. Il Camodeca aveva biasimato l’operato di un vescovo, che, appena arrivato in diocesi, si era «messo a capofitto nella lotta politica per l’elezione del deputato del Collegio di Chiaromonte parteggiando per un certo Cerabona, contro il deputato uscente Mendaia; e tanto si era ingolfato, tanto si era appassionato nella mischia che si dimostrò affatto di essere vescovo e volava di paese in paese in cerca di voti pel suo Cerabona». Per la rinascita di Castroregio le richieste di aiuti furono rivolte agli uomini politici, perché erano problemi temporali quelli che urgevano, problemi la cui soluzione poteva creare le premesse per la trasformazione della zona depressa che comprendeva il suo paese Castroregio e Farneta. Non si voleva restare più isolati, si volevano creare rapporti nuovi e la strada rappresentava una necessità inderogabile. I cittadini di Castroregio la scorgevano, dall’alto, giù, ai piedi del monte, la strada che portava ad Oriolo, ma essi, a dorso di mulo o a piedi, dovevano scendere attraverso impervi sentieri, per raggiungerla. Dopo suppliche e istanze il Sottosegretario di Stato del Ministero dei Lavori Pubblici dell’epoca ragguagliò il Camodeca, che era l’anima di questo movimento, che la strada che avrebbe dovuto congiungere Castroregio al confine di Amendolara si sarebbe realizzata a breve. Col problema della strada altri ne riemersero in un paese fermo nel tempo! Egli avrebbe voluto risollevare le sorti dell’agricoltura, lo abbiamo letto sul « Lavoro interazionale » e, dopo una visita a Cassano Jonio, concepì un vasto disegno: far sorgere un istituto enologico e una cantina sperimentale sul monte di quella cittadina. «La ricchezza del suolo, la mitezza del clima, la ricercatezza dei vini mi ha fatto gettare gli occhi sul vostro monte, il quale con la grande sua estensione di vigne, meglio di tutte le altre contrade delle provincie meridionali si presta ». Interessanti gli argomenti che produsse per la realizzazione di un tale progetto, e quante citazioni di classici, che a lui erano familiari! «Non erano rinomatissimi e salutari i vini di Sibari, di Turio, di Lagaria? Plinio li rammenta e Strabone li loda». “ Vinum Thurinum inter vina nobilissimum “. “ Lagaritanum vinum nobile, dulce ac molle a medicis mirifice commendatum “. “E Sibari, e Turio, e Lagaria non avevano forse levigne su questo monte?”. “I nostri vini dunque ebbero anche un tempo la loro rinomanza: a Roma, ove l’apparecchio del triclinio assorbiva il maggior tempo e le maggiori cure degli imperatori, a fianco dell’anfora di Falerno, aveva posto la anfora del vino calabrese!” Una stasi, però, sopravvenne, perché un grande cataclisma si abbatté sull’Italia: la prima guerra mondiale. Furono anni di sacrifici e di dolore: da Castroregio partirono tanti giovani ed alcuni non ritornano. Erano anche gli ultimi anni di Don Pietro, che anelava la pace, quella che egli, forse, trovava tra gli ulivi del suo Frangile, lambito, giù, a valle, dal fiume Ferro. Lo lasciarono anche i fratelli: nel 1917, l’uno dopo l’altro, scomparvero Crispino e Domenico. Si avvicinava la fine anche per lui: l’annosa quercia, come una delle tante di quelle che i suoi antenati, arrivando, avevano trovato a Cerviola, quattro secoli prima,si schiantò. Era il 19 Settembre del 1918.
















 

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