Capitoli e grazie concesse dai principi Carafa ai
cittadini di Sant'Arcangelo
Antonio Molfese
Introduzione
Lo scopo di questa pubblicazione è stato quello di raccogliere in modo
organico le leggi, 'capitoli'*1
e grazie che hanno fatto crescere la nostra piccola comunità rurale di S.
Arcangelo di Basilicata.
Il periodo a cui ci riferiamo, XVI secolo, è una epoca di transizione, in
cui si assiste al consolidamento di classi politiche ben determinate ed
autonome, di nuovi ceti che daranno il tono negli anni successivi alla
cultura ed alla vita pubblica contemporanea, in primo luogo la piccola nobiltà (o nobiltà cadetta) ed i forensi.
La situazione della Spagna e dei paesi dell'orbita spagnola nella seconda
metà del XVI secolo ritrae le condizioni dell'impero di Carlo V che
dilapidò risorse ingenti, notevoli infatti furono i debiti dovuti alla
politica imperiale; nè Filippo II ed i suoi successori seppero porre freno
all'insanabile impoverimento delle entrate dello Stato, data anche la
dilagante povertà.
In questo periodo poi si consolidò l'ossatura burocratica dello stato
ancora agli inizi (centrale e periferica e dei comuni che sorgevano) ed,
in particolare, quelle funzioni politiche che in precedenza erano state
prerogative feudali pervennero in mano ad individui che in genere non
avendo alcuna nobiltà nè di sangue nè di animo, erano desiderosi di
arricchirsi.
Si diffuse inoltre la tendenza agli studi giuridici (solo per pochi) ed
alla carriera impiegatizia, considerata altamente remunerativa; vi erano
pochi capi, molti subalterni e moltissimo personale d'ordine (valletti,
uscieri), per cui accanto a pochi alti personaggi che affluivano negli
uffici vi fu una turba di individui di umili condizioni, che si
accontentavano di un misero salario, ma questo era una infima parte di
quello che rendevano loro le tangenti, le mance, le ruberie, di cui si ha
notizia dettagliata nelle carte del tempo.
Lo stesso avveniva per le classi dirigenti o per molti di coloro che vi
appartenevano, per cui il concetto di utilità che valeva per gli impiegati
subalterni aveva vigore anche per i capi; acquistare un impiego equivaleva
in pratica ad un ottimo investimento di capitale. Tutto questo poi
contribuiva ad accrescere il disordine amministrativo che regnava
nell'Italia meridionale, territorio che cercava di darsi delle regole, il
cui rispetto lo avrebbe fatto diventare stato.
La raccolta dei Capitoli e delle Grazie di S. Arcangelo di Basilicata, in
parte pubblicati da G. Giocoli nella sua storia di S. Arcangelo, ma
diffusamente, e mi auguro per intiero, da L. Pennetti, ai quali va il
nostro ricordo e la più viva riconoscenza, è stata trascritta,
interpretata c commentata alla luce di documenti della mia famiglia e di
documenti forniti dal principe Lorenzo Colonna di Stigliano, scomparso di
recente.
La ricerca e la interpretazione di queste carte inedite continua sia negli
archivi italiani che di Spagna (Simancas), e sia presso le famiglie del
mio paese o originarie del posto, per portare ancora luce a tanti
avvenimenti di politica comunale, che hanno dominato la vita in questa
nostra piccola comunità rurale e di cui restano ancora oggi le vestigia di
passati splendori.
1 -
CAPITULA: norme delle ordinanze emanate da Carolingi dette così dalla loro
divisione in capi (Capitala). Una siffatta legislazione regia aveva già
cominciato a svolgersi sotto i nomi di Edicta, Decreta, Praecepta,
Costitutiones e anche di Capita/aria. La legislazione dei capitolari
riguardava tutti i rami del diritto, dal pubblico al privato, dal diritto
penale al civile, e si divideva in due classi: capitolari ecclesiastici e
capitolari mondani.
I primi erano regole relative alle persone, ai patrimoni ed agli uffici
della Chiesa ed erano sanzionati dal re; i secondi riguardavano tutte le
altre persone. Questi utlimi in base ad una terminologia che è usata dagli
stessi testi si suddividevano in tre gruppi: I) Capitularia legibus
addenda (disposizioni destinate a riformare e a completare le leggi
popolari che di regola dovevano essere approvate dall'assemblea del
popolo); 2) Capita- /aria per se scribenda (leggi emanate in forza del
potere regio aventi un valore proprio indipendentemente dal voto popolare,
che riguardavano soprattutto il diritto pubblico e avevano valore
territoriale per tutti i sudditi); 3) Capita/aria missorum (istruzioni che
il re dava ai suoi rappresentanti delle provincie, missi dominici).
UNITA' DI MONETE, DI
SUPERFICIE, DI PESO E DI CAPACITA' NEL REGNO DI NAPOLI
Unità di monete:
Oncia: 6 ducati = 30 tarli.
Ducato: 5 tarì = 10 carlini 200 tornesi.
Tarì 2 carlini = 20 grana 40 tornesi = 240 cavalli. Carlino: 10 grana =
20 tornesi = 120 cavalli. Grano: 2 tornesi = 12 cavalli.
Tornese: 6 cavalli.
Cavallo
Unità di
superficie:
Tomolo: moggio = 900 passi quadri è 33,64 ha.
Passo quadro: 3,73 mq.
Unità di peso
Cantaro: 100 rotoli = 89.09 kg.
Cantaro piccolo: 36 rotoli = 32,07 kg.
Rotolo: 0,89 kg.
Unità di
capacità
Carro: 38 tomoli = 1991 litri.
Tomolo: 24 misure = 55,31 litri.
Misura: 2,32 litri.
La soma ed il tomolo
piccolo (misura antica):
Soma: 4 tomoli piccoli = 168,60 litri.
Tomolo piccolo: 42,15 litri.
Per il vino e
l'acquavite:
Carro: 2 botti = 24 barrili = 1047,00 litri.
Botte: 12 barrili = 533,50 litri.
Barrile: 60 carrafe = 43,62 litri.
Carrafa: 0,72 litri.
Per l'olio:
Salma: 161,29 litri.
Staio: 10,08 litri.
Unità di
lunghezza:
Miglio: 1000 passi = 1845,60 m.
Pertica: 10 palmi = 2,63 m.
Palmo: 12 once = 0,26 m.
Unità di volume:
Pertica cuba: 1000 palmi cubi = 18,33 mc.
Canna: 128 palmi cubi = 2,34 mc.
Palmo cubo: 0,018 mc.
NOTE STORICHE
Antonio Carafa
(1517-1531) - Luigi Carafa (1531-1577)
Alfonso d'Aragona,
debellato Renato d'Angiò imperò indisturbato con il nome di Alfonso I.
Alla sua morte (1458) gli successe a Napoli il figlio naturale Ferdinando
I d'Aragona, in Sicilia il fratello Giovanni d'Aragona. A Ferdinando I
succedette il figlio Alfonso II (anno 1494) e poi per rinuncia di costui
il figlio Ferdinando II. Questi, privato del regno da Carlo VIII di
Francia, chiese aiuto al cugino Ferdinando detto Il Cattolico, re di
Sicilia e d'Aragona, e dopo molte peripezie il regno di Napoli passò a
Federigo, ultimo discendente di Alfonso I e ultimo degli aragonesi di
Napoli. In seguito succeduto in Francia a Carlo VIII, Luigi XII si rivolse
a Ferdinando il Cattolico per trattare con lui una divisione del regno, ma
nata una guerra tra loro, alla fine dopo molte peripezie il regno rimase
al solo Ferdinando il Cattolico, che riunì di nuovo i regni di Napoli e di
Sicilia.
Dopo qualche tempo Ferdinando si ritirò in Spagna. Continuò a governare
per mezzo di vicerè o di luogotenenti. Alla morte di lui (anno 1516) il
regno di Napoli e di Sicilia passò a Carlo V, arciduca di Austria.
Gli Aragonesi denominarono le loro leggi pranunariche; di queste restano
famose quella che introdusse il censo consegnativo o compra dell'annua
rendita, quella che riguardava l'apprezzo dei beni mobili ed immobili*2
e quella relativa al salario*3
.
Oltre le prammatiche i sovrani aragonesi concessero diverse grazie e
privilegi, provvedimenti che si domandavano al sovrano, il quale li
concedeva nei parlamenti generali, specialmente in occasione di nuove
imposte o donativi (tributo straordinario in denaro). Delle grazie e dei
privilegi furono fatte due raccolte (Giannone, tomo IV, libro XXVI, cap.
1). Quanto ai tributi, nel regno di Ferdinando il Cattolico, si decise
che, abolita ogni colletta, sia ordinaria che straordinaria, si esigessero
solo le funzioni fiscali in ragione di carlini 15 e grana 2, cioè ducati 1
e grana 52 per ciascun fuoco o famiglia.
Nacque così la numerazione dei fuochi, la quale in principio veniva
effettuata ogni tre anni, ma in seguito fu eseguita ogni quindici anni dal
momento che il costo era eccessivo.
2 - De
appretio site bonorum aestimatione (19/11/1467): era una prammatica che
ordinava che fosse eseguito ogni anno l'apprezzo dei beni mobili ed
immobili siti nelle città e nelle terre (anche se i proprietari abitassero
altrove) dal capitano o ufficiale e da sei cittadini (due nobili, due
borghesi, due popolari) u loro giuramento, affinche ciascuno
proporzionalmente ai propri beni contribuisse alle funzioni fiscali o
collette (cioè il pagamento delle tasse). Dell'apprezzo e della tassazione
si facevano due esemplari, dei quali uno restava nella città e l'altro era
depositato nella regia corte della sommaria.
3 - De
baronibus et eorum officio (23/7/1466): limitava le vessazioni che i
baroni esercitavano sui cittadini ed in particolare la legge
(14/12/1482/83) con la quale si stabiliva che in cambio di un lavoro
doveva essere corrisposto un salario giusto.
Ferdinando I abolì poi i servigi angari e perangari (prestazioni angarie e
perangarie che consistevano in opere personali a beneficio del feudatario,
intendendosi per le prime opere personali retribuite, per le seconde
quelle non retribuite) e dispose che qualunque prestazione di opera o di
cose dovesse essere ricompensata adeguatamente; ridusse la tassa
giudiziaria e quella sulla spedizione degli atti amministrativi e
restrinse le immunità ecclesiastiche.
Quando Stigliano passò in mano spagnola nel 1504 era in possesso di Eligio
Il della Marra, conte di Aliano. La famiglia della Marra possedeva questo
feudo fin dal 1289, epoca in cui Carlo d'Angiò l'aveva concesso in feudo.
Eligio II era così legato a questa terra, al feudo che comprendeva Stigliano, Aliano, Alianello, Sant'Arcangelo, Rocca- nova, Guardia,
Gorgoglione ed Accettura, che quando morì nel 1517 si fece seppellire nel
convento di Sant'Antonio di Stigliano con la moglie Ciancia Caracciolo. Il
sarcofago in seguito ad un terremoto, fu distrutto. L'eredità passò alla
sorella Isabella, che aveva sposato Luigi Carafa, conte di Mondragone, il
quale fu il primo a possedere il titolo di principe.
Appena gli spagnoli subentrarono agli aragonesi, il regno di Napoli si
riempì di titolati che comprarono o ereditarono feudi. Per ricordare
quelli che interessano la zona della regione della Basilicata, oggetto del
presente studio, diremo che i Guevara comprarono il feudo di Montepeloso
(Irsina), i d'Avalos il feudo di Tursi, i Cardenas il feudo di Pisticci e
i della Marra quello di Stigliano. Colobraro conobbe i Sanseverino, i
Podico, i Pignatelli, i Baroni Comite ed i Carafa.
Nel XV secolo Aliano da Michelotto Sforza di Cotignola passò a Innico di
Guevara e quindi a Guglielma della Marra e poi ad Antonio e Luigi Carafa
della Marra.
Riportiamo alcune notizie sulla discendenza dei feudatari che possedettero
il feudo di Stigliano, di cui faceva parte S. Arcangelo.
Don Antonio Carafa successe a Eligio della Marra e chiese a Carlo V il
titolo di conte di Mondragone (6-5-1519). Dopo aver poi comprato per
40.000 ducati dal principe di Salerno la contea di Satriano, con Calvello
e Tito, e da Alfonso Sanseverino, duca di Somma, nel 1524, San Chirico,
Sarcone e Moliterno, ottenne da Carlo V il titolo di principe di
Stigliano, il 21-6-1522, con queste parole 'oh animi magnitudinem,
generis, et prosapia antiquitatem et nobilitatem ob accepta et preclara
gesta, servitia per eum per adecebores de domo Carafa, pacis, belli
tempore prastita'.
Questo fu il primo titolo di principe che entrò nella famiglia Carafa e di
questo titolo Antonio se ne gloriava tanto che visse sontuosamente in
palazzi di Napoli e della Campania; inoltre mise su un allevamento di
cavalli la cui razza fu giudicata la migliore del regno.
Nel 1526 don Antonio Carafa chiese l'assenso di fare testamento, di
dividere cioè i suoi feudi e concedere al primogenito il titolo di conte
di Aliano e le terre del feudo di Stigliano; ai rimanenti figli Girolamo,
Giulio, Fabio e Scipione altri feudi e incarichi remunerativi (Bagliva di
Napoli e Mastrodattia); alla sua consorte Ippolita di Capua, principessa
di Stigliano, la terra di Satriano, di Tito e Calvello per i suoi
alimenti. Dal matrimonio oltre ai 5 figli maschi, nacquero 2 femmine,
Bernardina e Roberta.
Ad Antonio successe Luigi Carafa, secondo principe di Stigliano, duca
della Rocca di Mondragone, conte di Aliano e grande di Spagna. Egli
successe al padre nell'anno 1531, a venti anni, nei titoli e stati da lui
posseduti. A Bologna, nel 1530, alla incoronazione di Carlo V fu presente
con il seguito di tutta la stalla di cavalli che il padre gli aveva
lasciato. Di fronte ai più importanti ospiti anche stranieri, Luigi Carafa
fu scelto dal re per accompagnarlo nel suo viaggio verso la Spagna fin ai
confini dell'Italia. Sposò Clarice Orfina, figlia di Giovanni Giordano,
duca di Bracciano, e dalla quale ebbe un figlio, Antonio. Mantenne una
cavallerizza di 100 cavalli e tanti falconi che mangiavano 40 galline al
giorno.
Il principe viveva nella Villa Sirena, situata sulla costiera di Posillipo
e nel palazzo di Porta di Ghiaia, con giardino e fontane sontuose. Alla
morte della prima moglie, sposò in seconde nozze Lucrezia del Tufo,
figliola di Giovanni Giordano, marchese di Lavello e di Isabella di Guevara, figlia del conte di Potenza.
Don Antonio Carafa, terzo principe di Stigliano, duca di Mondragone e
conte di Aliano, succedette al padre Luigi e fu un principe degno di lode
e di animo generoso. Aspirava ad avere cariche militari, tanto che si recò
alla corte dell'imperatore Carlo V ed ebbe come il padre onori riservati a
gente di alto rango; si potè quindi fregiare del titolo di Grande di
Spagna; sposò donna Ippolita Consaga.
Don Luigi Carafa, quarto principe di Stigliano e del Sacro Romano Impero,
duca di Mondragone, conte di Aliano, cavaliere del Tesor d'Oro e grande di
Spagna, a 10 anni restò orfano del padre e gli fu tutrice e balia Roberta Carafa, duchessa di Maddalone, sua zia maggiore, che estinse i debiti e
accrebbe enormemente l'entrata del suo patrimonio. Sposò Isabella Consaga
di Aragona, principessa di Stigliano, che morì nell'anno 1637. Dal
matrimonio nacque un figlio, don Antonio, duca di Mondragone, che
succedette al padre Luigi.
Don Antonio Carafa sposò Eleonora Aldobrandini e dal matrimonio nacquero
tre figli, Giuseppe, Onofrio e Anna. Dopo la morte di Giuseppe e di
Onofrio, l'eredità passò ad Anna Carafa, principessa di Stigliano,
duchessa di Sabioneta, vice regina di Napoli. Donna Anna Carafa sposò don
Filippo Ramirez di Guzman, duca di Medina de la Torres. Fece ricostruire
ed abbellire il palazzo chiamato La Sirena, alle falde del monte Posillipo,
con più di duecento camere, fontane e giardini. Dal matrimonio nacque don
Nicolas Guzman Carafa, principe di Stigliano (titolo acquisito dalla
madre), e alla sua morte (1689) il feudo ritornò alla corona e quindi
all'Imperatore.
SUCCESSIONE DEL CASATO
DELLA MARRA CARAFA
|
Don Eligio II Della
Marra |
Ciancia Caracciolo |
|
successe |
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1519 |
Antonio Carafa |
Ippolita Di Capua |
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I Principe di Stigliano |
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Luigi
Girolamo Giulio Fabio Scipione
Bernardina Roberta |
|
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1531 |
Luigi Carafa |
Clarice Orfina |
|
Il Principe di
Stigliano |
in seconde nozze sposò |
|
Conte di Aliano |
Lucrezia Del Tufo |
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|
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1563-1574 |
Antonio Carafa |
Ippolita Consaga |
|
III Principe di
Stigliano |
|
|
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|
1590-1603 |
Luigi Carafa |
Isabella Consaga di
Aragona |
|
IV Principe di
Stigliano |
Principessa di
Stigliano |
|
|
|
1603
|
Antonio Carafa |
Eleonora Aldobrandini |
|
Giuseppe
Onofrio Anna |
|
Anna Carafa |
Filippo Ramirez De
Guzman |
|
Principessa di
Stigliano |
Duca di Medina De La
Torres |
|
Vice Regina di Napoli |
|
|
Don Nicola Guzman Carafa |
|
Principe di Stigliano |
Alla sua morte (1689) il Feudo tornò alla Corona e quindi all'imperatore
Anche Sant'Arcangelo fu prima dei Della Marra e poi, come abbiamo visto, a
seguito di matrimonio, della famiglia Carafa Della Marra. I contadini che
vivevano in questi feudi erano tenuti a pagare al feudatario tasse in
danaro, in natura o in prestazioni personali. Ad esempio se il contadino
andava a caccia nelle terre del Signore, doveva pagare un corrispettivo in
natura. Se invece attraversava determinate strade o abbeverava le bestie
ad alcune fonti pagava un pedaggio. Spesso avvenivano soprusi nei riguardi
dei più deboli e numerose erano le dispute, che terminavano quasi sempre
con la prigione del malcapitato.
Molto spesso però i cittadini di questi paesi, specie quelli che erano più
poveri, ed erano la maggior parte, cercavano con ogni mezzo di evitare il
pagamento di balzelli, imposizioni in natura o in danaro a fronte di
servizi (molitura di cereali), di prelievi (acque per irrigare) o di
esercizio (andare a caccia o raccogliere la legna), che spesso erano
esercitati, specie questi ultimi, di nascosto e con la complicità delle
stesse guardie preposte al controllo.
Si venivano a creare così degli usi, alcuni dei quali vitali ma gravosi
per la popolazione. Per eliminare ed affrancare alcuni di questi usi era
necessario che i cittadini pagassero alcune somme; solo così il feudatario
rinunciava a questi diritti che concedeva a titolo di privilegio. Così
dietro il pagamento di una somma capitalizzata, il feudatario rinunciava a
favore della cittadinanza ad entrate che fino ad allora erano state esatte
ogni volta che il cittadino usava il bene. Il complesso dei riconoscimenti
di queste consuetudini e delle regole che disciplinavano determinati usi,
costituirono capitoli, grazie, statuti. In Basilicata la maggior parte di
queste regole o norme non sono arrivate a noi, dal momento che non furono
stampate per mancanza di tipografie, che erano concentrate nei centri più
importanti (Napoli, Salerno, Bari, Foggia e Taranto). Potenza e Matera (XVI
secolo) non avevano tipografie.
Nei piccoli centri queste regole o norme quindi sono andate per lo più
smarrite, se non erano state trascritte da quei pochi dottori in
utroque jure*4
4 -
Gerardo Gioca pubblicò solo 7 capitoli, sebbene avesse permesso a L.
Permetti di pubblicarli per intero nella sua storia di Stigliano. Alcuni
dati, nomi e notizie riferite possono essere lacunose o non esatte per il
fatto che o non sono state reperite o in mancanza si è preso a modello
situazioni (capitoli, grazie) analoghe alle nostre. Alcune notizie sono
state desume dai capitoli di Trevi nel Lazio, comunità agricola simile a Sant'Arcangelo.
Nel regno di Napoli quasi
tutta la provincia di Basilicata era nelle mani di grandi feudatari, ai
quali si aggiungevano l'ordine ecclesiastico e i piccoli feudatari.
Accanto a questi vi erano le Università poche all'inizio, che si
formarono come complesso dei diritti dei cittadini e delle concessioni,
anche di terre, che il feudatario cedeva dietro pagamento; si determinava
così la costituzione del patrimonio dell'università del comune, la cui
crescita era legata alla liberalità del feudatario e alla solerte attività
degli amministratori eletti.
Gli Angioini accordarono maggiore autonomia Afe comunità (università
rurali), purchè adempissero oltre che agli altri obblighi anche a quelli
tributari (tributi e dazi locali), la cui riscossione ricadeva sugli
organi locali. Accanto al feudatario quindi vi era l'ordine ecclesiastico
e l'università che come ultima arrivata doveva, nelle dispute inevitabili
che spesso sorgevano, soccombere, anche perchè molte volte le condizioni e
i privilegi che il feudatario concedeva dietro un corrispettivo, erano
tramandate solo per via orale o come consuetudine. Per limitare la materia
del contendere si pensò di affidare alle carte queste libertà conquistate
o acquistate, questi diritti in materia pubblica e penale.
Così nacquero le carte a stampa, chiamate capitoli, che contenevano
istituzioni consuetudinarie, norme popolari che avevano valore generale o
particolare, territoriale o personale. I capitoli contenevano e
comprendevano anche le grazie. Per esempio accanto alla consuetudine di
concedere legname per ardere trasportato anche a dorso di animale, il
feudatario permetteva di poter abbeverare nella fontana del bosco gli
animali, o prelevare acqua da bere per uso personale. Questa era
considerata una grazia.
Le grazie concesse dal feudatario erano così impropriamente chiamate, dal
momento che spesso erano consuetudini o privilegi ottenuti quasi tutti
dietro pagamento o altro corrispettivo. Ad ogni cambiamento di feudatario
bisognava avere la riconferma delle grazie già concesse. Queste carte,
oltre agli usi civici (prestazioni), contenevano le regole sulle attività
degli ufficiali addetti all'amministrazione dell'Università (annona,
polizia urbana, polizia rurale).
Era necessario avere la materia per iscritto per meglio salvaguardare un
patrimonio di vecchie consuetudini, molte delle quali sono rimaste in vita
fino all'avvento della legislazione napoleonica in alcuni paesi del sud.
Inoltre le carte scritte erano le sole che la commissione feudale
riconobbe nella composizione delle. liti che si ebbero tra le università e
gli ex feudatari. I feudatari quando concedevano grazie, concessioni,
aggiungevano un piace: alle note marginali del documento. Molti di questi
capitoli e grazie che trattavano dei diritti e dei doveri dei cittadini si
rassomigliavano gli uni con gli altri, dal momento che i problemi erano
comuni e legati prevalentemente al tipo di economia che era quella
agricola. Accanto a questi documenti vi erano anche gli statuti, che
rappresentavano un complesso di disposizioni relative alla polizia
annonaria e alla polizia sanitaria e di regolamenti riguardanti la
edilizia. Gli Statuti, nel loro significato più immediato, rappresentavano
delle manifestazioni di volontà intese ad ottenere una determinata
condotta, sia attraverso uno iussus sia attraverso un accordo; le
fonti di tali manifestazioni di volontà potevano essere di ordine civile o
ecclesiastico, pubblico o privato, ed ancora rivestire il carattere di una
decisione o di un ordine o di una sentenza. Il rapporto tra consuetudine e
statuto è evidente in quanto la prima è un esempio tipico del diritto che
si forma spontaneamente senza il bisogno del legislatore, ma se veniva
fissata dalla scrittura (era invalso l'uso di trascriverla nello stesso
volume in cui venivano scritti gli Statuti), i diversi capitoli finivano
per confondersi in un'unica massa tanto che era difficile poi distinguere
i capitoli costitutivi dai capitoli ricognitivi del diritto.
AMMINISTRAZIONE DEL
REGNO DI NAPOLI
1. Organizzazione
centrale ed uffici principati.
Il Regno di Napoli (Pacichelli
1702) era amministrato da 7 uffici principali, che, tanto in pace che in
guerra, risiedevano a Napoli. Per mezzo di essi tutti gli ordini reali
venivano eseguiti; i preposti a tali uffici amministravano le entrate e le
uscite del regno, rappresentavano il Re nelle pubbliche funzioni e tramite
i loro luogotenenti ed impiegati*5
esercitavano la loro autorità fin nelle remote terre del regno.
Tutti avevano una rendita di 2190 ducati l'anno.
5 - Il
relevio era una tassa che era pagata dal feudatario che acquistava il
feudo in virtù di successione ereditaria (non quando il feudo si
trasmetteva invece ad altro titolo). Il relevio fu introdotto nella
monarchia per consuetudine e consisteva in una somma uguale al valore
della metà dei frutti percepiti dal fendo nell'anno della morte del
feudatario, dedotte le spese; se in quell'anno non si erano raccolti i
frutti si faceva una media dei tre anni precedenti. Per la liquidazione
del relevio, il successore del feudatario morto presentava alla regia
camera il conto dei frutti dell'anno in cui egli era morto e la regia
camera, dopo aver fatto la verifica e dopo aver citato l'interessato per
prendere cognizione della liquidazione, spediva la 'significatoria', cioè
i conti definitivi, e dava incarico al percettore della provincia di
esigere. Anche il relevio fu ritenuto, secondo l'opinione prevalente, peso
reale, quindi perseguibile anche presso i terzi.
Il primo di essi era il
Gran Contestabile, a cui era affidato rutto l'esercito terrestre,
portava la spada nuda davanti al Re nelle cavalcate e sedeva a mano
destra del Re. Si identificava nella persona del Vicerè.
Il secondo era il Gran Giustiziere, che governava la Corte suprema e si
occupava delle cause civili e criminali, così come delle cause feudali, e
tutti i titolati del Regno erano sotto la sua giurisdizione. Il suo
luogotenente era il reggente della Vicaria (Corte di giustizia del Regno).
Sedeva alla sinistra del Re.
Il terzo era il Gran Ammirante; era capitano di tutta la milizia
marittima, aveva potere di nominare luogotenenti e sedeva alla destra del
Re dopo il Gran Contestabile.
Il quarto era il Gran Camerario, che aveva cura del patrimonio reale; la
sua carica venne poi assunta dal luogotenente della camera della Summaria,
che veniva eletto dal Re con i suoi presidenti; amministrava i proventi
provenienti dal Jus Tapeti, dalle Catapanie delle terre demaniali, dalle
relevie*5 dei baroni,
dalle tasse del sale e dello Zucchero; sedeva dopo il Gran Giustiziere.
Il quinto era il Gran Protonotario, primo notaio o segretario del Re, il
quale nei pubblici parlamenti era il primo a parlare, riceveva le risposte
degli altri e conservava le scritture reali.
Il sesto era il Gran Cancelliere, il cui incarico era di suggellare tutti
i privilegi e le scritture reali; la sua giurisdizione fu poi esercitata
dai reggenti la cancelleria e dal segretario del regno; egli esercitava la
sua autorità sopra il Collegio, dove venivano laureati i dottori in legge,
in medicina e teologia. Si avvaleva della collaborazione di mastrodatti e
baiuli e rilasciava privilegi a coloro che si laureavano. Sedeva dopo il
Camerlengo.
Il settimo ed ultimo era il Gran Siniscalco, il quale era il Prefetto o
Maestro della casa reale; aveva in consegna gli ornamenti e gli apparati
regi ed aveva il compito di provvedere a quanto bisognava al Palazzo;
aveva anche cura delle razze dei cavalli, delle foreste e delle tenute di
caccia riservate al Re; la sua giurisdizione era in parte divisa con il
Maestro Cavallerizzo e in parte con il Maestro di Caccia. Sedeva ai piedi
del Re.
2. Organizzazione
periferica ed uffici.
A capo della università
(oggi comune) vi era il sindaco liberamente eletto tra i boni homines
e i magnifici (titolo concesso ai cittadini illustri della terra);
egli era coadiuvato nell'amministrazione della cosa pubblica dagli eletti
officiales o assessori.
Camerario o camerlengo o erario era l'assessore alle finanze che svolgeva
la sua mansione coadiuvato da apprezzatori, tassatori e razionali nella
riscossione di dazi, di gabelle e di entrate del feudo.
Baglivo e Baiulo, ufficiale del governo, riceveva ordini dal sovrano e dai
giudici. Oltre al potere amministrativo (salvaguardia dei beni dello
Stato) istruiva e derimeva le controversie civili ed era abilitato anche
ad arrestare ladri e assassini.
Notaio o cancellarius o mastrodatto teneva il registro delle deliberazioni
del feudatario, del sindaco, delle autorità in genere ed annotava tutto
ciò che avveniva nella comunità
Capitano era il responsabile militare della zona e sovraintendeva alla
sicurezza del comune in pace e in guerra *6.
6 -
CAPITANO. Questo termine ebbe in tempo antico un significato più ampio e
più esteso che non ai tempi nostri. Il capitano di giustizia o giudice era
il sovraintendente alle cose della pubblica sicurezza nei comuni e nei
fendi durante il Medioevo. Capitani nel Medioevo erano i valvassori di
qualche fendo o grossa terra con dominio ereditario. Avevano la
sorveglianza delle porte della città e ne tenevano le chiavi, erano
praticamente la forza militare che sovraintendeva alla sicurezza del
comune.
I giudici (questi erano
presenti nelle università più grandi) derimevano le cause civili e penali
o istruivano processi che inviavano a Napoli.
I mastro-giurati o ufficiali di polizia erano nominati dal baglivo e
vigilavano sull'ordine pubblico.
I viari o guardie rurali vigilavano sul territorio e sulle campagne allora
infestate da molti ladri e assassini.
CAMERLENGO o CAMERARIO
era colui che aveva in custodia il denaro pubblico, era praticamente il
tesoriere del duca e del feudatario, per cui rispondeva del suo operato al
feudatario o al re.
AUDITORE era un giudice civile.
ASSESSORE era membro della giunta comunale, eletto dal consiglio comunale,
fra i propri componenti, per assumere, per delega del sindaco, la
direzione di un ramo dell'amministrazione.
ATTUARIO era lo scrivano che raccoglieva gli atti pubblici delle assemblee
popolari; era anche cancelliere e notaio degli atti giudiziari.
MASTRI GIURATI. Già nel XIII secolo si sceglievano tra i locali cittadini
probi ufficiali di polizia (mastri giurati) con l'incarico di vigilare
sull'ordine pubblico. Federico II consentì che venissero affidate funzioni
pubbliche a cittadini probi, che diventavano, mediante giuramento, suoi
ufficiali. I giurati erano scelti dai bandi (per terras Baiulos Ordinandos)
ed avevano l'incarico di vigilare sull'ordine pubblico e prevenire i
delitti ed assicurare i colpevoli alla giustizia.
Tali funzioni nascevano dal fatto che ogni comunità era responsabile dei
delitti che venivano commessi nell'ambito del proprio territorio. Tra gli
altri compiti avevano anche quello di citare in giudizio, di vigilare
sulla quiete, comprese le taverne, nonchè di mantener efficienti le torri.
L'incarico durava un anno e l'elezione che, per antiquate consuetudinem
era affidata alla comunità veniva approvata dal governo o dal feudatario.
Al pari degli altri ufficiali anch'essi erano tenuti a dar conto del loro
operato.
Coloro che erano chiamati a reggere il paese dovevano avere un'età
superiore ai 30 anni. Il camerario era l'assessore alle finanze del comune
che raccoglieva le entrate e così pure iniziava esecuzioni contro i
debitori del comune.
Il Notaio era anche cancelliere ed annotava le deliberazioni e tutto ciò
che avveniva nella vita pubblica e nelle assemblee.
Il mandatario eletto dal consiglio e dagli officiali durava in carica 6/12
mesi. Nessuno poteva essere costretto ad accettare questo incarico, che
consisteva nel portare le citazioni per il pagamento delle tasse,
nell'intimare la comparizione in giudizio nelle cause civili e nello
svolgere i compiti oggi affidati alla posta, alla stampa e ai diversi
mezzi di comunicazione sociale.
Viari o guardie rurali erano eletti dal sopraconsiglio e restavano in
carica un anno. Prestavano giuramento e si impegnavano a compiere il loro
dovere in base allo statuto. Ogni mese ispezionavano le vie, le strade, i
luoghi pubblici e quelli circostanti il paese. Era loro obbligo riparare
le strade e mantenerle in buono stato; per questo potevano anche deviare
il corso dei torrenti. Tutti erano obbligati a sottostare alle loro
ingiunzioni. Le spese ordinarie annue per gli amministratori del comune
nell'anno 1610 erano così divise: Sindaci 12 ducati, 4 Eletti 24 ducati,
Cancelliere 12 ducati, Camerlengo 12 ducati, Erario 10 ducati, Procuratore
dei poveri 10 ducati, Rationale 10 ducati, Baglivi 3,3 ducati.
L'Università (era così chiamato il comune) era retta da un Sindaco e da
due o tre eletti scelti ogni anno dal 'parlamento', cioè l'assemblea di
tutti i capifamiglia del paese.
Il parlamento era chiamato ad esprimere parere sulla formazione del
catasto, sull'imposizione dei tributi, nello stabilire l'annona, nonchè
sulle decisioni relative alle liti da sostenere e sull'offerta dei
donativi al Sovrano, al Feudatario.
C'erano poi i giudici, capitani per l'esercizio della giurisdizione, gli
assessori, i segretari o mastrodatti e altri ufficiali.
Il Principe era responsabile della giurisdizione criminale, della zecca
dei pesi e misure, della portulania, della gabella per la "piazzola de
fora". La portulania consisteva nella sorveglianza (chi contravveniva alle
norme pagava multe salate) e conservazione in buono stato di strade,
prati, ponti, confini, siepi, mentre la 'piazzola de fora' era il
corrispettivo del canone che era dovuto per l'occupazione del suolo
pubblico. Mentre la giurisdizione criminale esercitata dai giudici di
nomina reale puniva i delitti di sangue infliggendo, se del caso, anche la
pena capitale, quella civile e mista era un privilegio feudale e
riguardava gli affari civili, le contestazioni di proprietà i furti e
così via. La giurisdizione baiulare era limitata alla esazione delle
imposte per cui il baiulo si serviva di gabellieri e tassatori.
Il baiulo aveva il mandato per amministrare le finanze e la giustizia,
aveva mansioni finanziarie e fiscali in quanto era incaricato della
riscossione dei dazi, delle imposte e delle multe che venivano pagate in
permuta delle pene carcerarie.
Era anche incaricato della manutenzione delle opere civili (strade e
ponti), del controllo sanitario (allora quasi inesistente), dei prezzi,
dei pesi e delle misure.
L'incarico aveva la durata di un anno ed il designato si faceva precedere
da un bando (programma) con i propositi e le norme che intendeva applicare
nel corso del mandato.
Copia Capitulorum Universitatis Sancti
Arcangeli et Gratiarum concessarum eidem Universitari, ab Ecc.mo Principe
Hostiliani Et sunt.
"Capitulorum Universitatis" SEGUE
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