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L'Emigrazione da un Paese Agricolo della Basilicata
Sant'Arcangelo Terra di Emigranti

ANTONIO MOLFESE
 

CAPITOLO IV°
EMIGRAZIONE E PROBLEMI DI SANIT
À PUBBLICA

 

1. L'IMBARCO E LA PARTENZA

I porti d'imbarco di elezione per gli emigranti italiani erano Genova e Napoli. Molti emigranti portavano con se un gomitolo di lana lasciandone un capo nelle mani di un parente; la nave partiva lentamente come se scivolasse su un piano inclinato ed i gomitoli si svolgevano dolcemente tra le grida delle donne e dei bambini, i fazzoletti sventolati ed i bambini sollevati per aria. Poi arrivava il distacco i fili di lana si rompevano rimanevano ancora a mezz'aria sostenuti dal vento e poi non si vedevano più. Rare fotografie documentano l'imbarco degli emigranti dal porto di Genova: famiglie numerose accampate a ponte dei Mille, dove non era stata ancora costruita la stazione marittima; sostavano all'aperto uomini con la "coppola" calata sul capo da sembrare quasi avvitata, donne avvolte negli scialli scuri, bambini infagottati in abiti ereditati dai vecchi. L'atmosfera che emana dal famoso racconto deamicisiano "Dagli Appennini alle Ande" ha valore di documento d'epoca. A bordo delle navi non ancora lussuose, non ancora veri "transatlantici", gli emigranti dormivano in grandi cameroni ricavati nei ponti inferiori; il vitto era costituito da una specie di rancio; la traversata durava anche tre settimane. A partire dagli anni venti, poi, quando le navi incominciarono a indossare la lussuosa veste del transatlantico e a ospitare la grande clientela internazionali, molte cose cambiarono; era ben vero che l'impronta al transatlantico era data dalle civettuole cabine dei ponti superiori, dai saloni illuminati sfarzosamente, dai camerieri impeccabili, dal comandante diplomatico poliglotta che intratteneva signorilmente capi di Stato e soprani famosi, ma per l'emigrante la vita a bordo non cambiò radicalmente. La distinzione tra i passeggeri "di classe" e l'emigrante era netta e inappellabile, al punto tale che agli ufficiali del Titanic sembrò naturale riservare agli ospiti di prima classe le lance di salvataggio disponibili al momento del naufragio. La "classe economica", la "classe turistica" vennero inventate per offrire un po' di comodità e di dignità anche a chi non era autorizzato ad accedere ai ponti superiori, nel corso della traversata verso New York.
Per milioni di emigranti, però, l'ultima attesa a cielo aperto sulla calata spazzata dal vento, la serie di notti trascorse nel camerone di stiva, il pasto militaresco erano l'anticamera della speranza: giorni vissuti in serenità, proiettati verso un avvenire pieno di promesse, che ha avuto il suo principio la mattina dell'arrivo nel grande porto di New York e nella visione della colossale statua della libertà, simbolo di un mondo nuovo o nel porto di Buenos Aires. La rotta più importante del mondo era, per tutte le marine mercantili, quella del nord Atlantico, che aveva il suo naturale capolinea a New York; le flotte degli armatori americani ed europei si sono fatte le ossa con il trasporto degli emigranti dal vecchio continente al nuovo, tra la fine dell'ottocento e i primi del novecento. Sono stati proprio i viaggi senza ritorno degli emigranti a favorire uno dei più straordinari fenomeni nel inondo dei trasporti la nascita del transatlantico; fenomeno strettamente legato a una ben definita classe sociale, la grande borghesia, ma connesso anche a una psicosi che ha travolto le nazioni e i governi, la battaglia per far sventolare la bandiera nazionale a poppa di navi sempre più lussuose, sempre più grandi.
Il capostipite dei transatlantici, la nave britannica Great Eastern(1)
, varata il 30 gennaio 1858, venne quindi impiegata per un lavoro tecnico, (la messa in opera del cavo telegrafico di collegamento tra l'Europa e l'America) non per trasportare belle signore allungate pigramente sulle sedie a sdraio allineate sul ponte sole. La stagione dei transatlantici durò circa un secolo, poiché proprio nel 1958, con l'entrata in linea dei grandi e affidabili quadrimotori a getto, le lussuose navi passeggeri di linea ebbero il loro tramonto; la borghesia ricca, la buona società internazionale non scoprirono però il transatlantico come status symbol subito dopo il varo del Great Eastern, sebbene una trentina d'anni dopo. I primi veri utenti delle linee regolari transoceaniche furono, invece, gli emigranti; perché proprio nella seconda metà dell'ottocento ebbe inizio la grande fuga della povera gente dall'Europa all'America del nord e del sud.

 

2. FINALMENTE A BORDO

Il trasporto transoceanico degli emigranti fu disastroso prima del 1901; gli emigranti erano trasportati come merce in condizioni sanitarie pessime, disponendo di minime superfici in coperta, di minime cubature nei dormitori, senza comodità alcuna, senza assistenza. Poi le cose profondamente cambiarono, e la maggior parte delle navi per emigranti provvidero al frazionamento dei dormitori, all'istituzione dei refettori, alla sistemazione dei lavabi e delle latrine, alle attrezzature di lavanderia, alla miglior sistemazione delle infermerie, alla ventilazione, anche sotto la spinta dell'igiene navale che imponeva drastiche prescrizioni. La protezione degli emigranti a boro era affidata ad un Commissario, che in passato aveva anche tutte le mansioni sanitarie ed era perciò scelto fra i medici della Regia Marina in servizio attivo e messo a disposizione dal Commissariato Generale delle Emigrazioni; successivamente le mansioni di assistenza sanitaria furono affidate a medici di bordo. La tutela igienica dei trasportati era formalmente garantita da due sanitari: il medico di bordo e il medico militare. A quest'ultima figura, che fu seguito sostituita da un Commissario Regio, toccava il ruolo di controllore della vita di bordo, incaricato di sovrintendere a ogni fase dell'esistenza collettiva e individuale dei trasporti e di assicurare l'osservanza della legge e dell'ordine.
Il medico di bordo, che facendosi carico della salute degli emigranti svolgeva di fatto un ruolo insostituibile nella pratica sanitaria durante la traversata, era circondato da un discredito che lo collocava fra i paria della classe medica. Il disprezzo era motivato in gran parte dal fatto che, essendo stipendiati direttamente dalle compagnie di navigazione, questi medici si trovavano in genere a dover celare le reali condizioni sanitarie in cui avveniva il viaggio e a minimizzare i disagi e le sofferenze dei trasportati. Tale ruolo rendeva anche difficili i rapporti con i medici governativi: le conseguenze della confusa situazione gerarchica e dell'indeterminatezza delle competenze finivano per porre in costante conflitto i due medici preposti alla tutela sanitaria degli emigranti, a discapito di chi partiva. Sulla pelle dei trasportati si continuavano infatti a fare speculazioni di ogni tipo, innanzi tutto nei porti e poi durante il trasporto.
Le speculazioni avvenivano vendendo a caro prezzo generi di cui sarebbe stato vietato il commercio e raggirando gli emigranti in ogni fase del viaggio, da quella della disinfezione e del controllo dei bagagli a quella delle ispezioni sanitarie. Proprio in vista delle ispezioni le vere malattie potevano essere occultate e quelle false potevano venire invece documentate con l'aiuto di medici e infermieri compiacenti, comunque disponibili a una gamma di prestazioni truffaldine che avevano come denominatore comune un danno a carico degli emigranti. Oggetto di vessazioni di ogni tipo, questi ultimi mettevano a repentaglio durante il trasporto per mare il bene più prezioso di cui disponevano: la capacità di lavorare come individui sani. Solo con un decreto regio del 13 novembre 1919, diventato legge nel 1925, fu stabilito che il vettore rimborsasse le spese di viaggio agli emigranti respinti alla partenza "per malattia accertata" e a coloro ai quali fosse negata l'autorizzazione all'ingresso nel paese di destinazione.

 

3. IL VIAGGIO PER L'OCEANO

Dopo l'opera di persuasione da parte dell'agente di emigrazione, l'emigrante deve procurarsi, quando non è già pagata, come nel caso "dell'emigrazione di richiamo" e "dell'emigrazione assoldata", la somma necessaria per il viaggio. E, come si è già accennato, per mettere da parte soldo su soldo "egli riduce con eroica virtù fìnanco il necessario alla vita; pel mentre che tutte egli utilizza le proprie forze, aggiungendo lavoro a lavoro, pel più magro compenso. E più s'ingrossa il modesto peculio, più si succedono le privazioni, altrettanto egli accresce i propri sforzi, moltiplica la propria lena". Molti sono costretti a vendere il pezzo di terreno o la casa. "Solo chi conosce l'attaccamento immenso che il contadino italiano, specie il meridionale, ha per la porzione di terra appartenendogli può comprendere con qual dolore l'agricoltore emigrante venda il suo appezzamento di terra! Solo chi sente tutto il fascino dei ricordi, può comprendere con quanta pena debba staccarsi dalla sua umile casetta in cui forse nacque e passò gli anni più belli dell'infanzia". La maggior parte del gruzzolo che il contadino ha saputo con fatica e sudori mettere da parte, svanirà in brevissimo tempo e, comunque, prima che egli metta piede sulla nave. Generalmente le torme di emigranti arrivano ai porti d'imbarco "cinque, sei, dieci giorni prima di partire", così riferisce il missionario parmense Maldotti. Lo scopo di tanto anticipo è uno solo: durante il soggiorno nel luogo d'imbarco non solo "l'agente o il subagente" ma anche "il fattorino, il liquorista, il cambiavalute, il taverniere", devono vivere su questi risparmi.
Questi, "sfruttando l'ignoranza, l'ingenuità, lo stato di avvilimento, le speranze stesse dell'infelice emigrante", gli fanno pagare anche quei servizi che dovrebbero essere gratuiti. Sono ospitati, nei giorni dell'attesa, nelle peggiori locande" a prezzi esagerati, ricevendo il compenso il trattamento più disumano. Non è raro nemmeno il caso in cui gli speculatori ricercano ed alimentano negli emigranti le tendenze al vizio, per trarne maggiori profitti. Negli alberghi le condizioni degli emigranti non erano migliori. "Non era raro vedere centinaia di famiglie sdraiate promiscuamente, sull'umido pavimento, o sui sacchi, o sulle panche, in lunghi stanzoni, in sotterranei, o soffitte miserabili, senz'aria e senza luce, non solo di notte, ma anche di giorno. Le derrate vendute a prezzi favolosi non sfamavano mai gli infelici". Quando del gruzzolo non rimane nemmeno l'ombra di un quattrino, allora, l'emigrante, alle volte anche famiglie intere, vengono cacciate e tutto ciò che hanno portato con essi, sequestrato. Si vedono perciò "le pubbliche piazze, le porte delle chiese e dei pubblici edifici pieni di gruppi di disgraziati emigranti, affamati, seminudi e tremanti di freddo, anche nelle notti rigide e piovose dell'inverno".
Molte volte accade che non tutti possono partire nello stesso giorno e con la stessa nave. Un'altra speculazione questa, perché pur di partire, pur di mettere piede il più presto possibile nella terra promessa, l'emigrante si contenta di pagare la somma di denaro in più richiesta dall'agente di emigrazione. Ma, "per esso, che non ha mezzi finanziari, non ci sono piroscafi, l'industria marittima non gli offre che bastimenti a vela". Viaggiamo "stivati come le acciughe, da millecinquecento e talvolta fino a duemila in vecchie navi che fino a ieri servivano per il trasporto di carbone o di altre merci; sovente sono a doppio ordine di corridoio, sempre a doppio e spesso triplo ordine di cuccette di legno, improvvisate, le quali, dopo pochi giorni di navigazione saranno nido di insetti e di ogni germe d'infezione".
"Il regolamento non concede che m.c. 2,25 d'aria sottocoperta, ad ogni emigrante; sopra coperta ... tutta l'aria del mare; ma vieta un poco di circolazione necessaria, se non altro, per sfuggire le esalazioni nauseabonde, le quali emanano dal sudiciume, inevitabile conseguenza dei disturbi che accompagnano, soprattutto i primi giorni di navigazione e dall'agglomeramento di tanta gente, ordinariamente poco pulita, in uno spazio assai ristretto". Su questi vapori, durante la traversata che dura dieci, quindici, venti o trenta giorni, secondo la velocità del vapore stesso, succede di tutto, "si soffre, si piange, si nasce, si muore...".
Non va, nel contesto, nemmeno tralasciato come le malattie infettive, quali il colera, il tifo, le febbri si sviluppino in questi vivai di carne (di questo si parlerà diffusamente alla fine del capitolo). "I tristi episodi si succedono agli episodi più strazianti: famiglie decimate, bimbi che piangono i genitori morti di recente, genitori che piangono i loro bambini perduti per sempre; mariti che lamentano la perdita della moglie, mogli che lamentano la perdita del marito. "Abbiamo assistito noi -si legge in un diario di un medico di bordo- allo sbarco di un povero uomo padre di 5 figli tutti in tenera età, che scendevano faticosamente la scala mobile del piroscafo, spingendosi avanti i figli piangenti, con in braccio il cadavere della moglie, morta da poche ore, e deposto il cadavere, risalire piangendo, la scala, per ridiscenderne subito, recando in braccio un'altra sua creaturina morta". Quando per molti la traversata si conclude in maniera così triste, allora sale sulle labbra degli sventurati, rabbiosamente, l'imprecazione contro chi è causa delle loro sventure.

 

4. ARRIVO SULLA TERRA PROMESSA

La necessità di creare un apparato di sostegno a quanti partivano, al momento dell'imbarco, fu caldeggiata da chi si poneva il problema della tutela dell'emigrante. Ricoveri, asili provvisori e punti di raccolta furono allestiti già dagli scalabriniani, che si occuparono prevalentemente delle partenze verso le Americhe. Tuttavia le difficoltà e i disagi non furono superati del tutto neppure dopo il varo delle prime leggi dell'emigrazione; si imbarcavano su bastimenti i cui armatori li facevano viaggiare come bestie da macello: "Siamo fissi come sardelle, il vivere è pessimo" scriverà un caro figlio "che minaccia in breve tempo la morte". E quanto al lavoro oltre Atlantico: "Ala matina si comincia cole stelle e la sera a casa cole stelle". Per emigrare dalle montagne del Sud, a fine '800, talvolta l'unica spesa era quella delle scarpe entro cui infilare i piedi fasciati di stracci; s'andava con il traino alla stazione più vicina o a piedi ed in treno fino a Napoli e al porto si cercava qualcuno cui baciare la mano e che in cambio di due o tre anni di lavoro in America anticipava il prezzo del biglietto. Così si abbandonavano l'Aspromonte e l'Irpinia, l'Abruzzo e le gelide cime molisane e lucane; da Napoli non emigravano in molti, dalla Sicilia si emigrò in massa solo dopo il 1900.
Gli uomini viaggiavano così come erano usciti per l'ultima volta dai loro tuguri; le donne portavano con sé una camicia da notte, che però mai toccavano durante il viaggio quando dormivano tutte insieme vestite. Le più accorte nel sacco, che era poi il solo bagaglio ci ficcavano tozzi di pane raffermo, duro come pietra: un venti chili; nei quaranta giorni del viaggio quella scorta arrotondava il rancio e aiutava a conservare un po' di carne. In tempi recenti si son visti emigranti con valigie di cartone richiuse da spago sui treni, ma nessuno ricorda il tempo in cui l'unico bene era un saccaccio buttato sulle spalle, e che serviva da guanciale su cui poggiare il capo giù nelle fetide stive in cui s'ammucchiavano gli emigranti; c'è una canzone napoletana che commenta: "E ce ne costa lacrime, st'America". Ma che cosa ci si lasciava alle spalle? Nel 1883 un'inchiesta del governo rilevò che il cibo dei contadini del Sud era "ordinariamente formato da pane di granone, da minestre di legumi freschi e secchi o da verdure sia cotte che ad insalata, da paste di casa e da patate. Poche volte all'anno mangiasi la carne, e il vino non è una bevanda ordinaria giacché il contadino ne fa uso, talvolta sino all'ubriachezza, soltanto nelle ricorrenze festive". Le abitazioni erano anguste, nere per il fumo, rischiarate solo da un tizzone o da lucerne con olio di lentischio; ospitavano con padre, madre, figli e figlie anche i polli, il somaro e il maiale. Tutti erano scalzi o avevano pezzi di cuoio legati con funi attorno ai piedi. Questa la descrizione degli "Atti della Giunta per l'Inchiesta Agraria" per le provincie di Potenza, Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria, pubblicati nel 1883.
Non c'era da meravigliarsi che la stragrande maggioranza degli emigranti fossero meridionali e i più agricoltori; nel profondo Sud nel 1895 il salario agricolo non s'era mosso da quello del 1790, mentre i prezzi dei generi di prima necessità erano raddoppiati! Alla fine dell'800 partirono dalle Calabrie, dalla Basilicata e dal mezzogiorno in genere milioni di emigranti così come dal nord d'Italia; questo fiume si riversò soprattutto negli Stati Uniti ma anche verso l'America latina. C'era gente che voleva salvarsi dall'estrema miseria in cui erano finite vaste aree italiane dopo l'unità; e nel Sud era soprattutto gente che si sacrificava a stremanti fatiche per il bene di che restava. Mentre le oscillazioni e i contrasti della politica non aiutavano, furono gli emigranti a provvedere di denaro i parenti; venne consentito così a poco a poco a un intero popolo di scuotersi dalla miseria e cominciare l'ascesa. Il lavoro dell'emigrante all'estero andava a beneficio del paese ove lavorava; ma poiché l'emigrante che lasciava la famiglia nel paese d'origine inviava ad essa i suoi risparmi, ne conseguiva un rivolo d'oro(2)
che entrava in patria attraverso il lavoro dei suoi figli all'estero. Poiché la ricchezza, col benessere economico apportava infallibilmente anche il progresso igienico, ne conseguì che sotto tale riguardo l'emigrazione poté considerarsi favorevolmente. Ma a questa parte attiva del bilancio si contrapponeva quella passiva del ritorno in patria di molti ammalati che avevano logorato la loro salute all'estero; e si è perciò discusso se in definitiva l'emigrazione sia stato di vantaggio o di danno allo stato sanitario ed igienico del paese.
All'arrivo delle navi nei porti esteri, gli emigranti erano sottoposti ad una accurata visita medica da parte delle autorità locali; il diritto di sbarco e di entrata nel paese veniva rifiutato a molte categorie di persone, che si potevano raggruppare in tre classi: i contagiosi, i tarati sotto il punto di vista mentale, gli incapaci al lavoro. Si comprendeva pertanto l'utilità delle visite mediche rigorose all'atto dell'imbarco e dell'eventuale controllo, in partenza, per parte di un medico di fiducia del paese di immigrazione. A New York gli emigranti, attraccata la nave al molo, non potevano sbarcare: venivano condotti ad Ellis Island per subire l'esame medico e rispondere alle domande degli ispettori americani. Nelle camere di attesa di Ellis Island aspettavano pazientemente il loro turno e venivano sottoposti sia a una doccia sia alla visita sanitaria la quale dava particolare rilievo alla ispezione degli occhi per l'eventualità che fossero affetti da tracoma infettivo; se risultati sani, solo allora erano liberi, ma dovevano fare attenzione ai sedicenti agenti di alberghi e di locande, ai facchini che si offrivano di trasportare i loro bagagli, alle guide, ai cambiavalute, a coloro che qualificandosi "paesani" e avvocati promettevano di far uscire un eventuale parente da Ellis Island.
Generalmente erano i parenti che ricevevano i loro cari "liberati" dalle estenuanti formalità a Ellis Island e finalmente erano ammessi negli Stati Uniti d'America; sensali, falsi impresari e speculatori d'ogni genere erano stabilmente in agguato. Alla loro protezione, non sempre efficacemente (le punte di arrivo superavano, talvolta, le quindicimila persone al giorno) provvedevano alcune istituzioni umanitarie tra le quali la "Società San Raffaele"; particolarmente arduo era proteggerli dall'ingorda speculazione dei così detti bosses e di quei banchieri ("banchisti") che offrivano contratti di lavoro con una commissione che spesso superava i cinque dollari, una cifra spropositata per quei tempi. Dopo le traversate transoceaniche il primo incontro con il nuovo mondo era la realtà dei porti di arrivo, dove i disagi non erano minori di quelli incontrati durante il viaggio; nelle strutture di accoglienza allestite nelle principali città portuali statunitensi e sudamericane infatti, le pratiche di sbarco, legali e sanitarie, costituivano già una prima forma di selezione ed esclusione. I controlli ad Ellis Island, nella baia di New York, erano per esempio decisivi per il permesso di entrata negli Stati Uniti.
Oltre agli apparati burocratici dei paesi di arrivo, il cui obiettivo fondamentale era quello di smistare la manodopera e allontanare gli indesiderati, operavano nei porti americani anche alcuni organismi assistenziali italiani: ancora una volta furono principalmente emanazione di enti privati, per lo più religiosi, o di istituzioni accreditate, spesso solo ufficiosamente, dal governo italiano. L'intervento degli enti assistenziali stessi tuttavia si concentrò in massima parte su aspetti marginali, come la ricerca dei bagagli o quella delle persone che si erano perdute, ed ebbe come massima espressione la gestione di un ospedale. Anche dopo il trattato del 1894, stipulato tra il governo italiano e quello statunitense, e in base al quale quest'ultimo avrebbe dovuto consentire la presenza degli agenti italiani durante le pratiche di sbarco, la possibilità di tutelare gli immigrati nel loro incontro con il lavoro rimase assai ridotta. Neppure l'Ufficio Governativo Italiano, aperto a New York nel 1906, riuscì a svolgere alcuna azione efficace per impedire sistemi illegali di reclutamento, né tanto meno per indirizzare i nuovi arrivati nelle parti del paese dove più facilmente avrebbero potuto trovare lavoro.
Nel paese di immigrazione poi l'emigrante si trovava sottoposto a nuove condizioni ambientali e veniva spesso a contatto con fonti di infezione diversi da quelli del paese di origine ed altresì diversa a seconda che l'emigrante si dava a lavori agricoli (come era frequente nell'America del Sud) o a lavori industriali (come era più frequente nell'America del Nord). L'Italia non si disinteressava dei propri emigrati, ma seguiva la loro tutela e la loro assistenza anche all'estero con Uffici di Emigrazione annessi alle rappresentanze diplomatiche od ai consolati, o con Uffici di Corrispondenza i quali oltre a prestare un'assistenza diretta, esercitavano anche una funzione di sorveglianza e di controllo sulle istituzioni private italiane di assistenza e sui patronati. I meccanismi di inserimento degli italiani nel mercato del lavoro all'estero cambiarono a seconda delle destinazioni e delle caratteristiche, urbane o rurali, delle singole realtà di arrivo. Per quanto riguarda l'esodo transoceanico, il caso esemplare dell'organizzazione del lavoro rurale furono le fazendas brasiliane, mentre le caratteristiche del lavoro urbano furono ben esemplificate dal sistema di reclutamento prevalente nelle città statunitensi.
Negli Stati Uniti l'immigrazione italiana ebbe accesso soprattutto a lavori di manovalanza nelle opere di viabilità, nella costruzione delle ferrovie, nelle miniere e poi nelle fabbriche, piuttosto che a quelli agricoli; inoltre, i lavoratori che provenivano dall'Italia ebbero subito a che fare con figure di intermediari da cui finì per prendere nome un intero sistema di reclutamento: il padrone system. Le origini di questa organizzazione risiedevano nel funzionamento del mercato del lavoro americano e nelle caratteristiche sociali del lavoro degli immigrati; rispetto al primo punto va detto che fino al 1885 il governo statunitense permetteva, attraverso la pratica del contract labor, che gli imprenditori importassero lavoratori attraverso agenti intermediari. D'altro lato, per chi arrivava dall'Italia privo di qualsiasi conoscenza della lingua e di punti di riferimento per orientarsi nel mercato del lavoro locale il padrone system costituì un sicuro meccanismo di ingaggio: i padroni, o boss, reclutavano infatti i nuovi arrivati per convogliarli verso i settori dove prevalentemente si affollava la manodopera italiana; l'opera di intermediazione comportava prelievi di denaro diretti e indiretti: fra i primi figurava l'esazione di una tangente iniziale, la cosiddetta bossatura, richiesta solo per l'assunzione, e di continui prelievi dai salari pretesi con mille espedienti. Fra i secondi comparivano l'obbligo di sistemarsi in alloggi procurati dagli stessi boss e anche di acquistare le vettovaglie negli spacci gestiti dall'intermediario; risultato finale di questo sistema fu di mantenere i lavoratori in una condizione di completa dipendenza economica dagli speculatori privandoli, di fatto, dei loro stessi guadagni.
Dall'inizio del Novecento la crescita delle comunità italiane, e le concomitanti trasformazioni del mercato del lavoro, permisero gradualmente a molti di liberarsi di quella gravosa intermediazione che aveva oppresso più generazioni di immigrati. Nell'emigrazione continentale il reclutamento del lavoro non si realizzava con formule rigidamente codificate come quelle del padrone system, tuttavia l'ingaggio, effettuato già a partire dalle località di partenza, sortiva effetti non dissimili; l'organizzazione del lavoro che prevaleva nei mestieri itineranti più umili, confusi spesso con il puro e semplice accattonaggio, come il lavoro degli spazzacamini e dei suonatori ambulanti, prevedeva infatti il vero e proprio acquisto di giovani e bambini da parte di individui che ne sfruttavano le prestazioni all'estero. Anche il sistema di assunzione in fabbrica era spesso affidato ad analoghi meccanismi di lavoro semiservile attuati attraverso l'intermediazione di un familiare o di un compaesano. Il "bosso" (boss) era un "duro", assai ben visto dagli imprenditori, che svolgeva, spesso in maniera spietata, funzioni di sorvegliante e di caposquadra; organizzava, mediante agenti, il reclutamento della mano d'opera in Italia e si faceva poi dare dagli assoldati una percentuale sulla giornata; quasi sempre si faceva affidare dai proprietari delle aziende l'appalto dei servizi e del rancio sui quali si arricchiva a danno dei lavoratori.

 

5. I LUOGHI DI DESTINAZIONE

"V'è una terra, lontano, al di là del mare, dove tizio che non aveva un soldo ora è ricco e ne manda a manate, dove un bracciante può perfino guadagnare un paio di scudi al giorno, dove, con un po' di sacrifizio, si può mettere da parte tanto che basti ad acquistare un campicello e vivere meno disperatamente con la propria famiglia. Perché non tentare la sorte...?" Questa terra è l'America ed in essa sono riposte le speranze e le illusioni dei nostri emigranti perché, soltanto al di là dell'oceano un tozzo di pane non mancherà loro, anche se dovessero cadere in disgrazia. Certamente il concetto geografico di "America" non è chiaramente definito nella mente della maggior parte degli emigranti i quali vedono "l'America in tutte le terre al di là dell'oceano". Va citato al riguardo un episodio, narrato da Sacchi, di un emigrante che dopo un breve soggiorno in Australia era andato dal Console a domandare il visto per rimpatriare: - "Signor Console, desidero rimpatriare, perché questa America non mi piace". I motivi per cui l'America prediletta è quella meridionale, sono vari: tra essi le condizioni climatiche ed ambientali in molte zone simili a quelle italiane, "viaggi gratuiti, premi in denaro prima della partenza, regali di strumenti ed utensili, di somministrazioni, di case e di terreni dopo l'arrivo, alloggi e mantenimenti in asili galleggianti, viaggi gratuiti per l'intero...". Tutti questi sistemi vennero adoperati dai vari Stati latino-americani "per incatenare l'uomo alla terra e per fare di un indifferente straniero un cittadino laborioso ed interessato al benessere della nuovo patria...".
Fino alla prima metà dell'ottocento, però l'America Latina non era che un luogo di deportazione, dove specialmente i Borboni di Napoli mandavano i condannati politici. Nella seconda metà del XIX secolo invece essa offre la possibilità agli operai di trovare lavoro, specialmente laddove il lavoro del negro, con l'abolizione della schiavitù, ha lasciato un vuoto. Ed in questo fondamentale periodo storico che la Basilicata e l'America s'incontrano in un unico punto: la necessità. L'America con la necessità di trovare nuova forza- lavoro, la Basilicata con la necessità uguale e contraria, quella dell'occupazione. La penuria di braccia lavoratrici e l'abbondanza di terre da colonizzare, fecero adottare all'Argentina, tutti quei sistemi di cui abbiamo già parlato, come l'offerta della terra e i viaggi gratuiti, e che si estesero poi a tutti i paesi del continente americano. Il suo scopo principale era quello di rendere fruttifere le sue immense estensioni di terreno che, specialmente nelle "pampas" sono prive di vegetazione. Queste terre, ora aventi valore nullo, presentano per l'Argentina le condizioni del tutto favorevoli di un'agricoltura estensiva. Sempre allo scopo di valorizzare queste terre, le autorità argentine facilitavano la penetrazione degli emigranti nell'interno, con la "casa de los immigrantes". In Argentina, dunque, paese nel quale ogni cosa facilita l'emigrazione, dalla lingua di facile apprendimento, al comportamento affabile di quelle popolazioni, dal clima mite alla vita campestre, gli emigranti e fra essi i contadini soprattutto, possono raggiungere una prospera posizione.

 

6. IL LAVORO ALL'ESTERO

Gli emigrati all'estero si improvvisarono spesso negozianti soprattutto per vendere ai connazionali prodotti alimentari importati dall'Italia (olio, vino ecc.) o per confezionarli secondo la tradizione gastronomica italiana (pane, salumi): gli espatriati, infatti, sebbene parchi a tavola, difficilmente si adattavano a rinunciare al tipo di cibo cui erano stati abituati a casa. L'esperienza commerciale dei primi negozianti fu perciò sempre positiva e diede loro il modo di provarsi anche in altri settori con notevole successo; alcuni, partiti da una modesta pizzeria o da un piccolo ristorante, riuscirono col tempo a varare intere catene di ristoranti, di empori d'ogni tipo e divennero proprietari di catene di alberghi. Fruttivendolo, barista e barbiere: furono tre attività tipiche dell'emigrato italiano che non voleva lavorare in fabbrica o sotto padrone, geloso della propria libertà e della propria iniziativa. Eccetto poche eccezioni (balie, falegnami, intagliatori, barbieri, marmorini decoratori), gli emigranti italiani erano soprattutto richiesti per i più umili lavori di manovalanza, anche perchè non desideravano mettere radici all'estero, ma restarvi solo per il periodo necessario al risparmio sufficiente a comprare, in patria, un pezzo di terra. Perciò la media dei nostri emigrati era di giovane età e preferiva lasciare a casa, se l'aveva, la moglie, nella speranza illusoria di far rapidamente fortuna.
Il baliatico all'estero entra nel fenomeno dell'emigrazione con aspetti tutti particolari; le allora famose e robuste balie feltrine, piemontesi e toscane ambivano ad emigrare perchè lasciavano una vita povera e di stenti per una lunga vacanza, ben rimunerate e, spesso, presso famiglie aristocratiche; ben vestite, ottimamente trattate -come mostrano le fotografie- queste balie emigranti riuscivano a portare a casa, essendo spesate, considerevoli risparmi. Il marito per tutta la durata dell'allattamento non poteva convivere con la moglie la quale aveva, tra l'altro, l'obbligo di nutrirsi quasi esclusivamente di carne di cavallo, considerata allora altamente ematogena e lattogena; il baliatico(3)
feltrino per esempio era assai rinomato e richiesto anche se non mancavano sui giornali attacchi a queste prestazioni considerate immorali.
Salvo rare eccezioni, gli emigrati non sposavano le straniere, e si sceglievano le mogli in Italia o nelle colonie italiane locali; un emigrato, scrivendo a un amico che aveva qualche perplessità a raggiungerlo, gli precisava in una lettera: "...non ti sgomentare che anche qui ci sono, belle e più ricche di là".

La fotografia diceva tutto e meglio della lettera; quelli che non sapevano scrivere perchè non abituati alla penna o perchè l'italiano, dopo tanti anni di permanenza all'estero, si era dileguato e imbarbarito preferivano la fotografia che raccontava meglio sulla fortuna fatta, sulla salute, sui figli nati in America, sui dolori sopportati, sul carattere che avevano acquisito. La fotografia, infine, poteva essere fatta vedere, passata al paese di mano in mano, agli amici, al parroco e all'eventuale ragazza che avesse intenzione di accasarsi con un paesano emigrato. Gli studi fotografici delle città in cui vivevano le colonie italiane lavorarono senza requie e si erano così bene organizzati alle richieste della clientela, che mettevano a disposizione per la posa, dinnanzi a scenari di cortine, tra vasi di fiori e statue liberty, anche cappelli, bastoni, scialli e eventualmente abiti di lusso: c'era, infatti, (ma raramente) in questi documenti parlanti una necessaria finzione, una pietosa bugia.
Emblematici sono i documenti su come alloggiavano e vivevano gli emigrati italiani a New York nel decennio a cavallo del secolo; vivevano in tuguri miserabili sovraffollando i tenements fino all'inverosimile. Si erano insediati soprattutto in Mulberry Street e vie adiacenti, nella zona meridionale di Manhattan, la "Little Italy"; asserragliati dai pregiudizi contro i quali non riuscivano a difendersi per ignoranza ed analfabetismo, preferivano rimanere uniti a costo di qualsiasi sacrificio: in un isolato di 130 stanze vivevano più di 1300 persone. In simili condizioni, privi come erano di ogni cultura igienica, la mortalità, specie quella infantile, era assai alta; i proprietari degli immobili specularono su tale indifesa umanità fino all'inverosimile, finché non intervenne il municipio che ordinò la demolizione dei peggiori di questi edifici. I pochi nuclei domestici insediati all'estero riuscivano spesso a utilizzare il lavoro femminile in casa offrendo vitto e alloggio ai connazionali; variamente chiamata a seconda delle località di arrivo -boarding house negli Stati Uniti, o più comunemente il "bordo", oppure becana in Svizzera- tale pratica presentava ovunque le stesse caratteristiche di pensione per uomini soli.
Gli emigranti avevano così il vantaggio di trovare un sicuro e immediato punto di appoggio all'estero e di conservare la lingua e le abitudini alimentari del proprio paese; la consuetudine non risparmiava tuttavia agli italiani di subire, talvolta, nuove forme di sfruttamento da parte dei propri connazionali: affollamento nelle stanze, scarsità di igiene, cibi scadenti e costi elevati erano i rischi più comuni nei quali incorrevano i pensionanti. In tutte le comunità italiane all'estero queste pensioni casalinghe furono la prima e più diffusa occupazione delle donne immigrate; si trattava infatti di un lavoro che sfruttava competenze complesse, come quella di saper cucinare, tener pulita l'abitazione, fare acquisti, occuparsi del vestiario, senza che fosse necessario anche conoscere la lingua del paese ospite. Spesso fra i "bordanti" comparivano compaesani, ma anche parenti del capofamiglia e della moglie; ne risultarono confini familiari molto fluidi e una tendenza diffusa alla formazione di gruppi domestici così numerosi da rafforzare negli osservatori stranieri lo stereotipo della struttura "patriarcale" della famiglia degli immigrati.
Con il sistema del "bordo" la prima generazione di donne italiane riuscì a contribuire al mantenimento della famiglia senza uscire dalle mura domestiche; ma non fu questa l'unica forma di attività femminile nell'emigrazione. Si trattò di una pratica sperimentata piuttosto nell'ambito degli esodi familiari e quindi all'interno delle partenze degli interi nuclei domestici. Le donne dettero però un consistente contributo all'esodo stagionale e temporaneo al di là delle frontiere anche da sole, sia esercitando nell'emigrazione i lavori delle più tradizionali migrazioni del passato, sia trovando occupazione in opifici e manifatture. La crescente presenza delle donne fra i nuclei di immigrati italiani all'estero si accompagnò alla stabilizzazione e al definitivo insediamento delle comunità nei nuovi luoghi di residenza. Con gli arrivi femminili iniziò infatti a mutare la fisionomia sociale complessiva degli insediamenti: a una composizione prevalentemente maschile e adulta delle prime comunità si sostituì una maggior articolazione per esso e per età. La presenza di donne, vecchi e bambini fu ovunque il sintomo di un processo di radicamento ormai avviato. Lo spazio geografico e sociale di tale radicamento furono i molti quartieri italiani delle grandi città statunitensi e sudamericane, oltre che europee, e i numerosi borghi caratteristici delle colonizzazioni rurali diffusi in massima parte nei paesi sudamericani.
Il fenomeno delle cosiddette "Little Italies" fu tuttavia una peculiarità dell'emigrazione transoceanica diretta verso le grandi metropoli statunitensi; in questi quartieri etnici il nucleo geografico ambientale, nel suo complesso, era costituito in primo luogo da associazioni di mutuo soccorso, organizzazioni di solidarietà, circoli di opinione politici o di campanile, da sezioni sindacali di lingua italiana. Non mancavano tuttavia le parrocchie, le missioni protestanti, con le annesse scuole parrocchiali per ragazzi e adulti; facevano da contorno le molte attività commerciali che comprendevano, tra le altre, le agenzie di viaggio, i negozi di generi alimentari e i ristoranti, le redazioni di giornali italiani, con le relative tipografie, squadre sportive, banche private e servizi di vario genere. Le complesse relazioni stabilite nel quartiere permisero agli abitanti di porsi in contatto con altre comunità di immigrati, spesso dimoranti in quartieri limitrofi, e di dar luogo a circuiti e canali di integrazione paralleli.
In ciascuna destinazione, i percorsi dell'integrazione ebbero comunque una scansione temporale modulata soprattutto sulla sequenza generazionale. La prima generazione restò in generale vincolata alla matrice culturale originaria, la cui espressione più evidente fu la doppia appartenenza linguistica, quel linguaggio in cui si confondevano i dialetti, le rudimentali nozioni della nuova lingua e le scarse conoscenze dell'italiano. La lingua ha svolto sempre, infatti, una funzione cruciale nelle dinamiche migratorie: mezzo essenziale per entrare in contatto con il nuovo contesto, ha costituito allo stesso tempo la barriera tra gli immigrati e la società ospite, l'emblema della nazionalità d'origine e anche lo strumento della marginalizzazione. Le seconde e le terze generazioni sono passate da un primitivo rifiuto della lingua originaria a un forte desiderio di riappropriazione delle proprie origini linguistiche. Il recupero dell'italiano si è accompagnato a una riscoperta della propria originaria identità nazionale soprattutto a partire dagli anni Settanta. È un'identità che è stata "ricomposta" scegliendo precisi ingredienti nel bagaglio di immagini positive che l'Italia ha saputo trasmettere di sé negli ultimi cinquant'anni.
Una specie di esperanto usato dai magliari e dagli orchestrali della bassa Italia era un linguaggio chiamato parlesia; ancora oggi, quando un magliaro giunge in un paese straniero e, da bravo uomo del sud, vuole mettersi in contatto con qualche collega, sapete come fa? Entra in un bar e, non appena scorge qualcuno dagli occhi neri e dai capelli riccioluti, gli va vicino e gli dice: "Appunisce 'a parlesia?". È un po' come dire: "parli la lingua?" oppure: "Stai dalla nostra parte o dalla loro?". Una parola d'ordine. La parlesia, un gergo basato in gran parte su vocaboli napoletani, aveva come fondamenta nelle sue costruzioni sintattiche due verbi essenziali: appunire e spunire. Appunire aveva un significato genericamente positivo e poteva voler dire moltissime cose; trovare un termine corrispondente nella lingua italiana o in qualsiasi altra lingua era praticamente impossibile. Appunire infatti poteva significare gradire qualcosa ma anche guardare una bella donna, accettare un caffè, voler bene a una persona o conoscere un fatto edificante. Appunisce 'a machinesia può voler dire: "ti piace questa macchina" ma anche "vuoi comprare questa macchina", tutto dipende dal contesto dove è stata inserita la frase. Spunire aveva invece significati negativi. Altri vocaboli usati erano 'a trioffe (la carne) u' chiarenze (il vino) o' sottocannizze (maccheroni fatti in casa). In questo modo si aveva l'impressione di poter comunicare con altre persone in piena libertà e senza che l'uditorio potesse comprendere il significato delle parole.

 

7. PROBLEMI SANITARI DELL'EMIGRAZIONE

Da molti secoli, le correnti emigratorie hanno inciso solchi profondi nelle compagini demografiche dei vari paesi ed hanno avuto gravi ripercussioni sull'economia dei vari popoli;solo di recente tali fatti, e specialmente questi ultimi, hanno richiamato l'attenzione dei sociologi. La influenza delle correnti di umanità migrante sulle proprie condizioni sanitarie e su quelle dei paesi nei quali esse si recano o dai quali esse ritornano è conoscenza recente, per quanto intravista anche da osservatori di tempi passati. Lo studio sistematico circa le conseguenze dell'emigrazione sulla salute pubblica è, infine molto attuale, ma deve ricordarsi, ad onore del nostro paese, che le repubbliche marinare di Venezia (1403), di Genova (1467) e di Amalfi (1469), seguite a qualche distanza di tempo da Marsiglia, furono le prime ad iniziare misure di profilassi contro l'importazione di malattie infettive a mezzo del traffico passeggeri e merci per via mare. Per lungo tempo queste correnti umane furono libere di muoversi a seconda della loro volontà, sia per la direzione da prendere sia per i mezzi di cui si servivano. In seguito, da parte dello Stato, fu provveduto a sorvegliarne il movimento delle masse e ad esigere miglioramenti nei mezzi di trasporto sia marittimi che terrestri.
Non sono passati, però, molti anni che si poteva scrivere:
"In epoca a noi poco remota l'emigrante era fatto preda della più indegna speculazione (quest'industria non è affatto cessata; basta ricordare le frequenti cronache giudiziarie relative all'emigrazione clandestina), talora indotto con raggiri e false promesse ad abbandonare la patria, tal'altra trattenuto nei porti d'imbarco, in alberghi detestabili, fino all'esaurimento dei suoi magri risparmi ... ed era indifeso a bordo, ove pure avevano luogo abusi di altro genere ... È un fatto notorio che l'emigrante era trattato a bordo nel modo peggiore, a volte maltrattato (esistono ancora sanzioni penali in caso di maltrattamenti, il che dimostra come, per lo meno, sia vivo sempre il ricordo di questa bruttura!)". Chi non ricorda le parole di De Arnicis: "nei dormitori era un puzzo di aria fradicia e ammorbata che dalla boccaporta spalancata ci saliva su a zaffate fin sul cassero, un lezzume da metter pietà a considerare che veniva da creature umane e da far spavento a pensare che cosa sarebbe seguito se fosse scoppiata a bordo una malattia contagiosa?"
La risposta a questo dubbio fu data non molto tempo dopo dalle epidemie di colèra sviluppatesi su alcuni trasporti di emigranti.

 

8. EMIGRAZIONE E STATO DI SALUTE. MALATTIE FISICHE E MENTALI

Tralasciando ogni altra considerazione, cui si presterebbe lo studio di questa massa umana in movimento, ci limiteremo a riportare alcuni fatti degni di nota che riguardavano la salute di queste correnti sia nei viaggi di andata che in quelli di ritorno e che sono stati messi in luce, quasi esclusivamente, dopo l'applicazione della legge del 1901 e pubblicati nelle relazioni statistiche compilate dal dirigente l'ufficio sanitario presso il Commissario Generale dell'Emigrazione. Dallo studio di questi interessanti documenti, il primo fatto che colpiva l'attenzione era il diverso comportamento della morbosità per ogni causa, la quale era notevolmente più bassa nei viaggi di andata (17,94‰) che non in quelli di ritorno, nei quali saliva al 21,68‰ (media dei due trienni 1903-05 e 1908-10). Ancora un altro fatto notevole si rivelava analizzando come si comportava questa morbosità generale a seconda che si consideravano i paesi di destinazione degli emigranti. Nei viaggi di andata al Sud-America, nel periodo preso in esame, si verificò una morbosità complessiva del 18,20‰, mentre in quelli di ritorno questa segnò 21,19, con la differenza in più di 2,99‰. Mentre per l'emigrazione al Nord-America le cifre furono rispettivamente di 11,21‰ nell'andata e 20,23‰ nel ritorno, con la differenza in più di 9,02‰. La differenza che si verificava nella morbosità dei viaggi di andata, avendo una massa quasi uniforme e selezionata pressoché con gli stessi criteri di attitudine al lavoro (quella diretta al Nord, però, era sottoposta ad un controllo sanitario più severo), doveva principalmente essere messa in funzione della maggiore durata del viaggio.
Una breve analisi delle cifre riportate ci permette di rilevare che la morbosità nei viaggi di andata era infatti più elevata nei bambini sotto i 5 anni,andava diminuendo col crescere dell'età ed era maggiore nelle donne che non negli uomini. Afferma il Capasso: "Molti sono i malati che rimpatriano. Chi abbia vaghezza di soffermarsi sulle banchine dei nostri porti all'arrivo dei piroscafi transoceanici, non stenterà molto ad identificare queste mute e scarne falangi di tubercolotici, di luetici, di alcoolizzati, di tracomatosi; esausti dall'incessante lavoro delle fondazioni e delle miniere, anemizzati, intristiti, già quasi spenti, che vengono restituiti a noi, zavorra inutile e pericolosa per popolare i patri cimiteri, non senza aver prima prodigamente ed inconsapevolmente disseminato nell'ambiente familiare e dei vicini i più tristi contagi".
Fra le malattie che più richiamarono l'attenzione furono la tubercolosi polmonare, tracoma o congiuntivite granulosa, l'anchilostomiasi, la sifilide, la lebbra, e qualche malattia cutanea, ecc. Le malattie infettive o trasmissibili presentate dal 1910 al 1923 da 866.226 rimpatriati dal Nord-America e da 411.317 dal Sud furono in ordine decrescente:
1) tubercolosi polmonare;
2) tracoma;
3) morbillo;
4) infezione malarica;
5) scabbia;
6) scarlattina;
7) anchilostomiasi;
8) infezione difterica;
9) vaiuolo
10) meningite tubercolare;
11) lebbra;
12) malattie mentali.

L'influenza esercitata dai tisici rimpatriati sul decorso della tubercolosi in Italia non era semplicemente numerica, ma pure epidemiologica, e si riconobbe tutta l'importanza del problema economico e sociale dell'importazione della tubercolosi per opera degli emigranti di ritorno. Merita perciò che su questo argomento ci si soffermi, per considerare quali fossero le ragioni principali generalmente, causa della diffusione della tisi dei nostri emigranti e del diverso comportamento del fenomeno a seconda che lo si considerasse negli emigranti che rimpatriavano dal Nord o dal Sud-America. Tenendo conto che la nostra emigrazione era formata da gente nel fiore dell'età, selezionata e costituzionalmente sana, perché così vogliono i paesi immigratori, occorre pensare che il germe specifico trovasse terreno adatto al suo sviluppo per la diminuita resistenza organica del nostro lavoratore e per il facilitato contagio negli individui originariamente immuni. Le influenze dannose sull'organismo potevano essere riconosciute nel clima e nel lavoro, mettendo in confronto l'emigrazione al Sud con quella diretta al Nord. Nel primo caso erano prevalentemente agricoltori dell'Italia settentrionale, i quali lavoravano nei vasti campi dell'Argentina e, sia pure, nelle fazendas del Brasile, che vivevano in ambienti rustici sì, ma costruiti in mezzo alle pampas o a foreste semi-vergini ove l'aria si rinnovava più spesso ed era più pura (se non c'era malaria). Nelle città sovrappopolate, però, le tristi condizioni d'abitabilità si facevano risentire anche in queste regioni.
Nel secondo caso, prevalevano i contadini dell'Italia meridionale e delle isole, che trasformandosi in operai di qualsiasi mestiere (lavoratori ferroviari, delle officine delle cave o del comparto edilizio), dopo aver vissuto tutto il giorno in ambienti polverosi o nelle cave, andavano poi a terminare la giornata ed a passare la notte nelle strette straducole e nelle buie casette dei quartieri italiani delle grandi metropoli nord-americane, "non perché piacesse loro di vivervi, ma perché la loro povertà ve li obbligava". Speciale importanza aveva poi il tipo di casa abitata dai nostri emigranti nelle grandi città nord-americane, cioè il tenernent, un fabbricato alto 6-7 piani a contatto con gli edifici adiacenti, salvo una piccola intaccatura centrale detta tubo d'aria, che per essere alto come la casa e molto stretto mal si prestava al ricambio d'aria e della luce specialmente dei piani inferiori.
A New York è esistito un quartiere abitato prevalentemente da italiani detto lung's block o isola della tisi, per la frequenza di casi di malattia constatati fra quegli abitanti (su circa 4000 abitanti 404 morti di tubercolosi polmonare in meno di cinque anni).
Poco può dirsi circa i danni dell' alcoolismo negli emigranti, studiando questa malattia nei soli viaggi sia di andata che di ritorno; ma i conoscitori degli ambienti operai dei centri di immigrazione e di quelli di emigrazione italiana avevano già messo in evidenza l'abuso che si facesse dell'alcool e le gravi conseguenze di ciò sull'individuo e sulla razza. Dalle relazioni sanitarie sull'emigrazione transoceanica si rilevava la frequenza relativa di casi di alcoolismo acuto nei bambini, specialmente nei viaggi di ritorno: il che stava a dimostrare con quale incoscienza si somministravano bevande alcoliche ai giovanissimi, in seguito, certamente, al largo consumo che se ne faceva dagli adulti, anche in paese a regime secco. Molti casi di malattia dipendente da questa intossicazione cronica dovevano, poi, essere compresi nel gruppo delle malattie mentali (fra le quali sarà anche inclusa qualche forma meta- o para-sifilitica), che, come è noto, costituivano uno dei capitoli più gravi del conto perdite della nostra emigrazione.
Mentre nei viaggi di andata si sono riconosciuti affetti da malattie mentali lo 0.03‰ nei viaggi per il Nord-America e 0,1‰ emigranti in quelli per il Sud, nei viaggi di ritorno (escludendo i respinti, cioè quelli riconosciuti malati o all'arrivo o poco tempo dopo lo sbarco) si trovano ammalati di forme mentali 0,6‰ emigranti di ritorno dal Sud e circa 1‰ dei reduci dal Nord. Anche queste cifre erano certamente inferiori al vero, perché molti ammalati, in stadio tale da non necessitare il ricovero all'infermeria, sfuggivano durante il viaggio di ritorno all'osservazione del medico e perché mancavano i dati relativi di coloro che si rivelavano ammalati dopo aver raggiunto il loro paese nativo.

 

9. EMIGRAZIONE O "TRATTA" DEI FANCIULLI. I RIMPATRI

Si riporta un resoconto sui piccoli italiani, sparsi per il mondo come girovaghi.
Società Italiana di Beneficenza di Parigi. Resoconto sui piccoli italiani.
Da un rapporto sulla situazione dei piccoli italiani presentato dai signori amministratori, membri della commissione Bixio, Cerrutti, Fortina, Ronna, Cavallion. Potenza Tipografia Santanello 1868, si evidenzia:

"Il pensiero di far cessare la mendicità dei piccoli italiani è molto antico quanto questo vergognoso vagabondaggio; dovunque si è manifestato a Parigi, a Londra o nelle principali città europee e sia i ministri in Italia che gli agenti consolari non hanno cessato di richiamare l'attenzione sui fatti da parte delle autorità competenti. La questione dei piccoli italiani è al tempo stesso semplice e complicato. Nell'Italia meridionale, in una provincia dal suolo fertile, ma poco coltivato, la maggior parte degli abitanti della Basilicata fa della musica e del vagabondaggio una vera industria, da questo luogo sono partiti torme di fanciulli musicanti grandi e piccoli, che hanno reso il loro paese celebre in tutta Europa e anche in America. Cinque o sei comuni si distinguono particolarmente per il numero considerevole dei loro emigranti, e sono i seguenti: Marsico Vetere, Corleto, Laurenzana, Calvello, Picerno e Viggiano.
Questa emigrazione, che i passati governi del Regno di Napoli cercavano di facilitare allo scopo di allontanare una popolazione eccedente e turbolente, prosegue oggi con la stessa attività; ogni anno, ad epoche determinate, partono dai loro villaggi parecchie centinaia di ragazzi, di tutte le età, di tutti i sessi di gruppi da 3 a 10, sotto la guida di individui che si dicono loro parenti o loro padroni. Taluni
sono veri padroni di schiavi, dal momento che questi fanciulli sono dati in affitto, venduti o confidati, in virtù di contratti sottoscritti da una parte e dall'altra, e che le due parti probabilmente suppongono regolari. Queste convenzioni stipulano la locazione del fanciullo per un periodo determinato, mediante il pagamento di una somma annua ovvero di una somma fissata e pagata precedentemente per tutta la durata dell'ingaggio. I genitori si liberano così dei loro figli contro una somma di denaro, senza più preoccuparsi della loro sorte se non al momento in cui loro sembra poter tirare miglior partito di queste povere e delicate creature.
Gli individui che fanno questi ingaggi sono tutti delle province meridionali e sono conosciuti dai genitori, così ottengono facilmente passaporti, facendo false dichiarazioni o indirizzandosi ad impiegati corrotti, che per noncuranza o per altro motivo, non oppongono alcuno ostacolo all'indegna speculazione.
Queste bande di ragazzi, appena lasciati i loro villaggi, cominciano a mendicare per conto dei loro padroni, attraverso tutta l'Italia, seguendo il litorale del Mediterraneo e arrivano a Nizza e a Marsiglia. Molti pochi raggiungono la Francia per via mare, perché a Marsiglia lo sbarco dei mendicanti è assai sorvegliato; quando non sono muniti di passaporti in regola, attraversano le Alpi per Brianzon. Alle frontiere incomincia la vera tratta dei bianchi; i conduttori rivendono ad individui che abitano a Parigi o in altre regioni della Francia o altrove. Dopo aver consegnato la merce ritornano in Basilicata a raccogliere altri ragazzi che fanno viaggiare allo stesso modo, con i documenti che sono serviti per i precedenti convogli.
Arrivati a Parigi, questi ragazzi sono installati a rinfusa, maschi e femmine in una indegna promiscuità, presso albergatori che sono vicini alla piazza Maubert e al Panteon; ogni mattina questi meschini cenciosi sono lanciati in tutte le direzioni alla ricerca del soldo.
Talvolta i padroni li seguono e li sorvegliano da lontano e strappano loro di mano gli introiti fuori dallo sguardo dei donatori.
I più piccoli sono i migliori strumenti di lavoro perché attirano meglio la pietà dei passeggeri, così sono più ricercati da questi trafficanti.
Il vagabondaggio dura da mattina a sera e vivono questi ragazzi di ciò che la pubblica carità dono loro in natura; giunta la sera tornano nel loro ricovero sull'imperiale di un omnibus, oppure si addormentano sotto qualche palazzo per cui vengono trovati dai poliziotti e inviati in qualche dormitorio.
Qualche volta la giornata di lavoro è così faticosa che i poveri ragazzi, sfiniti dalla stanchezza, non avendo più la risorsa dei tram, privi della forza e del coraggio necessari per camminare fino al loro tugurio, con lo strumento musicale che pesa anche, soccombono sovente alla fame e al sonno sopra un banco del Boulevard accanto ad un pilastro o sotto un portone. Nelle serate di inverno, gli uni e gli altri si accatastano fra di loro con al fianco i loro strumenti. Il sonno non è mai di lunga durata, in quanto gli agenti di polizia si incaricano di svegliarli e di procurargli loro un asilo per la notte.
Alcuni di questi bambini, oltre che nelle città vanno anche nelle campagne, per rallegrare il contadino; d'estate si mettono fuori dalle ferrovie, strimpellando il loro scordato strumento per giustificare la richiesta di un obolo e cantano inni patriottici e canzoni con versi licenziosi.
Si comprende da quanto descritto la sorte che spetta a questi poveri ragazzi, malnutriti appena vestiti e male alloggiati, maltrattati di continuo da uomini capaci di tutto.
Vedendo questi cenci umani circolare per le vie di Parigi, ognuno si domanda quale è il motivo che fa tollerare questa vergognosa speculazione?
In questa città dove l'ambulante paga la patente, dove il commissario delle strade deve mostrare il suo distintivo, solo gli speculatori dei fanciulli sembrano essere favoriti dalla legge, perché questo favore?
Forse sono le leggi che fanno difetto in questa materia, o forse nessuno le fa applicare.
Esisteva infatti un decreto del Prefetto di Polizia emanato in data 28 febbraio 1863, che così recita all'articolo 10 "è espressamente proibito ai saltimbanchi, ai suonatori d'organi, musici e cantatori ambulanti di farsi accompagnare da fanciulli di età minore di 16 anni":
Questo articolo spiegherebbe tutto, ma non si comprende come vi siano a Parigi ancora molti cenciosi fanciulli che chiedono l'elemosina.Allorché uno di questi fanciulli è arrestato in stato di vagabondaggio e viene detenuto, se ne da avviso al Consolato Generale di Italia; quasi subito arriva il padrone che lo reclama, ed al quale lo si rimette immediatamente, in quanto legale tutore.
Il momento dell'arresto è il più penoso perché debbono questi piccoli giustificare al padrone la perdita materiale che bisogna più tardi ricambiare con aumento di lavoro, salvo ad essere severamente puniti.
Al terzo arresto dello stesso fanciullo l'espulsione dal territorio francese è obbligatoria e l'avviso è dato al Console d'Italia, che rilascia alla Prefettura una ricevuta per ogni fanciullo. L'espulsione non ha mai effetto reale perché possono tornare da un'altra frontiera accompagnati da altri individui, senza che la loro identità possa essere seriamente contestata.
Questi cambiamenti di padroni si spiegano con il mutismo, nel quale i ragazzi si chiudono; quando vengono interrogati i ragazzi dicono due parole: io sono di Napoli.
Anche nella metropoli inglese avvengono queste spaventose forme di vagabondaggio.
Il console di Italia a Londra ha stilato un rapporto, riguardante una giovinetta di 13 anni data da sciagurati genitori a un essere senza nome e morta di una malattia infame (sifilide) in un ospedale di Londra, dopo essere stata sfruttata in ogni luogo dal suo padrone.
Vedendo crescere questi piccoli cenciosi per la strada, facilmente si indovina l'avvenire che loro aspetta; possiamo riferire solamente che per testimonianza di un signore napoletano, su cento fanciulli che abbandonano i loro villaggi 20 soltanto ritornano alle loro case, 30 circa si stabiliscono in diverse parti del mondo e 50 soccombono alle malattie, alle privazioni di ogni sorta e ai cattivi trattamenti. La mortalità, dunque, dei piccoli emigranti sarebbe del 50%.
Molte di queste ragazze, crescendo con l'età, erano dedite alla prostituzione e numerose di queste furono ricoverate negli ospedali, sia francesi che inglesi, affette da mal venereo (sifilide).
Vengono poi allegati al rapporto sulla situazione dei piccoli italiani, della Società Italiana di Beneficenza di Parigi, molti documenti dai quali si evincono altre informazioni: che alcuni padri di ragazzi, come un certo La Rocca Francesco di Marsico, chiede la restituzione del figlio Vito Bernardino di 9 anni che sarebbe stato venduto ad un certo Lapa Nicolò, musicante.
Vengono allegati anche note di giornali, Le Temps, dal quale si evidenzia come alcune persone hanno trovato due ragazzi evidentemente stranieri che portavano due strumenti somiglianti a violino, coperti di cenci, di aspetto sofferente, alla richiesta dell'interlocutore cosa facessero in quell'ora, risposero che non sapevano dove andarsi a coricare perché non avevano guadagnato denaro. Alla domanda di chi li aveva condotti a Parigi, essi risposero il padrone.
Il giornale conclude che da qualche tempo il numero di questi piccoli è aumentato e il giornalista attira l'attenzione delle autorità competenti a limitare questo abuso di vagabondaggio.
Un'altra corrispondenza del giornale Libertè scrive: non passa quasi settimana e potremmo dire giorni, in cui i piccoli musicanti italiani, di cui Parigi formicola, non siano sorpresi in stato di vagabondaggio e di mendicità e di disordine in area pubblica dagli agenti dell'autorità. Ieri mattina, ancora, sei di questi piccoli stranieri hanno creato una bagarre.
Tutti sono stati arrestati e condotti al commissariato di polizia.
Vi sono altre note nella quale i cittadini si rendono conto che molti di questi ragazzi vengono trovati in condizioni di cattiva nutrizione, cenciosi e legati per punizione di non aver guadagnato abbastanza soldi.
Viene riportata anche una nota, nella quale si scrive: Parigi, 27 dicembre 1867. La Prefettura di Parigi fa tradurre al Consolato Generale d'Italia per cause di rimpatrio i nominati: 1) Dell'Aquila Raffaele di 9 anni di Calvello, 2) Guerrieri Antonio di 9 anni di Calvello; 3) Varallo Giacomo Antonio di anni 14 di Marsico Vetere; 4) Leli Nicola di anni 10 di Laurenzana; 5) Di Pasquale Lorenzo di anni 13 di Marsico Vetere, 6) Strata Antonio Sant'Angelo di anni 12 di Marsico; 7) Passalacqua Luigi di anni 10 di Marsico Vetere; 8) Spaccuccio Rocco di anni 9 di Marsico Vetere, giovani musicanti girovaghi che esercitano l'accattonaggio a Parigi per conto di speculatori. Per il Prefetto di Polizia per autorizzazione il capo del secondo ufficio Lecour.

Nel fenomeno dell'emigrazione lucana si inserisce un speciale movimento migratorio: ci riferiamo all'emigrazione dei fanciulli. Ma più che di emigrazione, si deve parlare in questo caso di vendita. Si riporta la copia di un contratto col quale un genitore vendeva i propri figli:
"L'anno 1866, il di 30 settembre in Viggiano. Colla presente benché privata scrittura ed atto in doppio originale: si dichiara da Pasquale Caio fu Nicola da una parte, e Pietro Semproni dall'altra, ambi di Viggiano, che sono venuti al seguente contratto.
"Esso Pasquale Caio ha in presenza dei qui sottoscritti testimoni dichiarato, che dovendo per qualche tempo girare pel regno, oppure fuori del regno per lucrarsi il vitto in qualità di musicante, e dovendo all'oggetto portare alcuni garzoni, così ha chiesto il cennato Pietro Semproni che gli avesse dato i suoi figli a nome Francesco e Vincenzo anche musicanti, uno di violino e l'altro di arpa; il quale di buon grado vi è condisceso, con patto però che il Pasquale Caio dovrà trattare i ragazzi suddetti come propri figli, come pure li dovrà calzare, vestire e somministrargli tutti i mezzi necessari al vitto. Che per compenso e mercede del servizio prestante durante il termine di anni tre a contare dal di della partenza, il padrone ... si obbliga consegnare in mano del genitore Pietro Semproni ducati 114 per tutti gli anni tre dandoli ancora qualcosa di danaro in conto, ogni qual volta il Pasquale Caio manderà alla moglie, e finito l'intrapreso viaggio dovrà ricondurre seco alla famiglia i ragazzi surriferiti dandoli un vestito nuovo ed un altro usato, secondo la stagione che sarà, ed il violino di dieci ducati, e valendo di più si dovrà valutare a rifondere dal Pietro Semproni quando costerà più di dieci ducati: con spiega che se i ragazzi rompessero gli strumenti per casualità li dovrà accomodare il padrone a suo conto, e rompendoli poi per scherzo o per loro capriccio, andranno a carico del Pietro Semproni come ancora se nella estranea ipotesi i ragazzi cadessero ammalati per quindici giorni o per un mese, non se ne parla, ma altresì essendo di più li deve guidare si il padrone, ma i ragazzi perdono le mesate, purché sia malattia che loro manda Iddio, ma se se la procurano essi, tutta la spesa che correrà andrà a carico di Pietro Semproni spiegandosi pure che i cennati ragazzi dovranno essere ubbidienti al padrone nel travagliare, e sera per sera dovranno consegnare nelle mani dello stesso tutto ciò che si lucreranno senza profittarsi in menoma parte di quello che lucreranno; e se i ragazzi si profittassero di un grano, il padrone avrà la facoltà di ritenersi dalle mesate un carlino, e profittandosi di un carlino, si riterrà dieci carlini e così via discorrendo, ed in ultimo si conclude che mancando ciascuna di esse parti, o in tutto o in parte a quanto di sopra di è detto, e volendo i ragazzi lasciare il padrone senza essere maltrattati; oppure volesse il padrone maltrattare i ragazzi, oppure abbandonarli, si assoggettano scambievolmente ad una multa di ducati 30 a titolo di danno ed interessi anticipatamente liquidati, ed a cautela di ciò che si è detto, se n'è formata la presente sottoscritta dal Pasquale Caio avendo il Pietro Semproni asserito di non saper scrivere.

Firmati       
Pasquale Caio

Giacomo Rossi testimonio
Giuseppe Neri testimonio

Questi "regolari contratti", stipulati dal genitore ed il "comprachicos", e regolari solo per loro, facilitavano ed alimentavano questo "traffico infame" -come dice Florenzano- "che esiste da immemorabile data tra alcune provincie italiane ed altre contrade del mondo"; chi traeva maggior profitto da questo commercio erano i "comprachicos" i quali "li compravano e li rivendevano; ne facevano dei mostri". Però nessuna nazione pagò come l'Italia e, fra tutte le sue regioni la Basilicata in special modo, un così altro "tributo al pellegrinaggio infantile"; con l'aumentare del flusso migratorio in America, anche i fanciulli attraversano l'oceano e salutati col nome di "piccoli italiani" essi si aggirano in questo secolo per le piazze di New York, di Filadelfia, di Washington, e per le contrade del sud". Dunque, "in tutti i porti, in tutti i paesi di partenza e d'arrivo, della emigrazione mondiale, questo infame commercio tiene i suoi agenti ed i suoi complici"; nelle più grandi metropoli del mondo, erano diventati famosi i nomi di Corleto, Calvello, Laurenzana, Viggiano e Marsicovetere nella Lucania, come "la infausta patria dei fanciulli girovaghi".
Il processo "di questa tratta" è di interesse singolare; il comprachicos si affaccia alle porte delle case, anzi dei tuguri, nelle quali vivono le popolazioni rurali in Basilicata, e qui stringe il contratto con i "genitori spietati i quali gli vendono le innocenti creature". Impadronitisi del fanciullo il "comprachicos" gli appende alle spalle un'arpa o un organino, e strimpellando come ispira l'istinto, lo trascina a Genova". Dopo la traversata, quando sono già in terra d'America, comincia il calvario di questi piccoli infelici infatti, passano di padrone in padrone e della maggior parte di essi si perdono completamente le tracce; a loro sono affidati i mestieri più umili, come quello del lustrascarpe e dello spazzacamino. Un gran numero deve guadagnarsi la giornata suonando per le strade, provocando il riso o mendicando; ma il riso provocato da questi "tapini" non può irrompere che sulla bocca "di gente avida e dissoluta, briaca di vino, di oro, di sdegno". Queste vittime "si aggirano per le taverne e per i lupanari a provocare la gioia o la pietà di un ubriaco o di una meretrice"; "questi sono posti che i fanciulli sono costretti a frequentare. In questi meandri del peccato, l'innocenza infantile svanisce, muore; nessuno, dunque, che si occupi di loro, né dal punto di vista fisico, né spirituale".
Gli espatri dall'Italia sommarono a cifre ingenti, nell'ordine di decine di milioni nell'intero periodo dal 1876 al 1950. Parallelamente al movimento di espatrio si compì un continuo movimento di rimpatrio, dovuto non soltanto alla fluttuazione dell'emigrazione continentale che spesso aveva carattere periodico, ma altresi al ritorno da paesi transoceanici per motivi economici o nostalgici, o, spesso, anche di salute, il quale ultimo caso investì in pieno la questione igienica. Questo movimento di rimpatrio per il passato si aggirò su cifre corrispondenti a circa i due terzi di quelle degli espatri, cosicché si poté ritenere che in definitiva la diminuzione della popolazione italiana dovuta ai fenomeni migratori corrispondesse a circa un terzo delle cifre di emigrazione. Fra tutte le fasi dell'emigrazione questa era senza dubbio la più importante sotto il punto di vista sanitario e la più dolorosa dal punto di vista umano; infatti di fronte al movimento emigratorio ne esisteva uno immigratorio, o di rimpatrio, che poteva arrivare fino a due terzi della cifra degli emigrati, rappresentando quindi un grande fenomeno demografico. Ma il punto più importante stava nel fatto che mentre chi emigrava per l'estero veniva assoggettato a scrupolose visite sanitarie ed a rigorose misure igieniche, chi rimpatriava non era soggetto ad alcun vincolo, anzi spesso erano le autorità del paese di immigrazione che favorivano od imponevano il rimpatrio in caso di inabilità o di malattia. Per tal motivo si constatava che nella massa dei rimpatriati, una non trascurabile proporzione era rappresentata dai malati e dagli esauriti, che non avevano resistito alle dure fatiche loro imposte.
L:entità di tale fatto è stato rappresentato con alcune cifre: il Commissariato Generale dell'Emigrazione ha pubblicato che dal 1910 al 1922 il numero dei malati nei viaggi di andata nelle due Americhe era stato di 4053, mentre nel ritorno era stato di ben 10327 nello stesso periodo; i casi di morte furono rispettivamente di 440 nell'andata e di 803 nel ritorno. Che se poi si considerava che gli emigranti in andata erano più numerosi dei rimpatrianti, si comprendeva come la differenza, espressa percentualmente, fosse assai maggiore di quella sopra riferita; le suddette, cifre non tenevano poi conto di tutte quelle persone che partivano e viaggiavano per il rimpatrio con forme morbose latenti, e che non accusano la propria malattia, la quale non poteva essere altrimenti svelata per la mancanza di obbligatorietà della visita medica nei rimpatrianti, visita medica che però era augurabile che venisse introdotta. Accenneremo brevemente alle malattie che con più frequenza assumevano importanza nel fenomeno dell'emigrazione sia per quelli che espatriavano e soprattutto per quelli che rientravano nel loro paese di origine.
La Tubercolosi polmonare. Era certamente la malattia che assurgeva alla massima importanza nel fenomeno; le statistiche raccolte dal Commissariato Generale dell'Emigrazione, accertarono che nel periodo 1903-1923, mentre vennero svelati solo 142 casi di tubercolosi nei viaggi di andata, ben 7487 se ne registrarono nei viaggi di ritorno se nonché questa ultima cifra rappresentava solo una minima parte dei rimpatriati per tbc., ossia soltanto coloro che durante la traversata ebbero bisogno di cure o furono segnalati in partenza (emottoici, febbricitanti, o imbarcati con biglietto consolare); sfuggivano invece i ben più numerosi casi di affezione non ancora grave, come pure quasi tutti coloro che, forniti di denaro, rimpatriavano in seconda, od anche in prima classe. L'emigrante che ammalava di tubercolosi, evitava di aggravarsi e di morire in terra lontana, e faceva qualunque sacrificio per tornare al paese nativo. Soltanto i fanciulli venivano, dalle loro famiglie, trattenuti sul posto, onde si spiega l'altissima mortalità per tbc fra gli italiani residenti negli U.S.A. Un vero esercito di tubercolotici era importato annualmente in Italia, con un riflesso non soltanto numerico, ma anche epidemiologico, giacché molto spesso questi ammalati introducevano e diffondevano la tubercolosi in paesi rurali nei quali non esisteva.
Quale era il motivo per cui gli emigrati italiani negli U.S.A. erano più colpiti dalla tbc. che non gli emigranti di molti altri paesi? Si volle ricercare la ragione in condizioni ambientali e fu rivelato che gli emigranti italiani, spesso appartenenti alle più basse classi sociali, analfabeti utilizzati per lavori umili e non qualificati e male retribuiti, vivevano nei grandi centri urbani in uno stato di notevole indigenza che incideva sull'alimentazione e sull'abitazione. Le misere condizioni (l'abitazione dell'emigrante povero era spesso rappresentata dal "tenement" non bastavano a spiegare la terribile propagazione della tisi fra gli emigranti; per spiegare questo grave fenomeno epidemiologico bisognava ricorrere alla teoria sulla recettività della tubercolosi di Sanarelli. Gli emigranti italiani, per la grande maggioranza provenienti da paesi rurali ove la tbc era poco diffusa, non possedevano nessuna credo- immunità, e pertanto erano molto sensibili alla tbc. come tutte le popolazioni vergini da essa in ciò agevolati dalla deficiente alimentazione e dall'abitazione antigienica. Le statistiche dimostravano in effetti che erano più colpiti gli emigranti provenienti da paesi agricoli, come gli italiani e gli irlandesi, che non quelli provenienti da paesi industriali. Infine, come conclusione generale si poteva affermare che l'importazione della tubercolosi per parte degli emigranti, aveva una sensibile importanza nell'epidemiologia della tbc. polmonare del nostro paese, e costituiva la causa forse principale della diffusione della malattia in molti centri rurali, specie dell'Italia meridionale, nei quali essa non esisteva.
Lebbra. Benché esistevano indubbiamente focolai autoctoni di lebbra in Italia, era vero che la maggior parte dei casi ivi esistenti era di derivazione esogena, importata da emigranti rimpatriati; la loro provenienza era piuttosto sud-americana (in particolare dal Brasile) che nord-americana ma anche dalle colonie africane. Fortunatamente la lebbra era divenuta pochissimo contagiosa per le popolazioni europee, e pertanto la importazione di essa costituiva uno scarso pericolo sociale, anche se incideva sull'epidemiologia locale. Al contrario la lebbra, data la sua cronicità, si presentava come un importante problema assistenziale perché necessitava che fossero ricoverati tutti i lebbrosi.
Tracoma. Era questa un'altra malattia che interessava in modo particolare la emigrazione e che costituiva proibizione di ingresso nei vari stati americani; in realtà però nelle Americhe il tracoma era così diffuso che i nostri emigranti ve lo contraevano e lo importavano in patria.
Alcoolismo. Gli igienisti avevano richiamato l'attenzione anche sull'influenza che l'emigrazione poteva avere su varie intossicazioni e specialmente sull'alcoolismo; per l'Italia c'era da osservare che molti emigrati, avvezzi a consumare l'alcool soltanto sotto forma di vino, contraevano all'estero il vizio dei distillati e dei liquori in genere, al quale non rinunciano al loro ritorno in patria.
Malattie mentali. Le malattie mentali costituivano dei motivi di rifiuto all'ingresso dei paesi di immigrazione; ma poiché l'eredità psicopatica costituita piuttosto dal substrato di predisposizione che non dalla malattia in atto, molti predisposti riuscivano ad espatriare. Le nuove condizioni ambientali, la fatica, spesso l'alcoolismo e non ultima causa lo stato psichico che risentiva della nostalgia per la patria, causavano sovente nei tarati la comparsa di affezioni mentali con relativa invalidità al lavoro e necessità di rimpatrio. Nelle infermerie delle navi per emigranti era opportuno che fosse sempre predisposto un piccolo reparto per dementi, abitualmente inutilizzato nei viaggi di andata, ma utile in quelli di rimpatrio. Anchilostomiasi e malattie a trasmissione sessuale erano altre due patologie che erano frequenti nei rimpatri.
L'emigrazione, questa emorragia della società lucana a distanza di un secolo non è stata ancora tamponata; migliaia di famiglie espatriano ancora oggi con la "speranza di farsi una posizione" come essi dicono. Fra questi, le migliori forze produttive, i giovani, soprattutto quelli che non riescono a trovare un'occupazione mediante la politica del clientelismo, così largamente praticata in questa regione, espatriano perché allettati da un sicuro guadagno e dalla prospettiva di una più dignitosa occupazione; ieri l'Argentina e il Brasile insieme con altri Stati del Sud e del Nord-America accoglievano i lavoratori di questa regione, poi la Svizzera, la Germania, il Belgio offrivano loro tutto ciò che la Patria non riusciva a dare: l'ospitalità e la sicurezza economica e morale. Attualmente alcune regioni italiane, a più spiccata industrializzazione, offrono ancora lavoro a giovani qualificati. Inevitabile conseguenza dell'emigrazione è l'abbassamento dell'indice demografico in molti comuni dove, oltre ad essere basso è generalmente costituito da vecchi, donne e bambini in età scolastica, mentre l'agricoltura, che dovrebbe essere per i lucani fonte di vita, giace in uno stato di semi- abbandono, specialmente nella zona montuosa del potentino dove la terra con più avarizia ricompensa chi le presta cure. Fortunatamente l'Unione Europea, per ragioni di politica agraria ha permesso di mettere a riposo (set-aside) molti terreni agricoli produttivi, per cui le aziende interessate producono reddito con lavorazioni agrarie minime necessarie alla difesa del suolo e del territorio. Ancora oggi dunque la Basilicata offre una singolare immagine di se stessa; alle soglie del nuovo millennio l'industriale del nord o il figlio dell'emigrante che ha consolidato la sua posizione, viaggiando per la Basilicata, s'imbatte ancora, a pochi chilometri da uno svincolo autostradale, nella contadina vestita di nero che ritorna dalla campagna a piedi con la fascina sulla testa che servirà per riscaldare la minestra.
 


Note

1 Era lungo 211 metri largo 46, dislocava 27.859 tonnellate (dimensioni che dovevano essere superate solo dal Lusitania nel 1907) e navigava a 15 nodi, spinto da un apparato motore che sviluppava 2600 cv. Poteva trasportare 4000 passeggeri oltre a 6000 tonnellate di merci e 12.000 di carbone.

2 In Calabria il deposito postale era nel 1876 di appena 62 mila lire; nel 1887 era salito a 5 milioni e 300 mila, nel 1901 a quasi 21 milioni. I vaglia pagati in Calabria nel 1883 furono di 22 milioni e mezzo, di oltre 30 milioni nel 1903. Le rimesse complessive in Italia secondo una fonte americana raggiunsero addirittura gli 85 milioni di dollari nel 1907. I vaglia internazionali pagati in Italia fra il 1900 e il 1913 furono complessivamente di 2 miliardi 763 milioni di lire di allora.

3 Una balia, comunque, arrivava a guadagnare anche il triplo di un operaio e il baliatico dava un non modesto contributo al flusso monetario di valuta pregiata che sostenne e salvò per decenni la debole e quasi inesistente economia italiana del tempo.



 

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